Archegos: la bancarotta di un altro fondo speculativo

Mario Lettieri * e Paolo Raimondi**

 

La morte in carcere dello speculatore americano Bernie Madoff non chiude un ciclo. Anzi, il susseguirsi di continui fallimenti e di sconquassi finanziari dimostra che dopo la Grande Crisi non sia cambiato proprio niente Aveva orchestrato il più grande “schema Ponzi”, la piramide finanziaria truffaldina, che pagava i primi investitori con i nuovi capitali raccolti. Un’operazione di almeno 50-60 miliardi di dollari! La vicenda di Madoff, con la sua condanna a 150 anni di prigione, sembra la classica esagerazione americana: punire un singolo, con il massimo della pena e della pubblicità mediatica, e lasciare i meccanismi e il potere della finanza pressoché intatti.

Il più recente caso è quello del fondo hedge  Archegos, fondato dallo speculatore Bill Hwang. Com’è noto, i fondi hedge gestiscono i capitali degli investitori con l’intento di evitare loro rischi e volatilità dei titoli. Il problema, però, è come lo fanno. Il suo primo fondo, il Tiger Asia Management, fu investito dal crollo della Lehman Brothers. In seguito, fu accusato dalla Security Exchange Commission di insider trading in operazioni di vendita allo scoperto, anche con titoli cinesi. Se la cavò con una multa soft di 44 milioni di dollari. Però, per quattro anni non poté operare sul mercato di Hong Kong. Nel 2014 creò l’Archegos Capital Management. Si tratta di un fondo hedge ancora più ristretto e selezionato, un family fund, con cui gestisce i suoi capitali e quelli di pochi altri privilegiati. In questo modo sfugge ai controlli e alla vigilanza delle agenzie preposte. Fa parte, appunto, del cosiddetto shadow banking.

Lo strumento più spregiudicato di Archegos è stato l’utilizzo della leva finanziaria, il leverage, per avere maggiori disponibilità finanziarie partendo da un piccolo capitale. E’ arrivato così a gestire tra 50 e 100 miliardi di dollari. Nell’operazione sono state coinvolte tutte le maggiori banche mondiali, tra cui la giapponese Nomura, le americane Goldman Sachs e Morgan Stanley, il Credit Suisse, la Deutsche Bank, ecc. Con i prestiti, Hwang ha investito, tra l’altro, in azioni americane e cinesi, dando i titoli in garanzia. L’accordo era che, qualora essi dovessero perdere di valore, le banche creditrici avrebbero potuto chiedere di reintegrare le garanzie, la cosiddetta margin call, o, in ultima istanza, vendere i titoli per contenere le perdite. E’ esattamente ciò che è successo. Il Credit Suisse, per la seconda volta in poche settimane, avrebbe perso circa 4 miliardi di euro.

Le banche conoscono perfettamente i giochi, per cui le loro “sorprese” sono insostenibili. Esse usano, appunto, detti fondi hedge, entità autonome e separate dalle stesse banche, per fare delle operazioni molto rischiose e incassare commissioni e guadagni consistenti.   In una situazione anomala di tassi bassissimi e anche negativi, quando la leva finanziaria è molto alta, basta un piccolo cambiamento della politica monetaria o uno scossone negativo dei titoli messi a garanzia per far cadere il castello di carte. E i derivati emessi su detti titoli sono, ovviamente, i primi a risentirne.

Secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea nel 2019 il valore nozionale dei derivati finanziari otc ha raggiunto il picco di 640 mila miliardi di dollari. Come abbiamo più volte evidenziato, si tratta di operazioni molto rischiose che sono tenute solitamente fuori dei bilanci delle banche coinvolte e non sottoposti alle regole e alla vigilanza delle autorità preposte. Per esempio, non sono disciplinate dalle cosiddette stanze di compensazione, le clearing house, che garantiscono che le controparti siano in grado di portare a termine i contratti derivati.  Gli esperti del settore e taluni economisti, anche molto noti, si affrettano sempre ad affermare che dovrebbe essere preso in considerazione il valore lordo di mercato (gross market value), quello che evidenzia il rischio e cosa sarebbe necessario per chiudere i contratti dei derivati in essere in un determinato momento. Naturalmente, si tratta sempre di parecchie migliaia di miliardi di dollari.

Il caso del recente crac di Archegos dimostra, in verità, il contrario. Esso prova che, in caso di crisi, è il nozionale che entra in gioco. E può creare un enorme effetto valanga difficilmente arrestabile. Siamo alle solite. I grandi pescecani della finanza continuano a creare rischi sistemici. Manca, purtroppo, una legislazione stringente e globale.

*già sottosegretario all’Economia  **economista

La legge francese è sulla sicurezza o sul controllo globale?

Dopo il Senato ora anche l’Assemblea nazionale francese ha definitivamente approvato, con 75 voti favorevoli e 33 contrari, la controversa legge sulla “sicurezza globale”, che alla fine del 2020 aveva provocato le proteste in tutto il Paese di mezzo milione di persone.

La parte più contestata era l’art. 24, che introduce un nuovo reato per chiunque diffonda immagini e video in grado di “danneggiare l’integrità fisica e morale” degli agenti di polizia. Chi si opponeva alla legge sosteneva che un reato di questo genere sarebbe stato una limitazione della libertà di espressione. Persino l’Onu aveva giudicato il testo “incompatibile col diritto internazionale dei diritti umani”.

Il governo aveva accettato di riscrivere l’articolo, ma poi si è limitato a dire, pur escludendo le parole “immagini e video”, che va punito chi contribuisce a identificare un agente di polizia in servizio “con l’evidente intento di nuocere alla sua integrità fisica o psichica”. Una formulazione molto vaga, che consente un’eccessiva libertà di interpretazione. Rispetto alla proposta iniziale, sono esclusi da questo reato i giornalisti.

La legge sulla “sicurezza globale” (che sarebbe meglio definire “controllo globale”) è stata fortemente voluta dal premier Emmanuel Macron, sull’onda della islamofobia del governo e di buona parte del Paese. Il quale naturalmente ne ha approfittato, cioè ha allargato la repressione in nome della laicità statale a tutti i casi di dissenso sociale contro le istituzioni.

Il principale sostenitore della legge è il ministro della Difesa Gérald Darmanin, che, dopo la riformulazione dell’art. 24, ha chiesto di aumentare le sanzioni a 5 anni di reclusione e fino 75 mila euro di multa; e la cosiddetta “provocazione dell’identificazione” non si riferisce solo ai gendarmi, agli ufficiali di polizia e ai doganieri, ma anche ai loro parenti.

Quindi, pur non facendo più riferimento esplicito a immagini e video nel testo definitivo, si precisa che, se vi saranno immagini dei volti che possano costituire un rischio per le forze dell’ordine, esse andranno sfocate sia sugli organi di stampa ufficiali che sui social network.

Di fatto ora gli agenti avranno mano libera di comportarsi come meglio credono. L’ha già detto Amnesty International: “la legge può intimidire e scoraggiare i cittadini che intendono registrare e documentare gli episodi di violenza perpetrata dalle forze dell’ordine”. Anche perché nell’art. 20 viene garantito alla polizia un accesso esteso alle telecamere di sorveglianza, persino a quelle dei condomini. E nel n. 22 viene garantita la possibilità alle forze di polizia di servirsi di strumenti di sorveglianza come droni e body cam, con cui p.es. controllare che i cittadini indossino la mascherina anti-covid.

Si è aperta la porta all’impiego massiccio del rilevamento di immagini in tempo reale con l’utilizzo di software automatizzati, tra cui il riconoscimento facciale. Come in Cina. Si autorizza anche la polizia fuori servizio a portare le armi ovunque si trovi.

Il Paese si sta fascistizzando. Lo dimostra anche il fatto che alla discussione finale di una legge che limita così fortemente i diritti dei cittadini, aumentando arbitrariamente i poteri delle forze dell’ordine, si sono presentati solo 108 deputati su 577. La sinistra impugnerà il testo dinanzi alla Corte Costituzionale.

Il recente processo contro Derek Chauvin, il poliziotto accusato di aver ucciso George Floyd il 26 maggio 2020 a Minneapolis, in Francia non si sarebbe neppure fatto, visto che le prove più schiaccianti sono state fornite dal video di una passante. Il che non vuol dire che gli USA siano più democratici della Francia. In passato vi sono stati decine di casi di agenti che hanno ucciso o ferito dei sospettati, e di regola non si arriva nemmeno al processo, poiché i procuratori si considerano come appartenenti alle forze dell’ordine.

Sempre più preoccupante la destra fanatica in Israele

Nell’arco di sette anni vi sono state cinque elezioni della Knesset israeliana, quattro delle quali in meno di due anni. Le ultime del 23 marzo con un’affluenza del 67%, la più bassa dal 2009. Sono 13 i partiti a dividersi i 120 seggi.

Il Likud ha ottenuto 52 seggi, ma doveva arrivare a 61 per poter governare. E sappiamo bene che Netanyahu è pronto a tutto pur di non affrontare le pesanti accuse di corruzione, frode e abuso di potere, mossegli dal 2019. In questo momento sta chiedendo che si proceda con l’elezione diretta del primo ministro, per prevenire il rischio di una nuova tornata elettorale inconcludente. Ma non è escluso, conoscendo il soggetto, privo di scrupoli, ch’egli preferisca le situazioni in cui nessuno può formare un governo, così lui continua a fare il primo ministro ad interim.

In ogni caso la novità maggiore alle ultime elezioni è stata l’affermazione di partiti di estrema destra e ultrareligiosi, e persino l’ingresso di nuovi partiti di quest’area in parlamento. Tra Sionismo religioso, Potere ebraico e Noam, un miscuglio di xenofobia, omofobia e nazionalismo, uniti a fondamentalismo religioso e violenza, fanno a gara a chi sia più fascista. Queste persone rappresentano un Israele violento, arrogante e isolato che ignora il resto del mondo. Alla faccia della recente Dichiarazione di Gerusalemme sull’antisemitismo.

Per es. il partito Sionista Religioso (alleanza di partiti guidata da Bezalel Smotrich) in passato aveva proposto di segregare i reparti di maternità, in modo che le donne ebree non dovessero partorire vicino a donne arabe. Smotrich si è definito un “fiero omofobo” (nell’alleanza vi è anche il partito Noam, apertamente anti-LGBT). E ha detto che è disposto a fare un governo col Likud solo se Netanyahu rinuncia all’impegno preso con la risoluzione ONU 1325, in base alla quale gli Stati sono obbligati a includere le donne nei corpi decisionali, in particolare quelli che si occupano di pace e sicurezza, a proteggere le donne dalla violenza e a tutelarle nei loro diritti umani.

Un altro partito dell’alleanza Potere Ebraico, guidato da Itamar Ben Gvir. Quest’ultimo si ispira al rabbino estremista Meir Kahane, ucciso negli Stati Uniti nel 1990. Kahane aveva affermato che ebrei e arabi non possono coesistere e che l’unica soluzione è espellerli da Israele. Ben Gvir, che vive in uno degli insediamenti più violenti e provocatori della Cisgiordania occupata, è stato definito l’equivalente israeliano di un leader del Ku Klux Klan ed è già stato condannato per istigazione alla violenza.

Difficile che Netanyahu possa formare un governo con partiti che vogliono annettere la Cisgiordania in modo unilaterale; separare Gaza al fine di mantenere una maggioranza ebraica nello Stato unitario e non ammettere i rifugiati palestinesi. La destra radicale vuole uno Stato unico, non-divisibile, in cui i palestinesi o accettano di definirsi cittadini israeliani o restano rinchiusi a Gaza. Parlare di due Stati, come fa la sinistra, per loro non ha senso.

La Dichiarazione di Gerusalemme sull’antisemitismo

La recente Dichiarazione di Gerusalemme sull’antisemitismo è uno strumento per cercare di capire come si manifesta l’antisemitismo nei vari Paesi del mondo.

È stata realizzata da un gruppo di studiosi nei campi della storia dell’olocausto, degli studi ebraici e degli studi sul Medio Oriente, ed è stata sottoscritta da 200 firmatari.

Si sono ispirati alla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, alla Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale del 1969, alla Dichiarazione del forum internazionale di Stoccolma sull’olocausto del 2000 e alla Risoluzione delle Nazioni Unite sulla giornata della memoria del 2005.

Ritengono che la lotta contro l’antisemitismo sia inseparabile dalla lotta globale contro tutte le forme di discriminazione razziale, etnica, culturale, religiosa e di genere.

Hanno preteso di dare una definizione di base, più generale, dell’antisemitismo, da declinare nelle varie situazioni, in alternativa alla Definizione IHRA, il documento adottato nel 2016 dall’Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto, che sicuramente cercava di proteggere Israele dalla responsabilità nei confronti del diritto internazionale e di proteggere il sionismo da critiche razionali ed etiche.

Ora, con questa nuova Dichiarazione, si è cercato di ammettere che l’ostilità verso Israele potrebbe essere non solo un’espressione di ostilità antisemitica, ma anche una reazione alla violazione dei diritti umani, o il sentimento che una persona palestinese prova a causa dell’esperienza fatta trovandosi nelle mani di quello Stato. Detto altrimenti, se l’antisemitismo è sempre una forma di razzismo, l’antisionismo invece può essere considerato legittimo.

Ma procediamo con ordine. In generale – sostiene la Dichiarazione – è una forma di razzismo considerare un tratto caratteriale come innato o fare generalizzazioni negative indiscriminate su una data popolazione, quindi è razzistico anche l’antisemitismo.

Non si può infatti sostenere, come già si faceva nel passato, l’idea di una “cospirazione ebraica”, nella quale gli ebrei in quanto tali possiedono un potere nascosto che usano a spese di altri popoli. Il che oggi vorrebbe dire che sarebbero in grado di controllare i governi o i media o le banche di qualunque Stato, come se fossero “uno Stato nello Stato”.

Esempi di antisemitismo a parole includono affermazioni del tipo: gli ebrei sono ricchi, intrinsecamente avari o antipatriottici; i Rothschild controllano il mondo, ecc. Ma è antisemitico anche negare o minimizzare l’olocausto, sostenendo che il deliberato genocidio nazista degli ebrei non ebbe luogo, o che non c’erano campi di sterminio o camere a gas, o che il numero delle vittime fu una piccola parte del totale reale.

Fin qui nulla da eccepire. I problemi però sorgono quando si scende nella questione spinosa dei rapporti tra Israele e Palestina.

Stando alla suddetta Dichiarazione sarebbe antisemitico ritenere gli ebrei collettivamente responsabili per la condotta di Israele o trattare gli ebrei, semplicemente perché ebrei, come agenti di Israele. Ma anche richiedere alle persone, perché ebree, di condannare pubblicamente Israele o il sionismo. Oppure presumere che gli ebrei non israeliani, semplicemente perché ebrei, siano necessariamente più fedeli a Israele che non al proprio Paese.

Naturalmente la Dichiarazione è costretta ad ammettere che non può essere considerato antisemitico il fatto di sostenere la richiesta di giustizia e di piena concessione dei diritti politici, nazionali, civili e umani da parte dei Palestinesi. E neppure opporsi al sionismo come forma di nazionalismo.

Però poi fa capire, velatamente, che schierarsi contro un qualunque tipo di accordo costituzionale tra ebrei e palestinesi nell’area tra il fiume Giordano e il Mediterraneo, sia che questo accordo avvenga con due Stati, con uno Stato binazionale, con uno Stato democratico unitario, con uno Stato federale o in qualsiasi altra forma, può diventare un atteggiamento antisemitico.

Infatti, secondo la Dichiarazione, se è legittimo paragonare Israele ad altri esempi storici di colonialismo d’insediamento o di apartheid, non è legittimo, proprio perché rischia di diventare antisemitico, negare il diritto agli ebrei dello Stato d’Israele di esistere e prosperare come ebrei.

In ogni caso il vero problema è che c’è molta differenza tra le diverse tipologie di rapporto statuale tra Israele e la Palestina. E sulla scelta politica di quale deve essere l’attuale tipologia o di quale sarà quella definitiva, i palestinesi non hanno e non sono destinati ad avere alcuna voce in capitolo.

Il nucleare in Iran, l’embargo e gli attacchi d’Israele

È incredibile come al giorno d’oggi, in cui continuamente parliamo di diritti umani, nessuno dica niente su come Israele, che è una potenza nucleare, impedisca all’Iran di diventarlo. Cosa direbbero a noi se di tanto in tanto andassimo a bombardare la Francia solo perché nel 1987 abbiamo rinunciato con un referendum al nucleare?

Sembra addirittura che il sabotaggio israeliano dell’importante impianto nucleare di Natanz (a 300 km a sud di Teheran) stia avendo delle conseguenze sulla politica interna dell’Iran, già in fermento a causa della crisi economica provocata dalle 1.500 sanzioni internazionali volute dagli USA (un numero enorme, senza precedenti, che sta portando al collasso l’economia del Paese).

Lo scontro tra ultraconservatori, guidati da Ali Khamenei (la principale figura politica e religiosa del Paese, ritenuta più potente dello stesso parlamento), e moderati, il cui leader è il presidente Hassan Rouhani, è diventato più acuto. Anche perché i primi non vorrebbero nessun accordo con gli americani. Esattamente come gli israeliani, che, per motivi opposti, han sempre detto di non fidarsi dell’Iran.

Abituati come siamo a ragionare in termini di buoni e cattivi, ci sembra che gli iraniani siano più cattivi degli israeliani, per cui ci fa piacere quando, in un modo o nell’altro, quel regime teocratico mostra vistose crepe. E così non ci rendiamo conto che le istituzioni iraniane sono gestite, non meno di quelle israeliane, da politici orgogliosi del proprio fondamentalismo, disposti a difenderlo in qualunque maniera.

A giugno in Iran si terranno le elezioni presidenziali, ma sin da adesso possiamo scommettere che vinceranno gli ultraconservatori, cioè quelli che sanno meglio sfruttare politicamente l’embargo economico dell’occidente e gli attacchi militari d’Israele. Basti pensare che è il Consiglio dei Guardiani, controllato dai radicali, a fare una preselezione dei candidati ammessi alle elezioni. E poi il presidente Rouhani non potrà candidarsi per un terzo mandato, essendo al potere dal 2013.

In ogni caso il sistema non è ancora crollato: né per le sanzioni, né per le grosse proteste antigovernative degli ultimi due anni, né per le tensioni nel Golfo Persico, né dopo l’uccisione del potente generale Qassem Suleimani, considerato uno degli esponenti più influenti dell’intero regime.

I colloqui relativi al nucleare iraniano in corso a Vienna non porteranno a niente. Infatti Joe Biden vuole sì tornare agli accordi del 2015, interrotti da Trump nel 2018, ma vuole anche che l’Iran non punti i suoi missili balistici a lungo raggio contro Israele o verso l’Oceano Indiano. Non solo, ma Teheran, prima di riportare l’arricchimento dell’uranio nei limiti previsti dall’intesa (un ridicolo 4%), pretende che gli USA ritirino subito la maggior parte delle sanzioni economiche. Sarà un dialogo tra sordi e se l’Iran deciderà di avvalersi dell’appoggio cinese, pur di non darla vinta all’occidente, la situazione in Medio Oriente diverrà esplosiva. Già oggi si ritiene che l’Iran abbia superato il suddetto limite di almeno 5 volte. E con la Cina è stato firmato un accordo di cooperazione strategica globale di 25 anni. Cina, Iran e Russia hanno anche condotto esercitazioni militari congiunte senza precedenti nel Golfo di Oman e nell’Oceano Indiano alla fine del 2019.

Greensill: un altro inganno per i risparmiatori?

 Mario Lettieri*  Paolo Raimondi**

Greensill come la crisi dei subprime? Ancora una classica operazione speculativa, con possibili pericolose conseguenze sistemiche.

Nei giorni scorsi il gruppo finanziario Greensill ha portato i suoi libri contabili in tribunale a Londra e dichiarato insolvenza. Greensill Capital è un fondo londinese che porta il nome del suo fondatore.

La sua “mission” iniziale era la finanza della supply-chain: anticipare il pagamento delle fatture, emesse da clienti e fornitori minori nei confronti delle grandi corporation, garantendo loro incassi più celeri. I fornitori erano contenti di ottenere i pagamenti dovuti e, quindi, di sottrarsi ai tempi lunghi delle corporation. In seguito, la Greensill Capital portava le fatture all’incasso presso le grandi imprese, ottenendo naturalmente un certo premio. Queste ultime vedevano, con soddisfazione, allungarsi i tempi di pagamento. Purtroppo, però, non tutti i bilanci delle imprese coinvolte erano, e sono, trasparenti e solidi.

Il sistema veniva propagandato come una “democratizzazione del capitale e della finanza”.

Ovviamente, la “monetizzazione” degli asset acquisiti (le fatture da incassare) veniva trasformata in investimenti o in crediti per altre imprese. Ancora più importante era la cartolarizzazione delle fatture acquisite che venivano “impachettate” con altri prodotti finanziari e titoli vari da piazzare agli investitori, in particolare quelli istituzionali. Proprio come accadde negli Usa con i subprime prima della Grande Crisi.

Il sistema veniva internazionalizzato con una rete finanziaria, attraverso la creazione di istituti e di banche, la realizzazione di rapporti con grandi organismi finanziari e assicurativi e la partecipazione attiva in importanti operazioni di finanziamento  o di acquisizione di altre corporation. 

Ciò è avvenuto con la “benedizione” della City, del governo di Londra e persino della Casa Reale britannica. Lex Greensill è stato consulente speciale per gli affari finanziari del governo di David Cameron, il quale nel 2018 ebbe l’incarico di special adviser della Greensill Capital. A coronamento di tutto ciò, la regina Elisabetta II nel 2017 nominò Lex Greensill “Comandante dell’Ordine dell’Impero Britannico”. Il cerchio magico si era così chiuso.

Di fronte a un così promettente pedigree, gli investitori sono stati pronti a partecipare all’affaire. Prima il fondo americano di private equity, General Atlantic, poi il conglomerato industriale-finanziario giapponese, SoftBank Group. Intanto, il valore di mercato della società aumentava quotidianamente. Del resto, oggi si stima in 55.000 miliardi di dollari il mercato supply-chain.

Con la cartolarizzazione, i “titoli salsiccia”, ovviamente con rendimenti superiori a quelli delle normali obbligazioni di Stato, sono stati piazzati a importanti clienti, tra cui la Global Asset Management (GAM), società di gestione patrimoniale svizzera. Anche il Credit Suisse  ne avrebbe comprato per i propri clienti per almeno 10 miliardi di dollari.

Per rendere i titoli più attraenti era necessario che fossero coperti da importanti compagnie assicurative internazionali. E qui entrò in campo la giapponese Tokyo Marine, che l’anno scorso, verificata la mancanza di solidità della Greensill Capital, decise di non rinnovare le garanzie assicurative su 4,6 miliardi di dollari di crediti.

 Nel 2014, Greensill Capital acquistò una banca tedesca, la Nordfinanz Bank AG di Brema, poi Greensill Bank AG, usata per espandere le operazioni della casa madre in molti settori e per raccogliere fondi anche da piccoli risparmiatori.

L’iniziale affidabilità della banca ha spinto molti comuni e altri enti pubblici tedeschi a investire in questi “titoli salsiccia”. Ora, purtroppo, la banca è esposta per oltre tre miliardi di euro. Perciò la Bafin, l’equivalente della nostra Consob, è stata costretta a sospendere la licenza e a fermare tutte le operazioni finanziarie della banca.

Le conseguenze globali dell’insolvenza della Greensill Capital sono tutte da verificare. Il rischio sistemico deve essere ancora misurato. La vicenda segue altri casi simili, come quelli di Wirecard e di GameStop.

Il ripetersi di questi disastri finanziari speculativi ripropone l’urgenza di una seria riforma del sistema finanziario internazionale e, comunque, almeno di un coordinamento tra le agenzie di controllo per tutelare i risparmiatori e i settori delle economie reali.

 *già sottosegretario all’Economia
**economista