Eluana è scesa dalla croce ed è ascesa a Dio. Noi dobbiamo battere i miserabili ipocriti, che qui smascheriamo, e il disegno politico dell’impoverimento che stanno portando avanti

Eluana è scesa dalla croce dove è stata inchiodata per 17 anni. Ho solo voglia di tacere e di non cedere alla commozione. Al dolore, anche. Posto delle considerazioni che avevo scritto oggi pomeriggio. Aggiungo solo che non oso pensare dove sarebbe sprofondato il nostro Paese se l’andar via di Eluana non avesse svuotato di colpo la rissa forsennata imposta dagli accusatori di professione, gentaglia priva di ogni pudore che accusa di omicidio il padre di Eluana  e il presidente della Repubblica italiana, ma applaude entusiasta ai massacri in Iraq e a Gaza e ovunque ci faccia porcamente comodo. In più, da 25 anni questa stessa gentaglia regge la coda di paglia, sporca anche di sangue, del Vaticano riguardo la “misteriosa” scomparsa di Emanuela Orlandi.

La migliore definizione dell’ipocrisia del Vaticano che guida la danza macabra attorno alla via crucis di Eluana Englaro la dà il catechismo della Chiesa cattolica. Per l’esattezza, l’Articolo 2278, come segnalatoci dal lettore “sriscia rossa” con il post n. 164 della puntata precedente, lettore che ringraziamo. Riportiamo l’Articolo 2278 per intero dal sito ufficiale dello stesso Vaticano ( http://www.vatican.va/archive/ITA0014/_P7Y.HTM ) . Continua a leggere

L’IDEA DI MARTIRIO E I SUOI INTERPRETI

Quand’è che uno comincia ad avvertire il bisogno di usare la propria sofferenza e persino la propria vita come occasione di riscatto personale? La risposta non è semplice. Non basta dire: “Quando non ne può più delle contraddizioni della vita”. Non tutti quelli che ritengono insopportabili le contraddizioni della vita scelgono la strada del martirio. Molti si danno all’alcol, alla droga, a una vita randagia o si rifugiano nella criminalità. La natura umana è molto complicata. Anche i bulimici e gli anoressici compiono una forma di autoimmolazione.

L’idea di martirio, propriamente parlando, è un’altra cosa. Qui non si ha a che fare con una scelta di vita istintiva, irriflessa, spontaneistica. C’è di mezzo l’ideologia, e quindi una qualche forma di consapevolezza di sé. Il martire non è solo un esasperato, ma anche uno che crede fermamente o, se si preferisce, ciecamente in qualcosa di vitale, che vorrebbe veder realizzato a tutti i costi.

Il martire può sacrificare la propria vita per un’idea, evitando scrupolosamente di scegliere soluzioni di individualistica rassegnazione come l’alcol, la droga, la criminalità ecc. Siccome ritiene giusta la propria idea, rifiuta di poterlo dimostrare scegliendo soluzioni che inevitabilmente lo metterebbero dalla parte del torto. Il martire ci tiene a mostrare che la causa del suo sacrificio sta nel carnefice. Sceglie sì una soluzione estrema, ma nel rispetto di un proprio codice etico, che è un insieme di idee, principi, valori, la cui superiorità rispetto ai codici dominanti egli cerca di palesare proprio col sacrificio di sé.

Ora, in una società pienamente democratica sarebbe facile giudicare queste persone come affette da manie di persecuzione o da manie di grandezza o da altri fissazioni psicologiche. Ammesso e non concesso che in una società del genere verrebbero fuori persone così squilibrate. Tuttavia le società in cui siamo soliti vivere non sono affatto democratiche, e questo comporta una certa difficoltà nell’interpretare un fenomeno del genere.

Quando una società è obiettivamente oppressiva e chi subisce maggiormente il peso delle contraddizioni non trova vie d’uscita usando i mezzi che gli vengono ufficialmente o legalmente consentiti, appare del tutto naturale il ricorso a mezzi extralegali, non convenzionali. Prima di autodichiararsi del tutto impotente a cambiare le cose, uno tenta l’ultima strada, quella dell’opposizione radicale, irriducibile, sino al sacrificio di sé.

Ecco, a questo punto l’interprete del fenomeno in oggetto non sa più bene come comportarsi. Inevitabilmente si chiede se in questo atteggiamento estremista non vi siano delle reali giustificazioni. Si chiede cioè quale sia il criterio per sostenere che, pur in presenza di contraddizioni insopportabili, la scelta delle soluzioni estreme resta comunque sbagliata. Non è forse vero il detto popolare: “A mali estremi, estremi rimedi”?

Qual è dunque il criterio interpretativo da usare per stabilire quando una soluzione estrema è quella giusta? Perché la storia s’è sempre preoccupata di dimostrare che, in occasione dei grandi rivolgimenti politici, il terrorismo individuale o di piccoli gruppi è una scelta sbagliata? Il motivo è semplice: perché è il popolo che deve capire quando è giunto il momento di compiere la rivoluzione. Quando comprende questo, il lato inevitabilmente doloroso della rivoluzione sarà ridotto al minimo, poiché a soffrire sarà soltanto un’esigua minoranza abituata a godere dei propri privilegi.

Per portare il popolo a questa convinzione è meglio usare lo strumento del martirio personale che non quello del terrore, quando si è costretti a scegliere fra queste due alternative. Una vittima ingiusta rende il popolo ancor più insofferente, ancor più disposto a combattere.

Tuttavia sarebbe ingenuo pensare che tante vittime ingiustamente sacrificate possano portare il popolo alla rivoluzione. Il popolo va educato a ribellarsi, facendogli capire tutti i modi per farlo, addestrandolo a usare tutti i mezzi possibili contro il tiranno, i primi dei quali sono proprio quelli che dimostrano che è il tiranno ad aver torto.

Non si può chiedere a qualcuno di autoimmolarsi cospargendosi di benzina o facendo saltare una caserma dopo essersi imbottito di tritolo. I mezzi di comunicazione a disposizione del tiranno di turno, si serviranno di quel gesto per aumentare la repressione, per giustificare ulteriori vessazioni. Occorre dunque che la resistenza alla tirannia venga compiuta in modo tale che tutta la colpa ricada sulle spalle del despota. E di ciò devono convincersi persino le forze dell’ordine, che non sono extraterrestri insensibili alle sofferenze sociali.

Ma per fare questo ci vuole senso della democrazia, ci vuole il consenso da parte del popolo. E’ il popolo che si deve convincere a scendere in piazza per abbattere la dittatura. Senza organizzazione del consenso popolare, qualunque tentativo di autoimmolazione non sortirà alcun effetto pratico a favore della rivoluzione. Anzi, quando c’è il consenso, quando è una gran parte della popolazione disposta ad autoimmolarsi, pur di realizzare la libertà, i sacrifici meramente personali han già raggiunto il loro obiettivo.

Bisogna però fare attenzione, poiché persino di fronte a un consenso popolare l’interprete deve chiedersi se esso vada considerato effettivamente come una soluzione al problema della dittatura o non invece come una riproposizione di essa in altre forme e modi. Anche il nazismo e il fascismo furono movimenti popolari; anche il bolscevismo, agli inizi, fu un movimento di massa, ma poi divennero feroci dittature, peggiori delle precedenti.

Questo per dire che non solo bisogna stare attenti a valutare le soluzioni individualistiche dettate dalla esasperazione, ma ancor più bisogna stare attenti a valutare quelle collettivistiche, poiché queste ingannano maggiormente l’opinione pubblica e i suoi interpreti.

Antony: canzoni da camera da un altro pianeta

Confesso la mia malcelata diffidenza verso il mite, sgraziato e angelico Antony e il suo nuovo disco con i suoi Johnsons. So che dovrei fregarmene, ma il troppo stroppia. Troppe sperticate lodi da ogni dove, troppi articoli sui giornali, comprese le riviste femminili ultrachic, troppe comparsate nei dischi altrui, da Bjork a Battiato. Aggiungo che da sempre è ambivalente il mio sentimento verso di lui. Da una parte adoro le sue canzoni (tutto “I’m a bird now” mi ha accompagnato sognante per un’intera estate, poi ho scoperto il suo primo album), dall’altra talvolta mi infastidisce la sua voce, sì proprio il suo tratto più caratteristico e osannato dai critici. E spesso mi ritrovo a chiedermi come sarebbero la sue canzoni cantate da altri. Una curiosità che mi ha stuzzicato anche mentre ascoltavo “The crying light”. Un disco di canzoni “da camera” quanto mai poetiche, come se venissero da un altro pianeta. La cosa che mi ha colpito positivamente di più non è la voce, ma l’arrangiamento, firmato in coppia con il compositore di musica contemporanea Nico Muhly (mi sto procurando avida i suoi dischi): suoni puliti, accenni di fiati, qualche percussione, gli archi mai invadenti, il pianoforte in primo piano. In “Aeon” è sostituito dalla chitarra elettrica, poche note cadono come pioggia, niente strumenti in “Dust e water”, solo voci, par d’essere nel buoi di una chiesa. La batteria di “Epilepsy is dancing” segue un ritmo insolito e intrigante, il finale di “Everglade” ricorda la sinfonie di Grieg, in “One dove” il sax sembra suonato da un clown triste. Nei testi – “emotional, mood or dream landscapes, it’s not so much to do with everyday places”, come ha detto lo stesso Antony – la parola più usata è love, seguita a ruota da cry, child, baby, heart. Il set è tutto immerso nella natura, bucolica e crepuscolare: “Another world”, come dice il titolo di una canzone, dove è bello perdersi, la sua voce soffia come una brezza leggera. E stavolta mi lascio buona buona accarezzare.

Jimmy, Billy e Lux: che casino giù all’inferno!

Poche righe, ma scritte col cuore in mano, per ricordare con affetto e stima Lux Interior, leader dei mitici, sgangherati, eccessivi Cramps, morto pochi giorni fa. E con lui anche Jimmy Carl Black, batterista delle Mohers of invention di Zappa e ancora Billy Powell, tastierista dei Lynyrd Skynyrd: anch’essi ci hanno detto recentemente addio. Ma più che piangere mi viene da sorridere: pensa il casino che stanno facendo laggiù all’inferno. Lux poi, me lo vedo mentre si dimena tra i diavoli, che non sanno  come farlo star tranquillo….