E se i cattolici decidessero di abrogare l’art. 7 della Costituzione?

Rispetto all’autentico messaggio umano e politico del Cristo, ch’era privo di alcun connotato religioso, le eresie cristiane che hanno avuto maggior successo, in rapporto alla loro durata e diffusione geografica, sono state tre, che qui elenchiamo in ordine alla loro rigorosità teologica e raffinatezza mistica: ortodossia greco-bizantina (poi slava), cattolicesimo-romano (o latino) e evangelismo riformato (o protestantesimo luterano-calvinista).

L’ortodossia ha rappresentato il tentativo di restare fedeli ai principi fondamentali del cristianesimo petro-paolino, espressi in tutto il Nuovo Testamento. Per un laico è questa l’ideologia religiosa più difficile da superare, proprio perché essa va oltre la sfera “politica”.

Il cattolicesimo nasce nell’VIII secolo, con l’eresia filioquista (1), inserita nel Credo, considerata dagli ortodossi come la “madre” di tutte le eresie della chiesa romana; e ciò contestualmente alla nascita del potere temporale dello Stato pontificio nell’Italia centrale, grazie all’appoggio politico-militare dei Franchi. Tale eresia si formalizza ufficialmente nel 1054, con lo scisma, mai più sanato, tra cattolici e ortodossi.

La terza eresia nasce nel 1517, con la pubblicazione di 95 tesi teologiche che Lutero rivolge contro il papato, senza che ciò abbia mai comportato, da parte dei protestanti, un avvicinamento alle posizioni della chiesa ortodossa. Tra capitalismo e protestantesimo il rapporto è – come vuole M. Weber – “organico”, anche se oggi si sostiene che il capitalismo (pre-industriale) ha potuto porre tranquillamente le proprie basi nel basso Medioevo, grazie alla teologia cattolica (Scolastica, neoaristotelica).

All’interno di queste tre grandi eresie europee nei confronti di Gesù Cristo (e ognuna di esse anche nei confronti della precedente), si sono sviluppate altre varie centinaia di eresie, alcune delle quali, nonostante le persecuzioni subite, contano ancora oggi non pochi seguaci (nestoriani, copti, ecc.).

Tutte le centinaia di eresie minori sono nate per opporsi al concetto di “chiesa trionfante” (imperiale, statale, nazionale ecc.), ovvero per affermare un concetto di chiesa più democratico ed egualitario, che recuperasse le origini del cristianesimo apostolico.

Le prime eresie (arianesimo, nestorianesimo, monofisismo ecc.) apparvero tra il IV e il V secolo, quando il cristianesimo era divenuto, grazie agli imperatori Costantino e Teodosio, la religione dominante dell’impero romano.

L’unica eresia cristiana che ha cercato di trasformare la fede religiosa in un’appartenenza politica, che avesse valenza istituzionale e che si ponesse in alternativa all’autorità indipendente del sovrano (o dello Stato) è stata quella cattolico-romana, che è chiesa politica per definizione, in quanto ancora oggi legittimata da un proprio Stato autonomo, il cui monarca assoluto e infallibile (il papa-re) si considera indipendente dalle leggi di qualunque altro Stato.

Tutte le eresie cristiane apparse in Europa occidentale, dal Mille (a partire da quella catara) sino alle più recenti del XX secolo (modernisti, teologi della liberazione, cristiani per il socialismo ecc.) hanno sempre messo in discussione la legittimità del potere temporale della chiesa romana, ma nessuna è mai riuscita a riformarla in senso “spirituale”.

I cattolici che si definiscono “democratici” o “umanistici”, quelli aperti al “pluralismo”, alla “laicità”, dovrebbero sapere che un regime di separazione tra chiesa e Stato non può che far bene alla “spiritualità” della loro fede. E allora perché lasciano che siano soltanto i non-credenti a chiedere l’abrogazione dell’art. 7 della Costituzione? Per quale ragione la fede cattolica può dimostrare la propria fondatezza solo a condizione di detenere un certo potere politico? E soprattutto, perché questo potere politico viene sempre gestito in maniera antidemocratica, contro la laicità dello Stato? Per quale ragione un cittadino-cattolico prima è “cattolico” e poi “cittadino”?

(1) Con l’eresia filioquista il padre e il figlio, da cui lo spirito procede, vengono posti sullo stesso piano, mentre secondo gli ortodossi figlio e spirito sono simbolicamente “le due mani di dio”. Con questa eresia per la prima volta la chiesa, che rappresenta Cristo, si pone sullo stesso piano dell’imperatore, che rappresenta dio, mentre in area bizantina il patriarca, nelle questioni politiche, restava nettamente subordinato al basileus. Reinterpretando laicamente questo dogma si può sostenere che mentre nella teologia ortodossa l’ateismo si può rinvenire nell’idea di irrapresentabilità di dio, in quella cattolica invece la si può rinvenire nella stretta identificazione di realtà divina e papato: il che rispecchia la differenza tra teologia apofatica e catafatica.

Bucharin e il destino della Russia

Se non si leggono le opere di Nikolaj Bucharin, è difficile capire perché è fallito il socialismo di stato. Egli infatti esprime la posizione di chi voleva aiutare i contadini, conservando però l’idea di statalizzazione dell’economia (banche, industrie, trasporti, miniere, commercio con l’estero ecc.). Voleva sviluppare l’industria permettendo ai contadini di diventare borghesi. Voleva il capitalismo nelle campagne per ottenere il socialismo di stato nelle città. Iniziò a sostenere queste idee nel 1925 e, nonostante le sue successive rettifiche (in senso peggiorativo per le sorti dei contadini), tredici anni dopo venne fucilato dagli stalinisti.

I comunisti avevano fatto la rivoluzione coi contadini, ricchi e poveri, ma consideravano gli operai la loro punta di diamante: sia perché, non essendo proprietari di nulla, essi non avrebbero potuto imborghesirsi come gli agrari (kulaki); sia perché, militando nel partito bolscevico, non avevano rapporti con la chiesa, per cui erano ideologicamente più affidabili.

Una volta fatta la rivoluzione e superata la guerra civile e l’interventismo straniero, i comunisti non permisero ai contadini di svilupparsi autonomamente, ma solo in funzione degli operai e degli intellettuali, cioè dell’industria di stato e dell’apparato politico-amministrativo.

Ad un certo punto la differenza tra il gruppo di Bucharin e quello di Stalin stava soltanto nel modo di “usare” i contadini. Nessuno dei due gruppi metteva in discussione il “primato dell’industria”: semplicemente un gruppo pensava più a metodi di tipo economico (p.es. permettere ai contadini di arricchirsi, tassarli e concedere credito con banche statali), l’altro invece preferiva metodi di tipo amministrativo (il lavoro rurale va organizzato come quello operaio, essendo la terra un bene statale come le fabbriche).

A nessun bolscevico venne mai in mente di assegnare il primato dell’economia alla campagna (in un paese peraltro dove oltre l’80% dei lavoratori erano rurali), né di far ritornare gli operai alla terra, né, tanto meno, di favorire l’autoconsumo e il valore d’uso, o di potenziare le antiche comunità di villaggio (obscine) o di produrre soltanto quei beni industriali durevoli che venissero considerati assolutamente indispensabili alla riproduzione dei lavoratori e che non fossero lesivi per la tutela ambientale. A nessuno venne in mente di decentrare progressivamente, sul piano locale e regionale, i poteri politici ed economici.

Tutti avevano il terrore che in assenza di una statalizzazione e industrializzazione accelerata dell’economia, di una centralizzazione dei poteri decisionali, non solo sarebbero rinati il capitalismo e l’oscurantismo religioso, ma l’intera Russia sarebbe stata anche sconfitta dalle potenze straniere.

Così facendo però davano l’impressione che la rivoluzione socialista fosse stata un puro e semplice colpo di mano di pochi avventurieri, i quali naturalmente sapevano di non avere forze sufficienti per potersi difendere, alla lunga, dai nemici interni ed esterni.

I comunisti non hanno mai creduto in un consenso spontaneo da parte dei contadini, neppur dopo aver assegnato loro gran parte delle terre requisite ai latifondisti laici ed ecclesiastici.

Stalin subentrò a Bucharin (pur avendolo inizialmente appoggiato) quando ci si accorse che il capitalismo nelle campagne aveva reso i contadini troppo forti, in grado di ricattare non solo gli operai di città, ma tutti gli abitanti urbanizzati e persino il potere politico, la cui sopravvivenza dipendeva appunto dagli approvvigionamenti rurali.

I bolscevichi seppero solo fare la rivoluzione, ma, una volta al potere, fecero un errore dietro l’altro, tanto che, paradossalmente, se non fossero stati attaccati dai nazisti, è da presumere che sarebbero implosi prima. La vittoria, in quella terribile guerra patriottica, permise infatti a tutto il paese di non guardarsi allo specchio, di chiudere gli occhi sulle proprie contraddizioni e di andare avanti sino alla morte naturale di Stalin.

Poi improvvisamente si aprì un occhio in occasione della destalinizzazione politica voluta da Krusciov, e finalmente si aprì anche l’altro con la perestrojka di Gorbaciov, che fece capire il fallimento dell’economia sovietica, basato sull’illusione di far coincidere “pubblico” con “statale”.

In un’economia statalizzata, se non esistono motivazioni particolari – come appunto in caso di conflitti bellici -, si produce al minimo, senza interesse per la qualità e soprattutto si mente sui risultati raggiunti per non ricevere dall’alto ordini sempre più onerosi.

Purtroppo il destino ha voluto che dopo la perestrojka l’autocritica non sia approdata alla costruzione di un socialismo realmente democratico, bensì alla reintroduzione del capitalismo.

In tal senso il destino dei russi appare davvero incredibile: non solo hanno sofferto più degli altri paesi europei quando nel loro paese vigeva il feudalesimo; non solo hanno sofferto, prima di ogni altro paese europeo, i guasti del socialismo da caserma, ma ora, dopo aver capito, guardando noi, quanto si può soffrire sotto il capitalismo, hanno deciso consapevolmente di farci compagnia.

La gatta frettolosa. Autointervista su democrazia atea

- Hai visto la nascita del partito di democrazia atea?

- Sì e nonostante abbia condiviso il programma non m’è piaciuto il nome.

- Laico è troppo generico, non credi? Tutti i partiti lo sono o dicono di esserlo.

- Sì, ma associare la democrazia all’ateismo è troppo ideologico.

- Perché, una democrazia non può essere atea?

- Sì, in futuro, per adesso basta la laicità. Perché legare in maniera così stretta una questione politica a una di coscienza? Quale credente entrerà mai in un partito del genere? Persino gli agnostici si spaventeranno.

- Scusa ma chi li vuole i credenti in questo partito? Che ce ne facciamo di quei cattolici che fanno gli obiettori con certe leggi dello Stato?

- E vorresti obbligarli a non obiettare? Per farli sentire dei martiri? E poi che c’entra? Se una legge è contraria alla propria coscienza, uno deve ascoltare la coscienza. Se non fosse così, ancora oggi crederemmo alla divinità degli imperatori.

- Già, ma se tutti per motivi religiosi ascoltassero la loro coscienza, chi applicherebbe le leggi?

- Senti, se la laicità non è in grado di garantire il rispetto della coscienza religiosa, siamo proprio messi male. Figurati se ci riesce l’ateismo…

- Già, ma a che è servita tutta la laicità che abbiamo? Il Concordato è sempre lì e la chiesa s’intromette come e quando vuole nelle leggi dello Stato.

- E tu pensi di aumentare l’esigenza di laicità dichiarandoti politicamente ateo?

- E perché no? Buona parte della sinistra ha sempre detto che la laicità, l’indifferenza nei confronti della religione riguarda lo Stato non il partito.

- Dimmi te quale partito ha mai dichiarato l’ateismo nel proprio statuto?

- Lo so, ma qui bisogna dare una scossa a un paese bigotto e clericale. Abbiamo una dirigenza politica troppo indietro rispetto alla coscienza dei cittadini.

- E’ vero, ma in questa maniera rischiamo di ottenere l’effetto contrario a quello sperato. Chi non è ateo si spaventerà, perché penserà a qualcosa di obbligatorio, di troppo vincolante.

- Il fatto è che anche i credenti dicono di essere laici. Ormai non si sa più cosa vuol dire questa parola. Guarda la Costituzione: non c’è neppure il diritto di non credere. L’unica libertà prevista è quella di credere in questa o quella religione.

- Allora vorrà dire che ci giocheremo la posta sull’ambiguità del termine…

- In che senso?

- Nel senso che sarà la storia a decidere quale interpretazione dare alla parola “laicità”. Oggi certamente coll’articolo 7 della Costituzione è impossibile parlare di laicità. Questo lo capiscono tutti, non c’è bisogno di dirsi atei.

- Mi aspettavo da te un’altra critica.

- Quale?

- Quella che in fondo né la laicità né l’ateismo sono davvero importanti nella nostra società.

- Non volevo dirtelo, ma certamente le questioni economiche su un modello di sviluppo che ha fatto il suo tempo, per non parlare di quelle politiche sui limiti della democrazia delegata, sono per me di molto superiori.

- Questo non toglie che non si debba parlare di laicità. O vuoi fare come quei comunisti che non ne parlavano per paura di perdere il consenso dei cattolici?

- Già, se penso che sono stati proprio i comunisti ad accettare l’articolo 7… Però devi ammettere che la collaborazione oggi tra credenti e non credenti nel partito democratico sarebbe stata impensabile nei partiti della prima repubblica.

- Sbagliato! Erano proprio i temi forti dell’economia e della politica a far diventare comunisti i cattolici. Non ti ricordi gli anni Settanta? e la Resistenza?

- Mi fai ridere. Certi cattolici erano diventati comunisti proprio perché il Pc diceva di non essere ateo. Togliatti non voleva guerre di religione e la lettera di Berlinguer al vescovo Bettazzi parlava chiaro. Se oggi dici di essere politicamente ateo, nemmeno con una terza guerra mondiale avrai il consenso dei cattolici.

- Sì in effetti le questioni di coscienza richiedono tempi molto più lunghi di quelli della politica. Ma se non ne parliamo mai come faremo ad accorciarli?

- Io ti dico soltanto che c’è modo e modo di parlarne. O vuoi fare come la gatta frettolosa?

Il senso gay di festeggiare il Gay Pride

Domani a Napoli, le persone lgbtq (lesbiche, gay, bisessuali, transessuali, queer ndr.), ci auguriamo a migliaia, sfileranno per le strade cittadine con il loro carico di colori, musica e slogan per chiedere alla politica un impegno concreto sui diritti civili negati fino ad oggi, e per una lotta seria contro ogni discriminazione e ogni violenza omofoba. Si celebra il Gay Pride, nato 31 anni fa, dopo una battaglia durata una notte, allo Stonewall Inn, il locale di Christopher Street, nel Greenwich Village, tra polizia e omosessuali e transessuali.

Stanchi di quotidiane perquisizioni, vessazioni e violenze da parte dei poliziotti, gli avventori del locale gay, aiutati dagli abitanti, decisero di mettere la parola fine, e quando quella sera del 27 giugno 1969, i poliziotti irruppero nel locale, cominciarono a volare bottiglie, scarpe tacco 15, e fecero barricate per impedire ai rinforzi di raggiungere il locale.

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Mc Krystal, Marchionne-Fiat, Brancher: gli incapaci e presuntuosi che per riuscire hanno sempre più bisogno delle “mani libere”. Innescando spirali dall’esito sempre disastroso

Il referendum degli operai della Fiat a Pomigliano. Le accuse del generale Mc Crystal alle “pappemolli della casa Bianca”. Il “legittimo impedimento” invocato a razzo dal neoministro Aldo Brancher, un altro dipendente di Berlsuconi promosso ministro anche per sottrarlo alla giustizia. Tre argomenti sui quali vale la pena riflettere. Anche perché hanno un filo comune. Un filo non rosso, ma nero…

Riguardo la Fiat, il problema è semplice ed ha varie implicazioni, una più grave dell’altra. Detto in poche parole: come c’è la spinta a ridurre il cittadino a spettatore-consumatore – limitandone i diritti, per esempio quello ad essere informato da un giornalismo non imbavagliato-castrato –  così c’è l’assalto per ridurre il lavoratore a forza lavoro, riportandolo indietro di decenni. Il tutto significa demolire il concetto di cittadinanza, cioè di cittadino che come tale ha una identità sociale, demolendo nel contempo il concetto di lavoratore, cioè di cittadino che ha una identità professionale, lavorativa, produttiva, e che come tale è alla base della Costituzione Italiana. In pratica, è in atto la strategia non di promuovere gli extracomunitari facendoli diventare cittadini italiani, ma, al contrario, di portare i cittadini italiani verso il livello degli extracomunitari, sia in fatto di diritti e garanzie civili e sociali che in fatto di lavoro.
In Brasile la Fiat produce ben 730 mila vetture l’anno con appena 9.400 dipendenti. In Polonia produce 600 mila auto l’anno con soli 6.100 dipendenti. In Italia invece per produrre 650.000 vetture l’anno la Fiat ha 22.000 dipendenti: vale a dire, più o meno il doppio di quelli brasiliani per produrre 130 mila auto l’anno in meno e il triplo di quelli polacchi per produrre lo stesso numero di auto. Il problema è tutto qui, ed è chiarissimo.
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Quale futuro per la chiesa romana?

In genere l’atteggiamento della chiesa romana (ma si è notevolmente accentuato con gli ultimi due pontefici) è quello di voler far credere che senza cristianesimo c’è solo irrazionalismo e che tutta la follia dell’occidente (ben documentabile nel XX sec.), per non parlare di quella del cosiddetto “socialismo reale”, ha, in ultima istanza, radici culturali, anzi, ideologiche, che sono l’agnosticismo e l’ateismo, cioè l’indifferenza se non l’ostilità nei confronti della fede cristiana. Le motivazioni di ordine sociale (l’opposizione tra classi antagonistiche) ed economico (lo sfruttamento del lavoro altrui) passano in secondo piano.

Tuttavia il nemico che questa chiesa considera “mortale” non è tanto il capitalismo, quanto piuttosto il socialismo, poiché qui l’ateismo è senza soluzione di continuità. Quando critica l’agnosticismo della borghesia lo fa per farle capire che se continua così, renderà inevitabile il socialismo, cui l’ateismo è organico. Essa infatti sa bene che il limite del capitalismo non sta solo nell’agnosticismo, ma anche nel suo individualismo, basato sul profitto, sull’interesse economico.

E sa anche che se questo individualismo sfrenato non viene stemperato dall’illusione religiosa, la crescita del socialismo sarà ancora più veloce, nonostante l’implosione di quello da caserma.

Una volta questa illusione si esprimeva nella minaccia del castigo eterno (che Wojtyla, p.es., usò nel suo famoso discorso contro la mafia). Oggi, subendo i condizionamenti del laicismo, essa preferisce usare la filosofia dei diritti umani, in virtù della quale è convinta di poter risolvere tutti i problemi sociali.

Del capitalismo alla chiesa dà più fastidio l’agnosticismo, l’indifferenza alla religione, l’ateismo implicito, indiretto, che non il profitto come criterio di vita, proprio perché essa stessa vive di interessi bancari, rendite parassitarie, finanza occulta. E’ da un millennio che detta chiesa pratica il compromesso con la borghesia, sancito definitivamente col Concilio Vaticano II, e se anche i suoi teologi continuano a parlare di “terza via”, di fatto questa chiesa, nei suoi vertici istituzionali, non ha dubbi da che parte stare.

E’ solo nei suoi livelli di base (in occidente sino alla fine degli anni Settanta) che si vanno a cercare rapporti col socialismo (oggi in verità neppure nel Terzo mondo, in quanto non si vedono all’orizzonte alternative realmente praticabili al crollo di quello est-europeo).

E così, mentre nel capitalismo è il profitto che valorizza i capitali, nella chiesa romana è la fede che lo fa. Con la fede infatti si possono ottenere non solo lasciti e donazioni, ma anche evasioni ed elusioni fiscali e persino contributi statali e gettito fiscale (dall’otto per mille al finanziamento delle scuole private, dall’esenzione dell’ici a quella dell’iva, e via dicendo).

In virtù della fede si può tenere in piedi un meccanismo di potere (politico, economico e finanziario) in cui il capitale s’incrementa da sé, a prescindere dalla fede stessa, esattamente come nel capitalismo lo si incrementa a prescindere dalla coscienza degli imprenditori e affaristi in generale.

La chiesa cattolica, non meno di questa protestante, è per definizione una “chiesa di stato”, anche quando giuridicamente non lo è. E’ una chiesa che vede lo Stato borghese come suo concorrente, ma anche come suo protettore, perché sa che al di fuori di questo Stato il suo destino di “chiesa politica” è segnato.

La chiesa romana paga il pizzo della propria sopravvivenza a uno Stato agnostico e borghese che la protegge e che sa di poterla usare per legittimare se stesso. D’altra parte una chiesa abituata da secoli a pensarsi solo come “istituzione di potere”, cos’altro potrebbe fare? quale spiritualità potrebbe mai proporre?

Se il papato potesse, preferirebbe porsi come “Stato di se stesso” (lo Stato della chiesa è durato circa un millennio e ancora oggi esiste nella minuscola ma influente porzione geografica del Vaticano). Sono state soltanto le circostanze storiche che hanno costretto il papato ad accettare di vivere in uno Stato che non gli appartiene, col quale però può e anzi deve intavolare ogni giorno rapporti di reciproco interesse.

Lo Stato borghese, infatti, pur essendo agnostico, ha bisogno dell’illusione della fede per imbonire le masse più deprivate o più ingenue, come d’altra parte ha bisogno di altre forme profane di illusione (dal consumismo alla discoteca, dal calcio alle droghe vere e proprie).

Questa chiesa non serve a nulla di positivo; il suo umanesimo è del tutto astratto; non ha occhi per il futuro; l’unica cosa che le preme è difendere i propri interessi. Sta svolgendo lo stesso ruolo del paganesimo al tempo della decadenza dell’impero romano, anche se Ratzinger è convinto che questo ruolo appartenga solo agli Stati indifferenti alla fede.

Esiste un aldilà laico?

La domanda che vorrei mi venisse posta, quando verrà il mio turno, è la seguente:
– Come avresti voluto essere?

Al che cercherei di approfittarne per chiedere:
– Sotto ogni punto di vista?

Se mi si rispondesse di sì, chiederei solo una cosa:
– Vorrei essere umano.

Questo per dire che un laico dovrebbe sottrarre completamente alla religione il cosiddetto “discorso sull’aldilà”. E’ ora di cominciare a farlo, perché forse questa è l’ultima cosa su cui la religione può accampare delle pretese.

Dovremmo cioè cominciare ad estendere al genere umano la legge scientifica sulla perenne trasformazione della materia. Noi siamo destinati a non essere mai esattamente uguali a noi stessi: siamo in perenne evoluzione, proprio perché, che lo si voglia o no, siamo destinati a esistere.

Il fatto di credere nella nostra eternità non dobbiamo vederlo come un cedimento a posizioni religiose, ma anzi come una conferma che tra energia materiale e spirituale non vi sono differenze sostanziali e che possiamo tranquillamente ipotizzare che all’origine dell’universo non vi sia alcun dio ma un qualcosa che dovremmo chiamare “essenza umana”.

Tutte le leggi dell’universo si concentrano in una sola: la libertà di coscienza. Lo sviluppo di questa libertà va inteso eterno nel tempo e infinito nello spazio. Prepariamoci dunque a uscire di nuovo dal grembo materno, per entrare di nuovo in una dimensione molto più vasta, in cui ci saranno regole da rispettare (come la legge di gravitazione universale, la velocità della luce, la riproduzione naturale ecc.), ma anche forme di indeterminazione, di imponderabilità da capire, che ci costringeranno a misurare la nostra intelligenza, la nostra capacità di reazione.

Ed esisteranno naturalmente anche le leggi spirituali, la prima delle quali sarà appunto quella del rispetto della persona, che su questa Terra scienza e religione garantiscono solo se si sta dalla loro parte, come se la verità fosse una cosa che sta qui e non là.

Non esiste un “premio per i buoni” e una “punizione per i cattivi”, ma soltanto la possibilità di essere se stessi, che è la stessa che ci dovrebbe essere offerta su questa Terra, e che per colpa di qualcuno che, dopo aver messo un recinto su un pezzo di terra, ha detto: “Questo è mio”, e per colpa di un altro che gli ha creduto, non abbiamo saputo utilizzare come avremmo dovuto.

E’ vero, l’inferno esiste nell’aldilà, ma solo per chi non avrà voglia di ricominciare.

Offese post mortem a Saramago, le connessioni con la Cricca, il cardinale Sepe, ecc.: il Concordato è da buttare

L’invereconda condanna della Chiesa contro lo scrittore Josè Saramago, con argomentazioni da imperante “benaltrismo”, unita al nuovo scivolone del Vaticano nello scandalo della Cricca Anemone/Balducci/Scajola/Protezione Civile/Propaganda Fide/&C aumenta la tristezza e il disgusto per i giorni del presente. Il cardinale Sepe raggiunto da accuse della magistratura italiana e subito disposto – bontà sua! – a rispondere ai magistrati “nei limiti del Concordato”. Oddio, sempre meglio del silenzio omertoso macchiato di sangue della scomparsa di Emanuela Orlandi, ma sempre dal sapore un po’ troppo mafioso o un po’ troppo disgustoso, che non c’entra comunque un fico secco con i vangeli. Poiché è tempo di dichiarazione dei redditi e di destinazione del 7 per mille, è bene prendere la palla al balzo e ribadire che il Concordato è una vergogna che deve essere abolita. Così come devono essere aboliti i privilegi e i foraggiamenti economici dello Stato italiano al Vaticano e alla sua Chiesa che remano contro la laicità costituzionale della Repubblica italiana.

Tornando a Saramago, propongo un articolo del mio professore di filosofia ai tempi del liceo scientifico Messedaglia a Verona, Walter Peruzzi, che lo ha scritto per il suo sito www.cattolicesimo-reale.it . Dopo l’articolo propongo alcuni video ironici di Yuotube  per l’abolizione del Concordato e dei privilegi economici della sanguisuga Stato estero chiamato Vaticano. Video utili anche a sorridere un po’, alla faccia di questi tetri stregoni vestiti come pinguini da circo con la strampalata pretesa di essere rappresentanti nientepopodimenoché di Dio.

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Allo scrittore portoghese e premio Nobel José Saramago, fieramente anticattolico, morto tre giorni fa, “L’Osservatore Romano” ha dedicato un velenoso necrologio, macabro surrogato del rogo seguito da sepoltura in terra sconsacrata che la Chiesa usava per gli eretici quando poteva permetterselo. Continua a leggere

Le 81 domande del giornalista ed ex parlamentare israeliano Uri Avnery sulle losche manovre del suo governo contro le navi pacifiste e contro Gaza

Intanto spieghiamo chi è Uri Avnery, in ebraico: אורי אבנרי. Giornalista e tre volte parlamentare israeliano,  nome originario Helmut Ostermann, è nato in Germania a Beckum il 10 settembre 1923 da una famiglia sionista che nel 1933 a causa dell’ascesa al potere di Adolf Hitler emigrò in Palestina, dove perse tutti i propri averi e fu costretta a vivere in condizioni di povertà tali da non permettere a Avnery di completare gli studi. Le memorie di quegli anni sono raccolte nel libro “La Swastika”, pubblicato nel 1961.
Nel 1938 il futuro giornalista entrò nell’Irgun, organizzazione paramilitare comandata da Menachem Begin, che combatté il protettorato con azioni violente e anche attentati come quello al King David Hotel il 22 luglio 1946, con decine di morti e di fatto l’origine del terrorismo moderno. Giudicando appunto terrorista l’Irgun, Avnery la lasciò nel 1942. In seguito prese parte alla prima guerra arabo-israeliana e, rimasto ferito due volte, raccontò le atrocità subite dai palestinesi in un libro intitolato “Il rovescio della medaglia”. Da allora in poi ha continuato a battersi per la pace.
Dopo aver lavorato per un breve periodo presso il quotidiano Ha’aretz, fondò una nuova rivista, lo Haolam Haze, che si fece promotore di alcune importanti trattative con i dirigenti palestinesi. È stato eletto per tre volte alla Knesset, il parlamento israeliano, (1965-1969, 1969-1973, 1979-1981).
In seguito ha fondato il movimento pacifista Gush Shalom (in ebraico: גוש שלום, “il blocco della pace”).

Le domande sul “martirio” posta da Avnery somigliano alle domande che ho posto io su questo blog sullo stesso argomento. All’ultima sua domanda, la 81esima, – “Che cosa sta cercando di nascondere la nostra leadership politica e militare?” – credo di avere già risposto, sempre su questo blog: sta cercando di nascondere la strategia di scontro frontale anche contro la Turchia per prenderne il posto nella Nato e attaccare l’Iran su basi più forti. Sta anche cercando di nascondere le pressioni ormai non più solo di Obama, ma anche di qualche leader europeo che ha capito che così si va a quello che il papa ha definito “un bagno di sangue”, cioè a una nuova grande guerra, di risolvere il problema dei problemi: l’armamento atomico di Israele.

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Chi ha paura di una vera inchiesta?
di Uri Avnery

Se fosse stata istituita una Commissione d’Inchiesta vera (al  posto del patetico aborto di commissione), queste sono alcune delle domande che essa avrebbe dovuto porre:

1 – Qual è il vero scopo del blocco della Striscia di Gaza?

2 – Se l’obiettivo è quello di impedire il flusso di armi nella  Striscia, perché vi sono ammessi solo 100 prodotti (rispetto agli oltre 12.000  presenti in un supermercato israeliano di media dimensione)?

3 – Perché è vietato introdurre cioccolato, giocattoli,  materiale per scrivere, molti tipi di frutta e verdura (e perché la cannella,  ma non il coriandolo)?

4 – Qual è il legame tra la decisione di vietare l’importazione di  materiali da costruzione per la sostituzione o la riparazione di migliaia di  edifici distrutti o danneggiati durante l’operazione Piombo fuso e il pretesto che essi possano servire per la costruzione dei bunker di Hamas –  quando materiali finalizzati a questo scopo vengono introdotti in quantità più che sufficienti nella  Striscia attraverso i tunnel?

5 – È  vero che lo scopo del blocco consiste nel trasformare in un inferno la vita di 1,5 milioni  di esseri  umani, nella Striscia, nella speranza di indurli a rovesciare il regime di Hamas?

6 – Poiché questo non è successo, ma – al contrario – Hamas è  diventato più forte durante i tre anni del blocco, il governo  non ha mai preso in considerazione ripensamenti su questa faccenda? Continua a leggere

Contro la delocalizzazione delle imprese

Da tempo il proletariato intellettuale e manuale dei paesi occidentali contribuisce, seppur in misura assai minore rispetto alla propria borghesia imprenditrice, allo sfruttamento del proletariato del Terzo mondo (che noi chiamiamo, eufemisticamente, “paesi in via di sviluppo” o “emergenti”), per cui è letteralmente impossibile che una qualunque rivendicazione il nostro proletariato ponga nei confronti della propria borghesia, coincida con gli interessi del proletariato terzomondiale.

L’unica rivendicazione davvero utile, in tal senso, potrebbe esser quella di far finire il rapporto di dipendenza “coloniale” che lega il Terzo mondo all’occidente (se non piace il termine “coloniale”, che andò per la maggiore dalla conquista dell’America alla seconda guerra mondiale, poi sostituito, nell’ambito della sinistra, con quello di “neocoloniale”, ad indicare che una indipendenza politica non coincide con quella economica, si può sempre usare quello di “para-coloniale” o “semi-coloniale” o “post-coloniale”, tanto la sostanza della “dipendenza” non cambia di molto).

Senonché è proprio lo sfruttamento congiunto del Terzo mondo (borghesia + proletariato occidentale), che impedisce a quest’ultimo di lottare sino in fondo contro la propria borghesia (di qui l’opportunismo che blocca ogni tentativo di fuoriuscire da questo sistema di rapporti iniqui). Anzi oggi il proletariato occidentale vede come un proprio nemico di classe lo stesso proletariato terzomondiale, in quanto il basso costo del lavoro di quest’ultimo risulta molto appetibile per le borghesie occidentali, le quali non hanno scrupoli nel delocalizzare le loro imprese.

L’unico modo di porre fine alla dipendenza economica del Sud nei confronti del Nord sarebbe quello di abbattere il capitalismo, ma di fronte a un nemico che si pone su scala internazionale, occorrerebbe un’organizzazione alternativa che si ponesse sullo stesso piano, come il socialismo aveva già pensato di fare sin dai suoi esordi.

Qualunque tentativo di abbattimento “nazionale” del capitalismo rischia di fallire, proprio perché una determinata borghesia potrebbe servirsi del proprio proletariato contro il proletariato di un’altra nazione. Cosa che si è già verificata nel corso delle due ultime guerre mondiali, ma anche nei periodi in cui si sono formati il colonialismo e l’imperialismo, e persino oggi nelle cosiddette “guerre regionali” che il capitalismo avanzato conduce in varie parti del pianeta. Molto raramente a combattere vanno i figli della borghesia, se non nei ranghi ufficiali più elevati.

Per uscire da questa situazione di stallo, in cui qualunque cosa “anti-borghese” si faccia in un territorio, rischia di avere conseguenze “anti-proletarie” in un altro, a causa del cosiddetto “globalismo”, occorre che la consapevolezza “proletaria” sia internazionale. Cioè occorre abituarsi all’idea di sostenere qualunque rivendicazione proletaria ovunque essa si manifesti.

Le borghesie si aiutano a livello mondiale quando devono combattere un nemico comune, benché siano in perenne competizione tra loro. Non si capisce perché un atteggiamento di analoga collaborazione non debba averlo il proletariato, il quale anzi, proprio a causa della sua intrinseca debolezza (rispetto a chi detiene la proprietà dei mezzi produttivi e dei mezzi per difenderla) ne avrebbe un motivo in più.

Bisogna inoltre aver chiaro che contro la dipendenza dai mercati borghesi vi è soltanto un’alternativa: l’autoconsumo. Il che non significa che ogni comunità debba restare isolata dalle altre, ma semplicemente che il valore di scambio non può prevalere su quello d’uso. Là dove c’è scambio senza autoconsumo, c’è dipendenza delle economie deboli nei confronti di quelle forti. Là dove invece c’è autoconsumo, si possono tranquillamente scambiare le eccedenze, conservando la propria autonomia.

Chi rivendica l’autoconsumo va difeso in ogni caso, anche se ciò comporterà una crisi delle economie dei paesi capitalisti e quindi un abbassamento del nostro tenore di vita. Il proletariato occidentale deve abituarsi all’idea che là dove si rivendicherà l’autoconsumo, si porranno le nuove basi di un sistema sociale in cui la classe proletaria non avrà più ragione d’esistere.

Il proletariato occidentale (quello di tutti i paesi cosiddetti “avanzati”, che geograficamente non sono solo in occidente) deve convincersi che non potrà, anzi non dovrà più partecipare allo sfruttamento borghese del proletariato terzomondiale, sia nel caso in cui accetti l’autoconsumo di quest’ultimo, sia nel caso in cui sia costretto ad accettare che la propria borghesia delocalizzi le proprie imprese.

Al momento le borghesie imprenditrici dei paesi capitalisti più avanzati, per far fronte alla continua caduta dei loro saggi di profitto, si stanno orientando verso la delocalizzazione delle loro imprese, operando licenziamenti di massa nelle aree occidentali (il cui costo viene scaricato sullo Stato sociale).

Poiché una situazione del genere raggiungerà presto un limite insopportabile, dalle conseguenze imprevedibili, sarebbe bene approfittare dell’occasione per dire agli imprenditori che se delocalizzano si punterà decisamente all’occupazione delle terre, senza alcun indennizzo ai proprietari, al fine di realizzare l’autoconsumo.

Lo stesso proletariato provvederà anche a gestire quelle imprese i cui prodotti risultano indispensabili alla comunità locale basata sull’autoconsumo. Il proletariato occidentale non può morire di fame solo perché la propria borghesia ha deciso di sfruttare soprattutto il proletariato terzomondiale, il cui lavoro ha costi incredibilmente bassi anche per le condizioni disumane in cui viene svolto.

L’ultima trovata antipalestinese: i paci-finti. Fanatici? Beh, meno dei coloni israeliani e loro protettori

Bene. Abbiamo visto i video con i Davide “paci-finti” che oppongono resistenza (toh, guarda! RESISTENZA!) al gigante Golia delle forze armate israeliane. E non è stato solo il nostro eroico e gigantesco ministrello degli Esteri Franco Frattini a cogliere la palla al balzo per calare le brache e ragliare per l’ennesima volta pro Israele di ferro e fuoco e annessa nuova mattanza. Del resto se il capo del governo, il grande Chiavaliere Pipino il Breve, ha affermato senza morire di vergogna che “quella di Israele a Gaza è stata una giusta reazione”, cosa ci si può aspettare dai tanti suoi stallieri, palafrenieri, servi, nani, ballerine, escort politici, politici escort e piccoli signor Nessuno?
Ma non divaghiamo. I paci-finti hanno reagito perfino a bastonate. Bene. E allora? Dov’è il problema? Care canaglie antisemite perché arabofobe, guardiamoci bene negli occhi: queste scene le abbiamo già viste. Dove? Quando? A Gaza quando l’esercito israeliano ha sgomberato – finalmente! – i coloni e questi hanno resistito con lanci di pietre, bastononate, ecc. Queste scene le abbiamo già viste nei territori palestinesi rubati dai coloni, che attaccano spesso e volentieri perfino i bambini. Eppure non abbiamo mai visto l’esercito iraeliano sparare contro la ciurmaglia “colonilista”, cioè colonialista,  che si difendeva al pari dei paci-finti della nave Marmara diretta a Gaza. L’uso smaccato, e criminale, dei due pesi e due misure è evidente. Scandalosamente evidente. Come la malafede dei laudatori e scusatori sempre e comunque, o degli inarcatori di sopracciglie sempre e comunque. Stile Panebianco.
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Rachel Corrie: Netanyahu e Barak non hanno letto bene Shakespeare né Omero. La propaganda boomerang dei falsificatori alla rAdolfo. Intanto il governo di Israele punta a entrare nella Comunità Europea e nella Nato al posto della Turchia: è il sogno delle invasate che vogliono guidare l’Occidente allo “scontro di civiltà”

Non so se Netanyahu abbia mai letto Shakespeare o almeno Omero, ma questa faccenda della nave con gli aiuti umanitari internazionali chiamata Rachel Corrie che prosegue la sua rotta verso Gaza, viene sequestrata in alto mare e dirottata manu militari in un porto israeliano,  dovrebbe preoccuparlo. Anziché ergersi a esperto di cosa sia “il vero pacifismo”, farebbe meglio a riflettere. Raquel Corrie è infatti il nome di Rachel Corrie, la volontaria americana uccisa da un manovratore israeliano di bulldozer perché assieme a un altro gruppo di pacifisti si opponeva all’ennesima demolizione di case palestinesi, una delle tecniche israeliane per porta davanti la pulizia etnica. Una ragazza eccezionale, come dimostra anche questo suo discorso a soli 12 anni: http://www.youtube.com/watch?v=UK8Z3i3aTq4&feature=related .
Netanyahu, i suoi ministri e i loro generali ignorano che a volte i morti riemergono, specie dal mare, per ghermire e strascinare con sé i propri assassini. In qualunque modo vada, questa lotta anche contro Corrie dalle sembianze di nave ha qualcosa di emblematico e fatale, che trascende i dati di cronaca. Momenti come questi sono vortici della Storia, gorghi che possono diventare buchi neri dove precipitano fette del mondo o comunque ne viene cambiata la faccia. Vedremo.
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Sulla cinematografia americana

I

In una società d’ispirazione calvinista – e ogni società capitalistica lo è e quella americana in particolare – il trovarsi dalla parte del “bene” o del “male” è una condizione data dal destino, con un lieve margine di possibilità di scelta. Questo è molto evidente nei film americani.

Naturalmente sono possibili varie gradazioni di bene e di male, ma quello che è quasi impossibile è il passaggio dal male al bene, in quanto è molto più facile il contrario.

Chiunque passi dal male al bene resta un soggetto a rischio, che sicuramente non farà mai nulla di particolarmente significativo, o, in ogni caso, resta un personaggio che se anche può compiere, in una certa sequenza del film, un gesto positivo, normalmente muore nel momento stesso in cui lo compie, oppure viene fatto morire prima che lo scherno o la derisione di qualcuno del suo passato possa farlo ricadere negli errori di sempre.

Nei confronti di chi invece dal bene passa al male, si avrà un occhio di riguardo, sempre che il male non sia stato troppo grande e soprattutto che non si ripeta, e comunque il regista potrà sempre ricorrere alla soluzione della morte come rimedio alla colpa.

In una società calvinista è solo una questione di ruoli, di gioco delle parti, in quanto non c’è vera differenza tra bene e male: lo dimostra il fatto che spesso i mezzi e i metodi usati, dai “buoni” e dai “cattivi”, sono gli stessi.

Il bene che si vive nei film americani è quello di una vita agiata, convenzionale, individualistica e solo formalmente socializzata; anche quando l’eroe sembra rifiutare questo tipo di vita, alla fine, se il rifiuto è radicale, è lui a rimetterci.

Si è così convinti di questo che si è persino disposti a transigere nei confronti di chi cerca con mezzi illegali di acquisire una ricchezza personale, sempre che ovviamente il criminale dimostri sul piano del carattere d’essere accattivante o di avere comunque una personalità interessante.

Gli americani hanno una storia troppo truce per non sapere che nella loro società il “male” non è che un modo illegale o convenzionale di fare le stesse cose del “bene”. Tant’è che nei confronti della mafia la cinematografia americana è sempre stata molto indulgente. Forse ancora di più che nei confronti di quella criminalità individualistica alla Jesse James o alla Bonnie and Clyde, che pur rispecchiava meglio la natura individualistica degli americani.

La mafia, pur costituendo un prodotto d’importazione, è sempre stata trattata con molta circospezione nella cinematografia americana, perché comunque essa rappresentava, nella consapevolezza degli americani, il tentativo di dare una veste organizzata e ufficiale, soggetta a regole, all’esigenza di benessere da parte di strati marginali.

La criminalità individualistica invece è, per definizione, priva di regole e quindi ingestibile nell’immaginario collettivo. Il piccolo criminale, non affiliato ad alcuna organizzazione, è un perdente per sua natura ed è sempre destinato ad essere catturato.

II

Nella cinematografia americana l’individualismo è ben visibile là dove si cerca di esprimere dei valori positivi nelle situazioni più critiche. Nella tragedia vien fuori l’eroe, cioè colui che soffre ma non si dispera, che affronta con coraggio le proprie angosce, spesso in condizioni tali da non poter contare neppure sulle forze dell’ordine.

L’eroe americano deve sbrigarsela da sé. La polizia interviene all’ultimo momento, per legittimare una vittoria personale. E se l’eroe è proprio un poliziotto, allora immancabilmente i suoi metodi non piaceranno a chi lo comanda, ai suoi superiori, i quali però sanno di aver bisogno di lui.

I film americani, in fondo, essendo fatti in serie, rispecchiano determinati cliché (uno dei più usati è quello del poliziotto burbero ma bonario). La cultura americana è facile vederla nei film, poiché lì viene rappresentato quel che si vorrebbe essere e non si è.

Cultura individualistica vuol dire che nella prosaicità della vita quotidiana ci si sente schiavi dell’interesse, del denaro, dell’apparenza, dei poteri forti e si riesce a essere “umani” solo nelle situazioni-limite, dove il male è così evidente che basta poco per apparire umani, anche se per dimostrare di esserlo, ci vuole molto coraggio, spirito di sacrificio, coerenza coi propri ideali, attenzione per i più deboli, capacità di discernimento… Tutte cose che possono essere scritte in un libro o proiettate su uno schermo, ma che nella vita quotidiana risultano essere molto difficili da viversi.

La cinematografia, sotto questo aspetto, essendo una fabbrica di sogni e di miti, svolge un ruolo molto simile a quello della religione. I nuovi sacerdoti sono gli attori e il regista fa la parte del deus ex-machina, che fa recitare gli attori nella maniera più convincente possibile, al punto che lo spettatore deve arrivare a confondere fantasia con realtà.

Nei film americani c’è molto teatro greco, molto ritualismo cattolico laicizzato, molta predestinazione calvinista. Gli americani, per poter sopportare la loro società profondamente individualista, hanno bisogno di vedersi rappresentati all’opposto di quel che sono. Sanno bene che nella vita domina la legge del dollaro, ma nei film amano gli eroi che possono vivere senza pensarci, sapendo che di tanto in tanto ricevono lauti compensi per aver compiuto coraggiose missioni.

La cultura individualista può funzionare (e poi soltanto relativamente) quando si è in pochi in un territorio immenso e pieno di risorse, come furono appunto gli Usa sin dalla loro nascita, i quali però dovettero prima sterminare gli indigeni che da secoli abitavano il continente.

Tuttavia, essendo una cultura della sopraffazione (il forte deve dominare il debole), essa si trasforma ben presto in una cultura distruttiva, non solo per le popolazioni interne, ma anche per quelle esterne alla nazione. E’ una cultura violenta sia nei confronti di se stessi che nei confronti degli altri. E’ distruttiva e autodistruttiva. La guerra contro un nemico esterno è vista come rimedio ai problemi interni.

Propriamente parlando, non può neppure essere una “cultura nazionale”, poiché, all’interno di una nazione, essa rappresenta una classe sociale minoritaria, la quale, detenendo il potere economico e quindi politico, impone la propria cultura al resto della popolazione, tant’è che negli Usa ci si difende dai poteri forti puntando sull’appartenenza etnica, ma l’individualismo resta così forte che anche le etnie sono le une contro le altre armate.

La cultura americana è figlia di quella europea: ha avuto quella protestante come padre e quella cattolica come nonno. La differenza è che da noi le due culture continuano a convivere, mentre da loro la più moderna ha prevalso sulla più antica, sicché la storia, nei loro manuali, è sufficiente che parta dall’epopea di Colombo.

III

La cinematografia americana è così standardizzata nei contenuti immessi nel circuito della comunicazione ideologica di massa che è possibile stabilire delle regole interpretative generali per individuare le sue invarianze.

Anzitutto gli americani non mettono mai in discussione il principio di doversi sentire migliori di chiunque altro. Anche quando fanno un film che critica la loro società, tendono a considerare questa critica la migliore possibile e la loro stessa società viene considerata come il modello per tutte le altre, per cui essi la ritengono in grado di anticipare, nel bene e nel male, il futuro delle altre società che hanno abbracciato il capitalismo.

Gli americani pensano di anticipare il futuro sia sul piano tecnico-scientifico che sul piano delle conseguenze che questa tecnologia ha sull’ambiente e sulla società in generale.

Sono convinti di essere superiori proprio per il fatto di aver dovuto accettare, sin dall’inizio della loro storia, tutte le etnie e le lingue e le culture possibili. Pensano cioè di aver creato una società capitalistica unica nel suo genere, aperta a tutti (come sta avvenendo nell’attuale Europa), quando in realtà l’integrazione è avvenuta solo in nome di valori strettamente borghesi (profitto, interesse, rendita, individualismo ecc.).

In secondo luogo tutti i registi operano una stretta identificazione tra tecnica ed etica, nel senso che il tasso di moralità viene giudicato equivalente al tasso di scientificità che loro sono in grado di esibire (scientificità non solo all’interno dei contenuti del film ma anche nel modo stesso di girarli: non a caso ancora oggi diciamo che i film americani sono i migliori del mondo).

Non c’è problema tecnico che loro non possano risolvere in maniera tecnica. Questa superiorità tecnologica viene considerata come indice fondamentale di ogni tipo di superiorità: etica, politica, culturale ecc.

In terzo luogo nei film americani il fatto di fare il militare viene utilizzato per dimostrare il proprio valore etico. Il soldato americano si propone come difensore della democrazia nel mondo, ovunque essa venga minacciata: non ha bisogno di vedere la propria nazione attaccata da qualche nemico, anche se nei film catastrofisti questa è la regola (ma questi film, pur facendo largo uso di effetti speciali, sono culturalmente poco raffinati).

Chi fa il militare è autorizzato a dire qualunque cosa, proprio perché ha accettato un grandissimo sacrificio personale. Rambo, in tal senso, rappresenta l’unica eccezione, in quanto, avendo perso la guerra contro il Vietnam, è tornato frustrato in patria e si è difeso contro quanti non l’hanno capito, dicendo continuamente che gli yankee non potevano vincere “con un braccio legato”.

Negli anni Settanta infatti la società americana protestava contro la guerra in Vietnam e non ha permesso ai soldati di vincerla (vincere per i generali voleva dire usare tutte le armi a disposizione, incluse quelle nucleari); sicché quando i militari sono rientrati in patria, non hanno potuto integrarsi, erano malvisti.

Poi i registi hanno cominciato a dire, per giustificare in qualche modo quell’assurda guerra anticomunista in cui sono morti oltre 50.000 americani, o che erano andati là soltanto perché erano stati mandati dai loro superiori (cioè senza capire le vere ragioni di quel massacro), o che, andando là, si erano comunque fatti una personalità matura, loro che erano “figli di papà”, o che, come nel caso di Rambo, sarebbero stati anche disposti a fare di più se solo la patria glielo avesse permesso, infine che, andando a riprendere i soldati catturati e mostrando le condizioni inumane in cui venivano tenuti, gli Usa, pur avendo perso quella guerra, avevano tutte le ragioni “morali” di farla.

In ogni caso in questi film non si vuole soltanto dimostrare che si vince con la forza (qualunque essa sia: militare, culturale, ideologica, economica, finanziaria, tecnica, scientifica), ma anche che la si sta usando per un fine di bene, quello di assicurare la democrazia americana in tutto il mondo.

Miti sul comunismo primitivo e sogni su quello futuro

Interamente dedicato alla transizione dalle società comunistiche primordiali alle civiltà antagonistiche, il n. 27 (aprile 2010) della rivista n+1 (del sito www.quinterna.org), merita una serie di riflessioni, prima ancora che sui contenuti storiografici, sull’impostazione metodologica che regge la tesi fondamentale (che è storica e insieme politica), chiaramente delineata alla pag. 68, e che si può riassumere, nella sua prima parte, nel modo seguente:

  1. nella storia dell’umanità vi è stata un’unica fondamentale transizione, quella dal comunismo primitivo alle società divise in classe contrapposte;
  2. la prossima fondamentale transizione sarà quella da una delle attuali società classiste (il capitalismo) al socialismo democratico, che riprenderà l’organizzazione del comunismo primordiale in forme e modi ovviamente diversi.

Fin qui nulla da eccepire, anche perché è certo che sia avvenuto così e si può ipotizzare o auspicare che avverrà di nuovo così, in quanto solo un collettivismo autenticamente democratico è in grado di sussistere all’infinito.

Le perplessità emergono però nella seconda parte della tesi e riguardano proprio le modalità della transizione. Gli autori infatti guardano i passaggi epocali da una formazione sociale a un’altra coi criteri evolutivi del determinismo economico. Come ritengono politicamente inevitabile la transizione relativa ai nostri tempi, in quanto il capitalismo non è in grado di risolvere le proprie contraddizioni (e tutte le volte che ci prova non fa che peggiorarle), così ritengono che anche la prima transizione sia stata storicamente inevitabile.

Ma per sostenere l’inevitabilità di una transizione, bisogna rinunciare in un certo senso al concetto di “rottura”, che di per sé implica una scelta di campo consapevole e non solo una semplice costatazione di fatto.

Per Quinterna invece, come non è esistito una sorta di “peccato originale” per la prima transizione, così non esisterà una “apocalisse” per la seconda. In luogo di “rottura” gli autori preferiscono parlare di “società ibrida”, quella secondo cui possono coesistere degli elementi sociali che solo in apparenza sono opposti, negando con ciò uno dei presupposti fondamentali di qualunque storiografia marxista, e cioè che mentre ci può essere continuità tra un modello di sviluppo antagonistico e un altro, non ci può essere alcuna vera compatibilità tra socialismo e antagonismo. Detto altrimenti, come il socialismo non potrà mai svilupparsi dentro i confini del capitalismo, così l’obiettivo fondamentale che hanno avuto le prime civiltà della storia fu proprio quello di eliminare il comunismo primordiale.

Trattando del comunismo originario, quali sono questi elementi apparentemente opposti? Gli autori ritengono che detto comunismo si trovasse ancora largamente presente nell’ambito delle prime civiltà della storia, quelle cosiddette “fluviali”, alle quali ovviamente viene risparmiato l’appellativo di “schiavistiche”.

Essi non credono vi fossero particolari contraddizioni tra l’aspetto “naturalistico” del primo comunismo e l’organizzazione urbana delle prime civiltà. Sarebbe stato un errore degli storici borghesi (archeologi, etno-antropologi ecc.) vedere la nascita delle civiltà classiste nella piena urbanizzazione del territorio.

In realtà l’antagonismo sociale vero e proprio – secondo questo saggio monografico – sarebbe nato molto tempo dopo (in Europa p.es. con la civiltà greco-romana). Se nelle prime civiltà esistevano forme di “schiavismo”, non si ponevano certo “a sistema” di un modo produttivo e, al massimo, potevano essere equiparate a una servitù di tipo domestico. Gli autori non fanno differenza di forme nell’ambito dello schiavismo, non si parla neppure del rapporto oppressivo tra uomo e donna (che potrebbe essere considerata la prima forma di schiavitù) e si tacciono le devastanti conseguenze ambientali delle prime civiltà (deforestazioni con conseguenti desertificazioni), vedendo in esse, al contrario, un contributo alla bonifica delle zone paludose.

Per quale motivo Quinterna fa un’analisi storica di questo tipo, che contrasta non solo con quella della storiografia borghese, ma anche con quella di buona parte della storiografia socialista? Il motivo sta nell’analisi politica che essa dà della transizione che ancora deve avvenire.

Infatti, gli autori della rivista sostengono che se va considerata possibile “la persistenza di una struttura comunistica primitiva in ambiente sociale assai avanzato, alle soglie della forma statale”(p. 68), allora deve essere possibile anche il contrario, e cioè che si può anticipare “una struttura comunistica avanzata in ambiente sociale ancora arretrato, cioè con retaggi capitalistici”(ib.). In sostanza si postdata la fine del comunismo primitivo, così come si anticipa la nascita di quello futuro.

In altre parole, se si può parlare di “comunismo originario” in presenza di un’organizzazione sociale evoluta (non definibile come “Stato”, in quanto questo è sempre uno strumento nelle mani della classe egemone), così oggi si può parlare di “comunismo in fieri” negli aspetti più propriamente tecnico-scientifici e produttivi della società, che attendono d’essere usati in maniera davvero “razionale” quando al posto della proprietà privata dei mezzi produttivi si sarà affermata quella sociale.

Cosa c’è che non va in questa analisi? Almeno due cose: la prima è relativa all’idea che vi possa essere uno sviluppo tecnico-scientifico indipendente, nel suo significato sociale e culturale, dalle esigenze di uno specifico modo produttivo. Cioè il fatto che oggi scienza e tecnica abbiano raggiunto livelli che solo molto debolmente potevano essere intuiti da uno dei più grandi geni dell’umanità, come Leonardo da Vinci, non può essere considerato di per sé come una forma di progresso, come qualcosa che meriti assolutamente d’essere conservato per quando si realizzerà il socialismo democratico.

Quando i Germani entrarono nell’impero romano d’occidente non eliminarono soltanto lo schiavismo come sistema produttivo, ma anche buona parte di quanto serviva per tenere in piedi una civiltà basata sulle città e sui commerci (dalle terme alle monete, tanto per fare un esempio), proprio perché non erano cose che ritenevano indispensabili per costruire una civiltà basata su autoconsumo rurale e baratto.

La seconda cosa che non va nell’analisi di Quinterna è che nella storia non esistono le evoluzioni, ma solo traumatiche rotture, le quali possono sì creare qualcosa di progressivo rispetto allo stadio precedente ma non in maniera automatica e tanto meno in maniera definitiva.

L’unica evoluzione esistita è stata appunto quella tutta interna al comunismo primordiale (in cui p.es. si passò dal chopper all’amigdala senza creare rivolgimenti di sorta), ma, a partire dal momento in cui si è rinunciato a questo sistema equilibrato di vita, qualunque aspetto di tipo “evolutivo” (p.es. nelle tecniche produttive o di scambio) ha sempre avuto enormi prezzi da pagare in termini sia sociali (sfruttamento del lavoro altrui e guerre di rapina) che ambientali (non può certo essere un caso che i maggiori deserti del mondo siano spesso prossimi alle civiltà antagonistiche).

L’evoluzione vista secondo le esigenze delle società classiste è sempre, inevitabilmente, una involuzione, più o meno culturalmente mascherata, mistificata, con caratteristiche sempre più gravi per i destini dell’umanità.

Ecco dunque spiegato il motivo per cui gli autori di questo saggio vogliono vedere strette analogie tra le due suddette forme di transizione. Se si pensa che il passaggio dal capitalismo al socialismo debba avvenire in maniera deterministica, come una inevitabile esigenza naturale, è più facile pensare che ciò si realizzi quanto più si accetta l’idea che il socialismo futuro debba essere tecnologicamente evoluto; ma se è così, allora anche il comunismo primitivo poteva e anzi doveva esserlo, senza che ciò fosse un riflesso di rapporti squilibrati tra gli esseri umani e tra questi e la natura.

Tuttavia a questo ragionamento si può obiettare che se c’è solo “evoluzione” e non “rottura”, non ci può essere neppure organizzazione della lotta rivoluzionaria, ma soltanto attesa passiva che le contraddizioni scoppino da sole, dopodiché si può facilmente immaginare che qualcuno, dall’alto della propria scienza, faccia capire alle masse che il capitalismo, stante la proprietà privata dei mezzi produttivi, non ha alternative, e che se invece accetta quella sociale, tutto il resto può rimanere come prima.

Ecco perché quando parliamo di miti nei confronti del passato comunismo, dobbiamo parlare anche di sogni in relazione a quello futuro. Di fatto noi oggi possiamo essere sicuri solo di due cose: la prima è che con uno sviluppo planetario del capitalismo (che ora ha investito anche vari paesi dell’ex-socialismo burocratico), la natura verrà completamente distrutta, con conseguenze inimmaginabili sul futuro dell’umanità; la seconda è che senza rivoluzione politica in senso socialista, il capitalismo durerà in eterno o comunque si evolverà in forme che non ne intaccheranno la sostanza (come già sta facendo quello cinese rispetto a quello occidentale).

I miserabili antisemiti tifosi di Israele sempre e comunque: “ISRAELE HA FATTO BENE A SPARARE”. E le ridicole balle della versione ufficiale. Che fine hanno fatto i nostri connazionali che erano su quelle navi?

Il più sbracato è forse Vittorio Feltri, questo individuo che preferisco non aggettivare per evitare di sporcarmi la bocca. Ha titolato a tutta pagina “ISRAELE HA FATTO BENE A SPARARE”, aggiungendo per buona misura “Dieci morti tra gli amici dei terroristi”. Anche il sommario gronda odio, miseria feroce e la solita disinformazione intossicante: il succo è che “con la scusa di portare aiuti umanitari” gli “amici dei terroristi” volevano “violare la sovranità dello Stato israeliano”. Conclusione: “Reazione inevitabile”.  L’odio partorisce una tale ignoranza pecoreccia da far dimenticare perfino a chi intasca stipendi più da killer che da giornalista che a 75 miglia dalle coste non esiste nessuna sovranità nazionale. E comunque la ferocia di questi cani da guardia del padrone di turno tradisce ciò che sottendono: Gaza non è nulla, non è uno Stato, non ha diritti, non ha sovranità, la sovranità ce l’ha solo Israele. Ecco cosa intendiamo per il famoso “Stato dei palestinesi”, che Israele piuttosto che vederlo nascere userà le atomiche, come ha egregiamente detto anni fa il cattolicissimo Vittorio Messori senza che nessuno fiatasse.
Se Feltri è forse il più sbracato e miserabile nei titoli e negli arzigogoli, lui che ha sputato sul cadavere di Enzo Baldoni e accoltellato alla schiena Dino Boffo, Fiamma Nierenstein è invece la più patetica. I suoi (s)ragionamenti, da anni intesi a sostenere che gli arabi e l’Islam sono il male assoluto e che Israele è un esempio, anzi è”l'”esempio per antonomasia per l’Europa, sono talmente contorti e apodittici che li lascio volentieri a lei. E a suo marito, se è vero che è un ufficiale delle forze armate israeliane. Se fosse vero, mi chiedo chi glielo fa fare alla signora Nirenstein di restare cittadina italiana e occupare un posto in senato: quali sono gli interessi italiani che vi cura?
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