EMANUELA ORLANDI E’ VIVA! ABITA A ROMA IN VIA DI VILLA CHIGI. DITELO A “CHI L’HA VISTO?”. E A PIETRO ORLANDI. COSI’ SI POSSONO LUCRARE ALTRE PUNTATE, ALTRA AUDIENCE E ALTRE COPIE DI LIBRO DA VENDERE

Tanta fatica per niente, e da ben 28 anni, quando basta andare a un ben preciso numero civico di via di Villa Chigi a Roma e suonare il campanello: EMANUELA ORLANDI. Oppure farle una telefonata, dato che figura regolarmente nell’elenco telefonico. Invece Pietro Orlandi è partito per Londra…. Continua a leggere

Filosofia del cellulare

Il cellulare è un oggetto incredibilmente complesso, che quando si guasta non si può riparare. Da soli non si riesce a farlo e farlo fare ad altri può essere più costoso che comprarne uno nuovo.

Il cellulare è un prodotto derivato dal telefono, il quale, a sua volta, era un prodotto derivato dal telegrafo di Morse, di quarant’anni prima, tecnologicamente molto più semplice.

La differenza tra cellulare e telefono è che il primo non ha bisogno di cavi prese spine e spinotti per l’utente finale. Può essere portato con sé, usato ovunque, all’ovvia condizione che vi sia “campo”, il segnale delle onde radio da parte dei ricetrasmettitori terrestri. Chi tiene il cellulare acceso può essere facilmente rintracciato, anche se non lo usa. In un futuro molto prossimo tutta la tecnologia delle telecomunicazioni sarà satellitare.

L’handicap del cellulare è che la batteria si scarica e ha bisogno dell’energia elettrica per ricaricarsi. Il rischio, sul piano fisico, è che può nuocere alla salute con le sue onde elettromagnetiche, soprattutto al cervello.

Ma a che serve precisamente il cellulare? Perché oggi si parla di dipendenza psicologica? Perché questo oggetto è diventato una vera e propria slot-machine tascabile?

Come noto il cellulare ha molte funzioni: permette di ascoltare musica, di giocare, di collegarsi al web, di inviare email, di fare investimenti, di fare riprese con la videocamera incorporata, di scattare delle foto e di spedirle a qualcuno, di registrare la propria voce, ecc. E’ in sostanza un piccolo computer.

Ma la funzione principale resta sempre quella della comunicazione orale. Si può comunicare col mondo intero. Il cellulare ci dà l’impressione che il mondo sia a portata di mano, sia la nostra comunità di vita.

Quando nei testi scientifici si prende in esame l’evoluzione della tecnologia, si vede solo un progresso. Non ci si chiede mai se una determinata innovazione fosse davvero indispensabile all’esistenza quotidiana.

Fino a tutto il Medioevo la comunicazione avveniva tramite segnali luminosi (gli indiani nordamericani usavano anche quelli di fumo, per esprimere concetti semplici). Non si dava così tanta importanza alla comunicazione a distanza. Si dava cioè per scontato che la vera comunicazione, utile all’esistenza, fosse soprattutto quella interpersonale, ch’era diretta, da persona a persona, senza intermediazioni artificiali. Nel Nordamerica, prima che arrivassero gli europei, esistevano almeno 500 tribù, con altrettante lingue diverse: ebbene tra di loro gli indiani avevano imparato a comunicare usando circa 400 gesti diversi del linguaggio dei segni.

A partire dalla nascita dell’epoca borghese si è invece avvertito il bisogno di comunicare il più in fretta possibile (oggi addirittura in tempo reale) col mondo intero. Sono stati compiuti sforzi colossali per assicurare sul piano tecnologico un contatto potenziale con qualunque persona del pianeta, quando, sul piano delle relazioni personali, l’individualismo stava raggiungendo vette ineguagliate.

La filosofia del cellulare è dunque questa: quanto più si vuole comunicare in maniera artificiale, tanto meno si riesce a farlo in maniera naturale. Tra l’io e il tu si frappone sempre qualcosa: dalla semplice penna a sfera al collegamento con la navicella spaziale. Si ha in mano un potenziale tecnologico enorme che non aiuta minimamente a migliorare il livello di umanità degli esseri viventi.

Forse l’uso più significativo del cellulare lo si vede quando qualcuno è in pericolo: p.es. in caso di terremoto o quando si è sommersi da una slavina. Ma – chiediamoci – per casi del genere, in fondo abbastanza rari, era davvero indispensabile dotarsi di un oggetto così complesso come il cellulare? Non bastava un semplice rilevatore della nostra presenza? Cioè un qualcosa di molto meno costoso, di più facilmente riparabile in caso di guasto? di molto meno nocivo alla salute? di infinitamente meno inquinante per la natura? Anzi, meglio ancora: non bastava l’addestramento dei cani? Abbiamo già la natura che ci aiuta: perché dobbiamo complicarci la vita?

La nostra è una civiltà che produce beni tecnologici che in realtà servono non tanto a chi li usa, quanto soprattutto a chi li vende. Non servono neppure a chi li produce, poiché gli operai non sono padroni di ciò che fanno, essendo soltanto dei salariati, e quando rivendicano il diritto al lavoro dovrebbero anche chiedersi se ha davvero senso fare “certi lavori”.

I proprietari dei mezzi produttivi illudono che noi si possa fare chissà cosa, quando in realtà la vita resta alienata come prima. Anzi la percezione della differenza tra quel che virtualmente si potrebbe fare e ciò che effettivamente si riesce a fare, rende l’alienazione ancora più evidente. La solitudine sembra essere diventata la caratteristica principale della nostra civiltà basata sulla comunicazione.

Il voto dei referendum deve seppellire il Chiavalier Protesi Pompetta, troppo uso a offendere gli elettori oltre che a voler sentirsi dire “mi hai rovinato” (!) dalle donne con cui scopa. E deve travolgere il miserabile mondo che gli tiene bordone

Di offendere gli elettori, e quindi gli italiani, Silvio Berlusconi ce l’ha di vizio. E’ la terza volta che lo fa, pubblicamente e un modo plateale. Un vizio che si affianca a quello di diffamare la magistratura e di criminalizzare i comunisti o quelli che lui ritiene tali. Alle elezioni del 2006 disse che chi vota a sinistra “è un coglione”, anche se in un’intervista a “Radio anch’io” del marzo 2007 arrampicandosi sugli specchi negò di avere usato quel termine per gli elettori, ma di averlo usato solo in una riunione del direttivo dei commercianti per esortarli a non votare a favore del centro sinistra di Romano Prod. Berlusconi ammise di avere detto “non credo che tra di noi ci possano essere dei colleghi così coglioni da votare contro il proprio interesse”. Insomma, se non era zuppa, era pan bagnato… In realtà però Berlusconi a “Radio anch’io” aveva mentito, perché le sue parole esatte alla assise dei commercianti erano state queste: “Ho troppa stima degli italiani per pensare che ci siano in giro così tanti coglioni da votare contro i propri interessi”. Lo dimostra il video di quella sua illuminante dichiarazione: http://www.youtube.com/watch?v=Shre4CMbigI
Nella recente campagna elettorale per le votazioni amministrative, quelle che a Milano hanno promosso sindaco “il comunista ladro di auto e amico dei terroristi” Giuliano Pisapia e a Napoli la “toga rossa” Luigi De Magistris, Berlusconi dal salottone televisivo di “Porta a porta” ha lanciato un’altra fatwa: “Chi vota a sinistra è privo di cervello”, come ha immortalato il video  http://www.youtube.com/watch?v=Q2i9GQf0NDo . Una arzilla signora non più giovanissima ha deciso di querelarlo per diffamazione, iniziativa che varrebbe la pena seguire in molti. Magari con una bella class action…
Ora, in vista della votazione sui referendum, apprendiamo sempre dall’ineffabile cavalier Berlusconi che si tratta di “un voto inutile” (  http://www.youtube.com/watch?v=yV_eJBl7NuQ ). Il che è come dire che chi andrà a votare – specie se voterà sì – farà una cosa inutile.  Un altro modo per dare del coglione e del senza cervello a chi non la pensa come lui e i suoi fans.
Bene. Direi che può bastare. Un primo ministro che dà del coglione a quasi metà degli elettori, che oltretutto sono svariati milioni di cittadini, e dichiara che la maggioranza dei milanesi e dei napoletani sono senza cervello, visto che hanno eletto proprio Pisapia e De Magistris contrariamente alle sue convinzioni e alla annessa fatwa, è un primo ministro che non può continuare ad essere tale. Non lo dico io o un “kommunista” o qualche altro coglione senza cervello, lo dice invece proprio lui, il diretto interessato. Stando così le cose, andare a votare per i referendum, contro le convinzioni di Berlusconi, e far vincere il sì, ancor più contro le convinzioni dello stesso Berlusconi, dimostrerà invece che si tratta di un voto utile. Utile per dargli un’altra spinta verso l’uscita da palazzo Chigi. Perciò un voto utilissimo. Specie visto che il quorum è in vista, alle 22 di domenica ha già votato il 41,1% degli aventi diritto, una delle percentuali più altre nella storia della prima giornata di voto di tutti i referendum della repubblica italiana.
Intanto è bene che resti a perenne ludibrio per il Chiavalier Bunga Bunga il testo della conversazione telefonica tra due che lo consoocn bene e se ne intendono, Daniela Santanché e Flavio Briatore, campioni di un mondo che prefersico non aggettivare, ma che certo non ho in stima. Catastrofica e da pessimo film porno maniacale la figura di Berlusconi che ha bisogno di scopare per sentirsi dire dalle poveracce di turno che a furia di scoparle le ha distrutte…. Per farlo contento e accarezzare il suo orgoglio maniacal macho, del tutto degno dell’aggettivo “malato” affibbiatogli dalla ex moglie Veronica, le sue molto gentili ospiti hanno imparato a genere che non ce la fanno più già dopo “due botte”. Mi chiedo se l’Italia è un Paese civile o un postribolo, per avere un simile capo del governo. Mah.
Per cercare di arginare gli effetti devastanti di ciò che si sono confidati, Santanché e Briatore hanno rilasciato interviste per dire minchiate spaziali, dando alla loro conversazione telefonica un significato riduttivo buono tuttalpiù per cercopitechi, o – usando un termine berluscone – per coglioni del loro giro o, a scelta, per i vari Minzolini, Feltri, Sallusti, Belpietro e lo scelto circo Barnum dei “liberi servi del Cav” messo in piedi al teatro Capranica di Roma dal solito incontinente Giuliano Ferrara. Una pochade per la quale vale solo la pena chiedesri se Cav sta per “Liberi servi del Cavaliere” o del Cavolo.
Dal testo della telefonata ho tolto tutto ciò che non si riferisce al “trombage” del Chiavalier Protesi Pompetta. Continua a leggere

Elogio della precarietà

La precarietà è il segreto della vita che voglia restare umana. Dire una cosa del genere quando la gran parte dei lavoratori vive nella precarietà e fa di tutto per uscirne, può apparire offensivo.

In realtà oggi esiste, nell’ambito del lavoro, la precarietà delle mansioni o delle funzioni proprio perché alcuni han cercato di superarla a spese altrui, sfruttando risorse umane e naturali che storicamente non gli appartenevano.

Molti sono precari perché pochi, coi loro atteggiamenti autoritari, son voluti diventare dei privilegiati e han voluto conservare a tutti i costi questa loro prerogativa. La precarietà è di molti perché qualcuno l’ha arbitrariamente rifiutata e si è servito della precarietà altrui per vivere una vita da privilegiato. Così gli uni non sono umani perché miseri, gli altri perché benestanti.

Un tempo non era così. La precarietà era di tutti, era quella che la natura imponeva a tutti, senza esclusione.

La natura non può rendere facile la vita, proprio perché sa che gli esseri viventi sono in evoluzione continua, devono crescere, svilupparsi. E sa anche che nella sicurezza, negli agi, nelle comodità uno smette di crescere, si atrofizza.

Oggi nella precarietà ci si odia, si avverte l’altro come un rivale, un nemico, un concorrente da eliminare. Un tempo, essendo la precarietà una comune condizione, ci si aiutava per meglio sopportarla. Non la si fuggiva, la si dava per scontata. Al massimo si cercava di attenuarne il peso nei limiti che la stessa natura imponeva.

La natura infatti da un lato offre le condizioni per vivere, dall’altro chiede uno sforzo collettivo per attingere alle sue risorse. E’ lei che indica il livello delle comodità oltre il quale si rischia di perdere la nostra caratteristica umana.

La natura non è cosa che possa essere affrontata in maniera individuale. Chi ha voluto farlo, usando la forza, ha sconvolto dei meccanismi che per millenni avevano garantito a tutti la sopravvivenza.

Tuttavia, siccome l’esistenza della natura, con le sue leggi, è anteriore a quella dell’uomo, essa non può lasciarsi sconvolgere senza reagire. Di tanto in tanto ci fa ricordare, spesso dolorosamente, le sue prerogative e soprattutto il fatto che la sua esistenza non dipende da quella dell’uomo.

Quando la natura non ha sufficienti forze per resistere alle umane devastazioni, si trasforma in deserto, rendendo a tutti impossibile la vita. Per poter vivere nel deserto, che è la precarietà assoluta, bisogna essere uomini assolutamente speciali, quali non si potrebbero mai incontrare nelle grandi città, dove la ricerca delle comodità è l’obiettivo n. 1 per tutti.

E’ stata infatti proprio l’idea di comodità che ha distrutto il comunismo primordiale. E’ stata l’idea di surplus o di eccedenza che ha minato il principio della precarietà collettiva.

Alcuni han voluto far credere ai molti (usando miti e religioni) che si sarebbe potuto raggiungere il benessere accumulando riserve per i momenti più difficili. E’ stato così che è nato il problema di come controllare queste riserve e di come ripartirle.

Si è voluto por fine alla precarietà aumentando i tempi del lavoro, obbligando la natura a uno stress produttivo, diversificando in modo arbitrario le funzioni, i ruoli all’interno del collettivo.

La precarietà ha cominciato a essere vista non come una condizione naturale dell’esistenza, ma come un limite da superare con tutti i mezzi e i modi, senza neppur distinguere tra lecito e illecito, se non con la retorica delle parole. Chi superava prima e meglio degli altri la precarietà, difendeva con maggior forza le comodità acquisite; anzi, quando vedeva che queste diminuivano o non rispondevano più alle aumentate esigenze di comodità, diventava sempre più bellicoso, non essendo più abituato a sopportare la precarietà.

Dopo aver creato discriminazioni sociali all’interno del loro collettivo, gli strati privilegiati, preoccupati di conservare le acquisite posizioni di rendita, sono andati a cercare al di fuori delle loro comunità le risorse da integrare alle proprie. Chi si sentiva minacciato nel proprio lusso, nel proprio sfarzo, ha esportato all’esterno il malessere che viveva all’interno.

Si sono cominciate a condizionare, a minacciare, a conquistare le comunità altrui. L’antagonismo è diventato progressivamente un male di vivere che si è diffuso sull’intero pianeta. A volte il nomadismo, cioè la precarietà come stile di vita, è riuscita a porre un argine alla stanzialità, che è la comodità per eccellenza, ma nel complesso bisogna dire che la stanzialità ha vinto, al punto che oggi, chiunque scelga di emigrare dal luogo in cui la vita gli sembra impossibile, lo fa per diventare stanziale.

Tutti vogliono vivere in maniera urbanizzata, senza rendersi conto che le città sono nate solo dopo aver sottomesso a sé tutto il mondo rurale.

Hosea Jaffe e il colonialismo

I

Giustamente Hosea Jaffe sostiene, in Davanti al colonialismo: Engels, Marx e il marxismo (ed. Jaca Book, Milano 2007), che l’idea engelsiana di favorire il colonialismo europeo per accelerare il processo di industrializzazione nelle periferie coloniali, al fine di porre le basi per una transizione al socialismo, era un’idea non “socialista” ma “imperialista”, frutto di un’interpretazione meccanicistica o deterministica del materialismo storico-dialettico.

E ha altresì ragione quando afferma che la contraddizione principale, nell’ambito del capitalismo, è diventata, a partire dalla nascita del colonialismo, non tanto quella tra capitalista e operaio delle aziende metropolitane, quanto quella tra Nord e Sud, dove con la parola “Nord” non si deve intendere solo l’imprenditore ma anche lo stesso operaio che nell’impresa capitalista si trova a sfruttare, seppure in maniera indiretta, le risorse del Terzo Mondo.

Detto questo però Jaffe non è in grado di porre le basi culturali per comprendere la nascita del capitalismo (che non può essere considerato una mera conseguenza del colonialismo, in quanto quest’ultimo s’impose già nel Medioevo con le crociate ed esisteva già al tempo della Roma e della Grecia classica e non per questo è possibile parlare di capitalismo, che storicamente nasce solo nel XVI sec.). Jaffe non è neppure in grado di porre le basi politiche di un accordo tra il proletariato del Nord e quello del Sud.

Alla fine del suo percorso egli si ritrova su posizioni speculari a quelle engelsiane: laddove infatti si considerano interi continenti (Asia, Africa, America latina) incapaci di avviare l’industrializzazione borghese in maniera autonoma e quindi di favorire una transizione al socialismo, qui invece si considera l’occidente, en bloc, del tutto inadatto a comprendere i meccanismi mondiali dello sfruttamento economico; il che fa diventare assolutamente inutile il tentativo, da parte del proletariato coloniale, di cercare, nelle aree metropolitane dell’occidente, quei soggetti che possono condividere i suoi processi di democratizzazione sociale.

Hosea Jaffe assume una posizione deterministica rovesciata, al punto che gli diventa impossibile esprimere dei giudizi obiettivi sui limiti delle esperienze socialiste dei paesi coloniali (come quelle avvenute a Cuba, in Cina, nella Corea del Nord ecc.).

Pur di poter manifestare una posizione contraria all’occidente in sé, considerato quasi come una categoria metafisica, Jaffe è disposto a transigere su molti difetti dei regimi socialisti. Anche perché continuamente ribadisce la tesi trotskista secondo cui una transizione al socialismo è più facile in un paese economicamente arretrato che non nell’occidente avanzato.

Alla fine non gli resta che auspicare una terza guerra mondiale in cui lo scontro non avvenga più tra potenze imperialistiche ma tra Nord e Sud. Col che lascia del tutto irrisolto il nodo relativo al modello di sviluppo. A lui interessa soltanto che il Sud si liberi del Nord, non che si liberi anche della sua assurda industrializzazione.

II

In realtà non è di nessuna importanza che un paese sia industrialmente “avanzato” o “arretrato” ai fini della transizione al socialismo. Quello che più importa è la capacità di saper organizzare una rivoluzione che porti effettivamente a vivere una transizione verso il socialismo democratico.

In astratto infatti si può dire che un paese arretrato, sul piano industriale, è più vicino alle idee del socialismo in quanto è più vicino al pre-capitalismo, cioè alla cultura pre-borghese. Ma si può anche dire il contrario, e cioè che quanto più un paese è industrialmente avanzato, tanto più avverte il problema di uscire dalle contraddizioni del sistema, che rendono la vita invivibile, specie per le conseguenze ambientali che ha.

Nei paesi avanzati non sono avvenute rivoluzioni socialiste non perché è più facile che queste avvengano nei paesi arretrati – come diceva Trotski -, ma perché i paesi avanzati industrialmente sono anche quelli che praticano il colonialismo, oggi a livello internazionale, seppur, rispetto a ieri, in forme più economico-finanziarie che politico-militari.

Nel mondo non esistono paesi avanzati o arretrati autonomi, in grado di sperimentare percorsi indipendenti gli uni dagli altri. Nel mondo esistono paesi avanzati sul piano tecnologico che dominano politicamente o anche solo economicamente altri paesi arretrati sul piano industriale.

Tale dipendenza impedisce di servirsi liberamente delle tradizioni pre-borghesi per realizzare una transizione al socialismo. Questo peraltro il motivo per cui Lenin non credeva che il populismo russo, con la sua idea di “comune agricola”, sarebbe riuscito a impedire la diffusione del capitalismo in Russia.

Se i paesi avanzati non avessero colonie da sfruttare, le loro contraddizioni interne, a causa dei rapporti fortemente antagonistici, diverrebbero esplosive in poco tempo. Invece, grazie allo sfruttamento coloniale, il peso di queste contraddizioni può essere scaricato sui paesi arretrati.

L’Europa occidentale ha iniziato a comportarsi così già con la civiltà cretese, ereditata poi da quella ellenica; ha continuato a farlo, in grande stile, coi Romani; ha proseguito nel Medioevo col fenomeno delle crociate; e in epoca moderna ha inaugurato con la scoperta dell’America il colonialismo su scala mondiale.

Sono almeno tremila anni che l’Europa ha una pretesa di dominio verso le realtà più deboli. Ogniqualvolta i conflitti sociali diventano troppo acuti per poterli risolvere pacificamente, in politica interna si usano i sistemi autoritari, i metodi repressivi, e in politica estera si adottano programmi di conquista coloniale, di sfruttamento delle risorse altrui, umane o naturali che siano.

Ai problemi di natura sociale ed economica si risponde con soluzioni poliziesche (all’interno) e militari (all’esterno). Dopo aver represso il dissenso interno, si cerca di contenere il malcontento generale, facendo pagare a popolazioni estranee il prezzo delle proprie contraddizioni.

Ecco perché il dissenso interno riesce a trovare, temporaneamente o in territori circoscritti, uno sfogo alle proprie frustrazioni. I dissidenti si trovano a vivere nelle colonie quegli stessi rapporti antagonistici che subivano in patria, con la differenza che ora, nelle colonie, sono loro che li fanno subire alle popolazioni e ai loro territori conquistati.

Anche ammettendo che nella loro terra d’origine i dissidenti volevano realizzare una qualche transizione al socialismo, bisogna dire che questa esigenza non s’è mai realizzata nelle colonie ch’essi hanno conquistato o semplicemente abitato. E non solo perché la loro stessa madrepatria non gliel’avrebbe mai permesso.

I coloni hanno sì potuto riscattarsi dal peso delle contraddizioni subìte in patria, ma solo perché sono diventati i nuovi padroni in casa altrui. Non hanno mai cercato un rapporto di collaborazione con le popolazioni incontrate, onde potersi opporre al dominio della madrepatria. E se l’hanno fatto, è stato in maniera strumentale, per necessità di circostanza, per aumentare il loro potere di colonizzatori. Il dissenso frustrato nella madrepatria s’è trasformato nelle colonie in dominio nei confronti dei territori conquistati e delle popolazioni sottomesse.

Questa cosa è potuta andare avanti finché ci sono state terre da conquistare e popolazioni da sfruttare. Ma oggi tutto il pianeta è stato colonizzato. Se le popolazioni sottomesse cominciassero a ribellarsi, non ci sarebbe più modo, da parte dei paesi tecnologicamente avanzati, di trovarne di nuove da sottoporre a nuovi sfruttamenti.

L’antagonismo non può più espandersi geograficamente, può solo acutizzarsi a livello sociale, là dove riesce a dominare. Se non riusciamo a realizzare una transizione al socialismo, le barbarie è assicurata.

III

Detto questo, resta sempre da chiarire che cosa s’intenda per “socialismo democratico” e, su questo, Jaffe è incredibilmente lacunoso. Non avendo posto alcuna premessa per un discorso di tipo culturale, si trova a ripetere sempre le stesse cose, senza riuscire ad offrire suggerimenti significativi per uscire non solo dalla dipendenza coloniale, ma neppure dai meccanismi sociali e culturali che creano il bisogno di avere un dominio coloniale.

Qui il discorso si fa davvero ampio e tutto da costruire. Se Jaffe si fosse concentrato sulle origini socio-culturali del capitalismo, non avrebbe dato così grande peso al colonialismo, che pur di quelle origini è parte organica, ma sarebbe stato costretto a darne alla religione, alla teologia, alla filosofia, al diritto, all’arte, alla scienza, all’etica e alla morale, cioè a tutte quelle discipline che il marxismo ha sempre definito come “sovrastrutture” dell’economia e che, per questa ragione, sono sempre state considerate dagli studiosi di sinistra come una sorta di mero rispecchiamento della realtà concreta dell’economia. In realtà tra struttura e sovrastruttura esiste un reciproco condizionamento, che impone allo studioso un’analisi di tipo olistico, obbligata a tener conto di tutti gli aspetti nel loro insieme.

Lo stesso colonialismo dipende da una determinata cultura, esattamente come il capitalismo. Se gli uomini di una civiltà, di una religione, di una nazione ecc. si sentono, ad un certo punto, in diritto di dover conquistare territori altrui, significa che già al loro interno esiste questa deformazione, esiste già il senso del dominio da parte del più forte nei confronti del più debole. Questo senso o sentimento o atteggiamento sociale non dipende dalla psicologia dei popoli, ma da una cultura, da una concezione della realtà. E questa concezione, nell’antichità, si esprimeva soprattutto in chiave religiosa (mitologica o metafisica o razionale che fosse).

Le cause del colonialismo possono anche essere state sociali, politiche, economiche, ma noi dobbiamo cercare le cause culturali, quelle precedenti a tutto. Bisogna scoprirle e combatterle, proprio perché di fronte a una determinata situazione sociale non si debba nuovamente rispondere con la scelta dell’antagonismo e quindi inevitabilmente del colonialismo. Il problema principale infatti è quello di non ripetere, in forme diverse, gli errori del passato.

In occidente le forze progressiste non possono aspettare la fine del colonialismo prima di cercare un’alternativa al capitalismo. Se il problema sta anzitutto “fuori” (nelle colonie), alla fine soltanto quelli di “fuori” potranno risolverlo. Ma se la borghesia avesse aspettato la fine spontanea della rendita feudale, non sarebbe mai riuscita a far trionfare l’idea di profitto.

Tutti i libri di Hosea Jaffe

“IO VOTO”, scrivilo in un bicchiere d’acqua e poi fallo!

Un bicchiere d’acqua per brindare al diritto/dovere di votare per i prossimi quattro referendum. L’idea è di Società per Azioni, un gruppo di padovani nato dai “rEsistenti” – teatranti, musicisti, danzatori, scrittori, artisti contro i tagli alla cultura – e ampliato con l’adesione di alcuni insegnanti e un falegname. L’invito, che conta sul tam-tam inarrestabile del web, è di smuovere l’indifferenza, frutto di un’informazione scadente se non addirittura scorretta e dalla dilagante sfiducia nei confronti della politica. “La nostra proposta, che abbiamo chiamato Azione#2, è un’iniziativa di promozione dei referendum, non di propaganda elettorale – puntualizzano quelli della Società – Vogliamo porre l’attenzione su uno strumento di democrazia che purtroppo è stato svilito per meri calcoli di parte. Pensiamo che i cittadini debbano appropriarsi della loro facoltà di decidere al di

là degli schieramenti politici e delle semplici convenienze immediate. Non diciamo ‘vota sì’ o ‘vota no’ ma semplicemente ‘io voto’. E sottolineiamo quel “io”, primo e fondamentale elemento di costruzione di una società fondata su milioni di individualità diverse, capaci di farla che vivere e sviluppare verso territori non precostituiti, non standardizzati. “Io” perché nessuno può più pensare di demandare ad altri le decisioni sulla propria vita, sulla propria felicità”. L’invito acchiappa-elettori, con tanto di istruzioni per l’uso distribuite su carta e su youtube, è quello di prendere un bicchiere di vetro, riempirlo d’acqua, metterci dentro un foglietto dove sta scritto con un pennarello indelebile  “io voto” e lasciarlo bene in vista in un punto a scelta della città. Non solo. Chi vuole completare l’azione può fotografare il suo bicchiere e inviare l’immagine a socperaz@gmail.com o postarla direttamente nella pagina su facebook http://www.facebook.com/event.php?eid=204621199573218. Fondamentale per la buona riuscita di Azione#2 è il passaparola, forse verranno coinvolti anche alcuni negozi della città, pronti ad esporre i bicchieri pro-voto nelle loro vetrine.  Per dare maggiore visibilità all’azione, l’attrice e fotografa Claudia Fabris sfrutta il suo collaudato mestiere di costumista teatrale  indossando in questi giorni fantasiosi vestiti cuciti utilizzando gli striscioni dei diversi comitati per i referendum. L’evento clou è atteso per la sera del 10 giugno dalle 21.30, quando ben 600 bicchieri con “Io voto” verranno messi attorno alla fontana in piazza delle Erbe in pieno centro storico a Padova, alcuni illuminati da una candelina. L’azione numero 1 della “Società” , sempre nel segno della creatività, è legata invece alla manifestazione per lo sciopero nazionale della Cgil del 6 maggio.Che fossero tosti e determinati, lo si è capito dal successo della loro manifestazione di piazza contro i tagli governativi alla cultura. I “rEsistenti”, chiamati a raccolta da un manipolo di teatranti padovani appunto per resistere appunto alla mancanza di una politica per la cultura e lo spettacolo, il 27 marzo riuscirono a portare in piazza non solo addetti ai lavoro – attori, registi, critici, danzatrici, musicisti – ma anche chi sta dietro le quinte – scenografi, sceneggiatori, tecnici – e tantissimi simpatizzanti. Tutti uniti nell’alzare la testa e la voce,  nonostante in tante altre città italiane, alla notizia da Roma del reintegro del maltolto in cambio di un aumento dell’accisa sui carburanti, cortei e sit-in fossero stati all’ultimo momento sospesi. I “rEsistenti” sono nati però ancora prima, attorno al blog wwwww…., per stringersi attorno al Tam Teatromusica e alla soppressione per volere della Regione veneta del loro pluriennale laboratorio teatrale nel carcere Due Palazzi.

Israele è come gli 007: ha la licenza di uccidere. Concessa dalle loro maestà Usa ed Europa. Grazie ai miti creati dal sionismo e dimostrati come falsi da vari docenti di storia israeliani

Nuova strage di pacifici manifestanti palestinesi per mano del solito esercito israeliano dall’ammazzamento facile. Dopo la ventina di omicidi, con contorno di centinaia di feriti, di pochi giorni fa in occasione delle manifestazioni per la Naqba, cioè per Il Disastro della cacciata a mano armata di 700 mila palestinesi dalle loro terre seguita alla proclamazione dello Stato di Israele, ecco la ventina di omicidi delle ultime ore in occasione della Naksa: in occasione cioè della ricorrenza della sconfitta nella Guerra dei Sei Giorni del ’67 dei farraginosi eserciti di Egitto, Siria e Giordania per mano di quello di Israele. Che si prepara alla nuova mattanza di “pacifinti”, come gli ipocristi chiamano i pacifisti non antipalestinesi, della prossima Flotilla diretta a Gaza dopo la strage di 9 pacifisti turchi a bordo di una nave della Flotilla precedente. A parte le chiacchiere, le bugie e il sempre più cinico e intollerabile farsi scudo della Shoà, che non è una tragedia privata degli israeliani, non appartiene solo a loro, ma è una tragedia del mondo e al mondo intero appartiene, le cifre mettono a nudo la realtà della repressione militare israeliana e i suoi obiettivi. Dal 200o al 2010 a fronte di 1.083 vittime civili della “insorgenza” palestinese ci sonon 6.371 vittime civili palestinesi. Non siamo ancora al famoso rapporto “1 a 10″, di orribile memoria, ma ci siamo vicini, anche perché nel 2011 le altre vittime palestinesi non sonio certo poche: una vergogna per Israele. Che ai palestinesi ha anche rubato terra per piazzarci ben 430 mila colonim in spregio a tutte le leggi internazionali e alle stesse risoluzioni e richieste dell’Onu. I rifugiati palestinesi che campano con l’elemosina dell’Unrwa, l’apposita agenzia dell’Onu, sono ormai arrivati alla astronomica cifra di 4,8 milioni. Le case demolite e gli alberi da frutta palestinesi, olivi e arance soprattutto, distrutti per rappresaglia dagli israeliani assommano ormai a decine di migliaia le prime e a centinaia di migliaia i secondi. Ho perso il conto dei pozzi e delle fonti d’acqua palestinesi requisiti, cioè rubati, ai palestinesi. Ci sono situazioni scandalose che francamente gridano vendetta, dall’impossiiblità per certi villaggi, piani di bambini, a poter disporre di acqua ed elettricità alla moria di donne incinta impossibilitate a ricoverarsi in ospedale per partorire a causa dei chek point chiusi e del menefreghismo dei soldati addetti al loro funzionamento.  La situazione di Gaza non ha bisogno di essere illustrata. Continua a leggere

Obama a Londra ha detto che l’Occidente ha i valori di fondo che legittimano ancora la sua guida del mondo, ma l’Occidente senza tutto ciò che ha preso dall’Oriente sarebbe ben poca cosa

Passata la tempesta elettorale, riprendiamo a parlare di argomenti purtroppo più importanti.
Nei giorni scorsi a Londra il presidente Usa Obama ha tenuto nel parlamento inglese un discorso da uomo d’Occidente molto orgoglioso di esserlo. Non ha parlato di superiortà della civiltà occidentale, ma ha detto qualcosa di simile, qualcosa che una tale superiorià la sottende implicitamente. Obama ha infatti ribadito solennemente, nella sede dove è nato l’Habeas corpus che sta alla base di tutte le nostre libertà nei confronti del potere, che l’Occidente ha tuttora i valori fondamentali che lo autorizzano a voler guidare il mondo. Obama però non ha detto, forse perché lo ignora come quasi tutti eccetto gli studiosi, che l’Occidente senza tutto ciò che ha ricevuto per secoli e secoli dall’Oriente non sarebbe quello che è, non potrebbe cioè avere i “valori fondamentali” che ha. Fermo restando che ogni Paese ha i suoi valori, e che è assurdo pretendere che i propri siano superiori a quelli degli altri.
Nessuno, tanto meno Obama, ama ricordare il contributo decisivo al sapere scientifico, al tenore di vita e alla civiltà europea, e quindi occidentale in genere, fornito dalla civiltà islamica, dalla “Via della Seta” e dalla “Via delle Spezie”. I numeri che usiamo in Occidente non a caso sono i “numeri arabi”, nati in India e trasmessici dal mondo islamico, per non parlare dell’algebra, dell’astronomia, della cartografia, della medicina, della chimica, ecc. Dividiamo la settimana in sette giorni, di cui uno festivo, le note musicali in sette note, il giorno in 24 ore, le ore in 60 minuti, l’orizzonte in 360 gradi, ecc., ma sono tutte cose nate in Mesopotamia oltre 4.000 anni fa! E sono centinaia le parole italiane in vari campi che derivano dall’arabo e dall’iranico, a partire dalla diffusissima e significativa parola “paradiso”, fondamentale nella religione.

E a proposito di religione, non si usa dire che i “valori” dell’Occidente derivano dal cristianesimo? Anzi, da un po’ di tempo la Chiesa per nascondere le sue colpe verso gli ebrei ama parlare di radici “giudaico-cristiane”. E da dove vengono il cristianesimo e il giudaismo se non dalla Giudea, cioè dall’Oriente? Con il cristianesimo “Roma s’è fatta Oriente”. Il monoteismo e i principi del cristianesimo, a partire dall’ama il prossimo tuo come te stesso,  sono prodotti orientali poco conciliabili con le radici “greco romane”, delle quali pure ci vantiamo. Prodotti orientali che, fatti propri da Roma, nell’affermarsi in Europa – purtoppo, esattamente come nel resto del mondo, più con le armi che con il vangelo – hanno spazzato via il preesistente politeismo pagano e il suo sistema di valori. Che era il sistema di valori tipico proprio del mondo greco e romano, ma anche di quello degli altri popoli del Vecchio Continente, compresi i barbari e i germani che lo hanno poi invaso, sistema di valori per nulla centrato sull’eguaglianza, sulla solidarietà e sull’amore per il prossimo. Forse non è strano che per motivi di bottega il papa e la Chiesa non se ne rendano conto o facciano finta di non saperlo, ma è strano che neppure Obama si renda conto di tutto ciò. E se fosse vero quello che hanno provato a sostenere i suoi nemici, e cioè che lui in realtà è un musulmano, e comunque musulmani erano i suoi avi, sarebbe ancor più strano che non si rendesse conto che anche la religione fondata da Maometto è un prodotto dell’Oriente, non è certo “made in Europe”. Né più e né meno come il cristianesimo e il giudaismo noto anche come ebraismo. Continua a leggere