1° febbraio, Giorno della Memoria. 28 gennaio, terza udienza del processo all’Operazione Condor. LA VERGOGNA DEL SILENZIO GENERALE!

1) Ieri, 1° febbraio, era Il Giorno della Memoria. Che però non è fregato nulla a nessuno e nessuno lo ha infatti ricordato perché riguarda un pezzetto del gigantesco Olocausto di indigeni perpetrato nelle Americhe da noi europei man mano diventati americani.

2) E il 28 gennaio c’è stata a Roma la terza udienza preliminare del processo per le vittime italiane dell’Operazione Condor, come venia chiamato in codice lo sterminio clandestino nel Sud America dei militari golpisti foraggiati dagli Usa degli oppositori politici, veri o presunti, tragicamente noti come desaparecidos, cioè scomparsi.

Il 25 gennaio si è invece molto parlato della Giornata della Memoria che riguarda invece lo sterminio degli ebrei nella Germania nazista. Il solito nostro uso di due pesi e due misure è stato particolarmente sfacciato perché è stata ospite di molte iniziative – da “Che tempo che fa” a Rai Tre a cerimonie e interviste – una anziana signora  nipote di un ebreo milanese deportato ad Auscwitz e madre di una ragazza desaparecida in Argentina. Molta giusta commozione. Ma, ongiustamente, neppure un accenno all’udienza imminente al trbunale di Roma e tanto meno all’Olocausto dei “musi rossi” americani. Il che la dice lunga anche sulla nostra ipocrisia, nutrita dal non disinteressato buonismo e politicamente corretto “de sinistra”.

Propongo pertato un paio di articoli, il secondo è un’intervista, apparsi sui rispettivi due argomenti. E un commento apparso al primo. Commento che dovrebbe far riflettere in particolare oggi, visto che c’è un papa gesuita. Cioè di un ordine religioso che ha preso parte alla persecuzione degli “indiani d’America”.

1) – http://www.famigliacristiana.it/articolo/indiani_010212101431.aspx

INDIANI SIOUX, IL GIORNO DELLA MEMORIA

01/02/2012  Il 1 febbraio 1876 gli Stati Uniti dichiararono guerra ai Sioux che non volevano abbandonare i territori dov’era stato scoperto l’oro. E fu l’inizio del massacro di Wounded Knee.

Oggi cade l’anniversario di una dichiarazione di guerra troppo spesso ignorata o non considerata come tale. Il 1 febbraio 1876 il ministro degli Interni degli Stati Uniti d’America dichiarò guerra ai Sioux “ostili”, quelli cioè che non avevano accettato di trasferirsi nelle riserve, dopo che era stato scoperto l’oro nelle Black Hills, il cuore del territorio Lakota. Come si potevano traferire migliaia di uomini, donne e bambini dalla terra dov’erano nati, in una stagione dell’anno in cui il territorio era coperto di neve? Molti indiani pare neanche ricevettero l’ordine, in quanto impegnati nelle loro attività di caccia, lontano dalla propria residenza. Continua a leggere

Norah+Billie Joe, country soporifero

Dio benedica l’ascolto in streaming, altrimenti quanti soldi buttati via per comprare cd destinati al secco non riciclabile (fanno danno anche quando te ne liberi)! Perché ancora ci casco, e ogni tanto mi lascio tentare dalle segnalazioni a tutta pagina di scemate spacciate per capolavori o per chicche da amatori. Leggo ad esempio del disco sfornato dall’inedita accoppiata Norah Jones e Billie Joe Armstrong: “che delizia!” Macchè….palle! Una sfilzata inesauribile di ballate country che dovrebbero fare tanto cool…e invece sono solo banali. Tanto vale ascoltare il meglio del nazionalpopolare di casa nostra: viva Casadei!

Giornata della Memoria? No, della Falsa Coscienza e della Retorica. Utile a chi vuole dimenticare molto e molti

http://www.articolo21.org/2014/01/giornata-della-memoria-moni-ovadia-nessuno-ha-mai-detto-mi-sento-rom-omosessuale-antifascista/

Giornata della memoria: Moni Ovadia, “Nessuno ha mai detto ‘mi sento rom, omosessuale, antifascista…’”

di Stefano Corradino

Raggiungiamo Moni Ovadia il giorno della morte di Claudio Abbado. Visibilmente scosso ed emozionato per la perdita di un uomo di “grande valore umano e civile”. “Un artista purtroppo ben poco valorizzato dal nostro Paese” sottolinea Ovadia. “Sia come musicista che per il suo impegno nelle battaglie civili e sociali. Per questo lasciò l’Italia. D’altronde l’Italia tende a trascurare la grandezza delle persone di maggior talento. Dario Fo non ha neanche un teatro….” “C’è una parte ampia della classe dirigente che non ama questo Paese, che considera l’Italia terreno di conquista, di sfruttamento, di giochi politici. Riflettevamo alcuni giorni fa con Renzo Arbore sul fatto che in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia non siamo stati capaci neanche di raccogliere in una pubblicazione quei canti che rappresentano le nostre migliori tradizionali nazionali. Non abbiamo fatto alcunché per il recupero delle nostre radici”.

D – Singolare che sia proprio un ebreo a dirlo.R – La Giornata della Memoria non si deve fare per fare piacere agli ebrei. Gli ebrei hanno la loro memoria “interna”. Io, la Shoah la ricordo tutti gli anni quando vado in Sinagoga e partecipo ai canti e alle preghiere per i defunti di morte violenta.DOMANDA – Il recupero delle radici è un punto centrale anche dei percorsi storici sulla memoria. Ma come si fa a sottrarre retorica dalle celebrazioni e recuperarne autenticità, come nel caso del 27 gennaio?
RISPOSTA – Questo è un punto su cui mi sto battendo da anni. Il 27 gennaio sta diventando il giorno della falsa coscienza della retorica. Il limite principale, e il grande equivoco è di non aver capito, prima di tutto, che questa giornata non è stata istituita solo per gli ebrei. Il Giorno della Memoria doveva essere importante per una riflessione comune sull’Europa, sulle ragioni dello sterminio. Per rispondere alla domanda se tutto questo si è determinato per un incidente di percorso o se la degenerazione fosse iscritta nei geni dell’Europa. Parliamo della Germania ma magari ci dimentichiamo dei genocidi commessi dai fascisti italiani in Africa o della pulizia etnica nei paesi dell’ex Jugoslavia. La memoria ebraica non serve agli ebrei che lo sanno già ma dovrebbe essere un paradigma, un immenso edificio della memoria che possa servire anche agli altri.
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I classici del marxismo e la Russia

Alla luce del fallimento del cosiddetto “socialismo reale” oggi ci si chiede se non avessero ragione quanti sostenevano che in Russia doveva svilupparsi il sistema capitalistico prima che si potesse pensare a una rivoluzione socialista. Aver voluto fare una rivoluzione socialista in un paese fondamentalmente agrario sembra essere stato un grave errore.

Marx ed Engels avevano sempre detto che se in Russia si fosse passati dal feudalesimo al socialismo agrario, evitando una transizione capitalistica, il tentativo avrebbe potuto avere successo solo a condizione che in Europa occidentale si fosse, nel contempo, compiuta la rivoluzione socialista, in modo che le due rivoluzioni avrebbero potuto sostenersi a vicenda. Non era importante che partisse prima l’una o l’altra; era importante, per i russi, l’appoggio decisivo del proletariato occidentale, altrimenti i governi borghesi avrebbero affossato il loro tentativo.

Come noto, le cose, almeno sotto il leninismo, andarono diversamente; nel senso che Lenin, quando vide il tradimento della II Internazionale durante la guerra mondiale e l’interventismo straniero in Russia dopo la rivoluzione, non particolarmente ostacolato dal proletariato occidentale, si convinse che la Russia avrebbe dovuto farcela da sola e che semmai sarebbe stata l’Europa occidentale a trovare, in virtù di questo esempio, la forza per muoversi per conto proprio.

Morto Lenin, Trotzky pensò che se non si fosse esportata la rivoluzione in Europa, essa col tempo avrebbe avuto il fiato corto, proprio perché la Russia era troppo “contadina” per competere coi paesi europei. Stalin invece era del parere che utilizzando la tecnologia occidentale, imponendo la collettivizzazione forzata di qualunque strumento produttivo e un terrorismo di stato, si poteva costruire il socialismo anche in un solo paese. Vinse la sua linea e il prezzo che la Russia pagò fu enorme, sotto qualunque punto di vista: questo non per dire che se avesse vinto il trotzkismo il prezzo sarebbe stato minore.

Quanto alle idee di Marx ed Engels, esse furono totalmente smentite dallo sviluppo del capitalismo occidentale, proprio in quanto non si comprese che un eccessivo sviluppo di questo sistema economico non avvicina ma allontana il momento della rivoluzione politica, tanto che oggi una transizione al socialismo non è all’ordine del giorno di alcun partito parlamentare occidentale. Il massimo che i partiti di sinistra arrivano a prospettare è un “miglioramento” del sistema attuale, un’attenuazione delle sue contraddizioni attraverso lo strumento dello Stato sociale.

Ciò è tanto più vero quanto più si pensa che all’Europa occidentale non è affatto servito, ai fini di una rivoluzione socialista, che nell’Europa dell’est si fosse sviluppata un’esperienza di “socialismo reale”, per quanto dittatoriale sia stata sotto lo stalinismo e la stagnazione. Semplicemente l’Europa si è lasciata condizionare dal fatto che lo sfruttamento del Terzo mondo le permetteva un tenore di vita relativamente elevato, tale per cui si era in grado di attutire parecchio l’acutezza degli antagonismi sociali e quindi la percezione che se ne poteva avere.

Ora, qual è stato l’errore di fondo dei classici del marxismo che ha indotto a fare previsioni del tutto sbagliate? L’errore di fondo sta nel fatto che Marx, Engels e Lenin (ma anche Trotzky e Stalin) non ritenevano i contadini sufficientemente maturi per fare una rivoluzione socialista. I comunisti non avevano alcun rapporto coi contadini, non solo perché questi erano credenti, ma anche perché non erano urbanizzati. Anzi, il fatto stesso che i contadini fossero convinti di vivere una sorta di “socialismo agrario”, attraverso l’obščina, il mir e l’artel, non li avvicinava affatto – secondo i marxisti – al socialismo scientifico, ma anzi li allontanava.

La polemica di Marx contro Bakunin, di Engels contro Tkačëv e di Lenin contro i populisti lo dimostra eloquentemente. Marx cominciò a nutrire qualche ripensamento solo alla fine della sua vita, quando intrattenne una corrispondenza con Vera Zasulič, e Lenin adottò, per realizzare la rivoluzione, il programma agrario dei socialisti-rivoluzionari, che loro stessi non riuscivano a realizzare essendosi compromessi con le forze borghesi.

Tutti i classici del marxismo han sempre ritenuto indispensabile uno sviluppo della borghesia, non foss’altro che per una ragione: con esso le differenze di classe sarebbero state ridotte al minimo (borghesia e proletariato), sicché l’esigenza di una trasformazione radicale del sistema sarebbe stata inevitabilmente più forte. Volevano l’acuirsi delle contraddizioni perché consideravano questo una premessa indispensabile alla transizione.

Anche Lenin ne era convinto, con la differenza, rispetto agli altri marxisti (p.es. Plechanov), che quello sviluppo in Russia andava considerato già sufficiente per compiere la rivoluzione, nel senso che bastava avere a che fare con un proletariato industriale presente nelle grandi città, in grado di guidare la rivoluzione in tutto il paese. Naturalmente all’interno della categoria di “proletariato” si mettevano gli stessi intellettuali, che avrebbero dato alla classe operaia la vera coscienza rivoluzionaria, altrimenti questa sarebbe rimasta ferma a una coscienza sindacale.

I fatti, in un certo senso, diedero ragione a Lenin, ma solo perché egli riuscì a capire che se non avesse cercato il consenso dei contadini, promettendo la proprietà della terra senza alcuna forma di riscatto o di indennizzo, la rivoluzione sarebbe fallita subito. Lenin era una persona intelligente, flessibile. Non apprezzava i coltivatori diretti perché li equiparava alla piccola-borghesia, ma con la Nep venne incontro alle loro esigenze, anche perché erano stati i contadini che, durante il periodo del comunismo di guerra, avevano permesso al governo sovietico di resistere alla controrivoluzione bianca e straniera.

Ma come si sarebbe comportato Lenin se non fosse morto nel 1924? Certamente non avrebbe avuto nei confronti dei contadini l’odio che ebbe Stalin, e che avrebbe avuto anche Trotzky, se avesse vinto la partita col suo principale rivale. Il terrore staliniano fu così duro che se in Russia non ci fosse stata l’invasione nazista, la rivoluzione sarebbe caduta prima.

Praticamente è stato proprio lo stalinismo a preparare non solo la fine del socialismo, ma anche la ripresa di quel capitalismo che era stato interrotto dai bolscevichi. E questo proprio perché all’interno dello stalinismo non vi è mai stata alcuna possibilità di realizzare una transizione progressiva verso il socialismo democratico. Dalla morte di Stalin all’ascesa di Gorbaciov la Russia ha vissuto complessivamente 30 anni di stagnazione, che è parsa ai comunisti di tutto il mondo non così grave, in quanto si riteneva che, in ogni caso, l’Urss rappresentasse il baluardo più forte contro i tre poli dell’imperialismo mondiale (Usa, Europa occidentale e Giappone), contro la guerra fredda e la minaccia nucleare e contro il neocolonialismo occidentale nel Terzo mondo.

Dall’esterno non si riusciva a percepire l’effettiva gravità di quella stagnazione. L’implosione del 1991 apparve del tutto inaspettata. Eppure, strumentalizzando le riforme di Gorbaciov per eliminare qualunque forma di socialismo, essa, ad un certo punto, fu del tutto inevitabile. L’Occidente non solo non comprese la natura democratica di quelle riforme, ma iniziò a illudersi che la propria democrazia avrebbe definitivamente smesso di credere che, per realizzarsi in maniera adeguata, avesse bisogno delle idee del socialismo.

L’ultimo socialismo possibile: quello di mercato

Il marxismo è sempre stato visto dalla borghesia come un proprio irriducibile nemico a motivo del suo concetto di “proprietà comune dei mezzi produttivi”. In realtà la vera proprietà “sociale” di tali mezzi si è verificata, da quando l’uomo esiste, solo in epoca preistorica, o quanto meno soltanto presso quelle popolazioni che non hanno mai conosciuto alcuna rivoluzione né verso la proprietà “statale” dei mezzi produttivi, né verso quella “privata”.

La borghesia dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti è lontanissima dall’accettare l’idea di una proprietà collettiva dei mezzi produttivi, proprio perché la proprietà in generale è nata e si è sviluppata, soprattutto in queste aree geografiche, in maniera fortemente individualistica, almeno a partire dallo schiavismo. Gli europei sono talmente portati a identificare la proprietà privata dei mezzi produttivi con lo schiavismo che non ebbero alcuna difficoltà a ripristinarlo nelle Americhe, dopo averlo abbandonato nell’Europa feudale da almeno un millennio.

Il capitalismo è stato fatto nascere da una borghesia che si concepiva come classe antagonistica nei confronti delle istituzioni dominanti (chiesa romana e impero feudale); poi, quand’essa è riuscita a imporsi anche politicamente, gli Stati che ha costruito dovevano semplicemente servire a difendere gli interessi privati di una classe particolare.

Il marxismo ha cercato di porre un argine ai guasti di questo marcato individualismo, ma, sul piano pratico, è riuscito soltanto a realizzare un “socialismo burocratico di stato”, sostanzialmente privo di borghesia e quindi di proprietà privata. Il risultato è stato del tutto fallimentare. Il marxismo ha fallito proprio là dove appariva più alternativo al capitale.

Ora il testimone sembra essere passato alla Cina, dove si sta sperimentando un socialismo di tipo “borghese”, dove cioè l’individualismo sul piano economico viene controllato da una gestione autoritaria del potere politico. Come possono conciliarsi questi due aspetti è per noi occidentali inspiegabile, proprio per le due opposte ragioni dette sopra: o si dà un individualismo borghese in cui il ruolo dello Stato è marginale, in cui cioè la politica è subordinata all’economia; oppure si permette allo Stato di prevalere nettamente e, in tal caso, l’uguaglianza imposta con la forza finisce col negare la libertà di coscienza, l’iniziativa individuale, gli interessi soggettivi. La via di mezzo sembra essere stata trovata, magicamente, dalla Cina, ed è probabile che, col passare degli anni, il suo esempio verrà imitato da altre realtà geo-politiche, tradizionalmente insofferenti a una gestione troppo individualistica delle risorse umane e naturali.

Tuttavia, comunque vadano le cose, l’umanità è ancora molto lontana dal vivere un’esperienza davvero “sociale” nella gestione dei mezzi produttivi. Una qualche idea, in merito, potrebbero darcela le ultime comunità primitive ancora esistenti sul pianeta, ma il loro destino sembra essere segnato: quello d’essere integrate nel nostro sistema sociale. Integrarsi, beninteso, per scomparire, o con le buone o con le cattive. Con realtà del genere, infatti, noi non riusciamo assolutamente a convivere: le loro risorse naturali ci fanno gola, ovunque esse siano. Se proprio non vogliono lasciarsi assorbire o sradicare, queste realtà possono ritirarsi nei deserti, nelle riserve predisposte per loro, nelle zone più aride e desolate del mondo, e se proprio vogliono opporsi con la forza, sappiano che non avranno scampo.

Noi siamo fatti così: la natura ci è soltanto serva. Abbiamo questa pretesa dai tempi dello schiavismo e abbiamo continuato ad averla anche sotto il feudalesimo, sotto il capitalismo e il socialismo statale, e ora l’abbiamo anche sotto il socialismo di mercato, in stile “asiatico”.

Sotto questo aspetto appare del tutto naturale che il socialismo scientifico, contestando il capitalismo, non abbia capito che la vera alternativa a quest’ultimo poteva essere soltanto un ritorno all’epoca preistorica. Non avendo capito l’importanza del comunismo primitivo, tutta la critica marxista del capitale rischia d’avere un valore molto approssimativo. Il fatto stesso che le idee dei classici del marxismo abbiano fino ad oggi trovato una realizzazione solo nella forma del socialismo statale e ora in quella del socialismo di mercato, la dice lunga.

Dopo il fallimento del socialismo burocratico avremmo dovuto smettere di criticare il capitalismo in nome dello stesso marx-leninismo. Non perché l’ideologia borghese sia migliore di quella marxista, ma proprio perché quest’ultima, così come è, non può costituire un’efficace alternativa a quella, in quanto necessita di una profonda revisione.

Ora, è noto che tutte le volte che si parla di “revisionare” il marxismo, si finisce col fare gli interessi privati della borghesia. Fino ad oggi tutte le revisioni del marxismo sono state revisioni borghesi o socialdemocratiche.

Guardando quella attuale della Cina, dovremmo dire che anch’essa rientra nelle revisioni borghesi. Tuttavia non è esattamente così. Se è una revisione borghese, non lo è alla maniera occidentale. In Cina il partito comunista e il suo principale strumento di controllo, lo Stato, giocano un ruolo di primo piano, come mai nessuna borghesia occidentale permetterebbe. Questo significa che nei prossimi decenni o forse nei prossimi secoli sarà facile che chi si sente ispirato dal marxismo s’illuda di poter trovare nell’esperienza cinese una vera alternativa al capitalismo occidentale.

1) – I “buchi” del grande questionario proposto a tutti i fedeli da papa Francesco. 2) – Urge un nuovo mercato dei capitali per le piccole e medie industrie europee

All’inizio dello scorso novembre Papa Francesco ha indetto la III Assemblea Generale Straordinaria del Sinodo dei Vescovi, da tenere in Vaticano dal 5 al 19 ottobre 2014 sul tema “Le sfide pastorali della famiglia nel contesto dell’evangelizzazione”.

E il Vicariato di Roma ha voluto precisare di che si tratta (  http://www.vicariatusurbis.org/spiov/spiov2013/index.php?option=com_content&view=article&id=107:un-questionario-per-la-famiglia&catid=20:attualita&Itemid=113 ): “La tematica di questo Sinodo s’inserisce in un itinerario di lavoro in due tappe: la prima, è l’Assemblea del 2014, volta a precisare lo status quaestionis e a raccogliere testimonianze e proposte dei Vescovi per annunciare e vivere credibilmente il Vangelo per la famiglia; la seconda, è l’Assemblea Generale Ordinaria prevista per il 2015, al fine di cercare linee operative per la pastorale della persona umana e della famiglia”.

Per la prima volta nella storia della Chiesa, in preparazione del Sinodo è stato pubblicato un documento preparatorio che contiene tra l’altro un questionario riguardante le principali sfide sulla famiglia. Il questionario ha 38 domande destinate a tutti i fedeli, una sorta di primarie, alla cui diffusione planetaria devono provvedere tutte le singole diocesi. In Italia la rivista “Il Regno” dei Dehoniani di Bologna lo ha pubblicato online invitando i lettori a compilarlo al seguente indirizzo: http://www.ilregno.it/it/cf-regno.php#2459.

Il paragone con le primare calza anche per le differenze tra “iscritti e non iscritti al partito”, che tante polemiche suscitò nel PD nella tornata dell’anno scorso a causa della pozione di e verso Matteo Renzi, e i dubbi che serpeggiano. Differenze e dubbi sintetizzati dall’intellettuale cattolico Raniero La Valle:

“Ma funzionerà la consultazione, davvero chiunque è abilitato a mandare le sue risposte al Sinodo, oppure varranno solo i documenti che perverranno attraverso le gerarchie delle diocesi e delle conferenze episcopali? Certo non tutti nella Chiesa sono contenti: forse si è osato troppo, può darsi che la cosa sia sfuggita di mano, può darsi che qualcuno nelle Sacre Logge ora vorrebbe tornare indietro. Tuttavia il fatto è che il papa ha fatto pubblicare le domande, gli uffici della Santa Sede le hanno fatte mettere su Internet (basta un clic per conoscerle!) e il nuovo segretario del Sinodo, mons. Baldisseri in diretta alla Radio Vaticana ha detto che la consultazione è canalizzata attraverso i vescovi, “però liberamente ciascuno potrà inviare un testo”, e poi lo ha confermato rispondendo a un quesito del National Catholic Reporter”. Continua a leggere

Diritto e Stato nella Russia socialista

La domanda, cui hanno cercato di dare una risposta i teorici marxisti del diritto degli anni ’20 e ’30 in Russia, era la seguente: si può elaborare un diritto socialista più democratico di quello borghese, in grado di sussistere per un tempo non definibile, oppure la presenza stessa del diritto indica che la società non si è ancora sufficientemente democratizzata? In tal caso quali sono le condizioni per cui, pure in presenza del diritto e quindi dello Stato, si può ugualmente pensare che un progresso della democrazia socialista comporterà l’estinzione sia dello Stato che del diritto?

Nell’ambito del marxismo classico si è sempre sostenuto che il diritto, come la politica, è sorto col nascere delle classi e dello Stato. Il diritto – si diceva – è la volontà della classe dominante sancita in legge e, come tale, serve per opprimere le classi non proprietarie. Sicché gli schiavisti lo usavano contro gli schiavi, i feudatari contro i contadini e oggi i borghesi lo usano contro i proletari. Nelle società pre-socialiste il diritto è sempre servito per difendere la proprietà privata dei mezzi produttivi.

Qualunque marxista sostiene che, agli albori della storia umana, l’osservanza delle norme comuni era garantita non dal diritto coercitivo, ma dalle tradizioni, dall’educazione, dal senso comune del collettivo e dal gruppo di anziani che lo gestiva: non avrebbe certo avuto senso parlare di “diritti e doveri” in riferimento al comunismo primitivo.

Solo col tempo, quando si sono formate delle classi, la forza dell’autorità morale del collettivo è stata sostituita con l’autorità della forza materiale dei singoli proprietari. Il diritto appare insieme all’ineguaglianza nella ripartizione dei beni, quando cioè una minoranza sfruttatrice non può mantenere il proprio dominio economico e politico senza ricorrere alla forza dello Stato e del diritto, i quali, il più delle volte, vengono fatti passare per elementi neutrali, equidistanti rispetto agli interessi delle classi contrapposte. Il diritto “classista”, infatti, si pone come diritto unico, sebbene suddiviso nelle sue varie tipologie: pubblico, privato, costituzionale, tributario, commerciale, ecc. La preoccupazione delle classi dominanti è sempre stata quella di mostrare che loro stesse sono sottoposte alle leggi, in quanto la legge è uguale per tutti.

Quando si realizzò la rivoluzione bolscevica, si arrivò, ad un certo punto (con la nascita dello stalinismo), a fare un discorso diverso. Vishinskij infatti sosteneva che in uno Stato socialista il diritto è indispensabile, in quanto serve a tutelare le conquiste rivoluzionarie, che sono quelle della stragrande maggioranza dei cittadini. Tutelarle contro chi? – ci si poteva chiedere, visto che il nemico interno è già stato sconfitto. Tutelarle contro il nemico esterno, cioè contro quei paesi che vogliono la fine del socialismo e che possono servirsi di “collaborazionisti” all’interno dello Stato socialista.

L’aspetto singolare di questa posizione è che si riteneva possibile, anzi necessario, elaborare un diritto proletario proprio in nome dello Stato socialista, appunto perché la proprietà era stata statalizzata. Cioè il partito comunista si serviva di un organo tipicamente “borghese”: lo Stato (con tutto il suo apparato coercitivo) per realizzare un diritto democratico. Invece di sostenere che diritto e Stato andavano progressivamente e parallelamente smantellati, a favore dell’autogoverno popolare, il partito usò entrambi gli elementi per negare la possibilità di questo autogoverno. Non solo, ma per dimostrare la giustezza del proprio operato, si servì, come pretesto, del fatto che il socialismo era circondato da vari paesi capitalisti intenzionati a distruggerlo, come già avevano cercato di fare durante la rivoluzione, sostenendo le Armate bianche, e con l’interventismo armato subito dopo la fine della prima guerra mondiale.

È inspiegabile come la maggioranza dei comunisti sovietici abbia potuto pensare che la democrazia si sarebbe sviluppata grazie all’uso di due strumenti (Stato e diritto) nati in funzione anti-democratica. Evidentemente si era convinti che quello fosse l’unico modo per difendersi dai nemici esterni. Tuttavia questo può significare soltanto una cosa: che alla fine degli anni ’20 la rivoluzione era già fallita. Essa cioè non aveva in sé gli elementi sufficienti (né pratici né teorici) per un proprio svolgimento democratico. Praticamente si era convinti che, concedendo l’autogoverno al popolo, questo l’avrebbe usato per ripristinare il capitalismo o addirittura il feudalesimo nelle campagne. Cioè si pensava che, siccome il capitalismo è una realtà esterna molto forte, sarebbe stato impossibile al socialismo sopravvivere senza una direzione centralizzata (statalizzata) dell’intera economia.

In altre parole il governo in carica non si era fidato della propria popolazione e aveva agito in maniera, per così dire, paternalistica e quindi autoritaria. E in questo proprio autoritarismo ha finito col compiere gravissimi eccidi di massa nel mondo rurale, introducendo il terrorismo di stato nei confronti di chiunque, eliminando tutti gli intellettuali non allineati: in una parola comportandosi come la chiesa romana al tempo dell’Inquisizione e della Controriforma.

Diritto, etica e libertà di coscienza

Che significa che la libertà di coscienza è un concetto universale? Significa ch’essa è un valore dell’universo e non solo del nostro pianeta. Cioè anche quando la Terra avrà cessato d’esistere e la vita sarà solo cosmica, la libertà di coscienza continuerà a sussistere, impedendo che la verità delle cose s’imponga da sé.

Nessuno potrà essere obbligato a fare alcunché contro la propria volontà. Relativamente a questo principio, la differenza tra la Terra e il cosmo consisterà unicamente nel fatto che nel cosmo esso potrà essere effettivamente garantito.

Il problema è che non riusciremo a garantirlo se prima non riusciremo a farlo su questa Terra. Purtroppo gli uomini hanno imboccato una strada, da circa 6000 anni, che impedisce loro di sapere come garantire adeguatamente il rispetto di tale principio. Diciamo che per molto tempo l’hanno saputo e che poi si sono sforzati, purtroppo inutilmente, fino ad oggi, di ritrovare il bene più prezioso che hanno perduto.

Abbiamo tuttavia ancora molto tempo davanti a noi. Sappiamo che il Sole durerà ancora 5 miliardi di anni. In questi ultimi 6000 anni abbiamo sperimentato vari esempi di violazione della libertà di coscienza: lo schiavismo, il servaggio, il capitalismo e il socialismo di stato. Oggi in Cina stiamo assistendo a un nuovo esempio: il socialismo autoritario sul piano politico, unito al capitalismo sul piano economico. Questa forma di socialismo di mercato vuole essere un’alternativa sia al cosiddetto “socialismo reale” che all’attuale capitalismo monopolistico (privato e statale), presente in molte aree geografiche del pianeta.

Sono tutte forme in cui la libertà di coscienza non viene rispettata, e come nel passato ci si è opposti allo schiavismo, al servaggio, al lavoro salariato e alla proprietà statale, così è da presumere che ci si opporrà alla falsa libertà propagandata in quei paesi che vogliono imitare l’Occidente nella convinzione di non doverne subire i medesimi traumi.

È bene tuttavia chiarirsi su un punto: la libertà di coscienza non è cosa che possa essere imposta. Essa è soltanto un diritto che si può rivendicare, e là dove la si rivendica, occorre tutelarla. Non esiste un’esperienza che possa rendere obbligatoria tale libertà, poiché ciò sarebbe un controsenso. Non ci può essere niente e nessuno che impedisca a tale libertà d’essere violata, poiché, se ci fosse, la violerebbe ipso facto. La libertà di coscienza può essere solo tutelata là dove qualcuno afferma che è stata violata; quindi si tratta sempre di una tutela post factum.

Se su questa Terra non riusciamo a capire questo principio e a garantirlo praticamente, non avrà alcun senso la nostra presenza nell’universo, poiché è proprio questo principio che caratterizza meglio la nostra umanità, differenziandoci in maniera decisiva da qualunque altra cosa. Tutto il resto viene dopo e va considerato di secondaria importanza.

Noi dobbiamo porre le condizioni affinché una qualunque violazione della libertà di coscienza trovi qualcuno disposto a farsene carico. Questo ovviamente non può significare che uno, in coscienza, non possa accettare cose che nuocciono alla sua persona. Semplicemente significa che, nel caso in cui uno si penta d’aver fatto una scelta sbagliata, deve sempre avere la possibilità di rimediarvi. Nessuno può essere costretto a pagare in maniera irreparabile il prezzo delle proprie colpe, meno che mai di fronte a una ammissione personale di colpevolezza, in quanto nessuno, a priori, può mai dirsi migliore di un altro. Il buon senso dice che tutti possono sbagliare e che errare è umano. Ovviamente la possibilità del ravvedimento, per diventare un’esperienza reale, va verificata concretamente, sottoponendo l’interessato a varie forme di recupero.

L’unica pena possibile, per una scelta sbagliata, può essere soltanto l’emarginazione, che serve, più che altro, a tutelare sia il colpevole, dai possibili risentimenti altrui, sia le persone innocenti, dai rischi di subire ulteriori violazioni o di cadere nei medesimi errori del colpevole. A Caino fu messo un segno visibile di riconoscimento per evitare il linciaggio.

Emarginazione non vuol dire reclusione ma rieducazione. Cioè chi sbaglia deve essere messo in grado di non-nuocere, cioè di non peggiorare le cose, ma, nel contempo, gli si deve offrire (non una volta ma continuamente) la possibilità di un reinserimento, all’ovvia condizione di rispettare l’altrui libertà.

Non-nuocere vuol semplicemente dire che al colpevole non gli si possono affidare compiti di alta responsabilità, tali per cui possa facilmente e gravemente violare la libertà altrui. Chi vuol nuocere va isolato e nel contempo rieducato al senso della democrazia collettiva. Quindi l’isolamento non può essere qualcosa che lo opprime più di quanto possa fare la sua stessa coscienza: deve soltanto indurlo a capire che non si tratta di una punizione imposta dall’esterno, bensì di una sorta di autopunizione, che può anche terminare di fronte all’autocritica e alla riparazione morale e/o materiale del danno. Compiti di crescente responsabilità, partendo da una forma minima, possono essere assegnati immediatamente, tenendoli costantemente monitorati nelle modalità d’esecuzione e nei risultati ottenuti.

Ciò che più danneggia l’uomo, che è un essere sociale per definizione, è l’emarginazione, ma ciò che più lo ferisce e gli impedisce di ravvedersi è l’emarginazione imposta da una forza esterna, contro cui ha l’impressione di non poter far nulla. L’uomo ha bisogno di sapere che l’autoemarginazione cui è andato incontro per sua colpa, può essere rimediata in qualunque momento con un sincero pentimento. Naturalmente nessuno potrà mai sapere con sicurezza se tale pentimento sarà stato veramente sincero. La verità sta soltanto nei fatti. Gli uomini, siano essi colpevoli o innocenti, pentiti o irriducibili, bisogna metterli alla prova, e non una ma cento volte.

Le festività sono passate, i problemi invece sono rimasti. Comprese le porcate contro la Siria

Federal Reserve: la crisi dei cent’anni

Mario Lettieri* Paolo Raimondi**

Allla vigilia di questo Natale la Federal Reserve ha compito cento anni! Ha “navigato” attraverso due guerre mondiali e nella Grande Depressione del ’29. Arriva però al suo centenario in condizioni disastrate e con una profonda crisi di identità. Per la prima volta nella storia ha completamente stravolto la sua missione: da controllore dell’inflazione e attore nella politica contro la disoccupazione è diventata la fucina di liquidità illimitata con un bilancio distorto fuori misura, pari a circa un quarto del Pil americano. Prima del 2007 non solo ha ignorato tutte le avvisaglie del crollo finanziario incombente ma, quel che è più grave, ha assecondato, se non favorito, i comportamenti più speculativi e rischiosi. Poi ha salvato dal fallimento tutte le grandi banche, lasciando di fatto che continuassero ad operare come prima. La liquidità immessa sta drogando l’economia creando visioni psichedeliche quanto irreali dell’economia prospettando una rosea fine della crisi economica e bancaria. Continua a leggere

Come si formano i tradimenti politici?

Perché tutte le volte che si comprende come dovrebbero funzionare le cose, si finisce sempre col fare il contrario? Esiste una regola generale che possa spiegare il meccanismo di questo fenomeno, oppure dobbiamo attribuirlo alla casualità, cioè al fatto che l’incoerenza può anche non accadere?

Prendiamo ad es. la destalinizzazione inaugurata da Krusciov nel 1956. In virtù di essa ci si sarebbe dovuti aspettare un aumento della democrazia; invece, a partire da Brežnev, si sviluppò la stagnazione. Prendiamo l’esempio ancora più clamoroso della perestrojka di Gorbaciov, iniziata nel 1985: chi avrebbe immaginato che, dopo di essa, si sarebbe sviluppata, con Eltsin e Putin, una Russia del tutto capitalistica?

Che cos’è che impedisce agli uomini d’essere coerenti coi loro ideali? Esempi come questi si trovano anche nelle rivoluzioni borghesi compiute dal 1688 al 1789 in Inghilterra, Stati Uniti e Francia. Proprio nel momento in cui si affermano i principi della democrazia, si sviluppa la dittatura, più o meno mascherata.

In Italia abbiamo avuto la Controriforma dopo oltre mezzo millennio di vita borghese o, se vogliamo, dopo oltre un secolo d’incredibile sviluppo di idee laiche espresse dall’Umanesimo e dal Rinascimento. Abbiamo fatto l’unificazione nazionale in nome degli ideali francesi di libertà, uguaglianza e fratellanza, e ci siamo ritrovati nella dittatura dei Savoia. Mussolini voleva fare una rivoluzione socialista e finì col realizzare il suo opposto.

Se sapessimo individuare la regola che c’induce a fare il contrario di ciò che vorremmo, forse potremmo commettere meno errori. Partiamo anzitutto da un fatto incontrovertibile: noi ereditiamo dal passato delle situazioni conflittuali che non ci agevolano ma ci condizionano pesantemente nel compito di realizzare un’alternativa. Nei confronti di questi condizionamenti si hanno, in genere, due atteggiamenti opposti: o si ritiene che siano troppo gravosi per poterne prescindere, oppure si ritiene che il loro peso non sia così gravoso da impedire la realizzazione dell’alternativa.

Quando si propende per il primo atteggiamento, e si vuole comunque realizzare un’alternativa, la tendenza è quella di diventare autoritari, cioè di affrontare le situazioni dall’alto, usando le leve delle istituzioni, che oggi coincidono con lo Stato.

Quando invece si propende per il secondo atteggiamento, non si capisce mai fino a che punto ci si possa spingere a favore della democrazia. Cioè si teme sempre che la situazione generale, a motivo di talune importanti concessioni fatte, possa sfuggire di mano. Ed è proprio in virtù di questa incertezza che, dopo un certo tempo, finisce col prevalere la soluzione autoritaria.

Dunque, perché quando si pensa che i condizionamenti del passato non siano così gravosi per realizzare l’alternativa, non si riesce mai ad assumere un atteggiamento coerente? Il motivo sta proprio nel fatto che non siamo abituati alla democrazia, sicché temiamo, quando la vediamo svilupparsi, ch’essa si trasformi velocemente in anarchia, cioè in un tipo di organizzazione sociale in cui gli interessi particolari o soggettivi finirebbero col prevalere sugli ideali generali o sul bene comune.

Sono 6000 anni che pensiamo che il concetto di “democrazia” non possa prescindere dal concetto di “istituzione”, proprio perché sono 6000 anni che il concetto di “istituzione” domina incontrastato. Cioè anche quando s’è lottato per abbatterla, in quanto si era convinti ch’essa facesse unicamente gli interessi delle classi dominanti, alla fine, nel migliore dei casi, ci si è soltanto limitati a sostituirla con un’altra. E così siamo passati da istituzioni favorevoli allo schiavismo, al servaggio, ai capitalisti e alla nomenklatura di un partito e ai funzionari dello Stato.

Quando si fanno le rivoluzioni è troppo forte la tentazione di servirsi delle medesime istituzioni che si sono abbattute. I motivi possono essere leciti o illeciti, comprensibili o inaccettabili: p. es. il timore di vedere sconfitta la rivoluzione, in seguito agli attacchi del nemico; il desiderio di diventare una persona di potere; la convinzione di poter accelerare il conseguimento degli obiettivi rivoluzionari, ecc. Qualunque sia la motivazione, ciò che manca è la fiducia nella popolazione, soprattutto in quella che ha compiuto il rivolgimento istituzionale.

A questo punto ci si può chiedere quale sia la regola per evitare questa pericolosa involuzione autoritaria. La regola può essere una sola: o la democrazia si autogestisce o, col tempo, si tradisce. Detto in altre parole: o la democrazia è diretta dal popolo, oppure quella delegata e rappresentativa è destinata, prima o poi, a trasformarsi in una dittatura.

Permettere che la democrazia si autogestisca implica una concessione di fiducia ai cittadini. Se non si corre questo rischio – che ovviamente può comportare degli esiti catastrofici per la rivoluzione -, il tradimento è assicurato. Ma se tradimento deve esserci, è meglio che vi sia mentre si cerca, dal basso, di costruire la democrazia, e non perché questa, dall’alto, è stata trasformata in una dittatura. Cioè se il destino è quello di tradire degli ideali rivoluzionari, è meglio che di esso si faccia carico la stessa popolazione che avrebbe dovuto realizzarli, piuttosto che un’élite di intellettuali, che quando parlano di democrazia dicono di farlo in nome del popolo.

Questo peraltro è l’unico modo efficace per far capire alla popolazione che, se non è capace di realizzare la democrazia, lo deve unicamente a se stessa, e che quando vorrà imparare dai propri errori, non dovrà aspettarsi una soluzione dall’alto. In ogni caso fino a quando non saranno finite tutte le illusioni nei confronti del sistema sociale che si vive, difficilmente si riuscirà a liberarsi del peso dei suoi condizionamenti. Gli uomini sono così abituati alle illusioni che hanno bisogno di gravi catastrofi per smettere di credervi. Devono arrivare al punto di non avere più alcuna certezza: in quei momenti o si diventa rivoluzionari o ci si comporta peggio delle bestie.