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La pericolosa follia religioso-nazionalista di Netanyahu

Desidero ricordare che più volte ho scritto che l’attuale capo del governo israeliano durante gli anni trascorsi negli Usa è stato tra i principali artefici della trasformazione dello scontro Est-Ovest nello scontro Nord-Sud del mondo, o meglio dello scontro Occidente-Oriente islamico. In questo modo le industrie militari e i fanatismi potevano continuare a prosperare nonostante la fine della guerra fredda una volta dissolta l’Unione Sovietica e il movimento comunista internazionale. Ho anche spiegato che “Bibi” odia a morte gli arabi e gli islamici perché suo fratello Yonatan  è rimasto ucciso nel raid a Entebbe, quando truppe scelte israeliane attaccarono nell’aeroporto di Entebbe i dirottatori di un aereo di linea israeliano. Proprio a suo fratello Yonatan è dedicata la fondazione, che ne porta il nome, utilizzata negli Usa per riciclare la guerra fredda nelle attuali guerre “preventive”, “umanitarie”, “asimmetriche” ed ” esportatrici di democrazia”.

Vediamo come stanno ora le cose e come si muove Netanyahu secondo uno degli intellettuali e scrittori israeliani ed ebrei di maggiore successo.

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L’Iran, re Bibi e il “popolo eterno” di Israele

di David Grossman
ECCO un possibile scenario:
Israele attaccherà l’Iran contrariamente alla ferma presa di posizione del presidente Obama che quasi supplica di lasciare questa incombenza agli Stati Uniti d’America. E questo perché? Perché Benjamin Netanyahu ha una linea di pensiero e una visione storica secondo le quali — riassumendo a brevi linee — Israele è il “popolo eterno” mentre gli Stati Uniti, con tutto il rispetto, sono una specie di Assiria o di Babilonia, di Grecia o di Roma dei giorni nostri. Vale a dire: noi siamo per sempre, destinati a rimanere, mentre loro, nonostante tutto il potere che possiedono, sono momentanei, transitori, motivati da considerazioni politiche ed economiche limitate ed immediate, preoccupati delle ripercussioni che un eventuale attacco potrebbe avere sul prezzo del petrolio e sui risultati elettorali. Noi invece sussistiamo nella sfera dell’“Israele eterno” e portiamo in noi una memoria storica in cui balenano miracoli e imprese di salvezza che vanno oltre la logica e i limiti della realtà. Il loro presidente è “un’anima candida” che crede che i nemici ragionino in maniera razionale come lui mentre noi, già da quattromila anni, ci troviamo ad affrontare le forze più cruente e gli istinti umani più incontrollabili e oscuri della storia e sappiamo bene come comportarci per sopravvivere in queste zone d’ombra. Continua a leggere

Dopo le balle sull’Iraq per poterlo invadere, le balle e le provocazioni all’Iran colpevole di esistere

Gridare che l’Iran “provoca gli Usa” o addirittura “sfida l’Occidente” solo perché conduce manovre navali davanti alle proprie coste e testa un paio di missili da appena 200 chilometri di gittata, non è molto onesto. Appare anzi piuttosto grottesco.  Le carte geografiche indicano chiaramente che il mare dove l’Iran sta conducendo esercitazioni navali si chiama “Golfo Persico”, come peraltro scrivono tutti i giornali,  che è come dire Golfo Iraniano. Infatti, la parte di mondo che una volta si chiamava Persia oggi si chiama Iran, ha cambiato nome né più e né meno come altri Stati. Per esempio, l’isola che chiamavamo Ceylon oggi preferisce chiamarsi Sry Lanka così come l’isola di Formosa è diventata Taiwan. Insomma, gridare contro queste manovre navali iraniane nelle acque “persiche” sarebbe un po’ come stracciarsi le vesti se l’Italia facesse esercitazioni navali nell’Adriatico. C’è semmai da trovare inopportuno che siano gli Stati Uniti ad avere mandato fin laggiù, in acque lontane molte migliaia di chilometri dalle coste americane, una potente flotta militare, dotata come al solito anche di bombe atomiche e comprendente una o più portaerei. In acque che per giunta, ripeto, si chiamano Golfo Persico e NON Golfo Statunitense o Baia di Hudson. Continua a leggere

“Un pezzo di Palestina è in Libano”

“Un pezzo di Palestina è in Libano”, ci scrive la mia amica Stefania Limiti in questo breve reportage da lei intitolato “Voci dai campi profughi dove si vive in condizioni estreme. Con la grande illusione che Israele, paese che occupa militarmente terre di altri, voglia costruire la pace”. Avrei dovuto partire con Stefania e un gruppetto di volenterosi, ma occuparmi del libro per don Andrea Gallo “Non uccidete il futuro dei giovani!”, che arriva in libreria sabato prossimo, mi ha assorbito talmente da avermi impedito, oltre ad anche un solo giorno di ferie, di tornare in Libano. Leggiamo cosa ci scrive Stefania:

Scrivo questo post di ritorno da Beirut, dove il Comitato per non dimenticare Sabra e Chatila ha portato la solidarietà ai rifugiati della Palestina.
Un pezzo di Palestina è in Libano. Oltre cinquecentomila persone, cacciate dalle loro case nel 1948 e poi nel 1967, vivono in circa dodici campi profughi sparsi nel paese dei Cedri, oggi alle prese con una difficile sfida per difendere la propria indipendenza e per superare l’eredità coloniale.
Nel 2003 l’ufficio centrale di statistica palestinese (Pcbs) calcolava che nel mondo ci sono 9.6 milioni di palestinesi: quasi cinque milioni (4.8 per l’esattezza) quelli della diaspora – una delle grandi tragedie del ‘900 completamente rimossa – che vivono in Giordania, Libano, Siria ma anche in altri stati arabi, Europa e Stati uniti: un milione e centomila vivono in Israele, i cosiddetti «arabo-israeliani», 3.7 quelli che risiedono nei Territori occupati – 380 sono le scuole gestite dall’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, un dato che segnala la gran quantità di bambini palestinesi costretti ad affrontare lo studio in condizioni di grande difficoltà. Continua a leggere

La felicità yankee

Si ha diritto alla felicità? Chi può averne diritto? Perché oggi la felicità rientra nelle utopie irrealizzabili? Che cos’è la felicità?

Il diritto alla felicità venne messo nella Costituzione dagli americani che, ribellandosi alla madrepatria inglese, costruirono gli Stati Uniti. Mentre rivendicavano quel sacrosanto diritto, lo negavano agli indiani, sottoposti a genocidio, e agli schiavi africani, che nelle terre dei farmers coltivavano tabacco e cotone da esportare in Europa.

E’ bello avere “diritto alla felicità” (gli yankee, per realizzarlo, ci hanno edificato sopra quella fabbrica di sogni chiamata Hollywood), ma se alla seconda domanda non si risponde “tutti”, quel diritto diventa una farsa.

Per gli americani il diritto alla felicità era il diritto di farsi da sé (self-made man), calvinisticamente parlando, cioè senza tanti scrupoli, sulla base dell’assunto che senza soldi non c’è nessun diritto e quindi nessuna felicità. Sono i dollari che fanno felici, perché senza quelli non si può comprare nulla, non si può esistere, specie in un paese conflittuale e competitivo come quello. In America si è nella misura in cui si ha.

Questo principio è così forte che gli americani non amano risparmiare ma investire, e lo fanno anche quando non hanno sufficienti capitali. S’indebitano nella convinzione assoluta si riuscire a realizzare i loro sogni. Vivono al di sopra delle loro possibilità, perché sin da bambini hanno appreso la lezione dai loro maestri e dai loro genitori, continuamente confermata da psicologi filosofi politici economisti, persino dai dirigenti sportivi: “devi aver fiducia nelle tue capacità e nella grandezza e potenza della tua nazione, che è la più importante del mondo”.

Chi ha voluto speculare su questa cieca fiducia nel progresso, su questa autoipnosi collettiva (banche, istituti finanziari, assicurazioni…), ha fatto indebitare gli americani fino al collo, mettendoli sul lastrico. I grandi colossi dell’economia e della finanza non hanno mantenuto le loro promesse di felicità: hanno delocalizzato le imprese là dove il costo del lavoro è molto più basso che in patria, hanno speculato in borsa facendo pagare i crack finanziari agli investitori, hanno emesso dei titoli finanziari che non valevano nulla perché basati sul debito altrui, hanno falsamente garantito, pur di attirare capitali stranieri, alti tassi di rendimento sui prestiti finanziari…

Oggi gli Usa sono il paese più indebitato del mondo e se non avessero un altro paese, chiamato Cina (fino a ieri odiatissimo), che sostiene il loro debito pubblico, a quest’ora avrebbero già dichiarato bancarotta, trascinando nel loro vortice di debiti mezzo mondo, con conseguenze a dir poco catastrofiche, anche perché gli americani non sopportano che qualcuno faccia loro aprire gli occhi.

Già oggi, per colpa dei loro sogni fanciulleschi, l’economia del pianeta vacilla paurosamente, e tutti vengono costretti a contribuire a non far esplodere questa bolla di sapone, che si libra nell’aria, riflettendo i colori del sole, e che ci piace guardare con gli occhi spalancati di un bambino.

Gli elfi gay sbarcano in Europa

Non allarmatevi se andando per boschi vi capiterà di imbattervi in strani esseri che gli americani chiamano “fatine del bosco”, ovvero Faeries. Sono i novelli Peter Pan, le ninfe, i  moderni elfi che cercano, attraverso la vita agreste, di tornare alle radici, esplorare una coscienza alternativa ai propri stili di vita. Hanno un comune denominatore: sono gay e lesbiche. Non si può parlare di gruppo ma di movimento che dagli States si sta spostando in Europa e magari anche in Italia. Sono i nuovi hippies, libertari, che scelgono i santuari della natura per rendere sacra la sessualità, sfidare le alterazioni delle coscienze, i costumi di una nazione, celebrare un nuovo stile di vita gay e della sua cultura. E per farlo con maggiore persuasione emulano il mondo dell’incanto, delle favole, spaziando da J. K. Rowling, autrice della saga di Harry Potter a  Jack Keoruac, profeta della beat generation.

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Un marinaio americano si rifiuta di andare con le prostitute e viene brutalizzato per due anni

In tempi in cui il servizio militare in Italia era obbligatorio, spesso i ragazzi in libera uscita, orfani temporanei dei propri affetti e delle proprie amicizie, si accompagnavano e costruivano rapporti sodali con altri ragazzi gay che conoscevano per strada, nei pressi delle caserme, in qualche cinema dove si rifugiavano a trascorrere il tempo. Ne venivano fuori storie che si trascinavano per il periodo nella naja, rimpiazzate dalle nuove leve. Era un modo che salvava tutti, da una parte e dall’altra, mentre qualcuno narrava di notti di fuoco nelle camerate o nei bagni dei casermoni.

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Gli episcopali Usa vogliono gay e lesbiche a celebrare

C’è aria di bufera e pericolo di scisma per gli anglicani dopo che una parte della chiesa episcopale ha stilato un documento dove si incoraggia a ordinare nuovi sacerdoti e vescovi, gay e lesbiche. La questione non è nuova e le diatribe più incandescenti avvennero col clero africano, più tradizionalista di quello europeo e americano, tanto che in molti lasciarono e qualcuno tornò alla chiesa di Roma.

Durante un’assemblea generale svoltasi a sud di Los Angeles, i due organi decisionali della chiesa episcopale statunitense hanno approvato a larga maggioranza la risoluzione, dichiarando tra l’altro:

«<em>Dio ha chiamato e può chiamare gay e lesbiche ad ogni ministero ordinato nella chiesa episcopale. L’appartenenza alla chiesa episcopale include le coppie dello stesso sesso che vivano relazioni stabili, caratterizzate da fedeltà, monogamia, mutuo affetto e rispetto, cura reciproca</em>».

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Conflitti di classe o di razza negli Stati Uniti?

Diventati, dopo la seconda guerra mondiale, leader del mondo capitalista, gli Stati Uniti dichiararono di voler assumere la responsabilità globale per i destini del capitalismo.

La nuova interpretazione dell’esclusività americana acquistò così un chiaro orientamento anticomunista, che si proponeva anche lo scopo di contrastare la crescita dell’influenza ideologica del movimento rivoluzionario mondiale e di quello di liberazione nazionale. “A ogni concetto del socialismo corrisponde un concetto opposto dell’americanismo”, scriveva già negli anni Trenta il giornalista americano di sinistra L. Sarnson.

Fra le teorie economiche e sociologiche degli anni cinquanta e sessanta meritano d’essere ricordate quelle del “capitalismo popolare” e della “società industriale”. In campo storico è la teoria del “consenso” che, a partire dagli anni Cinquanta, divenne il fulcro dell’esclusivismo americano.

Essa affermava che la società americana si distingueva, nella sua evoluzione storica, per l’unità dimostrata nelle questioni fondamentali dell’organizzazione sociopolitica e per la stretta continuità delle istituzioni sociali.

R. Hofstadter sostenne che i conflitti nella storia americana non avevano mai riguardato i problemi della proprietà e dell’iniziativa privata. Assai tipiche sono pure la negazione delle tradizioni rivoluzionarie e socialiste, nonché l’affermazione che non vi sono mai state in Usa delle lotte di classe simili a quelle europee.

Non c’è dunque da stupirsi se i fautori della teoria del “consenso” abbiano rivalutato, dopo decenni di oblio, il libro di A. de Tocqueville Sulla democrazia in America (1835), in cui gli Usa vengono presentati come il paese delle classi medie senza gravi antagonismi sociali.

Avendo intrapreso la revisione di tutta la storia americana, i sostenitori di tale teoria hanno consacrato la più grande attenzione al periodo coloniale e alla guerra d’indipendenza, in cui, a loro giudizio, furono poste le basi della specificità americana.

Sintomatiche, in questo senso, sono le opere di L. Hartz, D. J. Boorstin, R. E. Brown, caratterizzate da un’impostazione ideologica e metodologica fortemente tendenziosa.

Secondo Hartz la violenta lotta di classe in Europa fu accompagnata dalla formazione di diversi sistemi ideologici che si “infettavano” reciprocamente e che servirono da fondamenta all’edificazione d’ideologie sempre più radicali.

Nulla di tutto questo accadde nel Nuovo Mondo. Durante la formazione delle colonie americane soltanto un frammento ideologico liberale si separò dalla società inglese. Trapiantato nel suolo nordamericano, esso costituì il sostrato che, per la creazione d’un sistema di valori, conteneva in germe gli ideali dell’individualismo, della libertà e della democrazia.

Stando sempre ad Hartz, la tradizione liberale affermatasi in America si rese, in un certo senso, “unidimensionale”, mettendosi al riparo dall’influenza di qualunque dottrina estremistica.

Boorstin la pensava come Hartz, ad eccezione che per un aspetto: secondo lui la democrazia americana non s’era sviluppata a partire dal “frammento liberale” del Vecchio Mondo, ma era nata nelle condizioni dello specifico ambiente americano.

Brown infatti affermerà che l’eguaglianza sociale esisteva già nelle colonie americane, che la maggioranza assoluta della popolazione era composta di farmers indipendenti e che una democrazia della classe media s’era costituita sulla base della democrazia economica.

Di fatto questi storici non s’interessavano che alle particolarità dell’evoluzione della società americana coloniale, ovvero l’assenza del feudalesimo in quanto sistema dominante, una disuguaglianza materiale minore che nei paesi europei, un grado più elevato di libertà politiche, ecc. Esagerando la portata di questi fattori, essi svilupparono piuttosto agevolmente la teoria dell’esclusivismo americano.

Brown arrivò addirittura a dire che, a differenza di quelle europee, la rivoluzione americana dei XVIII secolo non mirava a conquistare bensì a difendere delle libertà democratiche già esistenti.

Un altro gruppo di storici, solitamente definiti “neoliberali”, che si rifanno alla teoria del “consenso”, si sono soffermati sulla storia degli Stati Uniti del XX secolo. Essi non negano l’esigenza della lotta fra le ideologie liberale e conservatrice negli Usa, ovvero la presenza delle contraddizioni sociali (nel quadro del consenso generale sulle questioni fondamentali); ma pensano che le tradizioni del riformismo borghese, nelle quali un ruolo essenziale è stato giocato dallo Stato, possano attenuare e anche guarire completamente i mali economici e sociali.

R. Hofstadter, l’esponente più in vista della scuola del “consenso”, espose in maniera assai realista le acute collisioni sociali avvenute negli Usa all’inizio del XX secolo, ma poi dipinse un quadro idilliaco della loro “felice ricomposizione” nell’alveo della tradizione liberale: i leader giunti al potere, utilizzando l’autorità dello Stato, avrebbero fatto votare una legge antitrust e introdotto delle correzioni nei princìpi politici fondamentali, al fine di democratizzare la struttura politica.

Nelle opere di A. M. Schlesinger jr. e di altri autori, il new deal di Roosevelt e le new frontiers di Kennedy altro non erano che gradi successivi del riformismo liberale, le cui fonti risalivano all’epoca progressista dell’inizio del secolo scorso.

Tuttavia, l’era americana fu di breve durata. Analizzando il clima d’incertezza formatosi negli Usa all’inizio degli anni Sessanta, il giornalista americano G. Green scriveva: “Nell’insieme, la psicologia nazionale e il modo di vedere le cose si basavano sulla fede che il “nostro” capitalismo era in qualche modo diverso e migliore […] Vedere il sogno frantumarsi ed essere indotti dalla vita ad accettare un’altra prospettiva è stato senz’altro traumatizzante per la psicologia nazionale”.

La concezione dell’esclusivismo americano, in effetti, ha cominciato a entrare in crisi non solo per le contestazioni mossegli dagli ambienti di sinistra, ma anche per quelle di numerosi economisti, sociologi e politologi che non simpatizzavano con le idee di Marx.

D. Bell, il profeta dell’era postindustriale, costatò che l’influenza della teoria esclusivistica s’era indebolita con il venir meno delle possibilità imperialistiche e della fede ottimistica nel futuro del paese.

Numerosi storici, resisi conto dei limiti della teoria del “consenso”, hanno cominciato a indirizzarsi verso quella diversa visione della storia che prometteva la new scientific history, apparsa alla fine degli anni Cinquanta sotto l’influenza sia dei fattori sociopolitici che dello sviluppo interno della storiografia.

Un approccio interdisciplinare, che utilizzava i metodi della sociologia, politologia, linguistica, ecc., e i metodi quantitativi nell’esame delle fonti, cominciò a essere introdotto nelle ricerche storiche. E così nacquero una “nuova scuola economica”, “sociale” e “politica”. Ne risultò un notevole riorientamento delle scienze sociali americane, che allargarono il ventaglio dei problemi trattati, servendosi di molte più fonti.

La “nuova storia sociale” scelse come oggetto di studio i rapporti etnici, la mobilità sociale e geografica della popolazione, l’immigrazione, i mutamenti demografici, ecc. Le opere storiche di questa tendenza si soffermavano sulla vita degli immigrati e dei neri americani, sul ruolo della donna. Nuovi strati della vita sociale vennero messi in luce dalle ricerche di D. Montgomery, H. Gutman e altri, dedicate alla cultura della classe operaia americana nei suoi aspetti domestici, etnici, professionali e politici.

La “nuova storia politica” s’è invece soffermata sui problemi relativi al comportamento dei cittadini durante le elezioni, alle votazioni in Congresso e nelle assemblee legislative degli Stati, al funzionamento dei partiti politici. Tutto ciò ha permesso di passare da una descrizione dei singoli avvenimenti all’analisi delle strutture e dei processi politici.

Senonché l’angolo visuale di questi storici era tale che il ricco e nuovo materiale ch’essi avevano immesso nel circuito scientifico non contribuiva molto a comprendere i problemi più cruciali della storia degli Usa. Lo dimostrano alcuni esempi. Le ricerche sul ruolo delle minoranze etniche, religiose e politiche si collocano nel contesto di un’analisi funzionale, caratteristica della sociologia empirica contemporanea, che considera ì conflitti come un processo non antagonistico nello sviluppo delle diverse strutture sociali.

Il ruolo sociale della classe operaia, nel sistema dei rapporti di produzione capitalistici, sfugge all’attenzione di questi ricercatori. La nozione stessa di “classe” è da loro definita in modo estremamente generico, come l’autocoscienza che l’individuo acquisisce dei propri interessi. Il proletariato non è visto come oggetto dello sfruttamento capitalistico e le istanze dell’azione sociopolitica degli operai restano nascoste.

Questi storici non provano alcun interesse per la lotta di classe, gli scioperi, i sindacati e le organizzazioni politiche degli operai. La “nuova storia politica” studia il comportamento politico degli elettori nello spirito dei modelli behaviouristi, senza legarlo alla loro appartenenza di classe, e analizza il funzionamento del meccanismo politico separandolo dai fondamentali problemi socioeconomici.

Ciò spiega i motivi della crisi della “nuova storia scientifica”. Mancando completamente una sintesi generale, i successi ottenuti nell’applicazione dei processi interdisciplinari avevano portato – come vuole lo storico americano G. Nash – a un “brillante disordine”. Dopo una decina d’anni gli aspetti negativi di tale scuola divennero molto evidenti, tanto che alcuni storici ritornarono sulle posizioni dell’esclusività americana.

A differenza degli anni Sessanta, negli anni Settanta lo studio dei conflitti sociali e dei movimenti popolari è stato scavalcato da quello sui problemi della stabilità sociale. D’altra parte – sottolinea il redattore capo del “Journal of Social History”, P. N. Stearns – “l’etnicità è diventata una questione nodale della storia sociale americana e un’alternativa a quel tipo di analisi di classe che insiste sullo scontro sociale”.

Un approccio che metta in rilievo l’adattamento e la stabilità come aspetti peculiari della storia americana è senza dubbio un passo avanti verso una nuova versione della concezione del “consenso” e della teoria dell’esclusività.

C. N. Degler ha fatto il punto di queste tendenze nel suo messaggio presidenziale all’organizzazione degli storici americani. Egli ha presentato la “nuova storia scientifica” come un naturale prolungamento della vecchia storiografia, compresa la concezione del “consenso”. Rimproverando a questa nuova storia la sua infatuazione per ì metodi comparativi, Degler ribadisce la specificità dello sviluppo americano, e afferma che “i principali conflitti sono stati legati, nella società americana, più a una coscienza razziale ed etnica che a una coscienza di classe”.

La storiografia americana sulla politica estera (II)

Durante il periodo della guerra fredda sono esistite, per così dire, due correnti fra gli storici dello diplomazia: gli idealisti (Perkins, Bemis, Spanier) e i realisti (G. Kennan, H. Morgenthau). I primi promuovevano i valori morali e gli ideali umano-democratici nella politica estera americana; i secondi si basavano soprattutto sui concetti di “interesse nazionale” e di “equilibrio delle forze”. Entrambi i gruppi tuttavia difendevano risolutamente la politica estera di Washington. Ciò che li distingueva era semplicemente il livello del loro conformismo rispetto alle concezioni ufficiali dei governo.

Sotto questo aspetto i termini usati per classificare i due orientamenti sono alquanto convenzionali. Col passare del tempo comunque quello realista divenne il gruppo dominante, anche perchè non si lasciava sfuggire l’occasione di alludere ai valori dell’altra corrente. D’altra parte gli stessi idealisti non ignoravano la realtà degli affari internazionali.

La teoria conservatrice del consensus determinò la revisione dei giudizi che gli storici progressisti del XIX e metà del XX sec. avevano dato su molti avvenimenti della politica estera americana. Ad es. vennero riformulate le spiegazioni economiche di Pratt e Hacker sulla guerra dei 1812: se ne incaricarono B. Perkins Lie (figlio di Dexter Perkins), R. Horsman, N. Risjord e R. H. Brown, i quali ribadirono le vecchie concezioni secondo cui gli Usa non avevano alcun desiderio d’impadronirsi del Canada né della Florida, ma solo quella di difendere i loro diritti marittimi e l’onore nazionale.

Stessa cosa avvenne nel campo delle relazioni storiche angloamericane. Mentre prima, grazie ai lavori di Bemis e C. C. Tansill, si metteva l’accento sul conflitto in atto, dopo la II guerra mondiale gli storici americani concentrarono i loro sforzi nel mostrare che una tradizione di cooperazione e di fratellanza era quasi sempre esistita. Le opere fondamentali, in questo senso, furono quelle di B. Perkins e C. C. Campbell.

Il mutamento di clima si fece sentire anche sull’interpretazione data alla partecipazione degli Usa alla I guerra mondiale. Negli anni ’20 e ’30 c’erano i contrari e i favorevoli. Dopo il 1945 nessun rinomato storico americano sosteneva che gli Usa non avrebbero dovuto lasciarsi coinvolgere. La sola cosa su cui valeva la pena discutere per i conservatori era di sapere se il presidente Wilson era stato mosso do considerazioni pratiche o aveva agito sulla base di fini morali.

Tutto ciò però subì un’improvvisa sterzata alla fine degli anni ’60, cioè nel momento della guerra in Vietnam. Un nuovo gruppo di storici venne alla ribalta: i radicali o la cosiddetta “nuova sinistra”. Uno dei padri fondatori di questa corrente fu W. A. Williams, che trascinò con sé un gran numero di giovani storici pieni di talento, durante i suoi corsi all’università dei Wisconsin. Un ruolo significativo nella riconsiderazione della versione ufficiale sui motivi della guerra fredda fu svolto dagli studi di D. F. Fleming.

All’inizio degli anni ’70 moltissimi storici radicali cominciarono a rifiutare la tesi secondo cui le intenzioni dell’Urss dopo la II guerra mondiale sarebbero state “aggressive” (si pensi, ad es., a G. Alperovitz, L. C. Gardner, D. Horowitz, G. Kolko, W. Lafeber, C. Lash ecc.).

Questi storici ritenevano che non esistesse alcuna “minaccia sovietica”, in quanto gli Usa detenevano il monopolio delle armi nucleari e un considerevole grado di superiorità sui mari e nell’aria. Kolko, il più coerente dei radicali, arrivò persino a dire che gli Usa avevano perseguito i loro scopi imperialisti prima, dopo e durante la II guerra mondiale.

I radicali riesaminarono in modo più o meno approfondito quasi tutti gli argomenti degli studi conservatori sulla politica estera americana. A riguardo delle radici storiche dell’espansionismo americano, essi sostennero che la violenta conquista delle terre, avvenuta soprattutto a partire dal XIX sec., non rappresentò una rottura nella storia degli Stati Uniti, ma la naturale conseguenza di un lungo processo, i cui principali protagonisti furono le forze economico-commerciali del paese.

Anche Williams era perfettamente convinto che il capitalismo americano non avrebbe potuto svilupparsi così facilmente senza la rapida espansione del suo mercato in virtù dell’imperialismo. Egli sostenne anche che l’ideologia espansionista dei leaders americani durante e dopo gli anni ’90 del secolo scorso fu la trasposizione cristallizzata in “veste industriale” di quelle concezioni espansioniste in “veste agricola” che la maggioranza degli agrari del paese aveva sviluppato fra il 1860 e il 1893.

Altri storici radicali affrontarono argomenti più settoriali: T. J. McCormick, l’interesse dell’America per il mercato cinese alla fine del XIX sec; E. P. Paolino, le concezioni espansioniste del segretario di Stato W. H. Seward; J. E. Eblen, i crudeli metodi usati dagli Usa all’inizio della loro indipendenza in occasione dell’esproprio delle terre.

Resta strano il fatto che tali storici non abbiano affrontato importanti argomenti come la rivoluzione americana, lo guerra del 1812 o la Dottrina Monroe dei 1823. Interessante comunque è l’opera di H. I. Kushner sulle relazioni russo-americane nel nord-ovest del Pacifico e sulla storia del trattato sull’Alaska del 1867, attraverso il quale i fautori dell’espansionismo pensavano di sviluppare un mercato in Asia.

Le concezioni degli storici radicali sulla storia diplomatica e sulla politica estera Usa ebbero un certo successo fino alla metà degli anni ’70. Le ultime opere più significative sono state quelle di Gardner, Lafeber e McCormick. ll capovolgimento di fronte è stato improvviso. Gli accesi dibattiti sulla “sporca guerra” in Vietnam, sulla guerra fredda, sull’uso tendenzioso delle fonti storiche, sulla leadership e l’organizzazione dell’Associazione storica americana subirono una battuta d’arresto assai preoccupante.

La new left si sfasciò. Il trend patriottico conservativo si diffuse in tutto il paese. Si cominciò a parlare, dopo la celebrazione del bicentenario della nazione nel 1976, di new consensus e di sintesi post-revisionista, in grado di combinare le concezioni ortodosse degli anni ’50 con nuove idee revisioniste, al fine soprattutto di spiegare le origini della guerra freddo e di difendere le posizioni della “Truman Administration”.

Gaddis ammise che gli Usa cercarono di usare il loro potere economico per fare pressioni sull’Urss durante i negoziati relativi al piano Marshalli e al lend-lease. In breve tempo si formò l’idea che la rinuncia alla cooperazione fra Usa e Urss doveva essere addebitata a una comune responsabilità, e che anzi fu l’Urss che subito dopo la guerra cercò di garantire la sua sicurezza con l’uso di mezzi unilaterali (vedi le tesi di V. Mastny).

Inoltre, mentre gli storici radicali avevano sostenuto che moltissime nazioni, contro lo loro volontà, vennero incluse nella sfera d’influenza americana, i nuovi testi di G. Lundstad, B. R. Kuniholm, L. S. Kaplan affermavano invece che furono i paesi europei, scandinavi e mediorientali a chiedere l’appoggio degli Usa.

Per la nuova sintesi post-revisionista l’esistenza dell’impero americano doveva essere esplicitamente ammesso e si chiedeva ch’essa fosse tutelata nel migliore dei modi. Posizioni più realistiche e moderate di quella di Gaddis, si possono trovare in questo new trend nelle opere di G. Kennan e A. Harriman, ma restano minoritarie.

Questi nuovi storici conservatori non hanno alcun interesse a esaminare l’influenza delle classi medio-basse sulla politica estera americana. Essi inoltre si limitano a considerare tale politica da un punto di vista veramente nazionale, cioè senza utilizzare materiale proveniente da altri paesi.

Il loro scopo in pratico si riduce – come ha detto Lafeber – a difendere le posizioni assunte dal Dipartimento di Stato. Nulla di strano quindi che gli studi sugli affari esteri degli Stati Uniti siano diventati – come vuole C. S. Maier – un “figlio bastardo” degli studi storici americani.

Barak Hussein Obama. Un Presidente di nuove libertà?

L’uomo di questi giorni è il neo eletto presidente degli Stati Uniti, Barack Hussein Obama. Eletto a furor di voti, è riuscito a fare il pieno dei Democratici anche nel Parlamento americano.
Esce di scena, seppur tra due mesi e mezzo, George W. Bush, reo di aver trascinato un Paese e un popolo in guerre preventive, diritti civili negati, e come ultima stilla un disastro finanziario che ha travolto i mercati internazionali. La sua popolarità si era assestata al 24 per cento: una débâcle! Continua a leggere