PFM si diventa, il nuovo libro di Renzo Stefanel dai Quelli a “Storia di un minuto”

Non sono mai stata un’appassionata del progressive, ma segnalo ugualmente, e volentieri, perché ricco di curiosità il terzo libro di Renzo Stefanel, “Storia di un minuto”, scritto a quattro mani con il collega Antonio Oleari. «Io mi sono dedicato alle interviste, una trentina – racconta Renzo, collaboratore ormai storico del Gazzettino e di rock.it – ho sentito quelli che lavoravano nell’ambiente della musica italiana dell’epoca, da paroliere Mogol al discografico Sandro Colombini, ai proprietari dei locali dove i Quelli prima e la Pfm poi suonavano a cavallo tra i Sessanta e i Settanta. Ne esce una ricostruzione storica senza imprecisioni, e dunque con grosse, succose novità per i fans».

La cronologia  della nascita dell’unico gruppo rock e prog italiano ad essere ancora noto all’estero, corretta e definitiva, chiarisce ad esempio l’esperienza dei Krel: «Finora si pensava fossero una formazione intermedia tra i Quelli e la Pfm, mentre il loro 45 giri e la loro cover di “Pà diglielo a mà” di un certo  Rosalino Cellamare,  uscita in una compilation sanremese, furono seguite da un altro 45 giri dei Quelli, che tutti davano per precedente».  Stefanel e Oleari seguono il quintetto composto da Franz Di Cioccio batteria e voce, Franco Mussida chitarra e voce, Mauro Pagani flauto, violino e voce, Giorgio Piazza basso e Flavio Premoli tastiere e voce, tutti intervistati nei mesi scorsi, dalle prove nei locali del bresciano e del bergamasco all’uscita del loro primo, mitico disco, “Storia di un minuto”, ripubblicato rimasterizzato in questi giorni in un set con “Per un amico” e un terzo cd con rarità dal vivo. «La Pfm ebbe piena libertà compositiva dalla Numero Uno, che puntò sulle potenzialità della band dopo la sua vittoria nel 1971 al festival di Viareggio, nonostante non avesse ancora un’incisione all’attivo. Il primo 45 giri aveva “La carrozza di Hans”, con il testo cambiato rispetto alla precedente versione dal vivo, sul lato A e “Impressioni di settembre” su quello B. Fu il primo gruppo, pur senza frontman,  a conquistare la posizione numero 1 della hit parade italiana, fino ad allora riservato ad un cantante o cantautore singolo». Renzo mi raccontava anche la partecipazione della neonata Pfm alla contro Canzonissima al Piper di Roma: otto a salire sul palco nel gennaio del 1972, tra cui Guccini, i Delirium, The trip, le Orme. Non è riuscito invece a confermare una mia impressione (non di settembre): ovvero che il prog sia più amato dai maschi che alle femmine. Mi ha però suggerito che forse è perché era una musica  molto legata alla perizia tecnica e al virtuosismo, cerebrale più che di pancia insomma…

L’etica della guerra e la guerra dell’etica

Le guerre sono l’esigenza di un’etica che si sente forte e che si è indebolita: un’etica malsana, individualistica, abituata a usare non l’esempio ma la forza per imporsi, e che quando riesce a ottenere ciò che vuole, diventa molle, s’infiacchisce, e non sa più come affrontare le proprie insanabili contraddizioni, i propri limiti egoistici.

L’esigenza della guerra è connaturata a una sorta di vuoto esistenziale, così tipico di quelle società (e financo di quelle civiltà) disposte anche a morire pur di trionfare sui più deboli.

E’ un’esigenza ciclica, che si ripete a ritmi alterni: a periodi di pace, in cui l’etica si rilassa, subentrano periodi di guerra, in cui l’etica si irrobustisce.

L’etica della guerra è un’etica di conquista, quella mediante cui il più forte vuole dominare. E’ l’etica del sacrificio, del coraggio, del disprezzo per la morte o per il dolore. E’ l’etica dell’obbedienza, del cameratismo, dell’altruismo nei confronti dei propri compagni, e dell’odio spietato nei confronti del proprio nemico. Si impara ad amare e a odiare nello stesso momento, con la stessa intensità.

E’ un’etica schizofrenica, lacerata, che illude i combattenti di poter diventare migliori proprio mentre uccidono qualcuno. L’omicidio viene giustificato in nome della guerra, cioè in nome del fatto che, siccome non si riesce ad amare nella pace, si deve provare a farlo nella guerra. E chi non è un “compagno” da amare e rispettare, è visto solo come un nemico da abbattere.

La paura di non-essere fa nascere le guerre, che infatti servono per affermare un “proprio essere”, l’essere della cultura, della nazione, della civiltà a cui si appartiene.

E sono guerre non di difesa ma di attacco. Non si sta difendendo legittimamente il proprio territorio, ma si sta occupando quello altrui. E mentre lo si occupa, si sviluppa l’etica, i cui valori sono finalizzati alla conquista e alla distruzione di chi fa resistenza.

E il militare non può aver dubbi di sorta: sta combattendo una guerra giusta, a favore della civiltà, della libertà, della giustizia, della scienza, del progresso e soprattutto dei valori umani universali.

Il soldato mette a repentaglio la propria vita per il bene dell’umanità e spera d’essere considerato un prode, un valoroso, addirittura un eroe. Viene ingannato dai suoi superiori e finisce con l’ingannare se stesso.

Prima della guerra l’etica era così debole che non si riusciva più a distinguere il bene dal male. E men che meno si può pensare di farlo durante la guerra, dominata dal principio mors tua, vita mea. E’ impossibile far chiarezza mentre si combatte, proprio perché la guerra rende elementari tutti i principi etici: o uccidi o vieni ucciso. Al massimo si può obiettare all’ordine di uccidere, se questo viola la dignità umana. Ma è molto raro vederlo.

La vera etica, quella umana, non può essere decisa durante la guerra: va decisa o prima o dopo. E quando non si riesce a farlo in tempo, la guerra diventa inevitabile; e se non si riesce a farlo neppure dopo, la guerra è stata inutile.