Materialismo democratico o autoritario?

Che anche il materialismo storico-dialettico sia affetto – al pari di ogni forma di idealismo – da intellettualismo di tipo illuministico, lo dimostra il fatto ch’esso ha la percezione della materia come di un’entità che va conosciuta esclusivamente con l’attività scientifica (quella da laboratorio). In tale maniera una qualunque consapevolezza diversa da quella scientifica, viene svalutata, considerata ai limiti della superstizione. Come se il concetto di “scienza” non potesse riferirsi anche a quelle popolazioni che si trasmettevano conoscenze ancestrali unicamente per via orale!

I classici del marxismo sono in questo molto espliciti: la conoscenza scientifica della natura (che per gli scienziati naturali è istintiva, mentre per i materialisti dialettici è consapevole) autorizza l’uomo a “dominarla”. Lenin lo dice chiaramente nel suo Materialismo ed empiriocriticismo: “dal momento che conosciamo questa legge [si riferisce alla natura], la quale agisce (come ha ripetuto Marx migliaia di volte) indipendentemente dalla nostra volontà e dalla nostra coscienza, noi siamo i dominatori della natura. Il dominio della natura, che si manifesta nella pratica del genere umano, è il risultato del riflesso, obiettivamente esatto, dei fenomeni e dei processi della natura nella mente dell’uomo, e dimostra che questo riflesso (nei limiti di ciò che ci indica la pratica) è una verità obiettiva, assoluta, eterna” (ed. Lotta comunista, Milano 2004, p. 207).

Il passaggio, per Lenin, appare molto logico, invece andrebbe dimostrato. Una conoscenza scientifica comporta davvero la necessità di un “dominio” della natura? Anche quando di questa natura conosciamo, seppur scientificamente, solo una parte? in ogni caso, anche se di essa conoscessimo tutto quanto, qui e ora, ciò dovremmo forse considerarlo sufficiente per esercitare su di essa un controllo assoluto delle sue risorse? Come se la natura fosse un semplice oggetto da manipolare? Che diritto avremmo di farlo, visto e considerato che qui si ha a che fare con un oggetto del tutto indipendente dal genere umano, da cui proviene la nostra stessa esistenza e persino la nostra coscienza?

Se la natura fosse stata creata dall’uomo, allora la questione del “dominio” sarebbe scontata; al massimo avrebbe potuto porsi nel caso in cui il passar dei secoli avesse determinato una dimenticanza o un offuscamento della conoscenza scientifica. Ma con le idee del materialismo dialettico noi dovremmo pensare a una natura che, pur potendo farne a meno, avrebbe creato un essere umano al quale dare piena facoltà di dominarla.

Che senso ha questo spirito di arrendevolezza da parte della materia? indubbiamente oggi abbiamo capito che i termini epocali dello scontro ideologico non sono più tra idealismo e materialismo, in quanto gli scienziati, con i loro strumenti tecnologici non vedono dio da nessuna parte, ma una concezione della natura così perentoria ci porta a credere che in futuro lo scontro verterà tra un materialismo autoritario e uno democratico, e lo spartiacque sarà proprio nella concezione che si avrà del rapporto tra uomo e natura.

Anzitutto infatti dovremmo chiederci: se l’uomo usasse questa facoltà di dominio in maniera contraria alle esigenze riproduttive della stessa natura, come farebbe questa a sopravvivere? Non ha infatti alcun senso pensare che, siccome la natura è infinita nello spazio e nel tempo, il suo sfruttamento può essere considerato illimitato. Tra natura e uomo dovrebbe esistere soltanto un rapporto paritetico e non anche un rapporto di dominanza e di subordinazione.

Non avrebbe alcun senso accettare l’idea che la natura abbia dato all’uomo una facoltà così invasiva neanche nel caso in cui ammettessimo una coesistenza eterna di entrambi gli elementi. A ben guardare infatti noi siamo sì un composto di materia, ma, poiché siamo caratterizzati da ciò che in natura si trova solo in noi, cioè la coscienza, allora forse è possibile pensare a una materia eternamente pensante, che ha trasmesso solo a noi questa sua facoltà, proprio perché esiste una contemporaneità nello spazio e nel tempo, o comunque una certa, profonda, familiarità.

Noi siamo materia pensante esattamente come la materia in generale. E, proprio come l’universo, che è infinito nello spazio e nel tempo, anche la nostra essenza o coscienza in qualche maniera lo è. Possiamo addirittura pensare – senza rischiare di cadere in alcun misticismo – che l’essenza umana in realtà non sia mai nata, proprio perché dell’universo noi siamo la sua coscienza, o comunque un prodotto necessario nell’ambito dell’evoluzione della natura, un prodotto che da virtuale è diventato reale.

Ma se anche questa ipotesi fosse vera, le leggi della materia non le abbiamo inventate noi; anzi esse ci costituiscono in maniera organica, strutturale, e quando non le rispettiamo, le conseguenze non ricadono solo sulla natura, ma anche su di noi. Questo per dire che sul nostro pianeta noi dovremmo limitarci a sperimentare con la natura un rapporto equilibrato e non di sfruttamento. Il fatto di essere la “coscienza della natura” non ci autorizza a fare alcunché di “innaturale”.

Come ancora oggi si falsa la Storia: la mostra a Milano su Costantino ne tace totalmente le responsabilità nella nascita del disprezzo cristiano verso gli ebrei

Riporto da italialaica.it il post del 17 novembre di Elio Rindone  intitolato “Costantino: a Milano una mostra che mistifica”.

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La manipolazione della storia non implica la necessità di dire il falso, perché basta evidenziare un dato e tacerne un altro.

È quanto accade, mi pare, con l’operazione in corso a Milano con la Mostra che celebra il diciassettesimo centenario della emanazione nel 313 d.C. dell’Editto di Milano da parte dell’imperatore romano d’Occidente Costantino e del suo omologo d’Oriente, Licinio.

La mostra, ideata dal Museo Diocesano di Milano, realizzata con la collaborazione dell’Arcidiocesi e dell’Università degli Studi della stessa città, intende esaltare l’imperatore Costantino quale iniziatore di un periodo di libertà religiosa per il rescritto del 313, di cui si riporta l’affermazione centrale: “Noi, dunque Costantino Augusto e Licinio Augusto abbiamo risolto di accordare ai Cristiani e a tutti gli altri la libertà di seguire la religione che ciascuno crede, affinché la divinità che sta in cielo, qualunque essa sia, a noi e a tutti i nostri sudditi dia pace e prosperità”.

Leggendo queste parole, molti saranno d’accordo con quanto dice Paolo Biscottini, curatore della mostra e direttore del Museo diocesano: “Ogni individuo non può fare a meno del senso religioso e l’editto di Milano segna l’inizio di una cultura occidentale fondata su una tolleranza intesa come rispetto del senso religioso”. Tesi ribadita in un’intervista alla Radio Vaticana dall’altra curatrice, Gemma Sena Chiesa: “l’Editto di Costantino è per noi un testo fondamentale, perché proclama la libertà del cristianesimo e la libertà di tutte le religioni. Una testimonianza, quindi, estremamente moderna, di un sentimento moderno che oggi noi riteniamo fondamentale: la disponibilità all’incontro con gli altri, con il ‘diverso’, e la tolleranza verso tutti. In mostra abbiamo riportato proprio il pezzo dell’Editto di Costantino che, con parole solenni ed importanti, dà a tutti la libertà di professare liberamente quello in cui credono”.

Peccato, però, che Costantino non si sia limitato ad emanare questo celebre editto ma abbia anche detto e fatto altro, che è necessario ricordare per una valutazione complessiva della sua figura. Continua a leggere

Le leggi della natura e le idee del materialismo

Se Feuerbach, Marx, Engels e Lenin hanno ragione nel dire che la materia è assolutamente indipendente dall’uomo, ovvero che è infinitamente anteriore nel tempo e illimitata nello spazio e che lo stesso essere umano non è che un ente di natura, allora bisognerebbe trarre le dovute conseguenze pratiche e affermare che tutta l’urbanizzazione delle popolazioni del pianeta e l’imponente meccanizzazione del lavoro, essendo entrambe un prodotto del tutto artificiale e incompatibile con le esigenze riproduttive della natura, dovrebbero essere seriamente ripensate e profondamente ostacolate nel loro ulteriore sviluppo.

Infatti, se la natura è totalmente indipendente dall’uomo, avendo proprie leggi necessarie, universali e assolutamente immutabili, allora il genere umano non deve fare altro che conformarsi a queste leggi, evitando accuratamente di sovrapporre ad esse nuove artificiose leggi.

Se l’essere umano ha la pretesa di porsi come ente consapevole della natura, allora la prima consapevolezza che deve avere è che la natura è la condizione irrinunciabile di una qualunque esistenza terrena degna d’essere chiamata umana.

Se non riusciamo a convincerci che le azioni degli uomini hanno un limite invalicabile oltre il quale non possono essere definite né umanenaturali, allora dobbiamo anche ammettere che gli animali hanno più diritto a popolare il pianeta. O l’essere umano si attiene rigorosamente al rispetto delle leggi naturali, oppure diventa, per la natura, un problema irrisolvibile, un ostacolo da rimuovere.

Non si può fare l’elogio della natura o riconoscere alla materia un primato universale rispetto al genere umano, e poi comportarsi come se della natura noi potessimo fare quel che vogliamo. Parlare di “sfruttamento della natura” è una contraddizione in termini. La natura può soltanto essere utilizzata rispettandone le leggi riproduttive.

Se l’uomo, che si vanta d’essere l’autocoscienza della natura, non è in grado di capire questo principio elementare di esistenza, allora è meglio che scompaia dalla faccia della terra e lasci spazio al regno degli animali, i quali sono portati a rispettare le leggi della natura in maniera del tutto istintiva.

In altre parole, il fatto di ritenere che alla natura si debbano attribuire caratteristiche umane, come per esempio la libertà di coscienza o di scelta, non può autorizzare a utilizzare tali caratteristiche, inesistenti nel mondo animale, in maniera non conforme alle stesse leggi della natura.

La natura si è sviluppata per milioni, anzi miliardi di anni, in totale assenza del genere umano. Non è certo stata la nascita dell’uomo a fornire alla natura delle leggi ch’essa non conosceva. Se con la nascita dell’uomo la natura ha dimostrato di possedere una propria autoconsapevolezza, questo non ci autorizza a considerarci superiori alla natura stessa o di poter condurre un’esistenza che prescinda dalle sue leggi.

Sotto questo aspetto è abbastanza singolare che i fondatori del materialismo naturalistico e storico-dialettico non si siano mai resi conto che la vita urbana e l’organizzazione industriale del lavoro non hanno assolutamente nulla di naturale.

Vien quasi da pensare che, al di là di una certa enunciazione teorica del primato della natura o della materia, gli esseri umani non siano in grado di realizzare alcuna vera coerenza, almeno non in Europa né in quei territori ove domina il sistema capitalistico, che gli europei hanno inventato. Anzi, a ben guardare, avendo esportato con la forza questo sistema di vita in tutto il pianeta, è difficile pensare che oggi possa esistere una qualche alternativa praticabile a favore della natura e quindi a favore dell’umanità.

Infatti, anche quando, col socialismo (utopistico, scientifico o reale), si era cercato di porre rimedio alle storture di questo sistema, due cose non sono mai state messe in discussione: l’urbanizzazione e l’industrializzazione. Dobbiamo forse aspettare una catastrofe planetaria, che faccia scomparire i tre quarti dell’umanità, prima di affrontare un problema del genere?

La natura e il suo fardello insopportabile

Chi pretende d’avere un rapporto di dominio nei confronti della natura, va emarginato, anzi rieducato, obbligandolo a rimediare ai propri errori. La punizione migliore è sempre quella del contrappasso, finalizzata non a una condanna eterna, come nell’Inferno dantesco, ma a una riabilitazione.

Spesso i migliori custodi della verità sono proprio quelli che si sono pentiti d’essere stati per molto tempo i cultori della falsità. Le persone moralmente più sane sono quelle uscite dalla criminalità organizzata, dalla tossicodipendenza, dal carcere, dalla violenza gratuita, dall’odio religioso, etnico o razziale… E così forse può essere nei confronti della natura: bisogna rivedere, molto criticamente, i nostri criteri di dominanza, di soggiogamento.

E’ ora di finirla di far credere (soprattutto ai giovani) che, prima della nascita della borghesia, la natura era avvertita in maniera ostile, con paura e angoscia. Se la natura era avvertita così, ciò dipendeva dai rapporti di sfruttamento che imponevano i proprietari terrieri ai loro servi della gleba. Dipendeva cioè dal fatto che si aveva poca terra con cui sfamare la propria famiglia o poco tempo da dedicarle, in quanto si era soggetti a delle corvées di tipo padronale.

Anche solo avendo una vanga e una zappa, l’atteggiamento istintivo che un agricoltore può nutrire nei confronti della terra è quello della gratitudine. Sono i rapporti sociali antagonistici, quelli che lo mandano in rovina se si indebita o che lo fanno invecchiare presto se è costretto a passare tutto il suo tempo sui campi, che lo portano a considerare la natura una matrigna.

Di per sé il contadino non è un fatalista nei confronti della natura, poiché ne conosce i segreti che gli sono stati rivelati dalle generazioni passate. Il fatto di non volerla violentare con l’uso di macchinari pesanti, di concimi chimici, di colture ritenute più redditizie di altre, non doveva e non deve ancora oggi essere considerato come un limite della sua personalità, come un difetto della sua cultura.

La necessità di modificare i ritmi della natura e persino le sue leggi, va considerata come un’aberrazione, non come una forma di progresso. Un approccio meramente strumentale e utilitaristico nei confronti della natura ha come conseguenza sempre la stessa cosa: la desertificazione.

Il peggior nemico della natura è sempre stato l’uomo, e sappiamo anche a partire da quale momento: da quando è diventato il principale nemico di se stesso. L’uomo che odia il proprio simile inevitabilmente finirà con l’odiare anche la natura.

Dobbiamo smetterla di considerare “scientifico” solo l’atteggiamento che ha inaugurato la borghesia nei confronti della natura. Anche quello contadino era scientifico, anzi lo era molto di più, perché frutto di una cultura ancestrale, quella appunto che considerava l’uomo un ente di natura. La conoscenza che i contadini avevano dei segreti della natura (per esempio quella delle proprietà terapeutiche delle erbe) è stata rubata dalla borghesia, poi è stata usata per esigenze di mero profitto, e infine è stata stravolta, poiché di tutte quelle conoscenze ancestrali si sono ritenute soltanto quelle che potevano essere meglio sfruttate.

La natura non è un bene che va sfruttato. La natura può essere solo utilizzata e ciò può avvenire solo rispettando le sue esigenze riproduttive. Qualunque reato compiuto nei confronti della natura andrebbe considerato particolarmente grave, proprio perché va a incidere sui destini di intere collettività. Le violenze contro la natura dovrebbero essere paragonate ai casi di genocidio o alle conseguenze che provocano le armi di sterminio di massa.

La borghesia dileggiava i contadini quando nei confronti della natura avevano un atteggiamento religioso, quando cercavano di propiziarsela usando dei riti magici. Oggi cosa dobbiamo sperare che faccia la natura per liberarsi di questo fardello insopportabile?

Verità e linguaggio

Il bambino comprende la madre e poi il padre perché li vede quotidianamente, ed è in grado di associare progressivamente le parole ai loro significati, che non sono solo significati concreti (oggettuali) ma anche astratti (emotivi).

Se il bambino li sentisse parlare senza poterli vedere, perché magari cieco, probabilmente ci metterebbe molto più tempo a capire gli aspetti astratti del linguaggio, ovvero la differenza tra semplici riferimenti oggettuali e complessi riferimenti emotivi. Un bambino cieco, per poter comprendere meglio il linguaggio astratto degli adulti, avrebbe continuamente bisogno d’essere toccato. In tal caso il contatto servirebbe come forma di rassicurazione.

Sotto questo aspetto tutte le religioni che presumono d’avere aspetti dogmatici nelle loro teorie non fanno altro che usare una intangibilità astratta per supplire alla mancanza di un contatto fisico con la divinità, che sanno bene di non poter avere (e che s’illudono d’avere nelle estasi mistiche). I credenti son come dei bambini ciechi con un corpo da adulto. E non si rendono conto che se la verità (in tal caso espressa attraverso il linguaggio) fosse una determinazione proveniente da una realtà totalmente esterna, come appunto una divinità, l’essere umano non riuscirebbe neppure a comprenderla.

Invece di dire che, se esiste un dio, non può in alcun modo essere più grande dell’uomo, almeno non negli aspetti di sostanza che qualificano l’essenza umana, i credenti preferiscono rimpicciolirsi al massimo, facendo della divinità un qualcosa di assolutamente sproporzionato, che, in ultima istanza, suscita sentimenti inquietanti, non avendo alcuna caratteristica umana.

Essi infatti s’immaginano un dio onnipotente e onnisciente, in grado di leggere i pensieri, di compiere qualunque cosa, di prevedere il futuro, di esprimere giudizi infallibili… Un dio del genere non potrebbe esistere neppure se ogni essere umano fosse destinato a diventare come lui. Infatti una condizione del genere è la negazione dell’elemento fondamentale che costituisce l’essenza umana, e cioè la libertà, soprattutto la libertà di coscienza.

E’ stato sicuramente per questo motivo che il politeismo non ha mai conosciuto il dogmatismo. Pur essendo la religione dello schiavismo e pur avendo quindi ogni motivo per elaborare dei dogmi con cui confermare la discriminazione sociale, il politeismo era ancora troppo vicino alla cultura pre-schiavistica per poterla offuscare del tutto. I miti greci, dove gli dèi hanno sempre la meglio su degli umani negativizzati, come p.es. Prometeo, quando non addirittura ridicolizzati, come nel caso di Polifemo, lo dimostrano eloquentemente: eppure quegli umani, nella realtà, cercavano disperatamente di non perdere la loro autonomia di pensiero e di azione.

La loro infatti era una cultura della libertà, che s’era dovuta piegare all’uso di quella forza che aveva prodotto la schiavitù, e che gli aristocratici latifondisti e guerrieri, insieme ai loro sacerdoti pagani, avevano fatto credere di poter conservare, illudendo schiavi e nullatenenti che sarebbe stato sufficiente coltivare infiniti culti a infinite divinità. A quel tempo era impossibile sostenere la pratica dello schiavismo giustificandolo con una religione monoteistica, caratterizzata dall’elaborazione di dogmi indiscutibili.

Il monoteismo è nato quando i rapporti con le culture primordiali erano stati del tutto dimenticati. A quel punto s’imponeva una duplice esigenza: quella di superare sia lo schiavismo che il politeismo. Purtroppo la storia ha voluto che il superamento dello schiavismo avvenisse non in direzione del recupero del comunismo primitivo, insieme all’ateismo naturalistico, ma in direzione di una transizione al servaggio, che ha appunto favorito l’evoluzione dal politeismo al monoteismo.

Il monoteismo appariva certamente come una forma più autoritaria di credenza, ma allo stesso tempo era anche più vicino alla condizione di un essere umano che, almeno formalmente, si sentiva più libero dello schiavo.

L’ulteriore passaggio dalla servitù al lavoro salariato del capitalismo ha comportato la trasformazione del monoteismo assoluto in un monoteismo privo di dogmi, liberamente interpretabile, cioè a una sorta di cripto-ateismo o di pratico agnosticismo, in cui s’impone una certa indifferenza alle verità dogmatiche. Questo spiega il motivo per cui il passaggio dal lavoro salariato a quello autogestito liberamente dovrà necessariamente comportare anche quello dall’agnosticismo religioso all’ateismo vero e proprio.

Il linguaggio quindi non può mai avere una connotazione religiosa che gli impedisca di evolversi. I dogmi sono una forma di ingenuità; e, in ogni caso, se può essere giusta l’esigenza di trovare delle definizioni più obiettive di altre, in quanto non esistono solo verità soggettive (personali), ma anche verità oggettive (collettive), non ha alcun senso perseguitare chi non le condivide. Usare i dogmi in chiave politica è un’aberrazione, di cui non s’è resa responsabile solo la chiesa romana ma anche i moderni totalitarismi.

Un collettivo può usare un dogma per espellere da sé chi non lo condivide, ma non può muovergli guerra. Peraltro chiunque dovrebbe sapere che i dogmi non si reggono in piedi da soli. Essi riflettono esperienze in atto, le quali, a loro volta, rispondono a bisogni e interessi specifici, e anche questi, col tempo, mutano enormemente.

Se proprio si volessero elaborare dei dogmi, sarebbe meglio farlo in maniera negativa, cioè apofatica, quella che viene usata non per affermare delle verità, ma per negare delle falsità, poiché tutti sanno che un’affermazione è allo stesso tempo una negazione che tende a escludere qualcosa che potrebbe col tempo rivelarsi molto importante.

Una negazione ha il pregio di lasciare aperto il campo a più possibilità. Se p.es. viene detto “non rubare”, sono infinite le possibilità in cui uno può vivere in maniera onesta. Se si dà invece una definizione astratta dell’onestà, che pretende d’essere, nella sua astrattezza, molto precisa, alla maniera filosofica o teologica, saranno infinite le obiezioni circa la sua effettiva applicabilità. Perché costringere gli uomini alle definizioni di una teoria quando sarebbe meglio lasciarli liberi nel cercare la pratica migliore?

Ecco perché bisogna sempre affermare che la verità è relativa, limitandosi, al massimo, a distinguere quella soggettiva, dell’individuo singolo, da quella oggettiva, decisa da istanze collettive, le quali devono dare per scontato che la verità assoluta è un obiettivo il cui raggiungimento non può certo essere stabilito a priori.

Lettera sull’apartheid in Palestina scritta dal giornalista Arjan El Fassed, che la firma polemicamente Nelson Mandela, al giornalista filo israeliano Thomas Friedman, che aveva scritto ad Arafat una lettera imitando George Bush figlio

Date le dichiarazioni di Obama, può essere utile riportare dal sito dal sito http://zeitun.ning.com/forum/topics/apartheid-nella-palestina-una una lettera di 11 anni fa firmata Mandela, ma che non è di Mandela, oggi quanto mai attuale. Come si legge all’inizio dell’articolo del  link citato, “Questa lettera è stata scritta nel marzo 2001 e si trova sul sito Media Monitors Network di un giornalista presumiamo palestinese Arjan El Fassed . In questi giorni è rimbalzata sulle mailing list. A seguire la bella lettera scritta da Arjan El Fassed alias Nelson Mandela a Thomas Friedman (famoso giornalista del New York Times) Infatti la lettera non e’ di Nelson Mandela, bensi’ di Arjan El Fassed, scritta nel marzo del 2001, in stile “mandeliano”, in risposta a un articolo di Friedman del 27 marzo 2001 in stile George W. Bush come lettera ad Arafat”.

“Caro Thomas,

So che entrambi desideriamo la pace in Medioriente, ma prima che tu continui a parlare di condizioni necessarie da una prospettiva israeliana, devi sapere quello che io penso. Da dove cominciare? Che ne dici del 1964? Lascia che ti citi le mie parole durante il processo contro di me. Oggi esse sono vere quanto lo erano allora:

“Ho combattuto contro la dominazione dei bianchi ed ho combattuto contro la dominazione dei neri. Ho vissuto con l’ideale di una societa’ libera e democratica in cui tutte le sue componenti vivessero in armonia e con uguali opportunita’. E’ un ideale che spero di realizzare. Ma, se ce ne fosse bisogno, e’ un ideale per cui sono disposto a morire”.

Oggi il mondo, quello bianco e quello nero, riconosce che l’apartheid non ha futuro. In Sud Africa esso e’ finito grazie all’azione delle nostre masse, determinate a costruire pace e sicurezza. Una tale determinazione non poteva non portare alla stabilizzazione della democrazia.

Probabilmente tu ritieni sia strano parlare di apartheid in relazione alla situazione in Palestina o, piu’ specificamente, ai rapporti tra palestinesi ed israeliani. Questo accade perche’ tu, erroneamente, ritieni che il problema palestinese sia iniziato nel 1967. Sembra che tu sia stupito del fatto che bisogna ancora risolvere i problemi del 1948, la componente piu’ importante dei quali e’ il Diritto al Ritorno dei profughi palestinesi.

Il conflitto israelo-palestinese non e’ una questione di occupazione militare e Israele non e’ un paese che si sia stabilito “normalmente” e che, nel 1967, ha occupato un altro paese. I palestinesi non lottano per uno “stato”, ma per la liberta’, l’indipendenza e l’uguaglianza, proprio come noi sudafricani. Continua a leggere

La moderna credulità

La credulità (o creduloneria) non è una prerogativa dei credenti, almeno non più di quanto oggi non lo sia per i non-credenti. Per capirci sul significato del termine, bisognerebbe anzitutto definirlo, ma la cosa non è facile.

Di regola, infatti, si è soliti applicare questo atteggiamento a una determinata categoria di persone: quelle che hanno una fede religiosa. Diciamo che chi crede in cose che vanno oltre la ragione umana è un ingenuo, e questo si verifica soprattutto tra i credenti, abituati per tradizione a considerare veri i miracoli, siano essi in forma di divina provvidenza, di inspiegabili mutazioni fisiche o di poteri sovrannaturali.

Oggi tuttavia, dopo mezzo millennio di secolarizzazione, non ha senso associare la credulità alla sola categoria dei credenti. Sono diventate troppe le persone non-credenti per rendere ancora legittima un’attribuzione così stretta.

Molti tra i non-credenti (agnostici o atei che siano) non si rendono conto di vivere, seppure in forma laicizzata, gli stessi atteggiamenti di credulità dei credenti. E questo è naturale. La religione ha una storia molto più lunga e per liberarsi dei suoi condizionamenti ci vorrà sicuramente molto tempo. Sicché può apparire del tutto normale che p.es. in luogo della “divina provvidenza” si creda nella “fortuna inaspettata”. Eventualmente, per costoro, saranno le vicende della vita a far capire che gli uomini devono appropriarsi del loro destino, per sentirsi davvero liberi.

Il problema però è un altro. Oggi la credulità non riguarda solo i credenti o i laici che si portano ancora dentro i condizionamenti della fede. Riguarda anche gli atei o gli agnostici convinti, quelli che pensano d’essersi emancipati definitivamente dalle chimere del passato. Li riguarda da vicino quando credono che determinate cose umane, create dagli uomini, possano funzionare da sole, come per magia o per incanto. P.es. le istituzioni o gli Stati, i quali, proprio a motivo della loro astrattezza, favoriscono gli atteggiamenti deresponsabilizzanti, quelli tipici di chi delega ad altri funzioni o poteri.

Sono istituzioni umane, messe in piedi contro forme clericali di autoritarismo del passato feudale, che però, in ultima istanza, riproducono, seppur laicamente, gli stessi difetti di quelle forme.

Una delle credulità più tipiche delle società borghesi è quella di ritenere che i mercati abbiano in sé la facoltà di risolvere ogni problema. Il valore di scambio è come un feticcio da adorare, un tabù inviolabile. Il valore d’uso, che implica l’autoconsumo, non si deve neppur nominare.

Gli Stati sono lo strumento principale di cui la borghesia si serve per dimostrare, a chi non vi crede, che la logica del mercato è l’unica in grado di garantire la democrazia. La stessa democrazia delegata o rappresentativa, che si esercita nei parlamenti nazionali, è la quintessenza della credulità politica. Ai cittadini vien fatto credere che, votando i loro rappresentanti, questi faranno davvero la volontà degli elettori.

Altri miraggi creati artificialmente dai poteri costituiti riguardano il nostro rapporto con la natura. Nonostante i periodici disastri causati da un uso dissennato delle risorse ambientali, ci viene sempre detto che il primato spetta all’uomo, alle sue esigenze (di lavoro, qualunque esso sia) e che la natura è soltanto uno strumento per soddisfarle al meglio.

E noi siamo convinti che questo ragionamento sia giusto, proprio perché ce ne fanno sempre un altro collaterale, e cioè che ad ogni problema si può facilmente trovare una soluzione con la nostra scienza e tecnologia, e che quando non la si trova non è per un limite oggettivo, ma per una mancanza di volontà politica.

Insomma noi viviamo come in una gigantesca bolla di sapone, nel mondo dei sogni. Siamo creduloni anche in quanto atei o agnostici convinti, proprio perché abbiamo uno strano culto del progresso e non ci piacciono i disfattisti, i catastrofisti. Vogliamo essere ottimisti ad oltranza, anche perché non vediamo all’orizzonte alternative davvero praticabili.

Ci piace credere che, in un modo o nell’altro, presto o tardi, le cose si aggiusteranno. E ci dispiace vedere che chi ci ha messo dentro questa bolla, ora stia approfittando della nostra buona fede, della nostra predisposizione alla credulità.

Ecco ora abbiamo forse trovato la definizione che prima cercavamo: credulità vuol dire essere indotti a credere che un potere a noi esterno abbia, nei confronti dei problemi da risolvere, più risorse di quante ne abbiamo noi.

Il primo anno di vita del governo dei tecnici, cioè della famosa “società civile”.

E dunque venerdì prossimo, 16 novembre, il governo Monti compie un anno. L’entusiasmo con il quale venne accolto alla nascita si è spento. Al punto che nessuno vuole resti in carica dopo le prossime elezioni, che si terranno forse il 7 aprile dell’anno prossimo. A Mario Monti ogni tanto scappa detto “Se necessario sono disposto a restare”, ma nessuno raccoglie: un modo silenzioso per dire che necessario proprio no, non lo è più. Anche il presidente della Repubblica, quel Giorgio Napolitano che lo ha voluto insediare forzando un po’ la mano all’ortodossia istituzionale, non si spende più molto per lui. Ormai il premier docente di economia pare un meccanico che riparata l’auto in panne viene ringraziato dai padroni del veicolo in modo che sia ben chiaro che deve mollare il volante, e senza neppure dargli il tempo di rodare le riparazioni.

Monti ha detto – a Bruno Vespa – di “aver sottoposto il Paese a dosi di riforme mai viste in passato”. Sì, ma sono servite a risolvere i problemi per i quali era stato chiamato e di fatto imposto? Ha saputo riparare l’auto in modo che non vada rapidamente in panne di nuovo? Ai posteri – e agli elettori – l’ardua sentenza. Per ora, dopo un anno di vita, il governo dei tecnici somiglia molto a un insieme di volenterosi dilettanti più o meno allo sbaraglio. L’uscita dal guado, dalla crisi economica e finanziaria, dalla voragine del debito pubblico, dalla troppa disoccupazione non solo giovanile e dal pericolo di bancarotta nazionale, viene sempre data al condizionale: speranza certa, ma non ancora realizzata, traguardo possibile, quasi certo ma non certo, a portata di mano ma non ancora acchiappato con le mani. Verbi al condizionale o al futuro, con le stesse parole dei primi giorni di governo Monti. Intanto come al solito sono bastonati abbastanza cinicamente i meno fortunati e molto poco colpiti i privilegiati e gli arricchiti. Continua a leggere

La rielezione di Obama dimostra che anche sui torti peggiori si può voltar pagina. Volendo. Le balorde accuse dei sionisti antisemiti

Bene. Obama è stato rieletto. Gli Usa hanno avuto dunque presidenti non solo wasp  – acronimo delle parole white, anglo, saxon, protestant – ma anche di religione cattolica e perfino di “razza” nera, la “razza” dei milioni di esseri umani importati a forza come schiavi e discriminati con un apartheid tanto laido quanto legale fino a pochi ani fa. Anzi, il presidente di “razza” nera è stato pure rieletto. Per giunta battendo un concorrente di “razza” bianca ed esponente di una religione che più statunitense di così non si può, dato che i mormoni sono un prodotto made in Usa, nato direttamente nella Grande Mela, cioè a New York. La loro nascita e il loro consolidamento non sono stati affatto facili, combattuti come sono stati per un bel pezzo all’inizio. Tralascio il fatto che il mormonismo si basa su miti, frottole e truffe fin troppo evidenti, perché questa è una caratteristica di tutte le religioni di successo, specie se c’è di mezzo la bibbia, che in quanto a miti e falsi storici credo ne detenga il record mondiale. Il mormonismo infatti si chiama così perché deriva da Mormon, nome del profeta (!) al quale viene attribuito il Libro di Mormon, che il fondatore delle nuova religione, Joseph Smith, pubblicò nel marzo del 1830 dichiarando di averlo tradotto da una antica e sconosciuta lingua… No comment. Se Maometto sognava Dio che gli dettava tutto di notte, Smith aveva invece molte “visioni angeliche”, in base alle quali il 6 aprile 1830 fondò con altre cinque persone nei paraggi di New York la Chiesa di Cristo, come se di Chiesa di Cristo non ci fosse già da un bel pezzo il cristianesimo. Anche qui, no comment. In seguito il nome mutò in Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni, e ovviamente neppure tra i mormoni mancarono rivalità e scismi, tanto per cambiare. E tanto per cambiare la donna era considerata un oggetto sottomesso, molto sottomesso, a partire dalla poligamia, ovviamente senza poliandria. Continua a leggere

PFM si diventa, il nuovo libro di Renzo Stefanel dai Quelli a “Storia di un minuto”

Non sono mai stata un’appassionata del progressive, ma segnalo ugualmente, e volentieri, perché ricco di curiosità il terzo libro di Renzo Stefanel, “Storia di un minuto”, scritto a quattro mani con il collega Antonio Oleari. «Io mi sono dedicato alle interviste, una trentina – racconta Renzo, collaboratore ormai storico del Gazzettino e di rock.it – ho sentito quelli che lavoravano nell’ambiente della musica italiana dell’epoca, da paroliere Mogol al discografico Sandro Colombini, ai proprietari dei locali dove i Quelli prima e la Pfm poi suonavano a cavallo tra i Sessanta e i Settanta. Ne esce una ricostruzione storica senza imprecisioni, e dunque con grosse, succose novità per i fans».

La cronologia  della nascita dell’unico gruppo rock e prog italiano ad essere ancora noto all’estero, corretta e definitiva, chiarisce ad esempio l’esperienza dei Krel: «Finora si pensava fossero una formazione intermedia tra i Quelli e la Pfm, mentre il loro 45 giri e la loro cover di “Pà diglielo a mà” di un certo  Rosalino Cellamare,  uscita in una compilation sanremese, furono seguite da un altro 45 giri dei Quelli, che tutti davano per precedente».  Stefanel e Oleari seguono il quintetto composto da Franz Di Cioccio batteria e voce, Franco Mussida chitarra e voce, Mauro Pagani flauto, violino e voce, Giorgio Piazza basso e Flavio Premoli tastiere e voce, tutti intervistati nei mesi scorsi, dalle prove nei locali del bresciano e del bergamasco all’uscita del loro primo, mitico disco, “Storia di un minuto”, ripubblicato rimasterizzato in questi giorni in un set con “Per un amico” e un terzo cd con rarità dal vivo. «La Pfm ebbe piena libertà compositiva dalla Numero Uno, che puntò sulle potenzialità della band dopo la sua vittoria nel 1971 al festival di Viareggio, nonostante non avesse ancora un’incisione all’attivo. Il primo 45 giri aveva “La carrozza di Hans”, con il testo cambiato rispetto alla precedente versione dal vivo, sul lato A e “Impressioni di settembre” su quello B. Fu il primo gruppo, pur senza frontman,  a conquistare la posizione numero 1 della hit parade italiana, fino ad allora riservato ad un cantante o cantautore singolo». Renzo mi raccontava anche la partecipazione della neonata Pfm alla contro Canzonissima al Piper di Roma: otto a salire sul palco nel gennaio del 1972, tra cui Guccini, i Delirium, The trip, le Orme. Non è riuscito invece a confermare una mia impressione (non di settembre): ovvero che il prog sia più amato dai maschi che alle femmine. Mi ha però suggerito che forse è perché era una musica  molto legata alla perizia tecnica e al virtuosismo, cerebrale più che di pancia insomma…

L’etica della guerra e la guerra dell’etica

Le guerre sono l’esigenza di un’etica che si sente forte e che si è indebolita: un’etica malsana, individualistica, abituata a usare non l’esempio ma la forza per imporsi, e che quando riesce a ottenere ciò che vuole, diventa molle, s’infiacchisce, e non sa più come affrontare le proprie insanabili contraddizioni, i propri limiti egoistici.

L’esigenza della guerra è connaturata a una sorta di vuoto esistenziale, così tipico di quelle società (e financo di quelle civiltà) disposte anche a morire pur di trionfare sui più deboli.

E’ un’esigenza ciclica, che si ripete a ritmi alterni: a periodi di pace, in cui l’etica si rilassa, subentrano periodi di guerra, in cui l’etica si irrobustisce.

L’etica della guerra è un’etica di conquista, quella mediante cui il più forte vuole dominare. E’ l’etica del sacrificio, del coraggio, del disprezzo per la morte o per il dolore. E’ l’etica dell’obbedienza, del cameratismo, dell’altruismo nei confronti dei propri compagni, e dell’odio spietato nei confronti del proprio nemico. Si impara ad amare e a odiare nello stesso momento, con la stessa intensità.

E’ un’etica schizofrenica, lacerata, che illude i combattenti di poter diventare migliori proprio mentre uccidono qualcuno. L’omicidio viene giustificato in nome della guerra, cioè in nome del fatto che, siccome non si riesce ad amare nella pace, si deve provare a farlo nella guerra. E chi non è un “compagno” da amare e rispettare, è visto solo come un nemico da abbattere.

La paura di non-essere fa nascere le guerre, che infatti servono per affermare un “proprio essere”, l’essere della cultura, della nazione, della civiltà a cui si appartiene.

E sono guerre non di difesa ma di attacco. Non si sta difendendo legittimamente il proprio territorio, ma si sta occupando quello altrui. E mentre lo si occupa, si sviluppa l’etica, i cui valori sono finalizzati alla conquista e alla distruzione di chi fa resistenza.

E il militare non può aver dubbi di sorta: sta combattendo una guerra giusta, a favore della civiltà, della libertà, della giustizia, della scienza, del progresso e soprattutto dei valori umani universali.

Il soldato mette a repentaglio la propria vita per il bene dell’umanità e spera d’essere considerato un prode, un valoroso, addirittura un eroe. Viene ingannato dai suoi superiori e finisce con l’ingannare se stesso.

Prima della guerra l’etica era così debole che non si riusciva più a distinguere il bene dal male. E men che meno si può pensare di farlo durante la guerra, dominata dal principio mors tua, vita mea. E’ impossibile far chiarezza mentre si combatte, proprio perché la guerra rende elementari tutti i principi etici: o uccidi o vieni ucciso. Al massimo si può obiettare all’ordine di uccidere, se questo viola la dignità umana. Ma è molto raro vederlo.

La vera etica, quella umana, non può essere decisa durante la guerra: va decisa o prima o dopo. E quando non si riesce a farlo in tempo, la guerra diventa inevitabile; e se non si riesce a farlo neppure dopo, la guerra è stata inutile.

Al di là dei giornalisti e degli avvocati

Le giustificazioni che diamo alle nostre azioni hanno sempre un valore molto limitato. La cronaca nera, in tal senso, andrebbe abolita, poiché stimola l’illusione di credere, sulla base di poche righe, che si possa capire la motivazione delle azioni criminose.

Anche quando si raccontano gli eventi apparentemente più banali, come per esempio quell’anziano che si è lasciato uccidere da un giovane che voleva derubarlo, si presume sempre di sapere la verità dei fatti. Cioè ci si vanta di sapere che il motivo di quell’omicidio era l’unico possibile, il più reale, quello che concretamente aveva posto fine a un’esistenza.

Così facendo, il giornalista appare persino peggiore di quell’ispettore di polizia che, brancolando nel buio dei plausibili moventi del delitto, si limita a dire: “stiamo seguendo tutte le piste”, “non scartiamo nessuna ipotesi”. In tal modo chi ascolta quell’ispettore può forse sperare che in un omicidio vi siano diverse motivazioni e non soltanto quella in apparenza più evidente.

Se il giornalista cercasse ciò che sta sotto ad ogni azione delittuosa, forse renderebbe il crimine più comprensibile e il criminale più umano, o comunque eviterebbe di trasformarlo in un mostro. Il lettore infatti va abituato a credere che nessuno è del tutto innocente: neanche lui stesso che legge l’articolo di un omicidio di cui non si sente colpevole, almeno non in maniera immediata o diretta.

Un giornalista non dovrebbe sensazionalizzare i fatti, ma trarne spunto per compiere un’operazione di pedagogia sociale. Dovrebbe anzitutto disilludere chi plaude a interpretazioni unilaterali, forzate o comunque affrettate. Dovrebbe disincentivare le banalizzazioni.

Se un anziano si lascia uccidere per non essere rapinato, il cronista dovrebbe chiedersi qualcosa di più psicologico. Aveva forse vissuto gran parte della sua vita in miseria e ora voleva godersi il frutto della sua fatica, senza doverlo regalare a nessuno? O forse aveva un pessimo carattere, che gli impediva di avere pietà nei confronti di chi si trova in stato di bisogno? Oppure odiava i giovani perché li considerava tutti i fannulloni? O forse odiava proprio quel giovane, perché magari era uno straniero o perché era un suo parente? O forse odiava così tanto se stesso che, proprio grazie a quel furto, era riuscito a trasformare un suicidio in un omicidio?

Se un figlio uccide i propri genitori, volendo avere in anticipo l’eredità, non si può considerare questa come unico movente del delitto, né ci si può limitare a sostenere l’infermità mentale dell’assassino, come invece fanno i suoi avvocati, quando tentano di salvarlo o di ridurgli la pena al minimo previsto.

Sotto questo aspetto i processi sono non meno inutili degli articoli di cronaca nera. Anzi sono peggio, poiché da una curiosità di bassa lega, fine a se stessa, si passa a una mistificazione della realtà, mediante cui una persona sana viene fatta passare per una che, almeno nel momento in cui compiva il delitto, era incapace di intendere e di volere, quando addirittura non passa per una vittima che s’era comportata, seppur in modo sbagliato, per superare le proprie frustrazioni.

Un giudice o una giuria valuta i fatti e non si preoccupa molto delle intenzioni degli accusati, anche perché quelle vere l’avvocato non permette all’imputato di manifestarle, se possono, in qualche modo, nuocere alla causa. Sicché anche quando, al contrario, vengono rivelate, in tutta onestà, si pensa sempre che o l’avvocato o l’imputato stiano mentendo, poiché per principio si è sospettosi nei confronti di tutti gli avvocati.

Giornalisti e avvocati sono persone di cui una società davvero democratica dovrebbe fare a meno. In presenza di un crimine sarebbe anzitutto meglio tacerlo, in modo da non spaventare ancora di più il colpevole, che, per pentirsi, ha bisogno d’essere capito e non giudicato e tanto meno giustiziato.

E’ quindi anche inutile processarlo e condannarlo a un isolamento forzato o comunque a una lunga pena detentiva. Queste cose non aiutano a pentirsi, ma a convincersi ancora di più che l’azione criminosa partiva da motivazioni giuste. Se una persona colpevole di qualcosa vede che chi la punisce usa dei metodi violenti, duri, quasi disumani, non troverà mai alcun motivo per pentirsi.

Ci vuole la rieducazione, finalizzata al reinserimento in società. Ora, l’unico modo per ottenerla è convincere il colpevole che una parte della sua colpevolezza appartiene alla società, a partire dai parenti più stretti, dagli amici e conoscenti, dai colleghi di lavoro ai compagni di partito o di sindacato, sino alle istituzioni in quanto tali.

Ci vogliono delle comunità di recupero in cui i colpevoli possano ascoltare con le loro orecchie le scuse di quanti non hanno fatto nulla per aiutarli nel momento del bisogno. Questi cosiddetti “criminali” potranno essere reintegrati in società soltanto quando si convinceranno che le richieste di perdono da parte dei cosiddetti “innocenti” sono mosse da intenzioni davvero oneste e sincere.

Se il perdono è reciproco, la reiterazione del crimine sarà molto meno probabile, e quand’anche non fosse così, si saranno comunque poste le basi per un affronto più responsabile dei problemi, che è quello in cui una persona non si sente mai sola.

La fine della matematica

La regina delle scienze europee e oggi, se vogliamo, del mondo intero è indubbiamente la matematica, che in origine includeva la geometria e l’aritmetica.

Pur non essendo nata in Europa, ma in Mesopotamia e in Egitto, non senza significativi apporti da Cina, India e civiltà mesoamericane, essa ha trovato in Europa e quindi nel Nordamerica il suo compimento, obbligando l’intero genere umano ad adeguarvisi.

Grazie alla capacità di fare calcoli complessi, gli europei hanno saputo sviluppare enormemente tre scienze fondamentali per la loro esistenza: fisica, economia e astronomia.

La matematica più la fisica hanno reso possibili l’ingegneria e l’astronomia, cioè il controllo della natura su questo pianeta e nei cieli.

La matematica più i mercati e la produzione manifatturiera e industriale hanno creato una serie di scienze economiche e finanziarie su cui si regge l’intera civiltà capitalistica.

Oggi la matematica sembra aver trovato la sua apoteosi unificando, in un’unica scienza – l’informatica - un complesso di scienze, come la logica formale, la fisica, la chimica e la stessa ingegneria. L’informatica siamo soliti distinguerla in due grandi campi: software e hardware. Grazie al fenomeno delle reti digitali, è infine sorta la telematica, che ci fa sembrare il mondo il giardino di casa nostra.

Tutte scienze che l’Occidente ha sempre usato in maniera pacifica e violenta, per costruire rapporti sociali e per distruggerli.

Il motivo di questa schizofrenia sta soprattutto nel tipo di civiltà in cui queste scienze vengono sviluppate. Una civiltà caratterizzata da due contraddizioni fondamentali: l’antagonismo sociale che oppone in maniera irriducibile il possidente al nullatenente; la netta subordinazione della natura agli interessi di uomini abituati alla violenza.

Sulla base della matematica abbiamo sviluppato una civiltà malata, e con la matematica ci illudiamo di poterla sanare. La coscienza è stata messa sotto i piedi della scienza, nella convinzione che, così facendo, sia l’una che l’altra siano davvero oggettive, imparziali, al servizio del benessere e del progresso.

Ci hanno voluto far credere che a ogni problema vi fosse una soluzione, senza dover per forza affrontare le cause ultime della generale sofferenza. Noi pensiamo che tutto rientri in una questione meramente quantitativa, senza dover chiamare in causa alcuna qualità.

Persino chi dice di voler difendere i lavoratori, non fa che pretendere un diritto astratto al lavoro, un diritto al lavoro in sé, a prescindere dal suo impatto sulla natura. Il socialismo riformista chiede di redistribuire il reddito, senza chiedersi se il tipo di rapporto di lavoro che lo produce abbia un senso.

Siamo schiacciati dai ricatti della quantità. Continuamente ci dicono che i conti devono tornare (loro che non li sanno fare), che i debiti vanno pagati (loro che li hanno accumulati), che le variazioni alle richieste di sacrifici possono essere fatte solo a saldi invariati (loro che sono privilegiati e che vivono di rendita).

Ci terrorizzano quando perdiamo punti percentuali del prodotto interno lordo, che è però un indice meramente quantitativo, non in grado di dire alcunché sull’effettiva qualità della vita.

Come i pitagorici abbiamo ridotto l’essere al numero e ci siamo lasciati trasformare da persone pensanti a produttori automatizzati, a consumatori di beni, per i quali trasformiamo la nostra esistenza in un mero contenitore di oggetti, in virtù dei quali dovremmo sentirci migliori o più moderni.

La pubblicità ci fa desiderare cose che, per essere, non ci servono a nulla: servono solo per apparire e per arricchire chi produce quelle cose e chi le rivende, come se il valore d’uso di un qualunque oggetto fosse solo il suo valore di scambio, il suo prezzo di mercato: tutti numeri che intaccano la nostra esigenza d’essere umani e naturali.

Contro questa vita insensata noi dovremmo fare resistenza, come l’hanno fatta i nostri padri nei confronti delle dittature politiche. Dobbiamo convincerci che la dittatura può essere più subdola di quella del passato, più economica che politica, più parlamentare che militare. E’ la dittatura della democrazia borghese che dobbiamo superare.

Dobbiamo spegnere i televisori, i cellulari e i computer mandando in tilt il sistema. Non dobbiamo aspettare di vederlo saltare quando non avremo più energia da usare: dovremmo farlo saltare subito usandone troppo poca, giusto per disabituarli a credere che il mondo giri intorno a loro.

E l’energia che avremo tolto al sistema, la useremo per tornare a vederci di persona, chiedendoci cosa possiamo fare, lì dove siamo, per uscire definitivamente da questo incubo, da questo sogno pazzesco che, come nei miraggi, ci fa vedere l’acqua là dove c’è solo sabbia.