Umanesimo Laico e Socialismo Democratico

Cosa s’intende per “umanesimo laico”?

Anzitutto l’umanesimo laico non è che l’aspetto culturale del “socialismo democratico”, che invece riguarda la sfera socio-economica e politica.

L’umanesimo è il tentativo di valorizzare le espressioni di umanità dell’essere umano, uomo o donna che sia.

Col termine “essere umano” intendiamo qualunque persona di qualunque cultura, area geografica, etnia, lingua, religione ecc., del passato, del presente e del futuro.

Tuttavia, l’umanesimo che ci preme valorizzare è esclusivamente quello “laico”, che per noi vuol dire “non confessionale”, cioè “ateo” o “agnostico”, indifferente o contrario alla religione, a qualunque forma di appartenenza ecclesiale, per quanto riteniamo da escludere a priori ogni forma di coercizione riguardo all’atteggiamento da tenere nei confronti della religione.

L’umanesimo che ci interessa è quello che mette l’essere umano al centro della storia, e non una divinità o una qualunque entità extra-terrestre o sovrumana o una qualunque organizzazione umana che si faccia portavoce di concezioni religiose, mistiche o teologiche.

La centralità dell’essere umano non significa affatto che la storia debba avere la prevalenza sulla natura.

L’essere umano è davvero “umano” solo se si comporta in maniera conforme alle leggi di natura, solo se rispetta le condizioni di riproducibilità naturale dell’ambiente in cui vive.

Una prevalenza della storia sulla natura significa, in sostanza, una prevalenza dell’artificiale sul naturale, e quindi, di conseguenza, un allontanamento progressivo dell’essere umano da se stesso.

Quindi per noi non è solo vera l’affermazione che “se dio c’è l’uomo non esiste”, ma è vera anche l’altra, secondo cui “o si rispetta la natura o non si rispetta l’uomo”.

Ci rendiamo conto che se per un credente può essere facile, in via di principio, accettare la seconda affermazione, è praticamente impossibile accettare la prima.

Tuttavia, a questa persona vogliamo dire che per noi “ateismo” significa semplicemente rinunciare a qualunque rappresentazione di ciò che si vuole far passare per “non umano”. Significa rinunciare a forme interpretative che non trovino nelle vicende umane le loro giustificazioni.

Lo sviluppo della storia (di tutta la storia, anche quella che con arbitrio chiamiamo “preistoria”) va spiegato con la storia stessa. Se esiste qualcosa che va “oltre” la storia, non è che la natura, poiché all’essere vivente non è dato sulla terra che vivere un’esistenza secondo natura.

Qualunque rappresentazione o giustificazione di realtà extra-naturali o sovrumane è una giustificazione di rapporti non umani e non naturali su questa terra.

Per “socialismo democratico” s’intendono molte cose ma sostanzialmente due:

1. la proprietà comune dei mezzi produttivi,
2. l’autoconsumo di quanto prodotto.

La democrazia politica è una conseguenza di quella socio-economica.

Qui devono essere chiarite due cose.

1. Quando si parla di abolire la proprietà privata dei principali mezzi produttivi (quelli che danno sostentamento a un’intera comunità) non s’intende abolire la proprietà privata dei mezzi “personali”, né trasferire allo Stato, o a un qualunque altro organo che si ponga al di sopra della comunità locale, la proprietà dei mezzi produttivi.

2. Quando si parla di “autoconsumo” si intende escludere ogni dipendenza da mercati esterni alla comunità produttiva.
La comunità può vendere sul mercato il surplus che ottiene dalla propria produzione, e può ovviamente acquistare quanto non riesce a produrre. Ma il valore d’uso deve prevalere sul valore di scambio e il baratto dovrebbe sostituire l’uso della moneta.

Una comunità basata sulla proprietà comune dei mezzi produttivi e sull’autoconsumo, ovviamente è caratterizzata dall’autogestione.

Cooperazione e Autogestione sono i principi fondanti la democrazia politica, che è per forza di cose “diretta” e che, quando è “delegata”, cioè “indiretta”, lo è solo temporaneamente, o comunque un qualunque rappresentante della comunità, come è stato eletto, così deve poter essere rimosso, se la sua volontà non è conforme al mandato ricevuto.

Una democrazia diretta, autogestita, impedisce gli abusi di potere, o comunque obbliga a far ricadere il peso di decisioni sbagliate sull’intera comunità, che così si assume la responsabilità delle proprie azioni.

Una comunità autogestita è nel contempo una comunità socio-economica, politica e militare. Si tratta infatti di gestire una porzione limitata di territorio, e di difenderla da eventuali aggressori esterni.

Qualunque trasmissione del sapere deve essere funzionale alle esigenze di riproduzione e di sviluppo della stessa comunità.

Indicativamente e progressivamente vanno superate tutte le forme di divisione del lavoro (manuale e intellettuale) e della conoscenza (astratta-concreta, scientifica-umanistica).

E’ ovvio che in una comunità del genere la prevalenza va data all’ambiente rurale, rispetto a quello urbano. La città può essere usata per manifestazioni commerciali o fieristiche, ma va esclusa categoricamente qualunque dipendenza organica, strutturale, della campagna nei confronti della città.

La dittatura della democrazia (III)

Che cosa significa “governo del popolo”? Significa il contrario della democrazia parlamentare, e cioè che il popolo, là dove vive, decide la soluzione dei problemi che incontra. La decide per conto proprio, senza delegare nessuno; oppure, in caso di delega, questa è sempre a termine, per un mandato specifico: oltre una certa scadenza, oppure una volta esaurito il compito, il delegato decade dalla propria nomina o elezione.

Durante il proprio mandato il delegato deve periodicamente rendere conto agli eletti del proprio operato. Il mandato non può essere troppo lungo, altrimenti il popolo si disabitua a governare se stesso. Generalmente si sceglie la soluzione del mandato solo in casi molto particolari, quando non si può fare diversamente, quando è più semplice o più conveniente fare così, senza che con questo si voglia stabilire alcuna regola di carattere generale.

Il principio della democrazia del popolo è infatti molto chiaro: o la democrazia è diretta o non è. Le eccezioni possono essere tollerate solo a condizione che restino tali.

Stando le cose in questi termini è evidente che la democrazia diretta può essere esercitata solo in porzioni di territorio molto ristrette. Anzi, quanto più il territorio s’allarga tanto meno la democrazia può essere diretta. Se noi diciamo che l’unico potere forte dev’essere il popolo che decide la soluzione dei propri problemi, è evidente che i poteri particolari di determinati gruppi o ceti o classi sociali, devono essere tenuti sotto stretto controllo. Certo, non si può impedire a qualcuno di prevaricare; occorre però assicurare al popolo gli strumenti per potersi difendere.

Il massimo della democrazia e dei suoi poteri decisionali va garantito a livello locale, cioè comunale, ivi incluse le realtà dei quartieri: le circoscrizioni in cui ogni Comune è suddiviso. Il quartiere è, se vogliamo, l’istanza principale della democrazia diretta. Quanta meno democrazia c’è a livello locale tanta più dittatura s’impone a livello nazionale.

Con questo non si vuol sostenere che la democrazia diretta è di per sé migliore di quella delegata. Infatti non bisogna mai dimenticare che parallelamente al concetto di democrazia politica va affermato anche quello di democrazia economica. Senza uguaglianza sociale, anche la democrazia diretta diventa un’espressione vuota di contenuto.

Democrazia popolare significa che è il popolo a decidere le sorti della propria vita, fin nei minimi particolari. Solo così è possibile rendersi conto che una propria azione sbagliata può avere ripercussioni negative sull’intero collettivo e che l’azione giusta di un collettivo può avere ripercussioni positive anche su chi individualmente non l’ha condivisa.

La dittatura della democrazia (II)

Che cos’è il voto? Il voto, specie quello di preferenza per uno specifico candidato, dovrebbe essere una sorta di “patto” tra un elemento forte: il popolo, e un elemento provvisorio: il parlamentare, il cui mandato può essere confermato o revocato.

Nella pratica il voto è soltanto un rituale formale, che serve a confermare un potere politico-parlamentare che agisce separatamente dalla società che dovrebbe rappresentare. Sotto questo aspetto votare un partito o un altro, una coalizione di partiti o un’altra non fa molta differenza. Il voto serve soltanto per ribadire una stretta dipendenza della società nei confronti dello Stato. La dipendenza è spesso rafforzata dal fatto che al momento del voto gli elettori sono costretti a scegliere tra candidati preventivamente decisi dai partiti, quando addirittura non possono neppure scegliere i candidati ma soltanto le coalizioni di appartenenza.

Per la politica dei parlamentari il popolo non è sovrano ma “bue”, e i politici altro non sono che sirene ammaliatrici, che inducono il bue ad accettare i sacrifici più gravosi.

Qual è in genere la giustificazione che i politici danno al fatto che la democrazia può essere solo “delegata”? Il motivo sta nel numero dei componenti di una popolazione, che negli Stati nazionali è ovviamente molto alto. La democrazia infatti è la tipica forma di governo degli Stati nazionali.

Che questi Stati siano centralisti o federalisti, sotto questo aspetto, non fa molta differenza, poiché in nessun caso viene mai messo in discussione il principio della delega. La democrazia ha la scopo di far governare i pochi sui molti. E’ in tal senso una forma di oligarchia, ma con la differenza che al momento del voto non si fanno più differenze di censo, di sesso o altro.

Uno dei principali compiti della propaganda dei media occidentali è proprio quello di far credere che nei propri Stati nazionali la democrazia è un tipo di governo voluto espressamente dalla stragrande maggioranza dei cittadini. Una volontà che si manifesta appunto nel fatto che il popolo va a votare in tutti gli organi dello Stato, da quelli centrali a quelli periferici (da quest’ultimi vanno però escluse le prefetture, le questure, le preture ecc., che sono dirette emanazioni dello Stato).

Dunque che il governo dei pochi eletti sui molti elettori avvenga in una porzione di territorio grande o piccola, locale o nazionale, federata o centralista, significa in sostanza la stessa cosa. In tutte le civiltà antagoniste, basate sullo scontro delle classi sociali, le più importanti delle quali sono gli imprenditori di beni mobili e immobili e i dipendenti salariati e stipendiati, la democrazia parlamentare, delegata o indiretta, è la forma più mistificata della dittatura dei poteri forti.

Generalmente quando in uno Stato centralista si parla di federalismo è perché in periferia i poteri forti dell’economia vogliono rivendicare un maggiore protagonismo politico. E’ una richiesta di maggiore democrazia nei confronti dello Stato centralista, ma nel territorio locale questa esigenza spesso si traduce nell’affermazione di una maggiore libertà di manovra da parte dei padroni dell’economia e della finanza. Il federalismo infatti non mette mai in discussione il sistema capitalistico: “capitalismo” ormai è diventata per tutti una parola tabù.

La dittatura della democrazia (I)

Che cos’è la democrazia? E’ il governo dei rappresentanti del popolo, eletti periodicamente. Non è il governo “del” popolo ma “per” il popolo, in cui il popolo è attivo solo nel momento in cui va a votare: cosa che avviene nel corso delle elezioni amministrative o politiche. Un altro momento in cui il popolo si esprime direttamente col voto è quello del referendum abrogativo di leggi o, più spesso, di articoli di leggi già in vigore.

In genere nei paesi cosiddetti “democratici” la democrazia non è che la possibilità di votare chi di fatto governerà per conto proprio, anche se di diritto o formalmente egli governerà per conto del popolo, o se si vuole per conto dei cittadini aventi diritto di voto e che hanno esercitato effettivamente questo diritto (negli Usa p.es. solo la metà degli elettori partecipa alle elezioni dei candidati alla presidenza, sicché chi viene eletto si trova ad avere un consenso esplicito solo da parte di un quarto della nazione).

Un parlamentare dovrebbe sentirsi in dovere di render conto del proprio mandato agli elettori che l’hanno votato. Ma, a parte il fatto che la legge stessa gli garantisce ampie immunità e privilegi, questo è vero solo teoricamente, in quanto di fatto il parlamentare agisce in piena autonomia, pur sapendo di rischiare di non essere rieletto se non soddisfa determinate richieste del proprio elettorato.

Non a caso il parlamentare non può essere chiamato a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle sue funzioni; egli non ha nessuna responsabilità penale, civile, amministrativa o patrimoniale per tali attività. Nessun parlamentare può essere perquisito, arrestato, processato senza l’autorizzazione (che, dopo la riforma costituzionale dell’ottobre 1993, non è invece richiesta per condurre un’indagine nei suoi confronti) della Camera cui appartiene, a meno che non si sia in presenza di una sentenza irrevocabile di condanna o della flagranza del reato. Solo allo scadere del mandato parlamentare, il deputato o il senatore perdono il diritto all’immunità e tornano a essere come tutti gli altri cittadini, quindi perseguibili per i reati eventualmente commessi.

Questa regola, che oggi appare come una sorta di “impunità parlamentare”, fu particolarmente rigida nella Costituzione italiana del 1948 per reazione ai soprusi commessi dal fascismo contro i deputati d’opposizione. Una regola giusta in un regime autoritario s’è trasformata in una regola ingiusta in un sistema democratico.

In questa maniera infatti, l’accesso al parlamento è diventato un’àncora di salvezza per i trasgressori della legge, una sorta di via di fuga per coloro che intendono sottrarsi ad un giusto processo. Finché resta in carica il parlamentare ha tutti gli strumenti per gestire al meglio la propria situazione a delinquere: un supporto economico considerevole, la possibilità di una sua rielezione e, soprattutto, la possibilità di incidere con una legge ad personam sulla propria posizione nei confronti della giustizia. Di qui l’accusa rivolta ai parlamentari di essere una “casta di intoccabili”.

E il Migliore disse: “lasciate che fucilino i gay”

Informazioni recenti raccontano che in India e in diversi Paesi con un forte fondamenatlismo islamico, perseguitano dei cristiani cattolici.
Il capo della chiesa di Roma, Benedetto XVI, esorta il mondo,  dalla finestra del suo studio, a garantire il rispetto per il culto che rappresenta e a non discriminare le minoranze cattoliche.
Fa bene? Certo che sì! Siamo con lui nel testimoniare che le minoranze vanno rispettate, proprio perché il fondamento democratico di una civiltà si basa essenzialmente su questo: rispetto e condivisione di pensieri ed azioni, con le minoranze. Continua a leggere

PROGETTO PER USCIRE DALLA CRISI (II)

Davanti a noi si presenta uno scenario piuttosto oscuro, poiché i nodi stanno per venire al pettine, e non possono essere escluse delle svolte autoritarie di tipo militare. Il capitalismo finanziario, infatti, non crea scompensi solo al di fuori di sé, in quelle zone del pianeta che noi occidentali siamo soliti definire come Terzo e Quarto Mondo, ma anche al proprio interno, cioè nell’ambito metropolitano dello stesso occidente.

Il motivo di ciò sta nel fatto che, essendo il business il principale criterio della vita sociale, l’antagonismo tra gli individui e la corruzione nella gestione delle risorse comuni possono raggiungere livelli inusitati, anche perché è praticamente impossibile, data la proprietà privata di tutti i principali mezzi produttivi, un controllo sull’operato degli industriali, dei manager, degli operatori economici e finanziari.

Cioè nonostante che ancora oggi tutto l’occidente possa avvalersi di uno scambio commerciale profondamente iniquo nei propri rapporti col Terzo Mondo, uno scambio che gli permette di vivere ben al di sopra delle proprie possibilità, l’occidente non sembra essere in grado di autogestire la propria ricchezza, senza provocare immani disastri economici e ora soprattutto finanziari (per non parlare di quelli ambientali).

Stante l’attuale situazione, i paesi del Terzo Mondo dovrebbero cercare, da un lato, di non pagare più i debiti contratti con gli istituti finanziari dell’occidente, e dall’altro di trovare forme di cooperazione tra di loro, onde evitare o almeno attutire le inevitabili ritorsioni dovute ai mancati rimborsi del credito. Questa stessa cooperazione dovrebbe servire anche per farli progressivamente uscire da un mercato internazionale i cui prezzi vengono decisi a prescindere dalla loro volontà, nelle borse del capitalismo avanzato.

In ambito occidentale i lavoratori (che hanno già costatato, sulla loro pelle, l’incapacità industriale di tanti imprenditori e manager, nonché la grave irresponsabilità degli operatori finanziari) dovrebbero seriamente porsi il problema di gestire in proprio le aziende produttive, formando delle imprese cooperative, in cui la proprietà risulti indivisa, mentre tra gestore e proprietario non vi sia alcuna differenza.

Queste imprese collettive, siano esse industriali, agrarie o di servizio, dovrebbero altresì raccordarsi strettamente alle esigenze del territorio in cui operano, in modo da rendere minima la dipendenza dai mercati esteri. Bisognerebbe inoltre, sempre come tendenza progressiva, favorire al massimo, in tutta la popolazione, incentivandola con l’offerta gratuita di lotti di terra da coltivare, l’autoconsumo, cioè quella produzione agricola che permette un minimo di sopravvivenza (si pensi p.es. all’orticoltura).

Quanto ai rapporti tra socialismo e democrazia, occorre decentrare al massimo la funzione dell’amministrazione del servizio pubblico, in maniera tale che il cittadino possa verificare in ambito locale la fattibilità di una gestione collettiva della vita sociale. Socialismo e democrazia si realizzano nella misura in cui i cittadini sono padroni del territorio in cui vivono, cioè nella misura in cui possono constatare che le loro decisioni servono effettivamente a risolvere i problemi.

Gli stessi cittadini, globalmente considerati, vanno ritenuti responsabili della difesa del loro territorio, per cui no ai militari di professione, no ai mercenari, no alla separazione tra cittadini e forze dell’ordine.

In ambito locale tutto va gestito da tutti, e in ogni caso quanto più ci si allontana da questo ambito, tanto più temporanei, limitati, circoscritti a compiti specifici devono essere i poteri che si riconoscono ai propri delegati. La democrazia o è diretta o non è, e se la si vuole indiretta o rappresentativa, bisogna volerla entro parametri ben specifici, tali per cui quella diretta venga salvaguardata nelle sue funzioni essenziali.

L’ultimo aspetto da considerare è, in realtà, il primo in assoluto, la cui mancata soluzione pregiudicherà inevitabilmente la soluzione di tutto il resto. Qualunque stile di vita noi si scelga, deve essere compatibile con le esigenze riproduttive della natura. Se si pensa di poter creare una società a misura d’uomo, dimenticandosi che deve essere anche ecosostenibile, di sicuro si andrà incontro a un nuovo fallimento. Il rispetto dell’ambiente è la misura principale della verità del socialismo democratico.

PROGETTO PER USCIRE DALLA CRISI (I)

Dietro di noi abbiamo un lungo periodo in cui l’uomo è vissuto pacificamente nella comunità democratica primordiale, cui ad un certo punto ha cominciato a contrapporsi la civiltà schiavistica (il “peccato originale” dell’umanità).

Contro questa civiltà hanno cercato di lottare le religioni più significative della storia: ebraismo, buddhismo, cristianesimo, islam, ma senza alcun successo, al punto che i nuovi tentativi di liberazione (rivoluzioni borghesi e soprattutto socialiste) sono avvenuti all’insegna di una religione molto laicizzata o assente del tutto.

Ai nostri giorni esperienze analoghe a quelle del comunismo primitivo sono praticamente ridotte a un nulla, in quanto il sistema di vita borghese ha coinvolto l’intero pianeta, mentre quello di tipo socialista, essendo strettamente vincolato a istituzioni statali, s’è rivelato del tutto fallimentare. Un socialismo burocratico, amministrato dall’alto, non riesce a sviluppare la democrazia e inevitabilmente implode.

Tuttavia, se resta il problema di cercare nuove forme di socialismo, compatibili con la democrazia e non lontane dallo spirito delle esperienze del comunismo primitivo, resta anche il problema di come superare le contraddizioni del sistema capitalistico, le quali, ponendosi a livello mondiale, producono, quando s’acuiscono, effetti devastanti sull’intero pianeta.

Gli Stati borghesi non sono in grado di risolvere in maniera strutturale tali contraddizioni, poiché essi stessi ne sono parte in causa, espressione storica del loro sviluppo. Di fronte al crollo del socialismo reale i paesi capitalisti si sono illusi che il destino del capitale non avrebbe più incontrato ostacoli di sorta, e ciò sembrava trovare ulteriore conferma nella svolta borghese della società cinese, pur in presenza, in questo paese, di un apparato governativo e amministrativo ancora fortemente autoritario.

Ma l’illusione del capitalismo mondiale è stata di breve durata: le contraddizioni questa volta sono scoppiate non tanto sul terreno economico quanto su quello finanziario. Il capitalismo monopolistico di stato, che nella sua fase più evoluta ha una connotazione marcatamente finanziaria, sembra riportarci indietro, ai tempi del crac borsistico del 1929, cui seguì un decennio dopo lo scoppio della II guerra mondiale. Il capitalismo mondiale non ha gli strumenti per risolvere in maniera organica le proprie crisi cicliche, se non facendone pagare le conseguenze ai lavoratori e ai ceti più deboli.

CONTROCORRENTE – sette proposte per cambiare rotta

Tornare all’autoconsumo è possibile senza uscire dal capitalismo? No, non è possibile in alcun modo, poiché le imprese vivono sul valore di scambio e sul plusvalore (lo sfruttamento del lavoro altrui) e si servirebbero delle forze del “loro” ordine per impedire questa inversione di tendenza.

Tuttavia è possibile sfruttare le crisi cicliche del capitale, di cui quella finanziaria oggi è la più grave, per mostrare non solo la gravità delle contraddizioni di questo sistema, ma anche la sua incapacità a risolverle.

Si può cioè approfittare del momento critico per ripensare positivamente i criteri di vita. Quali criteri vanno ripensati?

  • Anzitutto quello del consumismo. La società funziona meglio quanto meno la gente spreca e non quanto più consuma, indipendentemente dagli effettivi bisogni. I consumi vanno razionalizzati e ottimizzati: si acquista il necessario e si evita il superfluo; si acquista ciò che può essere riutilizzato, evitando non solo di disperderlo nell’ambiente, ma, se possibile, anche di riciclarlo per altri usi. Riutilizzare uno stesso prodotto costa meno che riciclarlo. E in ogni caso qualunque reato contro la natura deve rientrare nel diritto penale, oltre che civile. E la pena deve essere sommamente rieducativa, in quanto la natura, come la libertà, è un bene fondamentale per la sopravvivenza del genere umano.
  • In secondo luogo il criterio delle retribuzioni. Una società che permette a milioni di persone (in Italia ben 15 milioni) di vivere con un reddito inferiore a mille euro al mese, mentre poche decine di migliaia fruiscono di stipendi favolosi, che vanno ben oltre le loro necessità quotidiane, è una società destinata soltanto a perenni conflitti sociali, che tendono a paralizzarla. Occorre trovare una media retributiva che permetta a chiunque di vivere dignitosamente; il di più va motivato e non può mai essere preteso contro le esigenze altrui di sopravvivenza.
  • In terzo luogo occorre responsabilizzare i cittadini di tutto quanto li riguarda. Questo significa decentrare progressivamente le funzioni dello Stato verso gli Enti Locali Territoriali. La democrazia da delegata deve diventare sempre più diretta. Tutte le istituzioni vanno gestite anzitutto a livello locale e bisogna lasciare a questo livello il compito di cercare, sulla base della propria indipendenza economica, il compito di cercare intese e convenzioni con altri livelli di partecipazione popolare.
    Quanto più le responsabilità salgono a livello nazionale, tanto più devono essere considerate provvisorie, finalizzate a uno scopo preciso in un tempo determinato. Ogni mandato (politico, esecutivo, legislativo, giudiziario ecc.) deve poter essere revocato in qualunque momento, e ogni delegato ha l’obbligo di fare un rendiconto periodico del proprio operato a chi l’ha eletto.
  • In quarto luogo va data priorità assoluta alle esigenze locali, materiali e culturali. Da un lato quindi sviluppo della produzione per soddisfare bisogni primari; dall’altro valorizzazione delle specificità locali, per l’affermazione dell’identità territoriale. Se la comunità locale vive la democrazia sociale, non ci sarà antagonismo con altre comunità locali, ma anzi collaborazione, nella consapevolezza che non ci può essere sviluppo e sicurezza se non nella reciprocità.
    Questo comunque significa due cose: che la comunità acquista sui mercati soltanto ciò che non è in grado di produrre e che sul piano culturale essa è preposta a valorizzare proprie tradizioni e linguaggi.
  • In quinto luogo i debiti vanno pagati da tutti, in maniera proporzionale alle proprie entrate, sempre che questo non debba pregiudicare la propria esistenza in vita. Ogni Regione deve accollarsi i debiti dello Stato, se vuole ottenere il decentramento delle funzioni statali. Tutti i cittadini sono responsabili del debito nazionale (anche quelli che indirettamente non hanno fatto nulla per impedirlo), e chi ha contribuito maggiormente a crearlo, non può più esercitare alcuna funzione dirigenziale o manageriale. Chi ha operato in maniera esplicitamente fraudolenta, contribuendo personalmente al fallimento di imprese, banche o istituzioni, se non vuole subire sanzioni penali, deve restituire il maltolto o comunque impegnarsi a recuperarlo.
  • In sesto luogo la difesa militare della comunità locale è compito della comunità stessa. Bisogna porre fine agli eserciti di professionisti o di mercenari. Tutta la popolazione va tenuta in periodica esercitazione per la difesa del proprio territorio. I servizi segreti vanno aboliti.
  • In settimo e ultimo luogo vanno aperti tutti gli archivi, al fine di permettere ai ricercatori e agli storici di far luce sul nostro passato.

PANORAMICA DELLA STORIOGRAFIA FRANCESE (X)

Ma la critica al marxismo non si ferma qui. “Il totalitarismo, afferma de Benoist, è il prodotto dello spirito egualitario e, in particolare, dello spirito economico che ne è il corollario obbligato”. Il culto dell’uguaglianza è figlio del culto dell’economia, ha detto C. Polin.

Il marxismo insomma è sotto accusa perchè riduce all’economia tutti i fenomeni e i processi del mondo, riduce l’uomo, che è un essere di cultura, a un “animale economico”. Si dirà: niente di nuovo sotto il sole. Da un un pezzo si sentono critiche del genere. E non potrebbe essere diversamente. Ogni nuova critica al materialismo storico e dialettico non è altro che una rielaborazione riveduta e corretta di critiche borghesi precedenti. Se questi “filosofi” studiassero seriamente il marxismo, si accorgerebbero che in nessuna opera vi sono affermazioni secondo cui le condizioni economiche costituiscono l’elemento determinante di tutti i fenomeni sociali. La concezione materialistica della storia parte soltanto dall’idea che il modo di produzione della vita reale condiziona il processo della vita sociale, culturale e politica.

Engels, in alcune lettere degli anni ’90, dimostrò chiaramente quale ruolo avevano i fattori extra-economici nel processo storico. “La situazione economica è la base, ma anche tutto il resto -egli scrisse- esercita la sua azione sul corso delle lotte storiche e, in molti casi, ne determina in maniera preponderante la forma”. Vi è insomma anche qui una sorta di interazione, all’interno della quale i fattori economici costituiscono una determinante solo in ultima istanza. Sono proprio questi fattori che rendono più importanti taluni aspetti sociali in luogo di altri.

La ND predica la renaissance della cultura europea, ma nega l’unità della storia mondiale, la quale, più di ogni altra cosa, attesta che in tutte le culture dell’uomo vi sono determinati elementi comuni (quella borghese, che è presente in tutti i paesi capitalistici, ne possiede moltissimi).

Ma la filosofia marxista evidenzia anche la diversità nella storia mondiale. In virtù delle specifiche caratteristiche di ogni paese e regione, le leggi generali del processo storico vi si manifestano in diversi modi. Pur in presenza di analoghi rapporti di produzione, la diversità dei fenomeni sociali è infinita.

Al contrario, la ND nega non soltanto l’unità della storia, ma anche l’orientamento della sua evoluzione. A. de Benoist considera la storia un non sens, in quanto delle due concezioni europee dello sviluppo storico, lineare e ciclica, la prima, che mira a evidenziare la direzione del movimento storico mondiale, rappresenta secondo lui una violazione della libertà di scelta dell’uomo.

Ecco qui delineata la classica concezione borghese della libertà: nessuna decisione a vivere il meglio per tutti, conforme alle vere esigenze degli uomini, ma pura e semplice possibilità di scelta. Una libertà, come si può vedere, che vuole essere libera sia dalla natura che dalla società: una libertà in sostanza che non esiste. A. de Benoist colloca nella teoria lineare, che egli giudica “fatalista”, anche il marxismo, il quale, secondo lui, non terrebbe in alcun conto il ruolo della contingenza nella storia.

A. de Benoist e soci hanno praticamente ricondotto la teoria marxista dell’evoluzione sociale a una categoria delle dottrine finalistiche. Engels, tuttavia, scrisse a questo proposito: “Non più della conoscenza, la storia non può trovare un fine perfetto in uno Stato ideale perfetto dell’umanità; una società perfetta, uno Stato perfetto sono cose che esistono solo nell’immaginazione; viceversa, tutte le condizioni storiche succedutesi non sono che tappe transitorie nello sviluppo senza fine della società umana che va dall’inferiore al superiore”.

Da questa angolatura risulta evidente che solo la conoscenza delle leggi dello sviluppo della natura e della società, solo la loro intelligente applicazione pratica rendono l’uomo veramente libero. Lenin, criticando i populisti che, come la ND, ritenevano il determinismo dei fenomeni sociali ostile alla libertà dell’individuo, scrisse: “L’idea del determinismo, che stabilisce la necessità delle azioni umane e che rifiuta l’assurda favola del libero arbitrio, non abolisce affatto la ragione né la coscienza dell’uomo, né la valutazione delle sue azioni”. Dunque, l’oggettività determina le azioni del soggetto, ma quest’ultimo, a sua volta, agisce sul corso dei processi oggettivi.

Necessità e contingenza non possono essere separate. A certe condizioni la necessità può mutarsi in contingenza e viceversa. Chi spera di poter avere a disposizione un dogma col quale interpretare, comodamente seduto in poltrona, tutti i fenomeni storici e sociali, passati e presenti, perde il suo tempo.

Marx ha scritto che “sarebbe evidentemente molto facile fare la storia impegnandosi a lottare con possibilità favorevoli al 100%. Una storia di questo genere però, ove i rischi non giocano alcun ruolo, avrebbe un carattere assai mistico. I casi fortuiti rientrano nel processo generale dell’evoluzione e si trovano compensati da altri casi fortuiti. E tuttavia l’accelerazione o il rallentamento del movimento dipendono da simili inconvenienti”.

La filosofia marxista non ama separare il passato dal presente e dal futuro. Al contrario, il marxismo sostiene che ogni epoca dello sviluppo dell’umanità viene preparata da quella precedente. Proprio l’analisi scientifica di questo stato di cose ha permesso a Marx di elaborare la teoria delle formazioni economico sociali.

Le simpatie di A de Benoist vanno ovviamente per la concezione ciclica, secondo cui la storia non ha né inizio né fine, essendo semplicemente il teatro di un certo numero di ripetizioni analogiche.

Condividendo la tesi dell’idealismo soggettivo, i seguaci della ND si immaginano tutto il processo storico come un flusso irrazionale di avvenimenti slegati fra loro.

La libertà tanto declamata è soltanto la “libertà da ogni responsabilità” per il destino degli uomini. La ripetizione analogica (vedi l’irrazionalista Kierkegaard) è assunta come un pretesto per il proprio disimpegno, come un alibi del proprio conservatorismo.

Da questo punto di vista la répétition trova la sua ragion d’essere. Le idee di questi intellettuali non riflettono soltanto la profondità della crisi spirituale della società capitalistica, ma rappresentano anche un tentativo di giustificare una concezione del mondo unilaterale e autoritaria.

La filosofia della nouvelle droite risponde dunque agli interessi dell’ala più reazionaria della borghesia. E’ davvero singolare che proprio mentre s’impone con vigore l’esigenza di superare le differenze di razza e nazionalità, vi siano correnti filosofiche che teorizzano una direzione opposta, cioè l’affermazione di un libero arbitrio à tout prix.

Lo strano e pericoloso ping pong tra il papa e il rabbinato sulla beatificazione di Pio XII. Intanto negli Usa la magistratura autorizzaper la prima volta che si processi direttamente il Vaticano per i reati di pedofilia del suo clero: nasce così il rischio che lo si possa chiamare in causa anche per la sua parte di responsabilità per i campi di sterminio

A meno di sempre possibili colpi di scena, il papa tedesco a suo tempo volontario nella Gioventù Hitleriana andrà quindi in visita in  Israele. La motivazione ufficiale dice che è impensabile che un pontefice come Ratzinger, autore di un libro su Gesù in due volumi (il secondo non è stato ancora pubblicato), non vada a “vedere la Terra Santa dove Cristo è vissuto”. Credere che gli altri pontefici non ci siano andati solo perché non scrivevano libri sulla vita di Gesù Cristo è francamente impensabile, troppo riduttivo. E’ più credibile che il viaggio di Ratzinger sia un pegno da pagare per avere il via libera dal rabbinato israelita per la beatificazione di Pio XII dopo le recenti polemiche sullo spinoso argomento. E rischia di essere anche un altro passettino verso lo “scontro di civiltà”, inteso come scontro tra “civiltà” legata alla bibbia, donde derivano sia l’ebraismo che il cristianesimo, e “civiltà” legata al corano, vale a dire l’islam. Come al solito, in queste faccende la religione non c’entra assolutamente niente, si tratta “solo” di diplomazia, politica e conservazione del potere esistente. Continua a leggere