Il dottor Sottile è ideologico quanto mai

Sinceramente parlando penso che il dottor Sottile non abbia capito niente dei due quesiti referendari su eutanasia e cannabis e sarebbe meglio che si dimettesse da presidente della Corte costituzionale.

Non ha capito la differenza tra droghe pesanti e droghe leggere, né quella tra uso personale e spaccio. Non ha capito che le droghe vanno legalizzate per toglierne il commercio clandestino alla criminalità organizzata. Non ha capito che se nel nostro Paese fossero legalizzate, non aumenterebbe ma diminuirebbe il loro commercio criminale nel mondo. Quindi non si violerebbe alcuna norma internazionale.

Non ha capito che il quesito referendario sulla cannabis è minimalista rispetto al vero problema della legalizzazione delle droghe. Non accettare neanche soluzioni minime vuol dire ampliare il divario tra Paese reale e Paese legale.

Non ha capito che in Italia i referendum sono solo abrogativi non propositivi, per cui devono formulare quesiti sulla base di una giurisprudenza vecchia, che non è stata rinnovata per colpa delle posizioni ideologiche dei partiti, che in parlamento non riescono a trovare alcuna soluzione ai veri problemi del Paese.

In tal senso non ha neppure capito che il referendum sull’eutanasia si riferiva ai casi disperati che non possono decidere da soli di staccare la spina che li tiene in vita.

Non ha capito che a impedire la libertà di coscienza è proprio la scienza. Non ha capito che non possiamo trasformare i nostri ospedali in lager che ti obbligano a vegetare in maniera disumana.

Il dottor Mengele si preoccupava di fare esperimenti sui detenuti dei lager nazisti. Lo faceva sfruttando la dittatura. Noi non possiamo mettere i nostri medici nelle condizioni di farlo sfruttando la democrazia.

Non ha capito che negli stati vegetativi persistenti non conta nulla essere o non essere consenzienti: la spina va staccata in ogni caso. Non ha capito che dovrebbe essere sufficiente un proprio testamento biologico per rimandare un paziente a casa e lasciarlo morire in pace.

Non ha capito che qui nessuno vuole uccidere nessuno: si vuole soltanto impedire alla medicina di torturare le persone tenendo in vita un corpo che in realtà è già morto.

Ma soprattutto il dottor Sottile non si deve permettere di insinuare che i comitati referendari promuovono dei quesiti ingannevoli. In quei comitati esistono persone altamente edotte in campo giuridico, che sanno benissimo di cosa parlano. Semmai è lui che deve chiedersi se non abbia preso in giro gli italiani. È incredibile infatti che non abbia capito che il referendum sull’eutanasia chiedeva di modificare una legge del 1930, formulata quando ancora non esistevano macchine per tenerti in coma a tempo indeterminato. Da allora ad oggi il parlamento non è stato capace di scrivere una legge sull’eutanasia attiva, semplicemente perché non riesce a togliersi di dosso il peso della cultura cattolica, che ancora considera il diritto a morire come un peccato mortale.

Il dottor Sottile avrebbe fatto meglio a dimostrare nei fatti d’essere davvero una persona laica, come si vanta di essere.

19 FEBBRAIO – IL GIORNO DELLA MEMORIA INFOIBATA DEL BELPAESE, QUELLO DEGLI “ITALIANI BRAVA GENTE” SEMPRE E COMUNQUE.

POI C’E’ ANCHE LA MEMORIA INFOIBATA DEI CRIMINI COMMESSI DA NOI ITALIANI “BRAVA GENTE” NELL’EX JUGOSLAVIA, ALBANIA E GRECIA.

NELLE FOIBE DEL SILENZIO, DELL’IGNORANZA E DEL’IPOCRISIA – COMPLICI DI FATTO DEI NOSTRI CRIMINI- ABBIAMO GETTATO I CORPI E LA DIGNITÀ DI UN MARE DI ESSERI UMANI. VI ABBIAMO GETTATO ANCHE LA NOSTRA MEMORIA, LA NOSTRA CREDIBILITÀ E LA NOSTRA DIGNITÀ

https://www.editorialedomani.it/fatti/debra-libanos-massacri-italia-africa-giornata-memoria-th9uu1l0

La giornata della memoria che manca per i massacri degli italiani in Africa

Luigi Mastrodonato

19 febbraio

«Gli italiani stanno uccidendo la gente con vanghe e badili, chiunque sia, tutti quelli che incontrano. È meglio essere divorati da una iena che farsi uccidere dagli italiani».

A parlare è un cittadino etiope, la sua testimonianza è una delle tante raccolte in decenni di ricerca dallo storico Ian Campbell e presenti nella monografia Il massacro di Addis Abeba. Una vergogna italiana (Rizzoli).

19 febbraio 1937 (Yekatit 12 nel calendario locale), capitale dell’Etiopia. Da due anni sono arrivati i fascisti italiani per riscattare la disfatta tricolore di Adua del 1896 e mostrare i muscoli, colonizzando l’unico stato africano ancora libero dalla dominazione europea.

Un’operazione di propaganda, dai costi economici altissimi e per cui vengono mobilitati mezzo milione di soldati. Fallito il progetto di una guerra lampo per la strenua resistenza etiopica, nel maggio del 1936 i fascisti conquistano Addis Abeba.

Dal balcone di Piazza Venezia Benito Mussolini annuncia «la riapparizione dell’impero sui colli fatali di Roma», ma in realtà vaste lande d’Etiopia sono fuori dal controllo italiano. La guerra contro le forze locali prosegue finché gli italiani hanno la meglio.

Sembra la fine delle preoccupazioni fasciste nel Corno d’Africa, ma un evento cambia le carte in tavola e diviene il pretesto per mostrare nel modo più chiaro possibile quella brutalità italiana che tra fucilazioni di massa, campi di concentramento e bombardamenti chimici si stava in realtà palesando già da due anni. 

L’ATTENTATO

Durante una cerimonia nel palazzo del governo coloniale di Addis Abeba, il 19 febbraio appunto, due ragazzi eritrei lanciano delle bombe verso le autorità.

Il generale Rodolfo Graziani, viceré d’Etiopia, è ferito, qualcun altro muore e l’attentato dà il via a quello che il collettivo Wu Ming ha definito «uno dei peggiori crimini mai compiuti dal Regno d’Italia nelle sue colonie».

Una forma di vendetta collettiva per l’attentato fallito, ma soprattutto una cruenta prova di forza per ristabilire la supremazia bianca e fascista sul territorio.

I carabinieri sparano sulla folla, l’area intorno al palazzo viene chiusa e chiunque si trova al suo interno e non è bianco viene ucciso. Mussolini ordina un «radicale repulisti», funzionari locali diffondono un documento in cui si dice che «Graziani farà sentire a tutti che se la sua pietà è infinita, altrettanto è la sua forza».

Inizia una caccia all’etiope che nella capitale durerà tre giorni, condotta non solo dai militari ma anche dai civili italiani presenti sul territorio.

Tra le testimonianze raccolte da Campbell c’è quella del medico Ladislav Sava: «Revolver, manganelli, pistole e pugnali venivano usati per massacrare gli etiopi disarmati di tutti i sessi, di tutte le età. Qualsiasi uomo di colore visto è stato arrestato, caricato su un camion e ucciso. Case o capanne etiopi sono state perquisite e poi bruciate con i loro occupanti. La maggior parte delle uccisioni sono state eseguite con coltelli e stordendo le vittime con i manganelli. Intere strade venivano date alle fiamme e se gli occupanti delle case in fiamme uscivano nelle strade venivano mitragliati o pugnalati al grido di Duce! Duce! Duce! Le camicie nere si facevano fotografare tenendo in mano teste mozzate di etiopi».

Altri testimoni raccontano che camminando per Addis Abeba si doveva fare i conti con cataste di persone carbonizzate, corpi di bambini mutilati, donne incinte sventrate, figure impalate, superstiti che vagavano disperati alle ricerca di parenti dispersi, chiese saccheggiate.

NON LASCIARE TRACCIA

In loco c’era anche Ciro Poggiali, inviato del Corriere della Sera, che scrive: «Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada. Lo scempio s’abbatte contro gente ignara e innocente».

Vengono uccisi molti intellettuali, così come chi prova a documentare i fatti, mentre agli italiani sono sequestrate le macchine fotografiche. Dell’eccidio i fascisti non vogliono lasciare tracce e nel momento stesso in cui inizia il massacro comincia anche un’opera di insabbiamento che si prolungherà fino a oggi.

La violenza nei giorni successivi si sposta nelle campagne, vengono date alle fiamme oltre 100mila case, spesso con le famiglie al loro interno.

Il capitolo finale avviene nel convento di Debra Libanos: i monaci cristiani copti sono accusati dai fascisti di aver dato ospitalità ai due attentatori eritrei. «Liquidazione completa», ordina il generale Pietro Maletti e sotto il fuoco italiano finiscono tutti, anche i civili che si trovano nel villaggio monastico.

Secondo le ricostruzioni a Debra Libanos muoiono in 2mila, ad Addis Abeba 19mila, il 20 per cento della popolazione della capitale. Con i morti delle campagne si arriva a 30mila persone brutalmente uccise dagli italiani in poche settimane.

Un massacro di cui il governo etiope nel 1946 ha chiesto conto durante la Conferenza di pace di Parigi, senza ottenere risposta.

Così come da 16 anni non ottiene risposta la proposta di legge presentata da alcuni parlamentari italiani di istituire per il 19 febbraio il Giorno della memoria in ricordo delle vittime africane durante l’occupazione coloniale italiana.

«In Etiopia le date civili hanno a che vedere essenzialmente con le infamie lì commesse dai governi italiani del passato. Da noi però non si è mai voluto riconoscere questi eccidi», spiega lo storico Alessandro Triulzi.

«Quelle come lo Yekatit 12 sono però questioni che si affacciano con sempre più urgenza nella società italiana. La presenza di migranti che vengono dai contesti del nostro passato coloniale e che si sentono addosso quei traumi, se li portano dietro, sta favorendo questo processo. Eppure si continua a non dare risposte sul perché stavamo lì e cosa abbiamo fatto realmente: politica e istituzioni voltano lo sguardo».

A tenere viva la memoria, visto che rimuovere il ricordo di un crimine significa commetterlo di nuovo, ci pensano le iniziative dal basso, come quella del collettivo Wu Ming e di Resistenze in Cirenaica, che per l’anniversario del 19 febbraio hanno organizzato un trekking urbano a Bologna alla scoperta di luoghi e simboli legati alle nefandezze coloniali; o della Federazione delle Resistenze, che in diverse città italiane ha organizzato azioni di guerriglia odonomastica, camminate e conferenze.

«Finché l’Italia non avrà fatto un lavoro di presa di consapevolezza su cos’è stata la sua presenza coloniale nel periodo liberale e fascista e finché non si riconoscerà che l’Italia ha condotto azioni di criminalità organizzata, non si risolveranno mai i problemi del passato che poi sono anche quelli del presente, come il razzismo», sottolinea Triulzi.

«La nostra eredità coloniale ce la siamo portata appresso per i decenni senza mai investigarla. È ora di cambiare il messaggio e la memoria».

 

Le dimissioni di Schönbach e la pericolosità della NATO

Sono passate quasi ignorate le recenti dimissioni di Kay-Achim Schönbach, capo della Marina tedesca. Aveva semplicemente detto, in un think tank a Nuova Delhi, che Putin merita rispetto, proprio perché governa un Paese importante, che potrebbe essere un alleato contro lo strapotere economico della Cina. Poi aveva aggiunto che la Crimea va considerata persa per gli ucraini, perché troppo strategica per i russi. Un’affermazione in netta controtendenza rispetto alle posizioni di USA e UE.

Durissime anche le sue parole contro i cinesi, accusati di prestare soldi a vari Paesi, anche guidati da “dittatori, assassini e criminali”, solo per sfruttare le loro materie prime e intrappolarli nella politica del debito.

Mi pare comunque più sensato lui del nostro ministro degli Esteri, che, quando dice che l’Ucraina è libera di entrare nella NATO, non si rende conto che la Russia non può tollerare che la NATO installi i propri missili nucleari così vicini a Mosca. Non riesce a capire che quando gli USA entrano in uno Stato, possono installare qualunque tipo di arma, esattamente come han fatto in altri Paesi europei. Come faccia a non vedere che non sono stati i russi ad arrivare ai confini degli USA, lo sa solo lui. Non c’è alcun bisogno, per un Paese che voglia aderire alla UE, che sia anche costretto a entrare nella NATO. Austria, Svezia, Finlandia e Irlanda non ne fanno parte. E la Svizzera, che ha sempre voluto restare neutrale, non è forse un Paese europeo?

Il Patto di Varsavia (istituito nel 1955) per contrapporsi alla NATO (istituita nel 1949) è stato sciolto nel 1991. Perché la NATO non ha fatto altrettanto, ma anzi ha cercato di espandersi sempre più, approfittando della debolezza della Russia?

La NATO è un’organizzazione pericolosa, poiché ha l’art. 5 che prevede l’immediato coinvolgimento bellico di tutti i Paesi membri a sostegno del Paese che viene attaccato militarmente in una sua qualunque proprietà o giurisdizione. Non viene specificato il tipo di arma che si può usare. Viene solo detto che l’intervento del Paese può essere anche a titolo individuale e senza bisogno di consultare il Consiglio di sicurezza dell’ONU.

OIBBÒ! OIBOBBÒ! “Crisi ucraina: l’Italia invierà alpini e bersaglieri”.

OIBBÒ! OIBOBBÒ! “Crisi ucraina: l’Italia invierà alpini e bersaglieri”.
Sperando che gli ucraini non si ricordino degli alpini e bersaglieri che nella seconda guerra mondiale li hanno invasi a fianco dei nazisti. Senza che mai il BelPaese abbia fatto un gesto di riparazione.E poi, cosa risolutiva, forse dopodomani Giggino vola pure lui a Kiev….  Così ci possono ridere dietro anche i polli.

https://www.blitzquotidiano.it/opinioni/nicotri-opinioni/sanremo-specchio-dellitalia-pino-nicotri-trova-nelle-canzoni-e-nei-voti-riscontro-alle-varie-anime-della-nazione-3447834/

Sanremo specchio dell’Italia, Pino Nicotri trova nelle canzoni e nei voti riscontro alle varie anime della nazione

di Pino Nicotri

Pubblicato il 7 Febbraio 2022 16:35 | Ultimo aggiornamento: 9 Febbraio 2022 8:56

Sanremo specchio dell’Italia, Pino Nicotri trova nelle canzoni e nei voti riscontro alle varie anime della nazione

Sorpresa a Sanremo! Il podio dei vincitori del Festival è davvero interessante e indicativo sotto vari punti di vista.

La nuova vittoria di Mahmood, questa volta in coppia (con Blanco), conferma che il BelPaese pur volendo il largo ai giovani, più modernità, meno moralismo e conformismo ha voglia di stabilità. Di Usato sicuro. E quindi ricorre alle riconferme per Sanremo come il parlamento a Roma ha voluto riconfermare Sergio Mattarella al Quirinale. Sperando che anche Mario Draghi sia riconfermato a Palazzo Chigi.

Alle spalle di Mahmood e Blanco sono arrivati seconda Elisa e terzo Gianni Morandi.

E questo mi pare significhi che subito dopo il blocco sociale giovane, giovanile e giovanilista “eversivo”, cioè anche “fluido” per quanto riguarda i generi – femminile e maschile, maschi e femmine – e annesse relazioni, c’è il blocco sociale giovane e meno giovane, ma comunque più tradizionalista.

E a seguire ecco il blocco dei non più giovani e degli anziani, conservatori, legati ai propri ricordi giovanili e desiderosi di non uscire di scena.

Attenzione però. In tanta “fluidità” di genere a tenere banco a Sanremo è pur sempre l’uomo, il genere maschile.

Il maschio fiero assertore della propria identità sessuale “a prescindere”, autosufficiente e autoreferenziale. Tanto che nella canzone Brividi di Mahmood e Blanco può cantare il proprio  amore per un altro maschio – forti ed esplicite le parole “Tu che mi mordi la pelle / con i tuoi occhi da vipera / tu che sporchi il letto di vino” – asserendo così la propria superiorità col fare a meno della donna.

E che può anche travestirsi da donna per sostituirla e renderla “più colta”, più sapiente, come Drusilla Foer.

Si parva licet, il fatto che l’uomo Gianluca Gori abbia partorito la donna Drusilla Foer, più colta e sapiente di altre donne, ricorda la nascita di Minerva, dea anche e soprattutto della sapienza, direttamente dalla testa di Giove anziché dal grembo femminile. Uno dei primi episodi/miti di erosione a sfavore delle donne della parità  di genere.

Fluidità e parità di genere, sì, assolutamente e sbandierata. Come sempre, “italiani brava gente”, ora e sempre.

Però guarda caso il conduttore, Amadeus uomo e padre, ha tenuto banco straripando in tutte le cinque serate e cambiando ogni sera il contorno femminile di co-conduttrice, ruolo di co- più velleitario che reale. E come se non bastasse a decidere o a fargli decidere di scegliere anche Sabrina Ferilli come contorno è stato suo figlio di appena 13 anni, ma maschio.

E siccome il BelPaese soprattutto in questo periodo difficoltoso ama le conferme, ecco che Amadeus, uomo, viene già confermato a furor di popolo per l’anno prossimo. Chissà se e che nome femminile gli consiglierà il figlio, maschio, nel frattempo 14enne.  Viene in mente il solito Gattopardo: cambiare tutto per non cambiare niente.

Come spettacolo questa edizione di Sanremo è stata un capolavoro, un trionfo

Ha infatti trasformato definitivamente Sanremo Festival della canzone italiana in Sanremo Fiera, Circo e Teatro, grande spettacolo circense e teatrale, anche delle canzoni italiane, ma soprattutto dell’italianità. Che ama strombazzare i propri cambiamenti e la propria modernità, di fatto più che altro modernismo, ma restando saldamente ancorata alla tradizione. Che fa pur sempre perno sul genere maschile.

Anche in questo caso vale il paragone del festival con il Parlamento degli agitati giorni quirinalizi che lo hanno preceduto, e, anzi, a ben vedere con l’intera politica italiana. Politica che dagli anni ’80, arruolando fin dagli anni d’oro di Bettino Craxi esperti di mercato e di pubblicità utile a far comprare i prodotti da lanciare, s’è trasformata man mano più che altro in politica spettacolo.  Con le televisioni che hanno preso il posto dei partiti in fatto di presenza nel territorio.

Questa edizione del festival, vista da ben 13 milioni di italiani, è stata un trionfo. Anche del suo conduttore e cerimoniere, di fatto il dominus assoluto però con aura anche paterna perché attento ai consigli filiali.

Amadeus è il nuovo patriarca di Mamma Rai

Amadeus grazie anche all’assenza di Fiorello, dei due di certo il più trasgressivo e “audace”,  col suo perfetto saper essere un piacione che piace a tutti, è assurto inopinatamente al rango di  neopatriarca della tv all’antica, quella di mamma Rai.

Amadeus incoronato ogni sera da un donna diversa sul palco e domatore di giovani ribelli dai proclami canori ed estetici “provocatori e innovativi” sì, ma solo fino a un certo punto. Assaltatori del cielo prudentemente dotati di paracaduti e robusta rete di sicurezza salvavita. Assaltatori del cielo sì, ma griffati e comunque senza spingersi troppo in alto: meglio restare sotto il livello delle nuvole…

Un po’ di statistica

Un trionfo, dicevamo. Però l’Italia è abitata da 60 milioni di persone. Perciò i 13 milioni con gli occhi su Sanremo sono il 21% del totale.  Mentre 7 milioni di italiani hanno preferito altre reti tv. E poiché 13 più 7 fa 20, ciò significa che a 40 milioni di italiani del festival di Sanremo non è interessato un bel nulla nonostante lo starsene in casa più del solito causa pandemia. Non è una dato trascurabile. Anche se in linea col più generale largo disinteresse per le stesse elezioni politiche e amministrative.

Nella sua ansia di “provocazione, innovazione e modernità” Achille Lauro, debitamente vestito ancora una volta da Gucci, non proprio un campione di provocazione,  non s’è accorto che è arrivato tardi. E di non pochi anni. Alla fine della sua canzone ha slacciato eroicamente  e molto rivoluzionariamente i pantaloni, a mostrare il basso ventre e un pezzetto di mutande. Compiaciuto della propria asserita impensabile audacia, ha sottolineato il gesto restando languidamente fermo per qualche secondo.

Achille Lauro evidentemente è troppo giovane per sapere o ricordare che una ventina d’anni fa era di gran moda andare in giro esibendo cerniere dei pantaloni, e della gonne se ne erano dotate, pericolosamente abbassate. Ricordo una festa della prima comunione alla quale una della ragazzine festeggiate, ancora odorosa di prima comunione e affiancata dalla mamma orgogliosa e sorridente, aveva la patta dei jeans talmente aperta che non ho capito come non le cadessero a terra.

I pantaloni di 20 anni fa

Ed è troppo giovane per sapere o ricordare che sempre una 20ina di anni fa era di gran moda, per maschi e femmine, indossare pantaloni e gonne che dietro mostravano generosamente en plein air almeno un terzo e a volte una buona metà del sedere e davanti almeno un terzo o una buona metà del monte di Venere.

Dovrebbe però essere sufficientemente adulto per rendersi conto che il coro che faceva da contorno anche estetico alla sua esibizione era composto esclusivamente da donne: lui il sole al centro, loro i satelliti a lato.

Non propriamente un grande segnale di innovazione ed eguaglianza di genere. E per non infierire taciamo sul particolare che lui è un uomo di pelle bianca che ha voluto come contorno canoro e un po’ ballerino un coro di signore dalla pelle nera.

Sempre riguardo Achille Lauro non si capisce perché alcuni cattolici e uomini di Chiesa abbiano gridato allo scandalo e alla blasfemia quando s’è versato addosso una conchiglia d’acqua come se si auto battezzasse. E’ infatti legittimo far notare che Chiesa e credenti sono rimasti zitti, non hanno avuto nulla da ridire quando a suo tempo il senatur Umberto Bossi, padre fondatore della Lega, battezzava pubblicamente in una adunata leghista suo figlio Renzo, quello definito “più che un mio delfino, una trota”, il governatore del Veneto Luca Zaia e il ministro della Semplificazione Roberto Calderoli.

POST SCRIPTUM

M’era venuto il dubbio di avere esagerato col mio precedente articolo su Sanremo “festival dei pipponi retorici”. Dubbio svanito quando Sabrina Ferilli, seduta con Amadeus, ha detto che era stato offerto anche a lei di fare un monologo, un bel predicozzo moralista contro qualche vizio del BelPaese. E ha spiegato pacatamente che però lei aveva rifiutato sia perché troppo benestante e quindi poco credibile per fare prediche sia perché non capiva come mai la sua presenza a Sanremo dovesse essere legata a qualche brutto problema.

Inflazione crescente: il dilemma delle banche centrali

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

La politica dei soldi facili ha “drogato” la finanza e l’economia, facendo aumentare i debiti e la propensione per maggiori rischi, e ha determinato la crescita dell’inflazione. Dopo molto tempo anche la Federal Reserve ha ammesso di aver sottovalutato l’impennata inflazionistica, che è più ampia e persistente delle previsioni. Ora, per tutte le grandi economie, la sfida è come correggere le azioni “dettate” dall’inflazione interpretata come “transitoria”.

Le banche centrali da anni, in merito all’inflazione, si basano su tre principi molto “soggettivi” e poco scientifici. Il primo è il target arbitrario del 2% annuo. Il secondo riguarda le “aspettative di inflazione”. I banchieri affermano che sono le aspettative a muovere l’inflazione e che le banche centrali guidano le aspettative. Perciò tutto, secondo loro, sarebbe sotto controllo. Il terzo è il cosiddetto “forward guidance”, una guida anticipata attraverso, per esempio, il controllo della curva dei rendimenti dei titoli pubblici.

Con la Grande Crisi Finanziaria prima e con la pandemia poi, le banche centrali bene hanno fatto ad aprire i rubinetti della liquidità con salvataggi immediati e necessari per il sistema. A lungo andare, però,  i rischi di inflazione sono inevitabili. Infatti, già la scorsa estate, sarebbe stato opportuno riconoscere che i fattori cosiddetti “transitori” erano accompagnati da problemi strutturali. Non si può giustificare tutto con gli effetti della pandemia. Oltre le irrisolte speculazioni sulle commodities, le aziende, in verità, descrivevano la natura persistente delle interruzioni nelle loro catene di approvvigionamento e la mancanza di manodopera specializzata. Gli imprenditori, a differenza di molti economisti accademici, affermavano che questi problemi non sarebbero stati risolti in tempi brevi.

Le banche centrali certamente non hanno tutti gli strumenti per sbloccare le catene di approvvigionamento e il reperimento della forza lavoro. Ma rimanere nella “mentalità inflazionistica transitoria”, rischia di mettere in moto quelle “aspettative” con tassi di inflazione non facilmente tollerabili dall’economia. Anche i crescenti risparmi dei mesi passati, erosi da un’inflazione del 6% o più, potrebbero essere spinti con forza verso l’acquisto di beni, ma troppo velocemente per trasformarsi in nuovi investimenti e in maggiori produzioni, alimentando così la stessa inflazione.

Non si può aspettare. Si rischia una più marcata recessione. E’ un modello conosciuto: dentro la trappola della curva dell’inflazione c’è il rischio di inasprire la politica monetaria in modo brusco, colpendo duramente la domanda e l’occupazione e mettendo fuori gioco le imprese già in difficoltà. Per i mercati si prospetterebbero situazioni d’illiquidità destabilizzante. In verità, già a novembre, il governatore della Fed, Jerome Powell, ha fatto un improvviso cambiamento di politica monetaria, annunciando una riduzione degli acquisti mensili di attività, quello che si chiama in gergo il “tapering” del quantitative easing.

Da parte sua, la Banca centrale europea ha ancora una posizione attendista, credendo fermamente nella “transitorietà” dell’inflazione, che alla fine dovrebbe ritornare al fatidico 2%. Se le pressioni inflazionistiche dovessero, però, diventare generalizzate, non si può escludere una qualche “frenata” disordinata nella politica monetaria.  In questa situazione, secondo noi, le principali banche centrali dovrebbero comunicare con puntualità le proprie azioni politiche in modo da non innescare confusione o una overreaction dei mercati. A differenza del positivo sincronismo pre pandemico, l’attuale disallineamento tra la Fed e la Bce non è di buon auspicio. D’altra parte, se l’inflazione diventasse più alta rispetto alle previsioni, si ridurrebbero anche i redditi reali, innescando un inevitabile scontro sociale, in particolare sui salari e le pensioni.

Indubbiamente, non vi sono facili soluzioni. Però, se nei passati 15 anni le banche centrali sono state super interventiste, non possono adesso diventare troppo attendiste. In questa situazione sono i governi e i parlamenti a dover entrare in gioco con decisione e definire le priorità degli interventi. Sono chiamati a favorire attivamente l’economia reale, le imprese produttive, l’occupazione e i redditi dei cittadini e svincolarsi dalla “presa” prolungata e soffocante della grande finanza.

*già sottosegretario all’Economia **economista