Evoluzione o decrescita?

L’evoluzione è un concetto molto relativo, come quello di progresso. Sembra che la si debba intendere come un processo che va da un aspetto inferiore verso uno superiore. Ma già questo modo astratto è fuorviante.

I concetti di “inferiore” e “superiore” sono quanto mai condizionati dal contesto in cui vengono formulati. Per noi per esempio è “inferiore” vivere soltanto a contatto con la natura, mentre è “superiore” essere dotati delle più moderne tecnologie.

L’uomo primitivo avrebbe però potuto dirci che, dovendo essere dipendenti da qualcosa, è sempre meglio scegliere la natura. Probabilmente ce l’avrebbe detto anche se avesse potuto conoscere l’uso che facciamo dei nostri strumenti di lavoro e di comunicazione.

Oggi infatti abbiamo a che fare con una tecnologia così complessa che pochissime persone sono davvero in grado di padroneggiarla. Per la sua periodica manutenzione noi abbiamo sempre bisogno di un tecnico specializzato.

Viceversa l’uomo primitivo era in grado di fare qualunque cosa, e non perché avesse un basso livello di tecnologia (ogni cosa va rapportata al suo contesto), quanto perché i mezzi erano sufficienti per vivere un’esistenza appagante, in cui non ci si sentiva frustrati per ogni inconveniente.

Quindi è difficile parlare di evoluzione: bisogna prima intendersi sul significato delle parole. E’ stato forse un progresso essere passati dalla fitoterapia alla medicina di sintesi? Abbiamo certamente sconfitto molte malattie, ma quante altre ne abbiamo introdotte? E siamo proprio sicuri che le malattie sconfitte siano sempre esistite? O lo diciamo soltanto per giustificare la nostra artificiosità? Al tempo di Colombo tante malattie che gli europei consideravano naturali, erano del tutto sconosciute agli amerindi.

Dire “coscienza evoluta”, dal punto di vista tecnologico, non vuol dire assolutamente nulla. Nessuna società avanzata sul piano scientifico riuscirebbe a sopravvivere se non avesse un rapporto iniquo col cosiddetto “Terzo mondo” e un rapporto dispotico con le risorse naturali. Lo sviluppo della tecnologia ci ha portati a dominare il pianeta, non a essere eticamente migliori.

Una vera “coscienza evoluta” può essere soltanto quella che vuole ripristinare un rapporto diretto con la natura. Questo significa però fare piazza pulita degli ultimi seimila anni di storia. Infatti tutta la storia delle civiltà non ci serve assolutamente a nulla per capire la profondità della nostra coscienza. Dobbiamo tornare a studiare gli stili di vita dell’uomo primitivo, perché solo quelli salveranno l’umanità dalla desolazione.

“Coscienza evoluta” significa fermarsi e tornare indietro. Qualcuno la sta chiamando “decrescita”. Bisogna uscire quanto prima dal sistema, rioccupare le terre abbandonate, recuperare i mestieri perduti, valorizzare le risorse del territorio locale, tornare all’autoconsumo, gestire in maniera collettiva i mezzi produttivi.

La “coscienza evoluta” è quella che ci fa tornare alla semplicità, all’immediatezza, alla trasparenza dei rapporti tra noi e tra noi e la natura. Dobbiamo avere il coraggio di farlo e certamente da soli, come singoli, non vi riusciremo mai.

Mario Monti l’Arcitaliano

E dunque alla fine Mario Monti nonostante il loden e la valigia con il trolley si è rivelato più italiano che anglosassone. Anzi, s’è rivelato proprio il classico Arcitaliano, per usare un termine caro a Giuliano Ferrara, che di arcitalianità se ne intende al punto da avere coniato il termine e da usarlo come suo soprannome nella sua rubrica sul settimanale Panorama. Arcitaliano e quindi anche discretamente vanesio. Chi accetterebbe che il dentista una volta quasi completati i lavori per i nostri denti pretendesse di continuare a occuparsene anche se abbiamo forse deciso di cambiare dentista cercandone uno più bravo e/o meno costoso? E chi accetterebbe che l’architetto o l’impresario edile una volta quasi terminata la ristrutturazione della nostra casa pretendesse di continuare a occuparsene, per giunta in coabitazione con noi, anche se abbiamo deciso di cercarne di meglio o meno cari? Certamente nessuno accetterebbe tali eventuali invasioni di campo, decisamente impensabili. Mario Monti invece più o meno questo sta facendo. Il che dimostra che non è del tutto vero che lui è un tecnico prestato alla politica per necessità di quest’ultima. Se lo fosse accetterebbe di passare la mano, con i nostri sentiti ringraziamenti, accettando quanto deciso dai padroni della dentatura e di casa con annesso guardiano, vale a dire dal parlamento e dal presidente della Repubblica. Invece ha deciso di restare in politica e mettere in piedi una coalizione di centro. Che porterebbe via voti sia alla sinistra che alla destra e lo metterebbe forse in grado di restare a palazzo Chigi. Evidentemente a Monti il premio d’ingaggio pagato come anticipo per le sue prestazioni da tecnico, cioè la nomina a senatore a vita, non è bastato.

Il contenitore e il suo contenuto

La coscienza umana, nella sua assoluta profondità, è insondabile, persino a noi stessi.

La conoscenza che abbiamo delle sue caratteristiche è invece relativa, nel senso che può aumentare o diminuire a seconda delle circostanze, sociali e personali.

Possiamo scoprire in noi degli stati d’animo, dei sentimenti, delle facoltà di scelta grazie non tanto a delle nostre riflessioni personali, quanto piuttosto a delle relazioni sociali.

Sono proprio nelle relazioni sociali che ci aiutano a capire meglio noi stessi: sia che gli altri siano individui positivi, che ci fanno vivere meglio la vita e quindi comprendere meglio le nostre risorse; sia che gli altri siano individui negativi, che ci traggono in inganno e ci fanno compiere azioni che non avremmo dovuto fare e che non avremmo mai pensato di fare. In questo secondo caso dobbiamo essere abbastanza intelligenti da capire in che modo un’esperienza da negativa può diventare positiva.

Le riflessioni personali, introspettive, sono tanto più ricche quanto più profonde sono le relazioni sociali. La controprova di questo è data dal fatto che le persone isolate tendono a ripetere sempre le stesse cose, a fissarsi su determinate idee o abitudini, fino a diventare maniache, ossessive.

Noi non siamo fatti per stare soli, tant’è che quando andiamo a cercare un po’ di pace nella solitudine, ci annoiamo molto presto e abbiamo persino bisogno d’inventarci delle cose da fare, coltivare degli interessi particolari o anche solo degli hobby, con cui far passare il tempo.

Ovviamente una qualunque relazione personale è sottoposta ai condizionamenti oggettivi di una determinata società o, se si preferisce, è delimitata dalle condizioni storiche di una certa epoca.

E’ indubbio, p. es., che la grande capacità tecnologica dei mezzi di comunicazione di massa ha oggi ridotto di molto l’esigenza di avere ampie relazioni sociali. Gli individui, sempre più soli, s’interfacciano col mondo esterno attraverso la mediazione di canali televisivi (che fino a sessant’anni fa erano solo radiofonici e cinematografici).

Oggi addirittura si pensa di ovviare a questa anomalia comportamentale, tipica di tutte le società tecnologicamente avanzate, accedendo alle cosiddette “reti telematiche”, di cui i “social network” rappresentano la quintessenza più significativa. La magia dell’interazione utente, da viversi in tempo reale con persone in capo al mondo, fa illudere enormemente sulla capacità di stabilire effettive relazioni sociali: si finisce col confondere il reale col virtuale.

In ogni caso per una coscienza sociale insondabile come la nostra ci vuole uno spazio adeguato, una comunità di persone che potenzialmente sia infinita. Certo, possiamo accontentarci di vivere in una piccola comunità, che, anche quando piccolissima (come per esempio quella del rapporto di coppia), è sempre meglio della solitudine. Però vogliamo essere sicuri che alla comunità non venga mai negata la possibilità di conoscere nuove persone. Ci piacciono le novità, ci stimolano a riflettere, ampliano i nostri orizzonti cognitivi, le nostre competenze e abilità.

Ora, è evidente che quanto più andiamo in profondità, tanto più la nostra coscienza avverte che lo spazio attorno a sé è insufficiente, come lo avverte il feto, che ad un certo momento si posiziona per uscire.

Ma per una coscienza insondabile, della cui profondità infinita abbiamo sempre più consapevolezza, quale può essere il luogo più adatto per sentirsi adeguata? Cioè per avvertire che le sue possibilità di scelta sono illimitate? Non esiste altro luogo che l’universo, le cui dimensioni geo-fisiche sono per noi del tutto incommensurabili.

L’unico modo in cui un contenuto possa esprimersi in maniera conforme alla propria profondità, o possa comunque sentirsi potenzialmente idoneo a vivere secondo le proprie possibilità, è quello di esistere in un contenitore illimitato per estensione.

La coscienza, in altre parole, ha bisogno di sapere che lo spazio in cui chiede di vivere non ha limiti che essa stessa non si ponga. Le infinite possibilità di relazioni, per costruirsi un’identità, possono essere ridotte a un nulla solo se la coscienza desidera vivere nella solitudine. Nessuno potrà essere impedito dal vivere come un eremita, ma bisognerà comunque metterlo nelle condizioni di non volerlo fare soltanto come forma di protesta, cioè come opposizione individuale a delle relazioni fasulle. Se l’inferno esiste, deve esistere solo per chi lo vuole.

Se questo è possibile, chiunque si rende facilmente conto:

  1. che tra il nostro pianeta e l’universo le differenze non sono di sostanza, ma solo di forma;
  2. che la dimensione umana è l’unica ad essere adeguata all’universo, avendo analoghe caratteristiche;
  3. che la legge fondamentale dell’universo, in grado di sintetizzare tutte le altre, è la libertà di coscienza.

La violenza umana e animale

La violenza tra esseri umani è intollerabile. Siamo tutti parte di un’unica specie, suddivisa in due generi. Persino tra gli animali di una stessa specie non si vede mai una lotta così furibonda da determinare l’estinzione dell’avversario o anche solo una sua distruzione significativa, né, tanto meno, una sua sottomissione forzata.

Generalmente tra gli animali bastano pochi scontri dimostrativi, a volte soltanto poche esibizioni minacciose, che raramente comportano la morte dell’avversario (tali scontri, come noto, accadono o durante la stagione degli amori o per esigenze alimentari, soprattutto quando queste diventano disperate).

Le specie animali tendono a rispettarsi nella reciproca autonomia e non s’è mai visto che una specie faccia di tutto per eliminare fisicamente le altre. La Terra viene vista dagli animali come più che sufficiente per vivere senza particolari problemi. Generalmente infatti i carnivori servono per impedire la sovrappopolazione agli erbivori, o per eliminare gli elementi più deboli o malati o incapaci di riprodursi. Se non ci fossero i carnivori, gli erbivori potrebbero avere seri problemi di sopravvivenza e potrebbero addirittura mutare la loro natura, uccidendosi tra loro per mancanza di cibo sufficiente o di spazio in cui riprodursi.

Il più delle volte i grandi problemi tra le specie animali sono causati dagli stessi umani, che le obbligano a vivere in territori sempre più ristretti o a incattivirsi nel cercare di difendersi per sopravvivere.

Non esistono animali rabbiosi, se non quelli che vengono addestrati dagli umani. Gli animali, in un certo senso, sono tutti pacifici: non possono conoscere l’odio, il risentimento, la collera, la vendetta… Non si può definire rabbioso un animale che caccia o si difende. Lo diventa piuttosto se lo si mette in una gabbia o lo si costringe a fare cose contronatura, come spesso vediamo in taluni allevamenti industriali o nei circhi o in certi esperimenti da laboratorio.

Gli animali vivono d’istinto e, anche quando pungono, mordono o azzannano, lo fanno senza passione emotiva. Non uccidono perché odiano, anche se, nel mentre lo fanno, possono provare l’ebbrezza della caccia, della cattura della preda o il piacere del sapore del cibo, cose che proviamo anche noi.

Siamo così disabituati a vedere gli animali in natura, che di loro ormai non sappiamo più nulla; non sappiamo più trarre insegnamento dai loro stili di vita, ma, anzi, pretendiamo d’imporre loro il nostro, pretendiamo di addomesticarli, sino al punto in cui possiamo anche arrivare a parlare con loro, convinti che ci possano capire.

Gli animali in realtà comprendono solo poche cose, molto chiare e distinte. Siamo noi umani che, quando li chiamiamo per nome, ci illudiamo che vengano da noi proprio perché hanno capito il significato delle nostre parole. Vivendo un’esistenza innaturale, ci comportiamo come esseri infantili.

Quando accarezziamo un animale, per dargli affetto, in realtà lo stiamo ricevendo. E’ come se stessimo accarezzandolo noi stessi. Quando ci sentiamo soli, cerchiamo nell’animale l’affetto che ci manca e ci illudiamo di riceverlo, anche perché è un animale addomesticato e facilmente continuerà a restare con noi, soprattutto perché l’abbiamo abituato a un riparo sicuro e a pasti regolari.

Chi ama troppo gli animali dovrebbe chiedersi se non sarebbe meglio investire la medesima energia su delle persone umane. Gli animali sono soltanto compagni della nostra vita: non sono soprammobili, né robottini a nostra disposizione. Quando li uccidiamo per alimentarcene, dovremmo poi fare come gli indiani del nord America: chiedergli scusa.

Noi siamo soliti dipingere alcune specie animali come assolutamente più feroci di noi: gli squali, i coccodrilli, gli orsi o i dinosauri (soggetti di tanti film e documentari), o più pericolosi di noi perché velenosi, come i serpenti, i ragni, le meduse…, ma in realtà non c’è nessun animale più feroce e pericoloso dell’essere umano. Non c’è nessun animale più egoista e violento dell’uomo. Possono esserci animali parassiti, opportunisti, approfittatori…, ma questi comportamenti, in genere, servono per la loro sopravvivenza o per riprodursi; non vi è alcun piacere personale a comportarsi così.

Dobbiamo smetterla di dire, quando un essere umano si comporta in maniera indegna, che è simile a un animale. Nessuna azione disumana può mai essere compiuta da un animale.

I peggiori alieni sono tra noi

Chiunque parli di alieni o di extraterrestri si deve rassegnare: non c’è nessun altro essere nell’universo che non sia “umano” o che non abbia “caratteristiche umane”. Tra essere umano e universo non vi è alcuna differenza di sostanza. Siamo tutti fatti di una medesima materia originaria e increata, da cui tutto dipende.

Possiamo considerare l’essere umano come l’autoconsapevolezza della natura, per cui, come non ha senso parlare di uomo senza natura, così non ha senso parlare di natura senza uomo. L’una senza l’altro è vuota, l’uno senza l’altra è cieco.

Qualunque problema noi si abbia, nessun altro può risolverlo se non noi stessi. Chiunque pensi che i nostri problemi siano così grandi da risultare per noi irrisolvibili o risolvibili solo per mezzo di “entità esterne”, s’inganna o è il malafede, sia perché non esiste alcuna “entità esterna” che non sia “umana”, sia perché nessun problema è irrisolvibile, anche perché non è la natura che crea problemi, ma solo l’uomo, usando male la libertà di cui dispone grazie appunto alla natura.

Credere negli alieni, in nome della scienza, è come credere nella divinità in nome della religione. Chiunque parli di alieni più intelligenti dell’essere umano o più pericolosi, lo sta facendo per impedire che i nostri problemi interni vengano risolti da noi stessi.

D’altra parte è da quando sono nate le civiltà che, di fronte ai propri drammatici conflitti sociali, che si acuiscono progressivamente, i poteri costituiti tendono a far dipendere da “motivazioni esterne” le cause di quei conflitti, nella convinzione che si possano più facilmente risolvere costruendosi l’immagine di un “nemico”, sempre molto pericoloso e privo di umanità.

Quando il nazismo dichiarò guerra alla Russia, tutti i tedeschi erano stati da tempo istruiti a credere che gli slavi in generale e i sovietici in particolare andavano sterminati e sottomessi proprio in quanto razza subumana, sottosviluppata, nei cui confronti di ogni atto di pietà o di generosità sarebbe stato interpretato come una forma di codardia, se non di tradimento nei confronti della propria patria.

Ancora oggi, quando assistiamo in televisione ai documentari in cui s’intervistano gli ultimi superstiti tedeschi di Stalingrado, li vediamo commossi per le perdite subite, affranti per non aver potuto salvare i propri compagni, disperati per la cocente sconfitta, al massimo adirati per l’incapacità dello Stato Maggiore di comprendere sino in fondo la gravità di quella situazione, ma non li vediamo mai pentirsi degli orrori compiuti in Russia, o criticare duramente la decisione di aver tentato di occupare quel paese. O comunque chi li intervista non li mette mai in condizione di riflettere sulla natura della guerra in generale e di quella imperialistica in particolare, proprio perché una qualunque nazione dell’Europa occidentale vuole apparire migliore di una qualunque nazione dell’Europa orientale, ne ha addirittura il “diritto”.

Naturalmente il potere non cerca mai di dipingere il nemico come migliore di sé, ma nelle società antagonistiche non si farebbe certo scrupolo di utilizzare per propri fini le convinzioni di quanti la pensano diversamente. Anzi, non è da escludere che sia proprio lo Stato a far credere che esistano forze oscure, misteriose, nei cui confronti bisogna prepararsi o ad accettarle o a combatterle. Le mistificazioni devono essere rapportate sia a un determinato livello di tecnologia che a un certo grado di secolarizzazione dei costumi.

in ogni caso, che questi alieni vengano considerati buoni o cattivi, se la gente pensa di non avere forze sufficienti per risolvere i propri problemi, inevitabilmente finirà col riporre ogni fiducia nei poteri dominanti. Alla fine si ripeterà quanto già visto nel racconto della creazione, in cui Adamo, dopo aver trasgredito l’ordine di non mangiare il frutto dell’albero della scienza, si giustificò dicendo ch’era stata Eva a farlo peccare. Al che Eva rispose: “E’ stato il serpente”.

Un furto ai danni della cultura o del profitto?

L’altro giorno ho acquistato le Lezioni sulla filosofia della storia, di Hegel. Non ho potuto fare a meno di notare che il testo non contiene solo tante sciocchezze mistiche, ma anche una di tipo giuridico che le supera tutte e che lo stesso grande filosofo tedesco, con la sua ferrea dialettica, avrebbe considerata insostenibile. L’ha scritta, bene in evidenza, lo stesso editore Laterza: “E’ vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno e didattico”.

Quindi nessuna piccola percentuale ammessa (in genere il 15%): è vietato riprodurre anche una sola paginetta, anche se questa servisse per farci un commento sopra. Tanto meno valgono le esigenze didattiche: quindi gli studenti delle Superiori non potranno mai leggere alcunché di un testo destinato a un pubblico universitario. Interdetta persino la possibilità di fotocopiare qualcosa per esigenze personali, neppure pagando i diritti alla Siae, che non sono previsti: i 28 euro vanno spesi tutti, eventualmente cercando di farseli scontare da parte di qualche libraio.

Ma l’avviso minaccioso, perentorio, non è finito. “Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale, purché non danneggi l’autore“. Il corsivo è dell’editore, il quale è caduto in un piccolo lapsus: infatti al posto di se stesso, ha messo la parola “autore”. Qui, in effetti, si parla non di “danno culturale”, bensì di “danno economico”, che sarebbe piuttosto relativo per l’autore, in quanto già docente universitario, fruitore di un congruo stipendio, che gli permette di vivere senza particolari problemi.

Una diffusione massiccia della sua opera non potrebbe in realtà che favorirlo, sia per la sua professione di filosofo e critico (in quanto cultore dell’idealismo hegeliano) che per la sua professione di traduttore dal tedesco.

L’unico a subire un danno davvero economico dall’uso delle fotocopie è dunque l’editore, che campa non “di” cultura ma “sulla” cultura degli altri, e che non ha evidentemente altri introiti. E siccome il libro è del 2012, bisogna dire, vista la grande preoccupazione dell’editore, che gli affari non gli stiano andando molto bene. Infatti deve essersi accorto che nelle facoltà universitarie vige la prassi di fotocopiare “interi libri”, e siccome non è interessato a sapere se i giovani abbiano da spendere 28 euro per un unico volume, in quanto dà per scontato che chi frequenta quegli ambienti abbia tutte le possibilità di farlo, stigmatizza quelli che diffondono la cultura a prezzi stracciati.

Dice questo come se la cultura debba essere fatta da un’élite per un’élite (vengono qui in mente gli ambienti democratici di Copenhagen quando accusavano Kierkegaard d’essere soltanto “uno scrittore per scrittori”). Strano che un editore intenzionato a fare profitti, ami vendere le sue edizioni a così poche persone e che non abbia trovato il modo di allargare democraticamente la propria clientela.

Non a caso l’avviso prosegue quasi con accento disperato: “ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza”. Qui il riferimento ovvio del “modo” è a quello “cartaceo”, che viene minacciato non solo dall’uso delle fotocopiatrici (nate negli anni Sessanta e che in vent’anni si sono imposte in tutto il mondo), ma anche e soprattutto dal digitale, che col primo scanner, nel 1985, ha prodotto un’incredibile rivoluzione tecnologica, che l’editore Laterza guarda con grande terrore. Stranamente, a dire il vero, poiché, essendosi sempre vantato d’aver diffuso la cultura e, nella fattispecie, tante opere di Hegel, dovrebbe sapere che è una delle leggi fondamentali della dialettica il vedersi superare dalle vicende storiche per una sintesi superiore.

Non lo sa la Laterza che si sta già pensando a uno “scanner della mente”, cioè a una macchina capace di leggere i nostri ricordi o addirittura i nostri pensieri? Il primo che riuscirà a realizzarlo e che si metterà a scansionare il cervello dei più grandi filosofi e scienziati dell’umanità riceverà tante di quelle royalties che, al suo confronto, personaggi come Bill Gates o Mark Zuckerberg appariranno dei poveracci.

Allo stesso Hegel sarebbe parso quanto meno contraddittoria una frase del genere: “Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura”. Quindi il furto non è solo in ciò che si fotocopia, ma anche nello stesso strumento meccanico, che, come noto, serve a riprodurre molte altre cose non meno utili e spesso anzi assolutamente indispensabili. Dunque “un furto ai danni della cultura”: anche qui un nuovo lapsus, che il lettore, senza essere un grande filosofo o scienziato, può facilmente individuare.

La prassi e la realtà locale

Non c’è assolutamente modo di stabilire la verità delle cose con un criterio astratto, fissato a priori. Se questo criterio fosse quello della dialettica, cioè della legge che spiega l’attrazione e repulsione dei contrari, l’unità sintetica di tesi e antitesi, allora bisogna dire che questo criterio indica, al massimo, un processo avvenuto (ex-post), ma non offre dei chiarimenti univoci relativi ai singoli momenti in cui il processo avviene (in actu).

Questo perché l’esistenza è in sé irriducibile a qualunque sistema interpretativo, che sarebbe astratto anche se avesse elementi di tipo politico o socioeconomico.

La dialettica può comprendere e descrivere un processo quand’esso è terminato, cioè a posteriori, ma non può spiegarlo nel mentre si svolge, cioè non può dare delle indicazioni di merito per risolvere determinati problemi, proprio perché ciò si configurerebbe come un’operazione meramente intellettuale.

Gli uomini devono restare tali quando affrontano le loro contraddizioni, cioè devono affrontarle come collettivo, ragionando insieme su delle ipotesi praticabili di soluzione. In nessun libro della storia si potrebbe trovare il minimo aiuto per poter risolvere un determinato problema, lì dove esso si pone (hic et nunc).

La prassi è il criterio della verità e quindi ha un primato assoluto sulla teoria, anche se, indubbiamente, essa va aiutata da una teoria intelligente, altrimenti non si troverà alcuna soluzione ad alcun problema, neppure se ci pensassero sopra, contemporaneamente, un milione di persone.

Tuttavia, il fatto che debba esistere una teoria intelligente, non significa che debba essere la prassi a conformarsi meccanicamente ad essa. Una teoria intelligente può soltanto offrire uno spunto, un suggerimento, un’indicazione di massima, ma poi la soluzione va cercata nel confronto tra le diverse opinioni, che si devono poter esprimere liberamente e in maniera esauriente.

Se questo primato ontologico e operativo della prassi ci fosse chiaro, noi saremmo costretti a interessarci soltanto di problemi locali, cioè solo di quei problemi che pensiamo di poter risolvere, sapendo di averne i mezzi sufficienti per farlo.

E se il problema locale fosse per noi il perimetro in cui far agire una prassi decisionale, deliberativa, allora dovremmo far di tutto per impedire che il livello locale subisca dei condizionamenti che gli facciano perdere la piena autonomia. Se il locale è pesantemente condizionato da elementi esterni, esogeni, estranei, la possibilità di risolvere i problemi sarà tanto più debole quanto più forti saranno queste pressioni.

Là dove esiste una centralizzazione statale dei poteri, che ovviamente non può tener conto, nella loro complessità e vastità, delle esigenze delle realtà locali, lì esiste anche un’ideologia politica più o meno ufficiale, una Costituzione più o meno vincolante, una serie di Codici istituzionali di comportamento e soprattutto una serie infinita di leggi scritte.

Lo Stato è quella somma astrazione che ha la pretesa di regolamentare il più piccolo aspetto della concreta vita sociale. Chi non capisce un concetto così semplice, si deve chiedere se egli stesso non stia vivendo una vita del tutto astratta.

I 12 principi fondamentali della Costituzione sono intangibili?

E’ stato detto che i principi fondamentali della nostra Costituzione sono intangibili e che, in 60 anni di vita, nessun governo ha mai pensato di modificarli. Sembrano una sorta di decalogo veterotestamentario, una serie di enunciati assolutamente dogmatici. Vediamo se davvero dobbiamo considerarli così.

Art. 1. La Repubblica è democratica in quanto fondata sul lavoro e non sulla rendita o sullo sfruttamento del lavoro altrui. Questo è vero, ma bisognerebbe specificarlo espressamente, perché il concetto di “lavoro”, in sé, non indica affatto il carattere “democratico” di una repubblica. Nel sistema capitalistico il lavoro è soltanto unamerce, al pari di altre, che si acquista sul mercato, tant’è che si parla di “mercato del lavoro”.

Più che essere “fondata” sul lavoro, la Repubblica italiana dovrebbe essere fondata sulla “proprietà collettiva dei mezzi di lavoro”, quella che permette a tutti di non dover essere sfruttati per poter vivere. Il lavoro può non essere una “merce” soltanto se la proprietà dei fondamentali mezzi produttivi non è privata.

Il lavoro è un diritto-dovere, ma dove esiste proprietà privata dei mezzi produttivi, spesso diventa soltanto una casualità, una fortuna o un ripiego. Se davvero la Repubblica fosse fondata sul lavoro, noi non dovremmo avere disoccupati o inoccupati o sottoccupati o cassintegrati, né lavoratori in nero o clandestini, né quelli che svolgono mansioni che non c’entrano nulla con gli studi fatti, né quelli che, non rassegnandosi a questo trend di sprechi e inefficienze, emigrano dal nostro paese per cercare un’occupazione inerente ai propri studi o comunque un’occupazione che permetta di vivere dignitosamente. Né dovremmo avere quelli che approfittano del bisogno o delle debolezze o della precarietà altrui per estorcere favori di ogni genere, per obbligare a servizi umilianti, per ridurre in stato di schiavitù. Non dovremmo neppure avere tutti quei giochi, sommamente diseducativi, che promettono premi favolosi col miraggio di non lavorare o di lavorare molto meno.

Solo se la Repubblica è fondata sulla proprietà collettiva dei fondamentali mezzi produttivi, si può davvero dire che la “sovranità appartiene al popolo”, come recita la seconda parte di questo articolo. In caso contrario la definizione resta puramente formale. Non è sufficiente essere lavoratori o cittadini per esercitare un’effettiva “sovranità”. La sovranità politica è una diretta conseguenza di quella economicasociale. Là dove manca la proprietà comune dei mezzi produttivi, la sovranità politica si esercita unicamente nel momento della scadenza periodica del voto. In tal modo la vera sovranità politica non viene esercitata dal popolo ma dai suoi delegati parlamentari, i quali tendono a fare gli interessi solo di quella parte di popolazione che dispone di proprietà privata.

Art. 2. Poiché non si è specificato nell’art. 1 che la Repubblica deve essere fondata sulla proprietà comune dei principali mezzi produttivi, accade inevitabilmente, quando si afferma ch’essa “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”, che all’interno di questi diritti debba essere inteso anche quello alla proprietà privata, come è naturale che sia in tutte le Costituzioni borghesi, dove appunto tra i diritti fondamentali si prevedono sempre quelli alla libertà e alla proprietà, concepiti quasi in maniera interscambiabile.

In realtà il diritto alla proprietà privata può essere tollerato solo quando questa proprietà non è relativa ai mezzi fondamentali di produzione, che sono poi quelli che garantiscono la sopravvivenza di un’intera collettività, ovvero quelli che le permettono di esercitare i diritti irrinunciabili che la caratterizzano o la identificano come tale.

Tutti gli articoli relativi al titolo III della Costituzione: “Rapporti economici” non rendono affatto più chiara l’esigenza di precisare il primato della proprietà comune dei mezzi produttivi rispetto al lavoro.

Art. 3. E’ inutile affermare l’uguaglianza giuridica di tutti i cittadini di fronte alla legge, quando non si precisa a chiare lettere la necessità della loro uguaglianza sociale ed economica di fronte al bisogno. La seconda parte dell’art. 3, in assenza della suddetta precisazione, rischia di restare, sul piano pratico, una pia intenzione, ovvero di tradursi in uno sforzo moralistico o paternalistico di dubbia efficacia.

Infatti, se si fosse puntato più sul bisogno che sulla legge, più sulla concreta proprietà pubblica che non sull’astratta tutela del lavoro, non si sarebbe detto, in questo articolo, che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, ma, al contrario, che i cittadini con più bisogni hanno più diritti davanti alla legge. Hanno più diritti di precedenza e di preferenza, proprio al fine di colmare il loro gap dovuto a motivi fisici, psichici, esistenziali, sociali, geografici, linguistici ecc., rispetto agli altri concittadini.

L’uguaglianza assoluta davanti alla legge può andar bene quando tra cittadini non esistono differenze rilevanti. Tuttavia, se consideriamo che persino la natura pone una certa differenza di genere tra i sessi e pone altre differenze dovute all’età anagrafica, è del tutto inutile auspicare un’uguaglianza assoluta di fronte alla legge.

E’ la legge che deve adeguarsi alla diversità dei bisogni, non sono i bisogni che devono adeguarsi all’uniformità della legge. Ci si adegua all’uniformità imposta dalle circostanze per soddisfare meglio il bene comune. Ma è evidente che le circostanze possono cambiare e, con esse, la regola dell’uniformità.

Una società che per molto tempo si vantasse di avere regole uniformi a livello nazionale, potrebbe dare impressioni del tutto opposte: di grande coerenza democratica, ma anche di grande forza dittatoriale. Non è certo dal contenuto in sé delle leggi che si può valutare il grado di democraticità di una nazione. Bisogna piuttosto esaminare il livello di rispondenza delle leggi ai bisogni collettivi. E, considerando che i bisogni sono per lo più mutevoli, soggetti al continuo modificarsi delle circostanze, può apparire, al limite, del tutto superflua l’esigenza di darsi delle leggi scritte.

Art. 4. Questo articolo è molto importante e la Repubblica dovrebbe essere denunciata quando non assolve il proprio dovere di assicurare a tutti un lavoro. Se il lavoro è un diritto-dovere, allora è compito della Repubblica garantirlo. Non basta dire ch’essa “promuove” le condizioni che rendono effettivo il diritto; le condizioni devono essere “assicurate”, “garantite”, altrimenti non è possibile sostenere che il lavoro è un “dovere” di tutti.

Come noto il lavoro è un diritto che può essere rivendicato, ma se è anche un dovere, il cittadino dovrebbe essere obbligato a lavorare, anche nel caso in cui non volesse farlo.

Finché il cittadino rivendica il lavoro come un diritto, significa che la Repubblica non è in grado di assolvere al proprio dovere di assicurarlo a tutti. E’ dunque giusto affermare che ognuno ha il dovere di lavorare, salvo che qualcosa di oggettivo non gli impedisca di esercitare questo obbligo.

Art. 5. Questo articolo non è mai stato applicato per due semplici ragioni:

  1. esistono nel territorio italiano degli spazi geografici in cui la sovranità dello Stato è insussistente, come p.es. quelli della Città del Vaticano, della Repubblica di S. Marino e delle basi Nato. In queste aree delimitate da precisi confini si esercita il principio della extraterritorialità da parte di uno Stato che inevitabilmente deve essere considerato come “straniero” all’interno della nostra Repubblica;
  2. il nostro Stato, prima monarchico poi repubblicano, è nato e si è sviluppato in maniera centralistica, usando gli Enti Locali Territoriali come propri organi periferici. Sono state piuttosto le autonomie locali a lottare per essere riconosciute come tali dallo Stato.

Nella nostra Repubblica non è lo Stato ad essere a servizio della società civile, ma il contrario. E non è detto che questo rapporto sia destinato a mutare trasformando lo Stato da centralista a federalista.

Art. 6. Questo articolo non è mai stato attuato con coerenza, semplicemente perché uno Stato centralista non può farlo. In particolare il centralismo si è espresso sul versante del confessionalismo, emarginando le minoranze religiose, e sul versante educativo, esercitando il monopolio dell’istruzione pubblica: la scuola “statale”, essendo di estrazione, di formazione, di cultura “borghese”, ha fagocitato la cultura contadina e operaia, ha impedito l’uso dei dialetti, ha distrutto tutto quanto era di tradizione “pre-borghese”. Se le minoranze hanno continuato ad esistere, è stato unicamente per merito loro, per la loro volontà di sopravvivenza.

Art. 7. Questo articolo è la dimostrazione più evidente della debolezza del nostro Stato, costretto a riconoscere, da un lato, la propria limitatezza istituzionale, in quanto il Vaticano agisce in piena autonomia politica ed economica in una determinata porzione di territorio, rivendicando una gestione temporale dei propri beni che lo qualifica come uno Stato a pieno titolo (in grado addirittura di agire indisturbato a livello internazionale); e, dall’altro, il nostro Stato dimostra la propria insufficienza normativa, in quanto il Vaticano gli impedisce di affermare con coerenza i principi della laicità in materia di libertà di coscienza.

Questo articolo andrebbe completamente abolito o riscritto, evidenziando la piena sovranità e laicità dello Stato.

Art. 8. Questo articolo non prevede la libertà di non credere in alcuna religione. La libertà di coscienza viene qui equiparata alla libertà di religione, nel senso che ogni cittadino è libero di credere nella confessione che vuole.

In realtà la libertà di religione è solo un aspetto della libertà di coscienza, la quale appunto prevede anche la libertà di non credere in alcuna confessione.

Art. 9. Questo articolo è troppo generico per essere importante. Per renderlo più significativo si potrebbe aggiungere che la Repubblica tutela solo lo sviluppo di quella cultura orientata a promuovere l’umanizzazione dei rapporti sociali, e solo lo sviluppo di quella ricerca tecnico-scientifica favorevole alle esigenze riproduttive della natura.

Bisogna dettagliare questo per impedire che la prima parte dell’articolo finisca col trovarsi in contrasto con la seconda. Non tutta la cultura, non ogni tipo di ricerca merita d’essere tutelata.

Art. 10. Questo articolo dovrebbe avere un valore sia in tempo di pace che in tempo di guerra, e quindi a prescindere da qualunque contenzioso la nostra Repubblica possa avere con chicchessia.

Inoltre bisognerebbe precisare che la nostra Repubblica si attiene alle norme del diritto internazionale solo quando queste sono conformi ai valori umani universali e alle esigenza di tutela ambientale.

Infine bisognerebbe aggiungere che nelle controversie internazionali o anche solo bilaterali (tra Stato e Stato), la nostra Repubblica si appellerà, se lo riterrà opportuno per risolverle, a organi di carattere internazionale, riconoscendo a questi organi un potere vincolante per le decisioni che prenderanno.

Art. 11. Questo articolo viene costantemente smentito dalle cosiddette “missioni di pace”, che vengono compiute da un personale militarizzato. Bisogna quindi precisare che qualunque intervento armato, non avente scopo meramente difensivo dei nostri confini territoriali, cioè dell’integrità della nostra nazione, va considerato illegale. Dal nostro territorio non dovrebbero uscire forze armate di alcun genere, neppure per fare delle esercitazioni.

Anzi, il nostro Stato dovrebbe operare affinché si riconosca a livello internazionale il divieto, da parte di forze militari nazionali, di occupare spazi di cielo, di terra e di mare che risultano comuni a più nazioni o anche a tutte le nazioni del mondo. Gli spazi internazionali devono essere lasciati liberi da qualunque tipo di arma.

Dovrebbe essere tassativamente vietato che uno Stato possa disporre di proprie basi militari al di fuori dei propri confini.

Sarebbe bene che il nostro Stato s’impegnasse per primo in questa direzione, mostrando agli altri Stati che la sicurezza è maggiormente garantita non in presenza ma in assenza delle armi.

Inoltre nella Costituzione dovrebbe esserci un articolo che prevede la rinuncia definitiva alla produzione, alla vendita, all’uso di qualunque arma di sterminio di massa. Dovrebbe essere proibita in maniera tassativa anche la vendita di qualsivoglia arma all’estero.

Art. 12. Questo articolo è frutto dello Stato centralista. Si può riconoscere allo Stato una determinata bandiera, ma permettendo anche alle Regioni e persino ai Comuni di aggiungere sullo sfondo tricolore gli elementi simbolici che li caratterizzano da secoli.

Fermi tutti e fate largo: passa l’autoambulanza con a bordo un animale investito!

Ho letto con sgomento che è diventata esecutiva, in quanto pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, una legge che mi pare più che assurda addirittura idiota. In breve: d’ora in poi l’automobilista che investe un animale avrà l’obbligo di soccorrerlo e portarlo di corsa al veterinario più vicino anche superando i semafori rossi a tutto clacson. Esattamente come se si trattasse di un essere umano. Stesso obbligo per chi ha assistito all’investimento, nel caso l’investitore scappi anziché soccorrere l’animale investito. Per fortuna non è prevista, almeno per ora, la galera, ma “solo” una ammenda da oltre 500 euro. Intanto però resta un mistero come faccia un automobilista a sapere dove si trovi non dico il veterinario più vicino, ma anche un veterinario qualunque.

L’automobilista potrà chiamare la polizia o l’autoambulanza veterinaria o i mezzi della vigilanza zoofila, che potranno usare la sirena e il lampeggiante esattamente come per le autoambulanze che trasportano un bambino, una donna incinta, un adulto o un anziano che rischia magari di crepare. Per fortuna non si tratta, almeno per ora, di ambulanze veterinarie pubbliche, cioè pagate con i soldi delle nostre tasse, ma di automezzi privati, pagati dalle associazioni di volontariato che se ne fanno  carico. Adesso però potranno accendere lampeggianti e sirena. Altra domanda che sorge immediata: quale sarà l’autoambulanza con diritto di precedenza ai semafori, rossi o non rossi? Quella con un animale a bordo o quella con una persona da ricoverare di corsa? Continua a leggere

Contro gli integralisti della fede

Chiunque creda in un dio, s’aspetta che i suoi problemi vengano risolti da qualcun altro, umano o divino che sia, o anche di entrambe le nature, come quando papa Pio XI disse che Mussolini, contro il pericolo del bolscevismo in Italia e l’inettitudine della democrazia liberale, era “l’uomo della provvidenza”.

Cioè il credente è colui che sente di non avere abbastanza forze per risolvere i problemi da solo, o comunque è colui che è abituato ad avere piena fiducia nelle “autorità forti”, quelle che, per chissà quale miracolo divino, vanno esenti dagli effetti negativi del cosiddetto “peccato originale”. Anche Hitler diceva – tutte le volte che gli attentati contro di lui fallivano – che quella era la prova della sua “missione divina”.

Ora, se tale sfiducia in se stessi dipende dalla precarietà di una situazione materiale, chi professa l’ateismo dovrebbe astenersi dal criticare i credenti. E’ evidente, infatti, che fino a quando quella indigenza resterà immutata, la fede continuerà a sopravvivere; anzi, di fronte agli attacchi del laicismo, si rafforzerà ancora di più e andrà persino a cercare forme estreme di resistenza, come p. es. il martirio o l’autoimmolazione.

Di per sé non ha alcun senso lottare per portare i credenti all’ateismo: queste sono forme di violazione della libertà di coscienza. Per un non credente deve risultare sufficiente l’affermazione di una laicità dello Stato, cioè la negazione del confessionalismo da parte delle istituzioni pubbliche.

Un non credente può anche opporsi alle superstizioni religiose, ma solo quando queste vogliono imporsi in maniera clericale, cioè rivendicando un potere politico. In coscienza uno deve restar libero di credere in ciò che vuole. Il modo migliore per cambiare atteggiamento nei confronti della religione, è quello di farlo in piena libertà, senza pressioni o forzature di alcun genere.

Gli atei devono persuadere i credenti a lottare contro le ingiustizie sociali e le violazioni dei diritti umani, e non devono farlo in quanto atei, né devono rivolgersi ai credenti in quanto credenti: entrambi devono convergere su posizioni comuni, su obiettivi condivisi, in quanto appunto cittadini di un medesimo Stato. Se i credenti vedono che oggi i loro problemi economici cominciano a risolversi, saranno meno portati ad attribuire adentità esterne la soluzione dei nuovi problemi che, un domani, dovranno affrontare.

D’altra parte non è neppure escluso che, se i tentativi fatti per risolvere determinati problemi vanno letteralmente in fumo, un ateo non possa diventare credente. Se guardiamo l’evoluzione dal movimento nazareno di Gesù Cristo a quello apostolico di Pietro e Paolo, dobbiamo dire che avvenne proprio così. E che dire di Mussolini, che da ateo professo, quand’era socialista, arrivò, da fascista, a firmare un Concordato col quale concesse alla chiesa romana enormi privilegi rispetto alle altre confessioni religiose, attenuando persino la sovranità dello Stato nazionale?

Detto questo, un ateo farebbe sempre bene a distinguere il credente con scarse possibilità materiali, ed eventualmente con limitata istruzione e cultura, dal credente benestante e intellettuale. Con quest’ultimo il confronto deve essere franco e aperto, proprio perché questa categoria di credenti tende a sfruttare la buona fede degli sprovveduti e approfitta della loro indigenza per arrivare a rivendicare il diritto al clericalismo.

Non si può transigere con chi vuol fare della fede una bandiera politica. L’oscurantismo medievale è finito da un pezzo. Se c’è qualcuno che vuol riportare la storia indietro, e vi riesce, i non credenti farebbero meglio a chiedersi se la responsabilità di ciò non ricada tutto su loro stessi.

I problemi della sicurezza e i progressi della verità

La sicurezza da che cosa è data? Indubbiamente dalla possibilità di difendersi. Quando si è attaccati da qualcosa o da qualcuno, che sia un terremoto o un assassino, la sicurezza dipende dalla capacità di evitare conseguenze negative su di sé. Bisogna sapersi difendere: nessun elemento della natura è provvisto solo di armi d’attacco.

Tuttavia la miglior sicurezza – com’è noto – è data sempre dalla prevenzione. Edifici antisismici evitano effetti catastrofici. Ma come possiamo evitare gli omicidi? In teoria è semplice: risolvendone le cause, che sono squisitamente umane, cioè non attribuibili a entità esterne, come il fato, il destino, una qualche divinità o la natura.

Anche quando un omicidio è già stato compiuto, il modo migliore per impedire che si ripeta, non sta tanto nella pena in sé (che pur non può mancare), quanto piuttosto nella discussione che bisogna fare per cercare di capire il motivo per cui quel delitto è nato.

La discussione serve per mediare tra opposti interessi, per trovare un punto d’incontro che soddisfi tutte le parti in causa. Deve essere una discussione tra i protagonisti, non tanto su di loro.

Insomma, la discussione deve servire per prendere provvedimenti affinché il crimine non si ripeta e, in questo impegno collettivo, non si può escludere a priori il contributo che può dare lo stesso criminale. E’ a livello locale che si devono cercare le cause dei reati, altrimenti, inevitabilmente, si tenderà ad attribuirle a forze oscure, imponderabili.

Ora, è evidente che in una società fortemente individualistica, in cui l’antagonismo sociale non è l’eccezione ma la regola, l’autodifesa è assegnata non alle discussioni pubbliche, ma ad altri mezzi e modi. Tra questi mezzi preposti a far rispettare la leggi, quelli prevalenti sono le forze dell’ordine, che a volte si trovano a esercitare una difesa sproporzionata rispetto all’effettivo pericolo, e la categoria degli avvocati, abituati a considerare il diritto in maniera del tutto autonoma rispetto all’etica.

Quando l’individualismo è esasperato si ricorre anche all’uso delle armi per difesa personale. In una società come quella nord-americana si è convinti che la diffusione delle armi fra la popolazione aumenti il senso di sicurezza. I fatti però dimostrano il contrario. E anche qui il motivo è molto semplice: se si possiede un’arma, ad un certo punto può venire istintivo usarla per risolvere quei problemi per i quali occorrerebbe un dibattito pubblico a livello locale.

Stesso atteggiamento lo si ha nei confronti della pena di morte: la si usa più facilmente là dove la società non è abituata a discutere pubblicamente i propri problemi. La pena di morte è tipica dei paesi autoritari, privi di pedagogia sociale e di vere autonomie locali. L’uso delle armi per difesa personale è tanto più forte quanto più è grande la sfiducia nei confronti delle capacità che le istituzioni hanno nel risolvere i problemi della gente comune.

Le moderne società infatti sono caratterizzate da una polarizzazione di questo genere: da un lato la gran massa degli individui isolati (la cui socializzazione di base è la famiglia nucleare), dall’altro le istituzioni con tutti i poteri. Nel mezzo vi sono i tentativi dei singoli di organizzarsi socialmente per contrastare i superpoteri dello Stato: c’è chi lo fa legalmente, attraverso partiti, sindacati, movimenti ecc., e chi illegalmente, attraverso la criminalità organizzata, e anche chi lo fa immoralmente ma con la patina della legalità, come le associazioni corporative che rivendicano propri privilegi, le lobby di potere e, ultimamente, gli stessi partiti politici.

Ma perché le società antagonistiche non discutono apertamente i loro problemi di natura sociale? Anche qui il motivo è molto semplice: le istituzioni temono che da un dibattito franco e aperto i cittadini s’accorgano che le istituzioni non solo non sono in grado di risolvere alcun problema, ma anche che esse stesse sono fonte dei loro problemi. Le istituzioni centralizzate non amano essere considerate come un corpo estraneo a livello locale.

Di regola infatti ai cittadini viene fatto credere che le istituzioni sono equidistanti dalle forze in campo e che non è affatto vero che lo Stato protegge soprattutto quelli che sono economicamente più forti. I cittadini, insomma, devono convincersi di vivere in una gigantesca bolla di sapone, dove il Grande Fratello è in grado di risolvere ogni loro problema.

Ora, siccome i crimini diventano sempre più numerosi, efferati e, spesso, addirittura insensati, i cittadini vanno indotti a credere che il Grande Fratello non è abbastanza severo non per sua colpa, ma perché non ha abbastanza poteri. Se proprio si vuole che nessuno possa farsi giustizia per conto proprio, lo Stato deve essere messo in grado di dimostrare che è severissimo nei confronti di chi trasgredisce le regole. E’ questo che il sistema oggi sta chiedendo.

Si continuerà così a non discutere di alcun problema, nella certezza che un’entità esterna avrà la forza necessaria per risolvere tutto. Le dittature militari sono il futuro delle democrazie parlamentari. Sarà come passare da una dittatura formale a una sostanziale. La fine dell’ambiguità verrà salutata come un grande progresso della verità. Bisognerà soltanto trovare qualcuno che, pur non provenendo dagli ambienti in cui il privilegio è la norma, finga di esercitare il potere in nome del popolo.

Quo usque tandem abutere, Berlusconi, patientia nostra?

Possiamo girarla come meglio ci aggrada, ma la realtà è una sola ed è anche molto chiara: in nessun Paese civile o perlomeno in nessuna democrazia europea e occidentale può accadere ciò che invece accade in Italia. E cioè che una singola persona – ripeto: una singola persona e non un partito e tanto meno una coalizione di partiti – metta in crisi un governo, un parlamento e un intero Paese di oltre 60 milioni di cittadini colandone a picco la Borsa e ingrossandone pericolosamente il già enorme debito pubblico. Per giunta, con il danno supplementare e ancora più grave di rischiare la morte dell’euro e della Comunità Europea, il che significherebbe guerre all’orizzonte prima ancora di quanto lascia intravedere il famoso “scontro di civiltà” verso il quale l’Europa e l’Occidente corrono con gioiosa incoscienza. Continua a leggere

E Renzi ha fatto plof

La notizia è che Matteo Renzi ha perso e perso male. Però ha dalla sua il merito di avere suscitato l’interesse alla politica di una buona fetta dei giovani che di tutto si interessano fuorché di politica. Speriamo solo che non restino talmente delusi da questa sconfitta da ripiombare nel loro ghetto giovanile avulso da partiti, elezioni, politica, istituzioni, parlamento, ecc. Sarebbe un danno grave, molto grave. Che si aggiunge a danni già notevoli che i giovani subiscono con il degrado della scuola, dell’Università, dell’educazione civica e personale provocata da decenni di blablablà e scosciamenti televisivi oltre che di iperboli modaiole, e infine  dalla grande difficoltà a trovare un lavoro degno di questo nome e di una vita tutta da vivere.

In tv, e non solo nel confronto con Pierluigi Bersani, Renzi è parso un po’ troppo enfatico, troppo verboso, pronto più alla battuta a effetto che all’esposizione di programmi e strategie per risolvere i problemi dell’Italia. In politica estera la sua tirata contro l’Iran, che pareva quasi l’anticamera di una dichiarazione di guerra se fosse diventato premier, è apparsa di una rozzezza sorprendente come pure il molto riduttivo accenno a Gaza. In  vista del ballottaggio Renzi è diventato anche un po’ troppo polemico, lamentoso, in affanno, con quel suo  innescare il vicolo cieco del sospetto su trucchi vari per impedire ai suoi supposti fans il voto al ballottaggio: il tipico comportamento di chi sente sul collo il fiato della sconfitta e comincia perciò a straparlare di complotti. Non ho capito perché al ballottaggio non poteva partecipare chi non aveva votato al primo turno, e non l’ho capito anche perché nei Paesi dove vige il ballottaggio – Italia compresa per sindaci, presidenti di provincie,  senato e corte costituzionale – vota chiunque voglia di votare anche se non lo ha fatto al primo turno. Continua a leggere