Come uscire dalla corruzione

Quando la società arriva a un punto in cui ciò che fa un delinquente per poter vivere non è molto diverso da ciò che fa un uomo di potere, legalmente riconosciuto, si può tranquillamente dire – guardando le cose dall’esterno – che la corruzione è al 100%.

Infatti, se queste due categorie di persone, formalmente così distanti ma sostanzialmente così vicine, possono coesistere senza particolari problemi, allora vuol dire che tutte le persone oneste non hanno sufficiente potere per impedirlo e che qualunque persona onesta può anche diventare, a seconda delle situazioni, un delinquente legale o illegale.

Quando si dice: “è solo questione di prezzo” o “a ciascuno il suo prezzo”, si ha ragione, ma solo in parte; occorrono infatti anche occasioni in grado di influenzare le coscienze, persone capaci di indurre a compiere determinate azioni.

In tal senso le persone oneste più fragili (in senso materiale o morale) sono quelle indigenti o indebitate, o quelle meno acculturate o meno competenti o poco capaci a svolgere mansioni davvero produttive, spendibili sul mercato, o, più in generale, quelle che non si accontentano, quelle che vogliono avere uno stile di vita al di sopra delle loro possibilità, quelle che vogliono fare carriera… Si nasce onesti, ma facilmente si smette di esserlo in una società dominata dalla corruzione.

Generalmente i criminali illegali sono quelli che non hanno avuto le condizioni sufficienti (morali o materiali) per restare onesti, e neppure le condizioni sufficienti (morali o materiali) per diventare dei delinquenti legali.

Una qualunque resistenza individuale a una corruzione di tal genere non serve certo a modificare le cose. Al massimo può servire per continuare a restare individualmente puliti.

Tuttavia per organizzare una resistenza collettiva occorre che gli effetti della corruzione si siano ampiamente diffusi nel tessuto urbano, al punto da renderlo invivibile. Una soluzione individuale a questo problema è l’emigrazione verso altri paesi, in cui si spera che la corruzione non sia così forte.

Una soluzione governativa è la dichiarazione di guerra a un governo straniero, semplicemente per distogliere l’attenzione delle masse dai problemi interni.

Una soluzione popolare è la guerra civile, che però deve arrivare a una rivoluzione vera e propria, altrimenti si trasforma in un inutile bagno di sangue. Scegliere una soluzione o l’altra dipende solo da una cosa: il livello di maturità politica delle masse.

Come uscire dal circolo vizioso del sistema

Il capitalismo funziona bene quando il tasso di sfruttamento del lavoro è molto elevato. Esattamente come lo schiavismo funzionava bene quando, in seguito alle guerre vittoriose, era molto elevato il numero degli schiavi sul mercato (questo spiega perché i Romani crearono la loro ricchezza sotto la Repubblica senatoriale e si limitarono a gestirla sotto l’Impero dittatoriale).

Se le guerre non sono più vittoriose o se ci si deve limitare a una mera strategia difensiva, oppure se gli schiavi di ribellano, o se cominciano a rendersi autonome le colonie (che i Romani chiamavano province) o a rivendicare sempre più diritti, le cose non possono funzionare più come prima.

Oggi dobbiamo dire lo stesso nei confronti delle rivendicazioni salariali degli operai e degli impiegati o nei confronti della volontà di emergere dei paesi del Terzo Mondo. Il capitale non riesce più a sfruttare come prima, al punto che qualcuno comincia a rimpiangere i tempi in cui c’era più dittatura.

D’altra parte quando c’è antagonismo sociale non si può vincere in due: uno deve per forza perdere. Darwin, quando pensava al mondo animale, chiamava questo processo “selezione naturale” e la definizione, applicata poi agli “umani”, ha avuto molta fortuna.

Gli imprenditori oggi sono come i generali romani di una volta, che coi loro eserciti andavano in guerra per fare fortuna. Poi, quando l’avevano fatta, diventavano senatori, ricchi latifondisti, governatori di province, alti funzionari, oppure addirittura imperatori.

Oggi non si ha bisogno di fare guerre di tipo militare: è sufficiente farle con le armi dell’economia e della finanza. Tra i Romani e noi ci sono di mezzo le tecnologie, l’uso capitalistico del denaro e anche il fatto che il lavoratore gode della libertà personale, quella formale di tipo giuridico.

Le ferite che ci lecchiamo non sono più quelle procurate da una spada, ma dall’aumento dei prezzi, delle tariffe, dei tassi sui mutui, delle imposte dirette e indirette, delle perdite in borsa, dei debiti, degli affitti e soprattutto sono procurate dal fatto che i salari e gli stipendi non riescono a tenere il passo di tutte queste cose.

Oggi un imprenditore sa bene che se la manodopera non viene sfruttata al massimo, rischia di dover chiudere (eventualmente trasferendosi in quei paesi dove il costo del lavoro è irrisorio). Questo perché deve sostenere spese sempre più ingenti nei macchinari, nell’amministrazione, nelle tangenti al potere politico e criminale, nelle strategie di marketing, ecc.

La concorrenza li obbliga a uno stress insostenibile, a dei rischi inaccettabili. La legge della caduta tendenziale del saggio del profitto – che Marx elaborò nel III libro del Capitale e che non ebbe mai il tempo di approfondire – li spaventa, perché, pur non conoscendola, la possono constatare abbastanza facilmente. Ecco perché tendono a delocalizzare le loro ricchezze dai paesi più avanzati a quelli meno, oppure dall’economia alla finanza, dove hanno problemi più facili da affrontare.

Il capitalismo ha bisogno di avere situazioni di precarietà sociale, in cui la gente è disposta a lavorare per un salario minimo. Situazioni del genere si verificano quando un paese entra in guerra, cioè quando parte della ricchezza sociale di una nazione viene distrutta molto velocemente. Le guerre infatti sono periodiche in questo sistema. D’altra parte quando i debiti sono talmente grandi che per potervi in qualche modo far fronte bisogna per forza impoverirsi, è relativamente facile che da una situazione del genere si passi all’esigenza di dichiarare guerra a qualcuno, magari anche solo per scongiurare il rischio di una guerra civile interna.

Purtroppo per noi il sistema ci ha insegnato che solo quando le cose sono sufficientemente devastate, si può ricominciare a sperare che la situazione migliori. Si arriva a un punto oltre il quale non si può andare avanti e, se si vuole sopravvivere con i medesimi criteri e metodi, bisogna prima distruggere buona parte della ricchezza collettiva.

E’ come passare da un mazzo di 104 carte a uno di 52 per poter continuare a giocare. Ci vuole una specie di peste bubbonica, come quella che nel Trecento eliminò un terzo della popolazione europea. Fu proprio la peste che accelerò la trasformazione delle Signorie italiane in Principati: cosa resa possibile, naturalmente, anche a causa della scarsa combattività del mondo del lavoro, il cui apice in Italia fu raggiunto col Tumulto dei Ciompi a Firenze, nel 1378.

Questo meccanismo infernale che ha il capitalismo, di autodistruggersi parzialmente per poi rinascere come l’Araba fenice, andrebbe superato una volta per tutte. L’unico modo per poterlo fare è noto da molto tempo: togliere agli imprenditori e a tutti i gestori dell’economia finanziaria il potere di decidere da soli quali debbano essere i criteri con cui vivere la vita.

Bisognerebbe però precisare, a scanso di equivoci, che non può più essere considerato sufficiente togliere al capitale la proprietà degli strumenti produttivi e finanziari, senza ripensare completamente gli stili di vita. E, in tal senso, non dobbiamo dare per scontato l’utilizzo delle stesse tecnologie del capitalismo, seppur gestite da lavoratori-proprietari.

Dobbiamo tenerci pronti o a far saltare tutto il sistema (e non solo una sua parte), o ad approfittare delle sue debolezze quando sarà costretto a saltare da solo per potersi autorigenerare. Se non approfitteremo di quel momento favorevole, stiamo pur certi che il capitale farà pagare al lavoro le conseguenze della propria crisi, partendo ovviamente dai ceti più deboli. La crisi infatti non è di crescita (quella che permette ai lavoratori, col tempo, di migliorare le loro condizioni), ma solo di autoconservazione. Sarà un bagno di sangue soprattutto per chi ha già il corpo piagato.

Ecco perché sin da adesso dovremmo chiederci come uscire da questo inferno – che è in fondo un assurdo circolo vizioso -, partendo dai criteri di soddisfazione dei bisogni primari quotidiani. Se non recuperiamo un rapporto stretto, diretto, con la natura, se non ci riappropriamo di ciò che costituisce la base materiale della nostra esistenza, sottraendola a una gestione anonima, eterodiretta, incontrollabile (quale quella che si verifica negli attuali mercati di beni e servizi), noi saremo condannati in eterno a ripetere i nostri errori.

Solo con l’autogestione completa di un territorio ha senso parlare di democrazia. “Esta selva selvaggia e aspra e forte, / che nel pensier rinnova la paura”, non può essere vinta coi metodi e mezzi tradizionali. Bisogna fare una rivoluzione copernicana del pensiero, in virtù della quale l’uomo possa finalmente camminare coi propri piedi e non al guinzaglio di qualcuno.

Il fatto è purtroppo che noi occidentali, così abituati a sentirci onnipotenti, non riusciremo mai ad accettare un rapporto paritetico con la natura, a meno che delle gravissimi catastrofi non ci costringano a farlo. Forse l’unico momento in cui in Europa siamo stati capaci di questo, da quando sono sorte le civiltà antagonistiche, è quello che i manuali scolastici definiscono col termine di “epoca buia”, e cioè l’alto Medioevo. Ma in Europa son dovuti entrare i cosiddetti “barbari” per insegnarci a recuperare con la natura un rapporto equilibrato.

Tuttavia, già a partire dal Mille avevano ripreso, in Italia, un rapporto di sfruttamento delle risorse naturali, analogo a quello di epoca greco-romana. A partire dal Mille sono state tantissime le catastrofi che l’Europa ha subìto (innumerevoli guerre, terribili epidemie, carestie, devastazioni ambientali…), eppure non s’è mai avuta la forza d’invertire la marcia.

In un millennio la borghesia non solo è diventata potentissima, approfittando spesso proprio di quelle catastrofi, ma, quel che è peggio, è riuscita a diffondersi in tutto il pianeta, come un gigantesco virus. Lo sviluppo della borghesia capitalistica – che ha avuto il suo esordio proprio in Italia – è stata la più grande catastrofe dell’umanità. E ora che il testimone sta per essere preso da colossi numerici come Cina e India, il peggio, molto probabilmente, deve ancora venire. E nuovi “barbari” che tornino a insegnarci a vivere non se ne vedono all’orizzonte…

Il capitano Schettino è indifendibile, ma il suo linciaggio è vergognoso. La criminale diffusione della telefonata De Falco-Schettino ci cola a picco tutti. Per il salvataggio solo un elicottero, per le guerre invece….

Ho voluto tardare a bella posta a intervenire sul naufragio della Costa Concordia perché ero preso da un tale sdegno contro il comandante Francesco Schettino da ritrovarmi sorprendentemente nel coro degli urlatori di professione e forcaioli d’animo. Compagnia che mi imbarazza talmente da avermi consigliato prudenza. Anche perché l’esperienza ha dimostrato a suo tempo sulla mia pelle che le verità lanciate con grande clamore e immediatamente a ridosso dei fatti sono troppo spesso verità per modo di dire, se non baccano suscitato ad arte per nascondere la verità o sue importanti parti. Tant’è che avevo preparato un pezzo certo non a favore di Schettino, ma neppure di accettazione del “colpevole unico”, classico capro espiatorio per salvare il sedere di molti altri. Poi ho ascoltato – disgraziatamente – la telefonata tra Gregorio De Falco e Schettino. E m’è crollato il mondo addosso. Quella telefonata mostra l’intero vertice di comando della Costa Crociere talmente vile e ignominioso che non ci posso credere, mi rifiuto, la fuga di un comandante, per giunta assieme al suo secondo e terzo ufficiale, è un abominio inimmaginabile, roba che neppure in un film o in un pessimo sceneggiato da trash tv. Se le cose stessero davvero come sembra da quella telefonata, a dover fare hara hiri non è solo Schettino, ma qualunque italiano che ha pudore, perché quella telefonata, se fosse tutto come sembra, ci condanna come Italia intera, come popolo di ignavi, cialtroni, mascalzoni e irresponsabili. Neppure popolo “solo” da bunga bunga ed elettori entusiasti di gente come Bossi, Berlusconi, Calderoli…., ma addirittura di cialtroni da corte marziale e – infamia suprema – fucilazione alla schiena e con gli occhi bendati. Chiunque abbia passato così a razzo alla stampa la registrazione di quella telefonata, e, come vedremo meglio in seguito, si direbbe che pare possa essere stato solo De Falco, ha fatto una grande mignottata che ci ha accoltellato tutti alla schiena.

Cerchiamo quindi di ragionare. Schettino ha sbagliato ed è indifendibile. E’ stato lui stesso ad avere ammesso col magistrato una serie di circostanze che lo inchiodano: Continua a leggere

Dopo le balle sull’Iraq per poterlo invadere, le balle e le provocazioni all’Iran colpevole di esistere

Gridare che l’Iran “provoca gli Usa” o addirittura “sfida l’Occidente” solo perché conduce manovre navali davanti alle proprie coste e testa un paio di missili da appena 200 chilometri di gittata, non è molto onesto. Appare anzi piuttosto grottesco.  Le carte geografiche indicano chiaramente che il mare dove l’Iran sta conducendo esercitazioni navali si chiama “Golfo Persico”, come peraltro scrivono tutti i giornali,  che è come dire Golfo Iraniano. Infatti, la parte di mondo che una volta si chiamava Persia oggi si chiama Iran, ha cambiato nome né più e né meno come altri Stati. Per esempio, l’isola che chiamavamo Ceylon oggi preferisce chiamarsi Sry Lanka così come l’isola di Formosa è diventata Taiwan. Insomma, gridare contro queste manovre navali iraniane nelle acque “persiche” sarebbe un po’ come stracciarsi le vesti se l’Italia facesse esercitazioni navali nell’Adriatico. C’è semmai da trovare inopportuno che siano gli Stati Uniti ad avere mandato fin laggiù, in acque lontane molte migliaia di chilometri dalle coste americane, una potente flotta militare, dotata come al solito anche di bombe atomiche e comprendente una o più portaerei. In acque che per giunta, ripeto, si chiamano Golfo Persico e NON Golfo Statunitense o Baia di Hudson. Continua a leggere