La crisi dell’euro fa bene: alla Gemania

La crisi euro ha fatto risparmiare 40 miliardi alla Germania

Mario Lettieri*  Paolo Raimondi**

In questi anni di profonda crisi dell’euro, la Germania complessivamente non ci ha rimesso. Anzi ci ha guadagnato e non poco. Non c’è lo dice uno dei tanti analisti europei con il dente avvelenato per le troppe polemiche tedesche sull’utilizzo delle loro finanze per salvare altri Paesi europei in deficit e con elevato debito pubblico. E’ direttamente il ministero delle Finanze di Berlino a fornire dati precisi e incontrovertibili. Secondo il settimanale Der Spiegel, il governo tedesco, rispondendo ad una interrogazione parlamentare, ha dichiarato che, calcolando costi e benefici, al netto avrebbe speso la modica cifra di 599 milioni per sostenere il sistema dell’euro! Secondo il ministero delle Finanze però, dal 2010 al 2014 la Germania risparmierà ben 40,9 miliardi di euro, solo per minori pagamenti di interesse sui suoi titoli di Stato.

Questo è il risultato di una forte domanda di obbligazioni tedesche, dagli investitori ritenute titoli sicuri e rifugio nella crisi generalizzata dei debiti pubblici europei. Di conseguenza il tasso di interesse di tutte le nuove obbligazioni emesse in Germania è sceso di circa un punto percentuale. La combinazione del risparmio sui tassi di interesse e dell’aumento degli introiti fiscali nazionali generati da una economia in crescita ha fatto anche scendere il livello del nuovo debito pubblico tanto che per il periodo 2010-12 la riduzione è stata di 73 miliardi di euro. Continua a leggere

Musicassetta n.1: Adrian Belew, un re della chitarra e della voce

Tutto quadra: Frank Zappa, David Bowie, Talking Heads,  King Crimson, Nine Inch Nails, tutti questi miei adorati musicisti hanno avuto a che fare con Adrian Belew. L’ho risentito, e riamato all’istante,  nell’auto di mia mamma. Non ha il lettore cd, ma il mangiacassette! Così ho preso dall’unico scaffale/reliquiario rimasto in casa un paio di cassette, primo felice esperimento di spaccio pirata tra amici (non virtuali), tra cui quella con “Three of a perfect pair” dei King Crimson.  “Model man”, che meraviglia! “Take me as I am”: oh, yeah!! Si sentiva pure meglio che in mp3. Da qualche parte devo avere sempre in cassetta anche “Young lions”: che brividi la sussurrata “Phone call from the moon” in “one long lonely night, you know what I mean…”. Ho guardato sul web cosa sta facendo Belew, è in vacanza alle Bahamas, ma continua a suonare. A luglio è fallito il tentativo di tornare a lavorare con i NIN: posso facilmente capire,  un capolavoro come “The downward spiral” è irripetibile e Trent farebbe meglio ormai a dedicarsi alle colonne sonore.

Povertà della logica ateistica

Nel numero 5/2013 di “MicroMega”, intitolato Ateo è bello! Carlo Bernardini basa il proprio ateismo “scientifico” su ciò che disse un accademico neopositivista, Richard von Mises: “Non esiste la dimostrazione della non-esistenza di ciò che non esiste”.

Detto da un esponente del Circolo di Berlino (non di Vienna), la cui filosofia aveva apprezzato quella del Trattato di Wittgenstein, fa un po’ specie. Che poi lo ripeta un fisico prestigioso come Bernardini, è increscioso.

È dai tempi del logico Frege, anzi forse da quelli di Hume e Leibniz, che non ci si permette più di dire che, in campo logico, una proposizione è vera se ha una qualche corrispondenza nella realtà. La logica moderna non è come quella aristotelica: non si basa su soggetto e predicato, che devono trovare conferme nella realtà, secondo il famoso sillogismo: “Se tutti gli uomini sono mortali, e Socrate è un uomo, Socrate è mortale”. Cosa che gli Scolastici neo-aristotelici chiamavano “adaequatio rei et intellectus”.

La logica moderna, quella astratta della borghesia, si basa invece sul fatto che anche una proposizione falsa è sensata, cioè un’espressione può essere sensata anche in quanto “logicamente” falsa. L’esempio di Wittgenstein è famoso: “piove o non piove”: anche la negativa è vera e può convivere tranquillamente con l’affermativa, anzi, proprio questa sussistenza permette di creare qualunque tipo di proposizione.

L’informatica si nutre di queste cose, facendo suo l’esempio, in positivo, che Bernardini usa per dimostrare la fondatezza del proprio ateismo: “La dimostrazione dell’esistenza del pane è il pane”. Bella tautologia questa, che, per quanto esistenzialmente povera, Wittgenstein avrebbe però rovesciato immediatamente nel suo contrario, proprio per rendere la logica più stringente: “La dimostrazione dell’esistenza (sottinteso: logica) del non-pane è il non-pane”.

In campo informatico, quando si devono elaborare algoritmi, “pane” e “non-pane” si equivalgono perfettamente. In logica la forma è sostanza. Pertanto dire che dio non esiste perché il credente non può dimostrarne l’esistenza, non ha senso. In campo logico non si deve “dimostrare” alcunché di metafisico, se non una propria interna coerenza formale, che i logici si guardano bene dal contraddire prendendo esempi dalla realtà. E in questo, purtroppo, bisogna dire che sbagliano, poiché la logica della vita, per quanto contraddittoria sia, è sempre più interessante e avvincente della logica formale dei segni e dei simboli.

Non è comunque sul piano della “dimostrazione logica” che l’ateismo può giocare la propria partita con il misticismo. Non è certo con la tautologia del pane che si dimostrano le contraddizioni del pane eucaristico! Infatti non si tratta – diceva Wittgenstein – di “di/mostrare” qualcosa. In campo etico si può soltanto “mostrare” qualcosa, cioè al massimo l’ateo può essere più convincente del credente se “mostra” sul piano etico d’essere migliore di lui. E quando riuscirà a farlo, sul piano etico, che è quello dell’affronto dei bisogni e delle umane contraddizioni, possiamo star tranquilli che sarà migliore anche di quell’ateo che basa il proprio ateismo su affermazioni meramente logiche.

Egitto, fine delle illusioni occidentali sulla bontà dei colpi di Stato in casa altrui quando ci fa comodo.

La tragedia egiziana ha posto la parola fine a un’altra illusione dell’Occidente, e dell’Europa in particolare: all’illusione, vale a dire, che i colpi di Stato militari possano arginare man mano e una volta per tutte le spinte popolari extra occidentali che per un motivo o per l’altro non ci piacciono. Quest’illusione si fonda sul fatto che di norma gli ufficiali militari che costituiscono l’ossatura delle forze armate altrui sono stati formati quasi tutti nelle più prestigiose accademie e scuole militari degli Usa e dell’Europa. Quelle italiane, per esempio,  hanno contribuito a formare il colonnello Gheddafi e il generale Siad Barre, ex sottotenente dei carabinieri italiani, diventati a suo tempo con i rispettivi colpi di Stato i padroni di lungo corso della Libia il primo e della Somalia il secondo. Finiti entrambi come sono finiti: ucciso dai ribelli il primo, cacciato a furor di popolo il secondo.

In Tunisia il generale Ben Ali, che nel 1987 abbatté con un colpo di Stato morbido il presidente Bourguiba prima di essere cacciato a sua volta con la cosiddetta “primavera araba” nel gennaio 2011, si guadagnò i gradi nella prestigiosa Ecole spéciale militaire de Saint-Cye e nell’Ecole d’application de l’artillerie de Chalons-sur-Marne, per poi perfezionarsi nella Senior Intelligence School e infine nella School for Anti-Aircraft Field Artillery negli Usa. E a metterlo in sella a Tunisi furono i nostri segreti militari, che seppero agire con discrezione: Bourguiba fu deposto per senilità a 84 anni e fatto accudire da una equipe di medici nel suo dorato palazzo di Monastir.

E’ francamente incomprensibile, se non con l’odio verso gli islamici in generale, la simpatia con la quale soprattutto in Italia è stato accolto il colpo di Stato che in Egitto ha portato in galera il presidente Mohamed Morsi. Candidato dei Fratelli Musulmani, Morsi nel giugno dell’anno scorso ha vinto le prime elezioni libere e democratiche egiziane, che hanno posto fine ai quasi 30 anni di potere di Hosmi Mubarak, generale dell’aeronautica diventato presidente. I generali che hanno deposto e arrestato Morsi, primo non militare diventato presidente,li abbiamo applauditi come “salvatori della democrazia”, nonostante siano stati le colonne portanti del potere man mano sempre più duro di Mubarak. Il precedente algerino avrebbe dovuto invece farci riflettere di più, ma si è preferito ignorarlo. Purtroppo i fatti però sono testardi, e continuano a esistere anche se non se ne parla. Com’era prevedibile, in Egitto si sta ripetendo infatti quanto successo in Algeria nel 1992, quando alla vittoria schiacciante del Fronte Islamico di Salvezza Nazionale, che nel primo turno delle libere elezioni aveva riportato nel dicembre 1991 il 60% dei voti, l’esercito applaudito dall’intero Occidente rispose con un golpe. Golpe che se ha rassicurato in particolare la Francia, ha però aperto la strada a una guerra civile particolarmente feroce, che ha mietuto centinaia di migliaia di morti. E che tuttora lascia aperta la porta ad altre possibili convulsioni dagli sbocchi potenzialmente ancora più gravi. Continua a leggere

Progetti importanti tra illusioni di ripresa. E la rischiosa abboffata di profitti della banche Usa

di Mario Lettieri*  e Paolo Raimondi**

1) – Mobilitare il nostro sistema-paese sul territorio e a livello internazionale

Riteniamo che le prospettive economiche del nostro Paese non si possano misurare con meri dati statistici o peggio con qualche altro indicatore basato magari sulle aspettative degli intervistati. Le tante esternazioni di questi giorni sulla fine della recessione e sulla svolta economica positiva prevista per il terzo trimestre 2013 ci suonano più come auguri di Ferragosto che serie analisi suffragate da dati e andamenti reali. Non si tratta di iniziare una diatriba tra ottimisti e pessimisti sul futuro dell’economia nazionale. In passato questi “psicologismi spiccioli” hanno infatti dato spazio solo alla frustrazione e alla rabbia. Siamo consapevoli che spesso certe valutazioni negative sulla nostra economia, come quelle delle agenzie di rating, si sono tradotte, purtroppo, in tagli e spesso in cieca politica di bilancio.

Allo stato non esistono però concreti e solidi elementi per poter salutare l’uscita dalla crisi né a livello globale né a livello europeo e tanto meno a livello nazionale. Basti pensare che l’Ocse prevede un alto livello di disoccupazione. Per l’Italia il tasso relativo dovrebbe salire al 12,5% alla fine del 2014! E’ davvero difficile quindi immaginare una ripresa economica mentre l’occupazione scende così vistosamente, determinando ovviamente un conseguente generalizzato aumento della povertà. In Italia, purtroppo, da tempo manca una seria programmazione con una conseguente puntuale verifica di quanto realizzato. E’ indispensabile indicare percorsi di sviluppo ma anche progetti sul medio e lungo termine e scadenze precise.  Continua a leggere

Aldo Moro secondo Giulio Andreotti

M’è capitato casualmente sotto mano un libro di Giulio Andreotti, A ogni morte di papa, edito dalla Rizzoli nel 1980. Guardando la data, non ho potuto fare a meno di cercare le pagine in cui doveva per forza parlare del delitto Moro. E infatti le ho trovate: sono le pp. 132-37, corredate da una lettera autografa dello stesso Aldo Moro. In esse sono ben chiare le motivazioni per cui i vertici della Dc rifiutarono di scendere a trattative con le Brigate Rosse.

Vediamo però anzitutto il testo di Moro, poiché le pagine di Andreotti vogliono essere una replica a quello. Moro aveva spedito la lettera, attraverso i suoi familiari, al papa Paolo VI, chiedendo sostanzialmente d’intercedere presso il governo “per un’equa soluzione del problema dello scambio dei prigionieri politici” (tra lui e qualche brigatista, anche uno solo). Rivolgendosi al papa, Moro cercava di giustificare lo scambio sulla base di motivazioni non politiche, bensì etiche: il ricongiungimento familiare. Scrive testualmente che la sua famiglia ha “necessità assai gravi”.

Politicamente sostiene un’altra cosa, e cioè la convinzione che il pontefice, facendo leva su questioni etiche, poteva influenzare notevolmente gli organi di governo: “solo la Santità Vostra può porre di fronte alle esigenze dello Stato, comprensibili nel loro ordine, le ragioni morali e il diritto alla vita”. Quest’ultima frase è abbastanza singolare. Al momento del rapimento, Moro era Presidente del Consiglio, un illuminato statista democristiano, il primo democristiano a dichiararsi disponibile a un compromesso politico-strategico col partito comunista, il cui segretario era Enrico Berlinguer. In quanto statista, prigioniero politico, stava chiedendo al papa d’intercedere per favorire una trattativa coi terroristi: era autorizzato a farlo in quanto statista, o stava chiedendo un indebito favore personale, in quanto cattolico e amico del papa? Stava forse supplicando di trasgredire, in via del tutto eccezionale, una regola ferrea dello Stato nei confronti del terrorismo in generale? Oppure stava semplicemente chiedendo una cosa che, quando si è in guerra con un nemico qualunque, generalmente si fa?

Leggendo la replica di Andreotti, vien da pensare che se fosse stato quest’ultimo a essere catturato dalle B.R., una richiesta del genere – stando a quanto scrive – non l’avrebbe mai fatta. Dunque che senso aveva quella lettera? Moro era favorevole alla trattativa perché era parte in causa del rapimento (in quanto prigioniero politico) o per ragioni di principio, che sarebbero potute valere per chiunque si fosse trovato nelle sue stesse condizioni?

Altre lettere, dal contenuto analogo, le aveva già spedite ai colleghi di partito e nessuno aveva accettato l’idea di patteggiare: sarebbe stata – si diceva – una forma di debolezza da parte dello Stato. Non si voleva riconoscere alcuna legittimità alle B.R. La Dc era riuscita persino a convincere i comunisti ad essere assolutamente intransigenti.

Ad un certo punto la pubblica opinione cominciò persino a pensare che l’ala più conservatrice della Dc non volesse far nulla per liberare un collega così scomodo, che si era permesso di accettare l’abbraccio “mortale” proposto dai comunisti (il famoso “compromesso storico”). Gli stessi comunisti si presentavano come il partito della fermezza, in quanto, per tutto il periodo della segreteria berlingueriana avevano cercato a più riprese di dimostrare che il loro poteva essere un partito di governo e i loro dirigenti degli statisti in piena regola, non inferiori, per legittimità e capacità, ai democristiani. Tuttavia una posizione del genere, di fronte a un caso così drammatico ed eccezionale, appariva poco giustificata.

Solo i socialisti sembravano essere parzialmente favorevoli a una trattativa. Cioè avevano capito che la richiesta di Moro aveva un suo senso. Non è da escludere che i socialisti si fossero comportati così anche per distinguersi dai comunisti, che al tempo di Craxi venivano considerati nemici peggiori degli stessi democristiani.

Ma ora vediamo come sono andati i fatti secondo la ricostruzione di Andreotti. Sarà da questa che capiremo, indirettamente, la differenza fra trattativa e fermezza. Qui intanto si può anticipare che, dopo il delitto Moro, al governo andarono i socialisti di Craxi, che gestirono lo Stato insieme alla destra democristiana di Andreotti, Forlani, Cossiga, Piccoli ecc., sino al tempo degli scandali affaristici venuti alla luce con l’inchiesta giudiziaria chiamata “Mani pulite”, che fece, in sostanza, crollare la prima Repubblica e, con essa, i tradizionali partiti parlamentari. Il crollo del craxismo non portò alla democratizzazione del sistema, ma alla nascita del suo prodotto peggiore: il berlusconismo, che elevò la corruzione a sistema.

Dovendo contattare un esponente della Dc, una volta ottenuta la lettera di Moro, a chi pensò Paolo VI di mostrarla? Proprio ad Andreotti. Lo fece incontrare con mons. Casaroli, segretario dello Stato Vaticano (la più alta personalità dopo il papa), che gli portò appunto la lettera dello statista. Le date sono importanti: Andreotti e Casaroli si erano incontrati il 20 aprile 1978, chiarendosi le idee su che cosa il papa non avrebbe dovuto dire nel suo pubblico intervento, affinché non ci fossero incompatibilità con le direttive del governo. Cinque giorni dopo Andreotti riceverà la fotocopia della lettera di Moro, cui risponderà per iscritto allo stesso papa, perché così gli era stato chiesto. Il 22 aprile Paolo VI aveva fatto l’appello per liberare Moro e aveva precisato alle B.R. di farlo “senza porre condizioni”: indirettamente era come condannarlo a morte.

Sino all’ultimo Moro era convinto di potersi salvare, altrimenti non avrebbe scritto tutte quelle lettere, chiedendo uno scambio di prigionieri, come le B.R., peraltro, gli suggerivano di fare. Ma perché l’avevano rapito, visto ch’erano disposte a liberarlo? Solo per ottenere la libertà di alcuni loro detenuti? O per avere un riconoscimento nazionale? O per impedire la realizzazione dell’intesa di governo tra Dc e Pc? Le risposte a queste domande possono solo essere ipotetiche.

È stato detto che tra le B.R. vi erano infiltrati al soldo degli americani, che volevano la fine dell’idea di “compromesso storico”, in virtù della quale i comunisti sarebbero andati al governo insieme ai democristiani, come al tempo del governo di unità nazionale, durato pochissimo, tra De Gasperi e Togliatti. Si è detto che la stessa avversione al “compromesso”, per motivi diversi, potevano averla anche i brigatisti, i quali, eliminando Moro, facevano capire che i comunisti non potevano governare insieme ai loro nemici storici, ma solo attraverso una rivoluzione politica.

Non è da escludere che Moro, vedendo il rifiuto alla trattativa da parte dei propri colleghi di partito, sarebbe uscito dalla Dc e forse avrebbe rinunciato anche all’attività politica, se avesse ottenuto la libertà. Detestava il segretario Zaccagnini per averlo indotto ad accettare delle responsabilità di governo che non avrebbe voluto. Gli scriverà inoltre di non accettare “l’iniqua e ingrata sentenza della Dc. Ripeto: non assolverò e non giustificherò nessuno. (…) Chiedo che ai miei funerali non partecipino né autorità dello Stato né uomini di partito”.

Ma quale risposta diede Andreotti a Paolo VI? Egli scrive nel libro che, facendo un appello così drammatico a favore di Moro, il papa non solo si era “umiliato”, ma, nello stesso tempo, si era “esaltato” (p. 134). Cosa voleva dire è difficile capirlo. Probabilmente si riferiva al fatto che il papa, in quel momento, s’era sentito al centro dell’attenzione, rivestito d’un ruolo eccezionale in previsione della liberazione di Moro. Se l’appello avesse avuto effetto, l’importanza del suo pontificato sarebbe stata enorme. La condizione però era che doveva continuare a perorare la linea della fermezza adottata dal partito. Andreotti infatti fa capire chiaramente che il Vaticano non avrebbe mai dovuto intraprendere un’iniziativa che avrebbe potuto danneggiare il partito “cattolico” al governo (egli, in realtà, si riferisce agli “interessi dello Stato”, ma il significato resta uguale, in quanto la Dc, sin dalla fine del dopoguerra, s’era sempre concepita come un “partito-stato”).

Paolo VI esegue, probabile non senza travagli interiori, quello che Andreotti, uno dei principali avversari politici di Moro, gli aveva chiesto, senza neppure pensare di rivolgersi a Zaccagnini, segretario del partito, o a qualche altro democristiano, per avere conferme o smentite su quel che doveva dire. Moro non mancherà di scrivere alla moglie che il papa aveva fatto “pochino” e forse ne avrebbe avuto “scrupolo”.

Andreotti gli rispose per iscritto il 25 aprile e anche questa lettera è acclusa nel libro come documento. Anzitutto gli fa capire che la Dc aveva apprezzato enormemente il tipo d’appello che aveva fatto, in cui era stato chiesto di liberarlo senza porre condizioni. Strano questo atteggiamento da parte di un collega di partito: in pratica è come se Andreotti avesse voluto far capire che se le B.R. l’avessero liberato senza porre condizioni, la Dc avrebbe considerato ciò non tanto come un gesto umanitario, quanto piuttosto come l’ammissione di una decisiva sconfitta politica del terrorismo italiano.

In secondo luogo suggerisce al papa di credere che Moro non poteva scrivere quelle lettere in piena “libertà intellettuale e morale”, per cui non erano da prendere con la dovuta considerazione politica. Erano lettere di un disperato, che aveva accettato le condizioni delle B.R. relative a uno scambio di prigionieri solo per salvarsi la vita. Da notare, su questo aspetto, che vari appartenenti al “Comitato degli esperti” voluto da Cossiga, per esaminare la fondatezza o l’attendibilità di quelle lettere, in un primo tempo affermarono che Moro era stato sottoposto a tecniche di lavaggio del cervello da parte delle B.R. Guarda caso però i nomi di molti dei membri di quel Comitato furono poi ritrovati tra quelli degli iscritti alla loggia massonica P2, compreso quello dell’importante criminologo Franco Ferracuti, ch’era anche un agente della CIA. Cossiga ammetterà tuttavia, anni dopo, d’essere stato lui a scrivere parte del discorso tenuto da Andreotti in cui s’affermava che le lettere di Moro erano da considerarsi non “moralmente autentiche”.

In terzo luogo Andreotti ritiene chiaramente un’assurdità equiparare uno “statista rapito” (sottinteso: democraticamente eletto) con un “gruppo criminale”, per cui lo “scambio dei prigionieri” andava considerato assolutamente “inaccettabile”, né si poteva accettare l’idea che lo Stato stesse vivendo una sorta di “guerra civile” con le B.R., le quali – a suo giudizio – altro non erano che un manipolo di disperati, destinati alla sconfitta. Come in effetti avverrà subito dopo quel delitto, grazie soprattutto all’iniziativa del generale Dalla Chiesa. Tuttavia, proprio per queste ragioni, vien qui da chiedersi il motivo per cui sarebbe stato così impossibile trattare. Portando alle logiche conseguenze il discorso di Andreotti, il governo avrebbe potuto subito trarre in salvo uno statista di spicco, un politico cattolico di razza come Moro, e in più avrebbe sicuramente sconfitto, in un momento successivo, un gruppo terroristico, con scarsi agganci sociali, come le B.R. Non ci sarebbe stato motivo d’aver paura di cedere.

Andreotti usa anche l’esempio del “caso Sossi” (1) per giustificare l’atteggiamento irreconciliabile della Dc alla trattativa coi sequestratori (che, in quell’occasione, non ebbe però Moro, il quale, in una delle sue lettere dalla prigionia, ricorda d’aver fatto pressioni su Taviani per realizzare uno scambio di prigionieri). La “clemenza per forza maggiore”, nel nostro ordinamento – scrive testualmente Andreotti, non senza riferimenti al passato fascista – è “giuridicamente inesistente”. Strano un atteggiamento del genere, poiché proprio durante il “caso Sossi” lo Stato aveva fatto la promessa di liberare i detenuti richiesti dai terroristi, anche se poi se la rimangiò. Lo stesso Sossi, che, quand’era prigioniero delle B.R., s’era dichiarato favorevole a uno scambio di prigionieri, sostenne che dal punto di vista tecnico-giuridico c’erano le possibilità per risolvere il sequestro Moro in maniera diversa.

Sicuramente Andreotti una dichiarazione “supplicante” come quella del papa non l’avrebbe mai fatta, pur essendo cattolico come lui, semplicemente perché, nella sua concezione della politica, gli interessi dello Stato dovevano prevalere su quelli dell’individuo, benché, nella fattispecie, sarebbe meglio dire che gli interessi ideologici dell’anticomunismo dovevano sempre prevalere su qualunque altro interesse. Ecco perché, con una punta di malignità, sostiene che proprio nel momento in cui il papa si umiliò, finì con l’esaltarsi.

Moro non poteva essere liberato perché – scrive Andreotti – le esigenze della famiglia, degli amici e dei parenti dello statista andavano nettamente considerate inferiori a quelle che avevano gli “agenti dell’ordine”, le “guardie carcerarie”, di non vedere aprirsi le porte delle carceri, ove erano custoditi i terroristi, per uno scambio di prigionieri. Le conseguenze di un gesto del genere sarebbero state “gravissime”, in quanto non si possono fare mai eccezioni alla regola. Curioso che questo venga detto da un democristiano che fece del compromesso politico il suo cavallo di battaglia, anche se resta vero che ogni compromesso trovava in lui la sua ragion d’essere solo entro i parametri dell’anticomunismo. In tal senso le ragioni umanitarie, se avessero prevalso, avrebbero finito col negare l’obiettivo politico di fondo, quello appunto dell’anticomunismo, essendo Moro favorevole al “compromesso storico”. Per Andreotti Moro era semplicemente un irresponsabile, la cui famosa stretta di mano con Berlinguer sarebbe stata fatta pagare dagli americani.

Non a caso quando scrive che lo scambio dei prigionieri sarebbe stata una condizione che avrebbe comportato “una lacerazione non rimarginabile dei fondamenti di giustizia su cui si articola la convivenza civile”, stava dicendo le stesse cose dell’amministrazione americana, per quanto proprio gli americani siano sempre stati favorevoli, durante il periodo della guerra fredda, allo scambio delle spie e degli agenti segreti coi paesi comunisti, e le spie potevano anche essere dei killer: non si faceva alcuna differenza.

Peraltro, continuando a guardare le cose sul piano umano, Andreotti non ha dubbi di sorta nel considerare del tutto superiori alle esigenze dei familiari di Moro quelle delle vedove e degli orfani delle vittime del terrorismo. Un ragionamento davvero curioso questo, in quanto, al fine di tutelare il senso di umanità delle vittime del terrorismo, accetta che se ne sacrifichi un’altra, pur potendolo benissimo evitare.

Nella sua concezione della politica o l’umano viene subordinato ideologicamente al politico, oppure viene valorizzato astrattamente e quindi in maniera strumentale, per realizzare obiettivi non umani, ma soltanto politici e ideologici, quelli appunto dell’anticomunismo. Moro invece aveva scritto a Cossiga in una delle sue lettere: “Il sacrificio degli innocenti in nome di un astratto principio di legalità, mentre un indiscutibile stato di necessità dovrebbe indurre a salvarli, è inammissibile”.

Per Andreotti non aveva alcun senso lo scambio di prigionieri, in quanto, secondo lui, non esisteva alcuna “guerra”, nell’accezione classica del termine, contro i terroristi, che non potevano essere riconosciuti come “veri nemici”, al pari di una “nazione”, e che, per tale motivo, sarebbero stati, prima o poi, sicuramente sconfitti, avendo un consenso nazionale irrisorio.

Secondo lui l’unico istituto giuridico che, in quell’occasione, si poteva usare era la grazia presidenziale, ma proprio la sofferenza delle vittime del terrorismo lo impediva, e infatti Giovanni Leone non la concesse, anche se all’ultimo momento pare fosse stato disposto a firmare un provvedimento di clemenza nei confronti di un estremista di sinistra. La grazia, peraltro, doveva presupporre – secondo Andreotti – il “perdono” degli offesi, cioè dei parenti delle vittime del terrorismo: cosa che in realtà non era mai stato concesso. (2)

Per giustificare il suo atteggiamento, Andreotti si avvale anche del fatto che “l’intero Parlamento” era sulla “linea della fermezza”. Qui in realtà sta mentendo, in quanto esisteva anche un “fronte possibilista”, nel quale spiccava Bettino Craxi e che comprendeva anche il Presidente del Senato Amintore Fanfani, l’ex Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat e il leader radicale Marco Pannella, incline a ritenere che un eventuale avvicinamento, allo scopo d’intavolare una trattativa per salvare la vita dello statista, non avrebbe svilito la dignità dello Stato.

Trattare coi terroristi avrebbe, secondo Andreotti, aperto la strada a una “infrenabile spirale di violenza”. Quindi, così dicendo, egli faceva capire, contraddicendosi sul piano logico, che il terrorismo andava considerato come un fenomeno gravissimo, che avrebbe potuto portare a una guerra civile o addirittura a una rivoluzione comunista. Appena poco prima aveva invece fatto vedere d’essere convinto che lo Stato fosse troppo forte per considerare le B.R. un nemico convincente. In altre parole, proprio mentre affermava che “lo scambio di detenuti rappresenta una soluzione non praticabile”, finiva con lo sopravvalutare appositamente l’effettiva pericolosità dei terroristi solo per poter eliminare uno scomodo avversario politico, ch’egli, in fondo, non aveva mai sopportato.

A ciò aggiungeva considerazioni umanitarie abbastanza pretestuose, in quanto, affermando di non potersi concedere la grazia istituzionale neppur a un solo terrorista, perché i parenti delle vittime, rifiutando di perdonare gli assassini, non l’avrebbero capita, finiva col subordinare gli interessi politici di un intero Stato ai sentimenti privati di alcuni suoi singoli cittadini. Moro, in una lettera alla moglie, qualificherà il comportamento del suo partito come “assurdo e incredibile”. Da notare che Andreotti non prevede neppure la possibilità di salvare Moro pagando un riscatto in denaro, come poi avverrà nel caso di Ciro Cirillo, componente della direzione nazionale della Dc, ostaggio delle B.R. nel 1981. Lo stesso Vaticano pare avesse intenzione di versare una forte somma di denaro.

Ci vollero altre due settimane, dopo l’appello del papa, prima che le B.R. ammazzassero Moro. Il governo confidava unicamente nel fatto che l’avrebbero dovuto liberare senza condizioni; col che i terroristi avrebbero dovuto ammettere la loro sconfitta politica nei confronti dello Stato. All’ultimo momento, in verità, la direzione della Dc incaricò il presidente del Senato, Amintore Fanfani, di fare un discorso aperto alla trattativa, ma tutti sapevano che ormai era troppo tardi.

Le B.R., abituate a ragionare in termini esclusivamente politici, non l’avrebbero mai liberato sulla base di semplici considerazioni umanitarie. Quindi, in un certo senso, la Dc e il Pc (ma anche molti partiti minori) le spingevano a restare coerenti sino in fondo, affinché dimostrassero, con la loro brutalità, di non meritare alcun consenso politico. Moro andava sacrificato sull’altare dell’anticomunismo. Gli stessi comunisti lo volevano, preoccupati di dimostrare che la loro ideologia era completamente diversa da quella delle B.R.

L’ultima punta di malignità perversa, in questa vicenda riportata nel suo libro, Andreotti la riserba allo stesso Moro, dicendo che “da quando ci sono i terroristi in azione non mi è consentito di andare nei cinema pubblici come Moro faceva con tanta soddisfazione e disinvoltura” (p. 137). Qui vuol far passare Moro per un “amico” dei terroristi, o per una persona che i terroristi ritenevano meno pericolosa di lui sul piano politico. E’ come se gli volesse togliere il diritto a considerarsi “martire” o “eroe”. Il suo coraggio ad accettare il “compromesso storico” coi comunisti andava soltanto considerato come un avventurismo irresponsabile, che avrebbe portato il paese alla catastrofe.

Vengono qui in mente le parole di Caifa, quando disse: “E’ meglio sacrificare uno solo piuttosto che perdere la nazione intera”. E fu così che Israele perse sia il suo leader politico più prestigioso che la stessa nazione.

Note

(1) Il rapimento del sostituto procuratore della Repubblica Mario Sossi, nel 1974, fu considerato la prima azione eclatante delle B.R. e la “prova generale” per il sequestro Moro. Sossi era un magistrato di destra e aveva processato il gruppo politico di estrema sinistra “XXII Ottobre” per alcune azioni terroristiche. Quando le B.R. lo rapirono, chiesero, in cambio della sua liberazione, la scarcerazione di otto detenuti del gruppo suddetto. Cosa che in effetti fu lì lì per avvenire tramite la Corte d’Assise di Genova, che concesse d’ufficio la libertà provvisoria agli otto detenuti e il nulla osta per il loro passaporto. Senonché il procuratore della Repubblica Francesco Coco ritenne di dover pretendere, per la concessione delle condizioni dei brigatisti, la liberazione preventiva di Sossi. In quel caso le B.R. decisero di accettare. Ma siccome Coco si rifiutò poi di liberare i detenuti, le B.R. lo assassinarono a Genova l’8 giugno 1976, insieme a due uomini della scorta.

(2) Nell’agosto 1991, Francesco Cossiga, Presidente della Repubblica, ch’era stato, al tempo del delitto Moro, sulle medesime posizioni di Andreotti, propose di concedere la grazia a Renato Curcio, brigatista condannato come mandante dell’omicidio di Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci. In quell’occasione anche Andreotti concordò con Cossiga, anche se poi della proposta non se ne fece nulla.

Il giudice della Cassazione Antonio Esposito ha sbagliato. Punto.

Che il magistrato Antonio Esposito abbia sbagliato non ci piove. A mio avviso bene farà il Consiglio Superiore della Magistratura (CSM) a sanzionarlo in qualche modo, ammonendolo o trasferendolo. Giudice della sezione della Cassazione che nei giorni scorsi ha confermato la nota condanna di Silvio Berlusconi a quattro anni di detenzione, Esposito è stato così sprovveduto, ingenuo, imprudente e scorretto da accettare di conversare al telefono con un giornalista riguardo le motivazioni della sentenza nonostante la Cassazione non le renderà note prima di un paio di mesi. E, come se non bastasse,  tale giornalista ha anche autorizzato a pubblicare come sua intervista il testo con le domande e le risposte inviatogli via fax. Che poi tale giornalista sia “una persona che conosco da 35 anni” non fa che peggiorare le cose. Esposito non è stato “tradito da un amico”, ma dalla propria leggerezza e dabbenaggine.

Detto questo, e senza minimizzare la gravità dell’episodio né dimenticare l’obbligo dei magistrati di parlare solo attraverso le proprie sentenze, c’da chiedersi se il giornalista in questione abbia o no commesso un illecito, anzi due. Il primo avere pubblicato come intervista un testo diverso da quello inviato per l’approvazione a Esposito. Posso io pubblicare un’intervista a Berlusconi nella quale aggiungo come sue alcune affermazioni utili a sputtanarlo? Non credo che Il Giornale, Libero e le tre reti Mediaset sarebbero contente. Neppure lo stesso Berlusconi, immagino. O no? Continua a leggere

Rovesciare la piramide

La differenza tra una politica “istituzionale” e una “popolare”, cioè tra una politica che vuole gestire il potere e un’altra che cerca di difendersi dai suoi privilegi e dalla sua arroganza, sta nel fatto che quella istituzionale associa la politica all’etica in maniera del tutto formale, cercando di abituare i cittadini a fare altrettanto. Ecco perché in un paese come il nostro la corruzione, vista dall’esterno, sembra essere diffusa a livello nazionale, e non solo in estensione ma anche in profondità.

La popolazione è cioè indotta a credere che, anche quando rivendica dei diritti, è sempre meglio non uscire dal “sistema”. Continuamente infatti ci viene detto che del sistema si possono cambiare singoli aspetti, ma non la struttura portante, proprio perché essa non ha alternative. In tal senso quando la politica istituzionale parla di “Repubblica parlamentare” o “presidenziale”, di Stato “centralista” o “federato”, sta parlando solo di forme, non di sostanza.

Quando lo scollamento tra forme e sostanza, ovvero tra politica ed etica, è molto forte, inevitabilmente si comincia a parlare di riforme. Ora, poiché il sistema offre un tipo di politica il cui legame con l’etica è solo apparente, le alternative che si presentano, quando si vogliono fare le riforme, sono soltanto due: o estendere i privilegi della casta politica ed economica a una fetta maggiore di popolazione, facendo pagare questo trasferimento di benefici agli strati sociali più deboli, interni e/o esterni ai confini di un determinato Stato; oppure fare dell’etica un motivo sufficiente per rovesciare il sistema, ponendo i presupposti per un nuovo stile di vita.

Nella storia degli ultimi 6000 anni si è scelta, in genere, la prima alternativa. Basta fare un esempio arcinoto: il passaggio dalla repubblica all’impero romano. Quella è stata una forma di presidenzialismo che, avvalendosi della democratizzazione degli eserciti e di una maggiore efficienza della burocrazia, voleva porre un argine allo strapotere dei senatori-latifondisti e che invece inaugurò un lunghissimo periodo di dittatura militare, che riuscì a crollare solo in seguito alle invasioni barbariche.

Dunque fino a che punto possono interessare alla popolazione le riforme istituzionali? È evidente infatti che una casta non può riformare se stessa. Quando la politica è sganciata dall’etica, qualunque riforma rischia solo di peggiorare le cose, anche se all’apparenza non sembra così. Il sistema infatti peggiorerà le cose proprio avvalendosi delle esigenze rivendicative di taluni ceti marginali, oppressi o discriminati. Sarebbe bene quindi sapere sin da adesso che cosa fare per ridurre al minimo il rischio d’essere beffati.

La società deve prepararsi a rovesciare la piramide. Cioè a far sì che sia pronta ad autogovernarsi, abolendo la separazione di etica e politica, eliminando progressivamente le strutture statali, a vantaggio delle autonomie locali, trasformando la proprietà dei mezzi produttivi da privata a pubblica, facendo della comunità locale il luogo fondamentale in cui far maturare la democrazia diretta.

La società deve riappropriarsi di se stessa, smettendo d’essere “eterodiretta”, cioè gestita da corpi estranei, il cui funzionamento essa non è in grado di controllare, come per esempio gli Stati e i mercati.

Per realizzare un obiettivo del genere ci vogliono virtù che il potere, abituato alla corruzione, non conosce assolutamente. Queste virtù o saranno tragiche circostanze a farcele maturare o dovremo darcele da soli, anticipando i tempi, cioè videndole come se i tempi della transizione fossero già maturi. Al momento di sicuro sappiamo che, senza di esse, non si potrà far nulla di decisivo.

Separare ragione e fede

Ragione e fede devono per forza restare separate, così come la chiesa, anzi le chiese dallo Stato, poiché la fede non può obbligare la ragione a credere in cose indimostrabili. Certo, anche la ragione può credere in cose indimostrabili, ma non deve farlo perché glielo chiede la fede. Semplicemente fa parte della natura umana credervi: che si sia amati dal proprio partner o che l’universo sia eterno e infinito, non può certo essere dimostrato razionalmente, eppure, non per questo, pensiamo d’essere affetti da misticismo.

Il campo della fede dovrebbe essere tutto quello che non si può dimostrare razionalmente e in cui ci si può credere senza alcun obbligo di farlo. E, in tal senso, non dovrebbe essere di pertinenza della sola religione, ma anche dell’etica e della morale laica. Ecco perché una fede politicizzata o una chiesa che voglia svolgere una funzione di supplenza nei confronti dello Stato, sono aspetti del tutto estranei alla democrazia e quindi alla libertà di coscienza.

Con questo non si vuole affatto dire che una società in cui esistesse solo lo Stato e nessuna religione, sarebbe, solo per questo motivo, più democratica. E non si vuol neppur dire che una società deve esistesse solo una fede, sarebbe più antidemocratica di quella in cui esistesse solo la ragione. La democraticità di una società è questione pratica, non teorica, cioè va dimostrata di volta in volta, anche se resta fuor di dubbio che non c’è democrazia là dove manca la libertà di coscienza, che è quella di credere o non credere nel valore di determinate cose, o – se si preferisce – in ciò che si vuol far passare come “vero”.

Ritenere che la verità sia un’evidenza in cui si “deve” (per forza) credere, o per fede o secondo ragione, è una pretesa insensata, poiché non c’è nulla che sia evidente di per sé. Persino il fatto di esistere è relativo, in quanto la morte potrebbe essere solo una trasformazione da una condizione di vita a un’altra.

L’ideale sarebbe che non esistessero affatto le istituzioni, poiché è il concetto stesso di “istituzione” (laica o ecclesiastica che sia) che induce a credere che la verità sia un’evidenza.

Facciamo un esempio molto banale: quello degli incroci stradali, così frequenti nelle città. Un tempo erano i vigili che decidevano quando un automobilista doveva passare. Esercitavano un potere secondo coscienza. Ci si doveva affidare al loro buon senso e alla loro intelligenza. Poi vennero i semafori, per risparmiare sul personale e per non obbligarlo ad ammalarsi d’inquinamento. Ma i semafori sono schematici: hanno una regolamentazione predeterminata una volta per tutte, e non possono tener conto delle reali esigenze del momento. Invece di agevolare il traffico, i semafori lo intasavano, portando lo stress a livelli insostenibili, tanto che, ad un certo punto, furono sostituiti dalle rotonde. Era il trionfo dell’autonomia decisionale. L’automobilista diventava prudente per libera scelta, dovendo rispettare soltanto la regola che chi è già dentro la rotonda ha la precedenza.

Ma perché c’è voluto così tanto tempo prima di capire che bastava un piccolo accorgimento per potersi autogestire? Il motivo sta nel fatto che noi viviamo in società dominate da istituzioni, le quali vogliono far credere che le cose funzionano solo quando le decisioni vengono prese dall’alto. Le istituzioni non si fidano dei cittadini, né della democrazia e tanto meno della libertà di coscienza, per quanto ci si voglia far credere ch’esse siano preposte proprio a questo.

Le istituzioni sono nate quando una piccola minoranza le ha volute per imporsi sulla grande maggioranza. Le loro regole cambiano soltanto quando la grande maggioranza non ne può più, cioè non quando iniziano ad apparire sbagliate determinate decisioni di vertice, ma proprio quando la loro assurdità ha raggiunto livelli assolutamente insopportabili. Ecco perché il progresso a favore della democrazia e della libertà di coscienza è così incredibilmente lento. Le istituzioni devono prima convincersi che i cambiamenti di forma non pregiudicheranno la sostanza del privilegio. I mutamenti sono veloci solo quando scoppiano le rivoluzioni, che però, purtroppo, vengono facilmente tradite.

Ora però torniamo al punto di partenza. Perché oggi diamo per scontato che ragione e fede debbano marciare separate? Qui la motivazione non può che essere di natura storica. Se nel passato l’esperienza della fede avesse soddisfatto le esigenze umane (di giustizia, di libertà, di sicurezza, di autenticità, ecc.), è evidente che la ragione non avrebbe chiesto di agire autonomamente. Ciò però non toglie che, storicamente, non sia accaduto anche il contrario, e cioè che la fede sia sorta in seguito a un cattivo uso della ragione. La fede nel non-razionale, in altre parole, può essere emersa quando un uso arbitrario della ragione ha reso la vita molto difficile, facendo apparire irrisolvibili le sue contraddizioni.

In un certo senso la fede appare come una ragione rassegnata al male, che spera di poterlo risolvere solo in una dimensione ultraterrena. Tuttavia gli uomini “ragionevoli” possono anche stancarsi di questa rassegnazione e prendersi la loro rivincita sugli uomini di chiesa.

Ecco, a questo punto vien d’obbligo chiedersi: perché ancora oggi la fede sussiste? La risposta va cercata unicamente nelle modalità in cui la ragione ha cercato di vivere la propria emancipazione. Se queste modalità non erano davvero democratiche e quindi rispettose della libertà di coscienza di ogni essere umano, appare del tutto naturale che si continui ad avere un atteggiamento di fede. Non è dunque la fede che impedisce alla ragione di svilupparsi, ma è la stessa ragione che non riesce a trovare in sé motivi sufficienti, anzi, modalità adeguate per diventare sempre più democratica.

La fede è come un sadico che gode quando vede fallire i tentativi che la ragione compie per essere libera. Assomiglia a quegli animali opportunisti che si avventano sulle loro prede quando le vedono in gravi difficoltà. In realtà la vera fede è quella che vive la ragione senza concedere nulla alla religione. È inammissibile che, a causa della naturale fede o fiducia umana, si possa formare una casta privilegiata chiamata “clero”, sia esso laico o ecclesiastico. E tanto più lo è il fatto che, in presenza di tali caste, ci si chieda di credere nelle istituzioni per risolvere i problemi che quelle stesse caste hanno creato o che impediscono, solo per la loro presenza, di risolvere.

Ateo è bello ma non banale

Sul n. 5/2013 di “MicroMega” (Ateo è bello!), interamente dedicato all’ateismo, la Presentazione di Paolo F. D’Arcais merita d’essere commentata. Proprio perché di alcuni luoghi comuni in materia di ateismo non se ne può più, soprattutto da parte degli intellettuali.

Continuare a ribadire che devono essere i credenti a esibire “prove” della loro fede, quando ormai il concetto di “prova” è stato di molto ridimensionato dalla stessa scienza contemporanea, nel senso che nessuno può vantarsi d’averne in maniera inconfutabile, è quanto meno un segno d’arretratezza culturale. L’esempio del Sole che, sin dal tempo degli eliocentristi perseguitati dalla chiesa, sta lì nel mezzo mentre la Terra gli gira attorno, come volevasi appunto “dimostrare”, è ridicolo: sia perché anche il Sole si muove insieme a noi, sia perché sul piano pratico la cosa è abbastanza indifferente all’uomo comune, sia perché, infine (e questo lo dice Wittgenstein, che credente non era), non c’è nulla sul piano logico che obblighi il Sole a risorgere una volta tramontato.

D’Arcais afferma che “il ricorso alla parola ‘mistero’ è impraticabile in ogni discussione razionale”. Bene, così abbiamo fatto un bel regalo alla religione: l’unica titolata a parlarne! Chissà che tipo di parola dovremo trovare per definire quel 90% di materia di cui ancora non sappiamo un fico secco.

Servirsi poi delle argomentazioni ingenue dei classici filosofi greci, le quali ritenevano incompatibile la presenza di un dio assoluto con la presenza di un male così radicato sulla Terra, è quanto meno puerile: qualunque religione un po’ scafata obietterà che dio non può violare il libero arbitrio, altrimenti si sarebbe limitato a creare animali non esseri umani. Un qualunque credente arriva molto facilmente a sostenere l’esistenza di dio, proprio partendo dal fatto che l’azione umana, nonostante il male compiuto, alla fine rientra sempre in un progetto salvifico più generale. Semmai a un credente del genere si potrebbe far presente che proprio l’esistenza del male dimostra, seppur negativamente, ch’esiste un “dio” chiamato “uomo”, l’unico essere dell’universo che compie il male contro il proprio istinto di bene, e che non ha bisogno di nessun altro dio per comportarsi diversamente.

Invece D’Arcais preferisce parlare di “caso e contingenza”, che per essere smentiti avrebbero bisogno di un “determinismo assoluto e onnipervasivo”, che per fortuna – dice lui – nella realtà non esiste. E’ ridicolo. Il caso ovviamente esiste, ma ha un ruolo determinato, entro un certo ventaglio di possibilità: come scegliere una carta nel mazzo. Se il caso fosse assoluto, sarebbe relativa qualunque parola usassimo per definirlo. Ed è curioso che un atteggiamento che si presume “scientifico” attribuisca al caso l’origine di tutto. Se c’è una categoria che la scienza dovrebbe detestare è proprio quella della “casualità”: infatti, proprio nel momento in cui la usa, smette d’essere “scientifica” e diventa “filosofica”.

E’ assoluta o relativa la libertà di coscienza? Se relativa, perché ci diamo così tanto da fare per tutelarla? perché addirittura morire per difenderla? Quando lo fanno i credenti, dobbiamo pensare che a ciò siano meno legittimati, in quanto il dio della loro rivendicazione è qualcosa di indimostrabile? La libertà di coscienza non è forse fonte di una morale umana universale, a prescindere dalle sue pratiche realizzazioni, sulle quali comunque è sempre bene confrontarsi?

“L’azione del ‘caso’ rende imprevedibile l’esito”, dice D’Arcais. In che senso? Nessun esito può essere così imprevedibile da violare le leggi di natura. O forse, per togliere ai credenti l’idea di creazione predeterminata, vogliamo negare che l’essere umano sia soggetto a leggi di natura, indipendenti dalla sua volontà? Non è certo un caso che mutazioni genetiche avvengano in popolazioni che non praticano l’esogamia o che sono sottoposte a inquinamenti ambientali. Davvero “il caso esclude il finalismo”? Davvero è così assurdo pensare che un puntino insignificante dell’universo, chiamato Terra, possa pretendere, all’interno di tale contenitore, d’avere uno “scopo” e un “senso”? Anche l’embrione umano appena concepito è, nell’utero, un puntino insignificante. Anche il Tirannosauro nell’uovo che l’ha generato. E allora?

E con quale sicurezza si può sostenere che “tutte le facoltà che chiamiamo ‘spirituali’ cessano con la morte”? E se fosse la “morte” a non esistere? Come possiamo sapere che questa non sia soltanto una parola imprecisa con cui cerchiamo di definire un “trapasso naturale” da una condizione a un’altra? Quando mai nell’universo si può parlare di “morte” senza parlare, nel contempo, di “trasformazione”? L’antimateria esiste, eppure noi non la vediamo: gli scienziati si limitano a supporla, e nessuno ha l’ardire di definirli “credenti” solo per quest’ammissione di ignoranza.

Per concludere. Quando si dialoga coi credenti è meglio partire dal presupposto che non esiste “prova” che non possa essere smentita. Più che aver la pretesa di “dimostrare” qualcosa, dovremmo limitarci a “mostrarla”, usando sì argomentazioni a supporto, ma senza privilegi di esclusività. Le cose assumono significati diversi a seconda delle circostanze di spazio e tempo e del punto di vista con cui o da cui vengono osservate, benché non si possa escludere l’esistenza di leggi di natura, universalmente valide.

Dobbiamo accontentarci di argomentazioni che rendono soltanto plausibili determinate affermazioni, cioè ragionevolmente possibili, senza che ciò comporti alcuna forma di misticismo, laica o religiosa che sia. Non possiamo rischiare di assumere un atteggiamento “mistico” anche nei confronti dello stesso concetto di “prova”, col risultato di fare della scienza una nuova religione. Un’evidenza che presuma di auto-dimostrarsi è una semplice tautologia, avente quindi un contenuto semantico poverissimo. In campo astronomico la parola “mistero” non è l’eccezione ma la regola. Ma anche in campo medico, quando le guarigioni vengono ottenute per cause psichiche.

Il mistero fa parte della natura in generale e di quella umana in particolare, in quanto, in ultima istanza, resta sempre qualcosa d’insondabile nella natura delle cose, ed è proprio questo aspetto che stimola la ricerca e permette alle cose di assumere forme o fisionomie sempre diverse. Non c’è mai nulla di uguale a se stesso.

E’ assurdo pensare che le popolazioni del passato, solo per il fatto di non avere le nostre stesse conoscenze, non fossero “razionali”. Non ha alcun senso sostenere che è “vero” solo ciò che è empiricamente dimostrabile. Questo è fanatismo scientifico. Neppure l’amore tra due persone è “dimostrabile” empiricamente, eppure diciamo di non aver dubbi a riguardo. Qualunque risposta a qualunque perché “ontologico” resta scientificamente indimostrabile. Dobbiamo elaborare un altro concetto di “scienza”, più legato non tanto alla tecnologia quanto alle profondità dell’umano, che sono poi le stesse della natura.

La resistibile ascesa grazie ai vari Veltroni e l’indecorosa caduta del Cavaliere per antonomasia



[Didascalia della foto: come si vede, la trippa del Cavaliere non solo deborda, ma si piega in avanti come la panza di Giuliano Ferrara. Chissà la goduria anche estetica della fidanzata Francesca Pascale, una vecchiaccia di 27 anni, nell’intimità con il giovanissimo Silvio di appena 49 anni più di lei.]

“La Rivoluzione Berlusconi è di gran lunga la più importante, cui ancora qualcuno si ostina a non portare il rispetto che merita per essere stato il principale agente di modernizzazione, nelle aziende, nelle agenzie, nei media concorrenti. Una rivoluzione che ha trasformato Milano in capitale televisiva e che ha fatto nascere, oltre a una cultura pubblicitaria nuova, mille strutture e capacità produttive”. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano difficilmente sottoscriverebbe anche oggi queste parole apparse nell’ormai lontanissimo 1986 sul periodico Il Moderno, organo della corrente “migliorista” del Partico comunista italiano della quale lui era il leader. Oggi siamo arrivati al punto che lo stesso Napolitano viene spintonato per evitare che Berlusconi sia trattato come un cittadino italiano anziché come un satrapo medioevale.

Ma come si è arrivati a questo punto? Cercare di capirlo è davvero istruttivo. Prima però osserviamo alcune cose delle ultime ore. Continua a leggere

Uno strano terzetto: Matteo Renzi e i suoi consiglieri Yoram Gutgeld e Davide Rocca

Matteo Renzi sarà anche la carta vincente del Partito Democratico, ma sta dicendo qualche banalità di troppo. Giorni fa per esempio ha dichiarato: “Per me è più di sinistra pensare a chi non ha lavoro che discutere delle tutele più o meno corrette per chi invece il lavoro ce l’ha. So che non è la linea della Cgil e che parte del gruppo dirigente della Cgil mi detesta. Ma la penso così”. L’affermazione suona bene, ma è illogica di per sé per un paio di motivi.

Il primo motivo è che i sindacati si occupano giustamente degli occupati, cioè di chi ha un lavoro, oltre che dei cassintegrati e dei licenziati, cioè di chi il lavoro ce l’ha ma ne è temporaneamente sospeso e di chi il lavoro lo aveva ma non ce l’ha più. I sindacati non possono certo occuparsi dei disoccupati che un lavoro non l’hanno ancora avuto, altrimenti non sarebbero dei sindacati, bensì dei partiti o dei movimenti. E’ come dire che una banca deve preoccuparsi non solo e non soprattutto dei risparmi dei propri correntisti e di chi comunque vi ha depositato i propri quattrini, ma di chi con essa nulla ancora ha a che vedere.

Con un paragone che certo Matteo Renzi può capire al volo, è come dire che lui, sindaco di Firenze, debba occuparsi anche dei non fiorentini. Certo che può occuparsi anche dei non fiorentini, dai palermitani ai torinesi, ma cambiando mestiere: come parlamentare e non come sindaco. Per giunta, come parlamentare che, contrariamente al solito, non si limiti a curare il proprio orticello elettorale e gli interessi dei propri elettori. Continua a leggere