È attendibile Jossa come esegeta del N.T.?

Si prenda di Giorgio Jossa un libro qualunque, tanto le sue tesi di fondo son sempre le stesse e certamente non sgradite agli ambienti di area cattolica, che lui stesso peraltro frequenta ben volentieri: p.es. Il cristianesimo ha tradito Gesù? (ed. Carocci, Roma 2009). Siccome ha sempre svolto il mestiere di “storico del cristianesimo”, anche in questo libro deve necessariamente partire dalla questione delle fonti.

Ora, per dimostrare che quelle canoniche sono (purtroppo, bisognerebbe precisare) assolutamente prevalenti su tutte le altre, cita, per farlo capire indirettamente, le frasi che Giuseppe Flavio scrive a favore di Gesù Cristo: “Ci fu verso questo tempo Gesù, uomo saggio, se pure bisogna chiamarlo uomo: era infatti autore di opere straordinarie, maestro di uomini che accolgono con piacere la verità e attirò a sé molti Giudei e anche molti dei Greci. Questi era il Cristo. E quando Pilato per denuncia degli uomini notabili fra noi lo punì di croce, non cessarono coloro che da principio lo avevano amato. Egli infatti apparve loro al terzo giorno nuovamente vivo, avendo già annunciato i divini profeti queste e migliaia di altre meraviglie riguardo a lui. Ancora oggi non è venuta meno la tribù di quelli che da costui sono chiamati cristiani”.

Chiunque sa (anche un profano in materia) che il Testimonium Flavianum è un falso patentato almeno per tre ragioni: 1. lascia credere che Gesù avesse una natura sovrumana e compisse miracoli; 2. sostiene ch’egli attirò a sé anche “molti Greci”, come se fosse stato un seguace della teologia paolina; 3. attribuisce, insensatamente, allo stesso Flavio, e non ai cristiani, la convinzione che Gesù era il messia, ch’era risorto e riapparso ai suoi seguaci, adempiendo le profezie divine.

Queste affermazioni sono così inverosimili che non appaiono neppure nella versione araba del X sec. dello stesso testo. Neppure una sola parola un ebreo avrebbe mai potuto dire, né una parola che non sia stata desunta dai vangeli canonici. Non solo quindi è una falsificazione in piena regola ma è anche di basso livello.

Cosa fa invece Giorgio Jossa di fronte a un testo del genere? Afferma che: 1. è “fortemente sospetto d’essere almeno parzialmente interpolato da mano cristiana” (p. 23); 2. “esso conferma indubbiamente l’esistenza di Gesù e le modalità della sua morte” (p. 24). Detto altrimenti l’esegeta sostiene che l’interpolazione non è totale ma solo “parziale”, e che, pur essendoci una falsificazione, il testo può essere usato come “prova” di ciò che viene detto nelle fonti canoniche! Ci chiediamo: può un testo chiaramente falsificato confermare il valore di un altro? Come può uno storico del suo livello non sapere che si può rispondere affermativamente a tale domanda se anche l’altro testo è falsificato? E che tale conferma permane almeno fino a quando non si scoprono gli “altarini” di entrambi i testi?

Perle di questo genere ve ne sono tante nei suoi libri, le cui idee di fondo assomigliano, molto da vicino, a quelle di Mauro Pesce (un altro esegeta confessionale travestito da laico). La seguente, tanto per fare un altro esempio a caso, è ancora più incredibile: “io credo che siano state realmente le apparizioni di Gesù, e la conseguente fede nella sua resurrezione, a infondere coraggio ai discepoli impauriti e a dare l’avvio alla tradizione di Gesù” (pp. 30-31).

Ora, se c’è una cosa su cui non si dovrebbe neppure discutere è che i racconti di apparizione di Gesù risorto sono tutti inventati: il vangelo originario di Marco neppure li prevedeva. Se vi sono esegeti che ancora vi credono, sono in malafede. Come può uno studioso, che si qualifica come “laico”, non sapere che una qualunque “riapparizione” di una persona chiaramente morta violerebbe la libertà di coscienza di una persona viva, inducendola a credere in qualcosa con la forza dell’evidenza? La stessa parabola lucana del ricco epulone e del povero Lazzaro (16,19-31) dice espressamente che tra i vivi e i morti viventi “è stabilito un grande abisso”, sicché non vi è alcuna possibilità di contatto. Paradossalmente basterebbe questo racconto “evangelico” per far saltare la credibilità dei racconti di apparizione del Cristo.

In parte anche Jossa si rende conto di queste cose, là dove scrive: “lo storico naturalmente non può dire in che cosa esattamente [tali apparizioni] siano consistite” (p. 33). Tuttavia, siccome qui non si può parlare né di riapparizioni fisiche, né di miraggi o di allucinazioni (singole o collettive), uno storico davvero laico avrebbe dovuto trarre la conseguenza che tutti quei racconti sono soltanto delle invenzioni di tipo redazionale (poetiche quanto si vuole, ci mancherebbe!).

D’altra parte la prima di queste assurdità non appartiene neppure ai vangeli, ma è stata rivendicata da Paolo di Tarso, che nelle sue lettere ribadiva con forza di aver avuto una “rivelazione diretta” (una visione mistica) da parte di Gesù Cristo. Ora, è evidente che se il fondatore del cristianesimo ha potuto far passare un’idea del genere, chiunque avrebbe potuto sentirsi in diritto di imitarlo. In questo sta anche la differenza tra petrinismo e paolinismo, in quanto per Pietro era sufficiente credere nella “resurrezione” per poter sperare nell’imminenza della parusia trionfale del Cristo. Viceversa, per Paolo la “resurrezione” rimandava al “giudizio universale” della fine dei tempi. Se l’uno pensa al “Cristo risorto” secondo una finalità ancora politica, l’altro invece ha già smaterializzato e spoliticizzato tutto.

In ogni caso non è affatto vero che la fede nella resurrezione è stata una “conseguenza” delle apparizioni di Gesù. Semmai, redazionalmente, è avvenuto il contrario: i racconti di riapparizione sono stati inventati proprio perché la “fede nella resurrezione” non la si riteneva sufficiente come criterio per diventare cristiani. Anche perché se davvero le riapparizioni avessero preceduto la “fede” nella resurrezione, non si sarebbe creduta in questa per “fede”, ma secondo “ragione”. Nel ragionamento di Jossa vi è quindi un’incongruenza lapalissiana.

Un altro evidente errore ermeneutico appare subito dopo, là dove l’autore sostiene che i discepoli di Gesù hanno cominciato a credere nella sua “messianicità” solo dopo aver constatato la sua “resurrezione”, in quanto prima, mentre era vivo, si erano limitati ad accettarlo come “profeta e maestro” (p. 31).

Come può uno storico di chiara fama cadere in sviste del genere? Sin dall’inizio del suo ministero pubblico Gesù si era posto come “politico” e non semplicemente come “profeta e maestro”: proprio in questa differenza sta la sua rottura col movimento del Battista. Poiché aveva in mente di liberare la Palestina dai Romani e dalla casta sacerdotale del Tempio, facilmente veniva considerato dagli ebrei un “messia”. Semmai il problema stava nel cercare di chiarirsi sul significato della messianicità. Ciò in quanto il modello ideale degli ebrei era quello davidico, mentre il Cristo voleva contrapporre l’idea di democrazia a quella di monarchia, ovvero l’idea di volontà popolare a quella del sovrano autocrate, seppur confermato (unto) dal pontefice.

Se si sostiene che la messianicità del Cristo fu una conseguenza della sua resurrezione (p. 35), si deve per forza togliere al Cristo qualunque caratterizzazione politica; e se anche questa la si volesse accettare, pensando a una sua parusia trionfale imminente (come fece appunto Pietro), le si negherebbe inevitabilmente il suo presupposto democratico, in quanto la messianicità del Cristo non aveva affatto lo scopo di negare l’autodeterminazione al popolo ebraico. Cosa che invece verrebbe negata da una qualunque parusia, tanto più se questa fosse “trionfale”. Le due assurdità del petrinismo – resurrezione e parusia – si giustificavano a vicenda, e hanno continuato a farlo nel paolinismo, benché la fede stringente nell’imminenza sia stata trasformata in una vaga fede degli “ultimi tempi”.

Se la messianicità è un requisito della resurrezione, è evidente che il Gesù storico non aveva nulla di politico. Sostenere – come fa Jossa – che il cosiddetto “segreto messianico” è stata una scelta dello stesso Gesù e non un’invenzione del vangelo marciano, significa non capire la differenza tra Gesù storico e Cristo teologico. Senza poi considerare che un atteggiamento del genere rischia di portare su posizioni antisemitiche, in quanto si finisce col credere che gli ebrei non erano in grado di capire la messianicità di Gesù finché lui restava in vita.

Non si può pensare neanche per un momento che Gesù aveva imposto il silenzio sulla sua natura messianica perché non voleva esser capito sino in fondo. L’unica cosa che legittimamente si può sostenere è che egli aveva una concezione democratica della messianicità, mentre molti ebrei l’avevano di tipo monarchico, oppure che lui l’aveva di tipo laico (come fa capire alla samaritana), mentre gli ebrei non riuscivano a dissociare la religione dalla politica. Se non avesse avuto alcuna concezione di messianicità, non avrebbe organizzato l’ingresso trionfale a Gerusalemme; e tanto meno, per far capire la differenza tra le due concezioni politiche, avrebbe usato un asino (simbolo di mitezza) al posto del cavallo, quello che usavano i generali, con al seguito un esercito bene armato, intenzionati a occupare le città con la forza.

Sostenere inoltre che la prima predicazione missionaria dei discepoli di Gesù, compiuta oralmente, abbia riguardato la sua attività di “taumaturgo che guariva malati e cacciava demoni, di profeta che annunciava la venuta del regno di Dio e narrava parabole immaginose, di maestro che insegnava a commentare la legge di Mosè” (p. 32) – tutto ciò è assolutamente irreale.

Se davvero i primi discepoli si sono comportati così, la loro predicazione orale non ha affatto “preceduto” la stesura dei vangeli, ma semmai è avvenuto il contrario. Essi hanno potuto raccontare delle cose ch’erano già state messe per iscritto dai dei redattori mistificatori o comunque già decise in qualche consesso di natura privata: infatti son tutte cose che nulla hanno a che vedere col Gesù storico, sia perché egli non ha mai compiuto “miracoli” che non fossero alla portata dell’uomo, sia perché era un ateo e non avrebbe potuto predicare un “regno divino”, sia perché non era un rabbino che commentava la legge mosaica e le sue successive interpretazioni.

I vangeli non sono stati scritti per “ricordare” Gesù, ma per farlo dimenticare nella sua autentica storicità, tant’è che lo presentano con caratteristiche sovrumane, del tutto immaginifiche. Essi avevano lo scopo di divulgare l’interpretazione petrina della tomba vuota come “resurrezione” e l’interpretazione paolina del Cristo risorto come “unigenito figlio di Dio”, morto per salvare l’umanità dagli effetti devastanti del peccato originale e quindi per riconciliarla col Creatore, che voleva sterminarla come ai tempi di Noè.

Anche le antiche tradizioni “ellenistiche” rappresentate da Stefano, e quelle dichiaratamente giudaico-cristiane rappresentate da Giacomo il Giusto (parente stretto di Gesù) possono essere tranquillamente considerate come una forma di “tradimento” dell’originario messaggio gesuano. La prima perché focalizzava la strategia eversiva del Messia nell’unica direzione dell’opposizione contro il Tempio, dimenticando completamente quella contro la presenza romana. La seconda perché fingeva di non sapere che Gesù aveva già considerato irrilevante il culto presso il Tempio nel suo dialogo coi Samaritani. Al Cristo non interessava alcun tipo di culto religioso. Lo stesso quarto vangelo, benché profondamente teologico, in nessun luogo lascia capire che Gesù fosse una persona intenzionata a istituire dei “sacramenti” o dei riti mistici che andavano periodicamente ripetuti. I sacramenti del battesimo e dell’eucaristia sono stati presi dal mondo essenico quando i cristiani si riconciliarono coi battisti.

In ogni caso non si può assolutamente sostenere che “la predicazione apostolica ha certamente il suo fondamento nella storia di Gesù” (p. 33). Di tutti gli apostoli di Gesù soltanto Pietro appare attivamente negli Atti di Luca, e dopo di lui il protagonista è Paolo. Non c’è alcuna “predicazione apostolica” su temi comuni. Ciò che predica Pietro è già una forma di “tradimento” del messaggio originario del Cristo; e il fatto che gli altri apostoli non appaiano negli Atti, lascia pensare che la sua predicazione non sia stata affatto condivisa.

Quando i vangeli vengono messi per iscritto, non facevano che riflettere un’unica teologia, quella petro-paolina, di cui anche il quarto vangelo, debitamente manipolato, dovette tener conto. Se è stato scritto qualcosa in controtendenza, è andato distrutto. Già al momento della stesura definitiva del protovangelo marciano, non esisteva più la generazione ch’era stata “testimone oculare” del Cristo: un po’ perché già eliminata o costretta alla fuga dal giudaismo, un po’ perché scomparirà nel corso della guerra giudaica scoppiata nel 66.

D’altra parte Jossa è convinto che, siccome le fonti apocrife non hanno nulla di storico, le uniche che possono aiutarci a delineare una figura realistica di Gesù sono soltanto quelle canoniche. Dicendo ciò non si rende conto che tra le due tipologie di fonti la differenza sta solo nella diversa entità e configurazione del mito. Queste cose si sanno dai tempi di Reimarus e della Sinistra hegeliana (D. Strauss e B. Bauer).

Insomma Giorgio Jossa non è molto diverso, nella sua esegesi moderata, dalla coppia Pesce-Destro. In base ai principi della cosiddetta “Terza ricerca”, essi accettano di qualificare Gesù come un autentico ebreo, nel senso che la sua predicazione era “radicata nella tradizione giudaica” e la sua religiosità era debitrice “della spiritualità giudaica del suo tempo (nell’importanza attribuita alla preghiera, nel riferimento costante alla Scrittura, nell’osservanza alle prescrizioni della legge, nel rispetto delle regole del culto)” (p. 86).

Col che si confonde completamente la posizione di Gesù con quella di Giacomo il Giusto, che sostituì ben presto Pietro nella direzione della comunità giudaico-cristiana di Gerusalemme. In realtà Gesù non può aver elaborato alcuna preghiera, in quanto la preghiera in sé è uno strumento di automortificazione della volontà umana a vantaggio della onnipotenza divina.

Lo stesso riferimento alle Scritture non è mai stato “costante” nella sua predicazione, e, in ogni caso, quando lo ha usato, non aveva certo una funzione apologetica della propria messianicità, proprio perché questa andava dimostrata sul campo, col proprio impegno politico, non in una maniera del tutto intellettualistica, servendosi – come faranno gli evangelisti molto tempo dopo – di profezie interpretate nella maniera più fantasiosa. Tanto meno, ovviamente, si servì delle Scritture per dimostrare la propria divinità.

Quanto all’osservanza della legge, non pare proprio che Gesù rispettasse il sabato o le abluzioni o le minuziose prescrizioni alimentari, come si vantavano di fare i farisei, coi quali sembra interfacciarsi di continuo nei vangeli. Non parliamo poi delle regole del culto, poiché non lo si vede mai fare sacrifici al Tempio.

Jossa esclude categoricamente che Gesù sia stato un politico: “che l’ingresso di Gerusalemme sia stata una manifestazione politica tale da impensierire i Romani è certamente da escludere” (p. 91). Quanto siamo lontani dalle tesi di S. Brandon o di F. Belo!

Sulla base di cosa Jossa può sostenere questa sua certezza? 1. Sul fatto che mentre egli entrò nella Città Santa, i Romani non mossero un dito. E come avrebbero potuto – ci si può chiedere – se, a fronte di alcune migliaia di seguaci del Nazareno provenienti da tutta la Palestina, Pilato disponeva soltanto di una coorte di 600 militari? 2. Sul fatto che non fu Pilato a prendere un’iniziativa in proprio a carico di Gesù; semplicemente egli reagì a una denuncia da parte delle autorità giudaiche. Ecco un bel modo d’interpretare i vangeli come gli evangelisti volevano! Non solo, ma egli aggiunge che l’ingresso in Gerusalemme e la purificazione del Tempio non avevano affatto un contenuto messianico, come invece l’ebbe la dichiarazione di Gesù davanti a Caifa durante il processo giudaico riportato nel protovangelo.

Così facendo, però, Jossa diventa più “realista” del “re Marco”, dietro cui si cela Pietro. Per quest’ultimo, infatti, Gesù avrebbe anche potuto vincere se i sadducei non si fossero opposti, benché in quel vangelo tendenzioso la guerra contro i Romani venga completamente assorbita nella battaglia contro Caifa: tant’è vero che l’epurazione del Tempio viene collocata alla fine della carriera politica del Cristo, quando invece il quarto vangelo la colloca all’inizio, in un contesto di rivalità coi battisti.

Al dire di Jossa invece Gesù entrò nella capitale semplicemente per farsi ammazzare. Questo perché il suo ingresso non fu “così chiaramente messianico (e trionfale) come lo presentano gli evangelisti successivi” (p. 99). L’esegeta napoletano non capisce che se è vero che quell’ingresso non era “trionfale” come avrebbe potuto farlo un qualunque re d’Israele o un qualunque generale romano o ellenistico, era comunque “trionfale”, poiché migliaia di persone erano entrate insieme a lui e avevano il compito di proteggerlo e di realizzare l’obiettivo dell’insurrezione nazionale. Semmai gli evangelisti han fatto di tutto per attenuare la portata eversiva di quell’evento: i Sinottici, riducendola alla purificazione moralistica del Tempio; i manipolatori del quarto vangelo facendo parlare Gesù come un teologo incomprensibile.

Jossa ritiene che Gesù abbia affermato la propria messianicità solo davanti a Caifa, mentre questi lo interrogava, quindi proprio nel momento in cui Gesù associa la parola “messia” al titolo religioso di “figlio di Dio”!

Come può uno storico non rendersi conto che quel processo religioso (non riportato nel quarto vangelo) è stato completamente inventato da Marco, che non a caso pone solo Pietro come testimone? Come può uno storico sostenere che “non si spiegherebbe la condanna come re dei Giudei da parte dei Romani se Gesù di fronte al Sinedrio non avesse avanzato la pretesa d’essere il messia, e quindi il re d’Israele…” (p. 99)?

Come fa Jossa a non capire che Gesù non aveva bisogno di “dichiarare” alcunché per dimostrare ch’era il messia, in quanto gli sarebbero bastati i fatti? Come può non rendersi conto che proprio sulla base di questi fatti evidenti, Pilato aveva intenzione di farlo fuori? Secondo Jossa Gesù sarebbe stato giustiziato semplicemente perché “dichiarò” d’essere il messia (una volta entrato nella capitale), mentre all’apparenza si comportava solo come un profeta e un maestro. Ci voleva una sua “dichiarazione personale” (quella che p.es. il Battista si rifiutò di fare), altrimenti gli avversari politici non l’avrebbero capito e non avrebbero avuto motivo per eliminarlo. Può uno storico essere così ingenuo? Sono stati forse i suoi studi universitari in Giurisprudenza a condizionarlo così pesantemente?

Peraltro, quando mai gli ebrei erano contrari all’attesa di un messia anti-romano? Persino dopo averlo crocifisso, le autorità giudaiche si preoccuparono di chiedere a Pilato di cambiare il titolo della croce: non doveva scrivere “Il re dei Giudei”, ma “Io sono il re dei Giudei”. Potevano infatti le autorità del Tempio far vedere che l’avevano fatto giustiziare perché erano contrarie all’idea di aspettare un messia liberatore? Semmai avversavano un’idea di messianicità non conforme ai loro parametri.

Secondo Jossa invece l’idea di messia gli ebrei non potevano averla perché questa, per loro, era “una figura ideale lontana, e in un certo senso mitica…” (p. 100). Dicendo così, l’autore sposa le tesi di Mauro Pesce o quelle di Giuseppe Barbaglio, secondo i quali il regno di Dio doveva essere realizzato non dagli uomini ma da Dio stesso. Facendosi ammazzare, Gesù doveva semplicemente dimostrare che gli uomini, con le loro forze, non sono in grado di liberarsi delle loro contraddizioni.

Naturalmente Jossa si rende conto che una tesi del genere può fare acqua da tutte le parti, per cui inevitabilmente è costretto a chiedersi: “se Gesù non era un pericoloso ribelle politico, come quasi tutti gli studiosi riconoscono, che cosa avrebbe dovuto giustificare una iniziativa nei suoi confronti da parte dell’autorità romana?” (p. 102). E “se era un ebreo rigorosamente osservante e un pacifico dottore della legge, perché l’autorità giudaica avrebbe dovuto consegnarlo ai Romani?” (ib.).

Ed ecco la risposta “originale” dell’esegeta: la colpa della sua esecuzione ricade soprattutto sui sadducei, non sui farisei, per avere egli occupato il Tempio! I Romani ritenevano Gesù un “personaggio abbastanza innocuo” (p. 104), la cui predicazione in Galilea era passata “quasi inosservata”. Essi non si erano particolarmente preoccupati né dell’ingresso messianico né dell’occupazione momentanea, simbolica, del Tempio, in quanto non avevano avvertito il bisogno d’intervenire militarmente.

Pur di salvare la faccia ai farisei e fare un favore ai moderni esegeti ebraici dei vangeli, Jossa fa passare per dei mentecatti persino i Romani, obbligandoli, inspiegabilmente, a intervenire in maniera categorica non sulla base dei fatti che un imputato ha effettivamente compiuto, ma sulla base di una semplice dichiarazione sulla propria identità e sulla base di una falsa denuncia da parte delle autorità religiose (che avevano “invidia” di lui, come dice Marco); e Pilato lo manda al patibolo pur sapendo che materialmente non lo meriterebbe, non essendo colpevole di nulla, se non delle proprie “stravaganti” dichiarazioni. Anzi, addirittura lo crocifigge pur subodorando che un tipo come lui avrebbe potuto tornare comodo alla strategia imperialistica di Roma contro le obsolete tradizioni nazionalistiche d’Israele!

L’eccessiva ebraicità di Mauro Pesce

Mauro Pesce è uno di quegli esegeti laici del Nuovo Testamento che, pur avendo studiato tutta la vita la formazione del cristianesimo primitivo, sembra aver capito ben poco di Gesù Cristo, in quanto continua a negargli una caratterizzazione politicamente eversiva, quella della strategia messianica antiromana e antisadducea.

Mostra d’avere una cultura vastissima, di molto superiore a quella dei migliori esegeti confessionali del nostro Paese, eppure son davvero poche le sue tesi che meritano d’essere condivise. Non sembra affatto un esegeta “laico”, ma uno “confessionale” che si limita soltanto a usare strumenti interpretativi differenti, nella fattispecie più sociologici e filologici.

Nel libretto a più mani, intitolato L’enigma Gesù (ed. Carocci, Roma 2008), vi sono due suoi interventi che sintetizzano bene le sue principali posizioni sul Cristo.

Scrive a p. 112: “Una delle tesi per me fondamentale per comprendere la figura di Gesù è che egli era ebreo ed è sempre rimasto all’interno della religione ebraica”. L’autore dice questo perché vuole contrapporre un Gesù “ebreo” al Gesù “cristiano”, giudicando quest’ultimo un prodotto derivato del paolinismo.

Infatti – prosegue l’esegeta – egli “non aveva alcuna intenzione di fondare una nuova religione”. Come appunto ha fatto Paolo. Questo perché voleva soltanto rendere più equo, più umano, più etico l’ebraismo.

“Egli era convinto che Dio stesse per realizzare il suo regno”. In che maniera però Dio volesse far questo, Pesce non lo dice, perché è totalmente contrario all’idea di un Cristo politicizzato. “[Gesù] vedeva anzi nella propria capacità taumaturgica già una presenza della potenza di Dio che stava per prendere finalmente possesso del mondo”.

Siamo – come ben si può vedere – in pieno misticismo. L’autore considera vere tutte le guarigioni, dando per scontato che Gesù avesse capacità sovrumane; associa la consapevolezza di questa straordinaria capacità terapeutica alla convinzione che si stava realizzando il regno di Dio. Cioè da un lato non capisce che tutti quei miracoli sono stati scritti proprio per mistificare delle azioni di tipo politico; dall’altro compie un collegamento tra terapie e basileia (una politicità religiosa) che per un qualunque ebreo non avrebbe avuto alcun senso. Infine dà per scontato che la realizzazione di tale regno avrebbe dovuto essere opera dello stesso Dio.

“La sua predicazione si limitava solo ‘alle pecore perdute della casa d’Israele’ e ad esse soltanto dovevano indirizzarsi anche i Dodici (Mt 15,24; 10,6). Anzi, essi non dovevano neanche percorrere la stessa strada dei non ebrei (i gentili) ed entrare nelle città dei Samaritani (Mt 10,5)”.

Queste sono tutte sciocchezze. Gesù ha frequentato con successo i Samaritani, stando al vangelo di Giovanni; ha frequentato luoghi pagani come la Decapoli, Tiro e Sidone e, nell’ultima settimana di Pasqua alcuni Greci volevano parlamentare con lui. La stessa popolazione galilaica, confinante con tutte popolazioni pagane o quasi, veniva considerata ignorante e rozza dalle autorità giudaiche: persino la lettura pubblica delle preghiere le veniva interdetta. E non è che la Perea, ove spesso Gesù si rifugiava, fosse un paese significativo per i Giudei.

Alla samaritana Gesù dichiara di non essere minimamente interessato al primato storico e normativo del Tempio di Gerusalemme, anche perché non ha mai intenzione di porre delle differenze etniche o tribali tra Giudei, Galilei, Samaritani e Idumei. Tutto il Vicino oriente era caduto sotto il dominio romano: non avrebbe avuto alcun senso cercare di liberare la Palestina rifiutando il concorso delle nazioni pagane ugualmente sottomesse.

Ma l’assurdità maggiore di Pesce viene adesso: “Dopo il giudizio universale sarebbe iniziato il regno di Dio, e tutte le genti (cioè i non ebrei) si sarebbero convertite all’unico Dio”. L’autore fa tanto l’anti-paolinista, eppure mostra di credere in un concetto, quello del “giudizio universale”, che a Paolo era molto caro, proprio perché con quello aveva potuto sostituire l’idea petrina della parusia immediata e trionfale del Cristo.

Ecco, ora siamo venuti a capire cosa intende Pesce per “regno di Dio”: un qualcosa di assolutamente mistico, non alla portata degli uomini, ma solo della divinità; un qualcosa di “apocalittico”, che Dio avrebbe realizzato solo alla fine dei tempi.

“La speranza di Gesù – prosegue l’autore – non era di fondare un nuovo gruppo, ma la riunione di tutti i popoli nel regno di Dio. Questo sogno non era altro che il sogno dei profeti biblici”. Un sogno – come ben si può vedere – del tutto vago e generico, persino più astruso di quello dei profeti veterotestamentari, che con le loro filippiche si rivolgevano sempre a persone ben precise (generalmente delle autorità), mostrando che una fede religiosa senza la giustizia sociale era ben poca cosa. Gesù invece si deve accontentare di fare il taumaturgo a favore dei reietti della società.

C’è da dire che Pesce ha sempre rifiutato con nettezza l’esegesi del teologo anglicano Samuel Brandon, secondo cui Gesù era un “rivoluzionario politico-militare” (p. 123). A suo parere, infatti, non ha senso parlare di un Cristo “sociale” contro un Cristo “religioso”, in quanto Gesù era “radicalmente sociale” e “radicalmente religioso”. “La sua… è la concentrazione sul Dio ebraico che interviene nel mondo a regnare, a trasformarlo” (p. 97). Il programma di Gesù è tutto nelle Beatitudini, secondo la versione lucana, per le quali “il regno di Dio è totalmente ‘di Dio’, non è opera dell’uomo…” (ib.).

Questo modo di ragionare di Pesce è davvero curioso: da un lato dice che Cristo era “radicalmente religioso” (in senso ebraico), e dall’altro sceglie, per dimostrarlo, il vangelo meno ebraico di tutti, cioè quello più vicino alle idee di Paolo. Da un lato dice che Gesù era insieme “radicalmente sociale e religioso”, ma dall’altro non spende una parola a favore degli zeloti, che certamente lo erano molto più di lui, essendo Gesù sostanzialmente un ateo. Dice che Gesù era “radicalmente sociale”, e però affida soltanto a Dio il compito di realizzare la giustizia sociale.

Poi, per dimostrare che il Cristo era un ebreo ortodosso al 100%, Pesce, come se egli stesso fosse un ebreo, presenta alcuni argomenti che per lui dovrebbero essere inattaccabili:

1. Gesù non ha mai dichiarato “puri” tutti gli alimenti, altrimenti negli Atti degli apostoli Pietro non avrebbe avuto bisogno di ricorrere a una rivelazione divina per giustificare il proprio comportamento (p. 113). Dicendo questo, Pesce mostra di non aver capito che per Gesù non aveva senso pensare di opporsi efficacemente ai Romani limitandosi a fare distinzioni di principio tra gli alimenti. Una vera etica fa differenza tra forma e sostanza, e quella relativa ai cibi era in fondo ben poca cosa, anche se con questo non si vuole sostenere che Gesù violasse le regole sui cibi per apparire eversivo. Il fatto che Pietro avesse a che fare, negli Atti, con ebrei che ancora ponevano differenze tra i vari cibi, va considerato come una scarsa propensione, da parte dell’apostolo, a proseguire politicamente la strategia insurrezionale del Cristo.

2. Gesù – sostiene Pesce – non ha mai voluto abolire il sabato, ma semplicemente indicare che questo giorno festivo è finalizzato al bene dell’uomo. Semmai si può discutere su quali azioni possono essere compiute in questo giorno, senza rischiare di trasgredirlo. Gesù quindi si opponeva soltanto alle interpretazioni estreme dei gruppi esseni.

A dire il vero le interpretazioni estreme sul sabato le avevano anche i farisei, poiché son proprio questi – e non gli esseni, che invece lo proteggevano quando fuggiva dalla Giudea – che avrebbero voluto vederlo morto quando guariva nei giorni festivi (ammesso e non concesso che fosse davvero un terapeuta). Rispettare il sabato voleva infatti dire essere “credenti”, mentre il trasgredirlo era segno di “miscredenza”.

La violazione del sabato viene sempre associata nei vangeli all’affermazione che Gesù fa circa la propria identità divina. Com’è noto, intorno a questo precetto le falsificazioni redazionali sono sempre state due: la prima era quella di mostrare che Gesù poteva violare il sabato proprio perché era in grado di fare guarigioni straordinarie; la seconda era quella di mostrare ch’egli poteva violarlo in quanto era figlio di Dio.

In realtà la scarsa considerazione in cui Gesù teneva il sabato è sempre relativa al fatto che non si poteva certo pensare di occupare il Tempio o la fortezza Antonia gestita da Pilato limitandosi a rispettare tale precetto. Non solo, ma quando i vangeli giustificano la suddetta violazione dicendo ch’egli era “figlio di Dio”, si dovrebbe leggere tale motivazione in senso addirittura ateistico: Gesù violava il sabato proprio perché riteneva l’uomo superiore a Dio, o meglio un dio di se stesso.

3. Quanto all’amore dei nemici, che – secondo Pesce – è un puro e semplice approfondimento di una tematica levitica (Lv 19,19), stendiamo pure un velo pietoso, poiché, all’interno di una strategia insurrezionale, non avrebbe avuto alcun senso sostenere una cosa del genere. Gesù chiede di vendere il mantello per comprare la spada (Lc 22,36); dice che il regno di Dio si acquista solo con la violenza (Mt 11,12); dice che è venuto a dividere i padri dai figli (Mt 10,21), e di essere venuto a portare fuoco e non pace sulla Terra (Lc 12,49). E afferma tutte queste cose in vangeli che vogliono spoliticizzarlo al massimo!

Pesce dà l’impressione di essere un esegeta molto ambiguo, che in apparenza sembra volersi opporre alle esegesi confessionali, quando invece nella sostanza ne conferma i presupposti. Come interpretare, infatti, le seguenti affermazioni?

1. “Il riconoscimento della piena ebraicità di Gesù… non implica una messa in questione del cristianesimo” (p. 115). Ora, se Gesù fosse stato un ebreo ortodosso o non lo fosse stato affatto, non avrebbe comunque avuto nulla a che fare col cristianesimo paolino, che rifiutava l’insurrezione nazionale. Paolo era stato un politico di razza quand’era fariseo, ma quando cominciò a diventare cristiano, tradì non solo i farisei ma anche Gesù Cristo. Ecco perché riuscì a fondare una nuova religione: del fariseismo non aveva più l’ebraicità e del movimento nazareno non aveva più la politicità.

2. “Gesù appartiene a tutta l’umanità e chiunque può ispirarsi a lui perché il suo messaggio, il suo stile di vita hanno una valenza veramente universale” (p. 112). “Universale” un Gesù ebreo che rispetta scrupolosamente il sabato e che fa distinzioni di principio tra i vari cibi? Un Gesù terapeuta che compie guarigioni miracolose al di là della portata di qualunque uomo? Un Gesù che moltiplica dal nulla i pani e i pesci e che cammina sulle acque di un lago? Davvero un individuo del genere può essere considerato una fonte di ispirazione universale?

3. “La riscoperta della figura storica di Gesù è rilevantissima anche per la fede…” (p. 111). Ora, se un cristiano accetta l’idea che Gesù era più ebreo di quanto appaia nel Nuovo Testamento o di quanto fino ad oggi abbiano sostenuto i teologi cristiani, è impossibile ch’egli non si chieda se la propria fede cristiana sia davvero autentica o se non sia invece il caso di abbracciare l’ebraismo. Se invece l’esegesi di Pesce serve per approfondire la fede cristiana, allora bisogna dire ch’essa non ha alcun valore sul piano laico, checché egli ne pensi. Che Gesù vada considerato più un “credente ebreo” che non un “credente cristiano”, è del tutto irrilevante ai fini di un’esegesi laica.

4. Ecco ora alcune frasi che mostrano il livello di coerenza dell’autore:

“Luca è a mio parere colui che ha meglio compreso l’essenza del messaggio di Gesù” (p. 124); “nessuna delle formulazioni sinottiche può pretendere di essere quella sicuramente gesuana” (p. 109); “io non credo affatto che il Gesù storico si trovi nei vangeli gnostici di Nag Hammadi” (p. 124); “il Nuovo Testamento non è uno strumento utilizzabile per lo storico che s’interessa del I secolo, ma solo per lo storico che vuol comprendere i teologi dalla fine del III secolo o dall’inizio del IV secolo in poi” (p. 109); il Vangelo di Tommaso, la Didaché, l’Ascensione di Isaia, la Prima lettera di Clemente, i vangeli giudeo-cristiani, il Vangelo di Pietro e altri vangeli pervenutici frammentariamente “sono fonti molto utili per ricostruire la fisionomia storica di Gesù e delle prime comunità dei suoi seguaci” (p. 107).

Di frasi contraddittorie come queste i testi di Pesce sono pieni. Peraltro i vangeli giudeo-cristiani (degli Ebrei, dei Nazarei e degli Ebioniti) sono andati perduti e ci sono giunti solo attraverso testimonianze indirette e occasionali fornite da alcuni Padri della Chiesa che li contestavano. Il Vangelo di Tommaso contiene solo detti di Gesù e non s’interessa affatto della sua vita. Del Vangelo di Pietro abbiamo solo un frammento fortemente anti-giudaico. Il contesto di origine della Prima lettera clementina è legato a una disputa nella chiesa di Corinto, il cui contenuto è strettamente religioso. L’Ascensione di Isaia è un apocrifo dell’Antico Testamento interpolato dai cristiani. Sarebbero queste le fonti da utilizzare per una ricostruzione del Gesù storico?

Mauro Pesce vuol fare la parte dell’esegeta che vuol sentirsi libero di credere e di non credere, di utilizzare le fonti che vuole, di dire tutto e il contrario di tutto; e soprattutto gli piace far la parte dell’esegeta filo-ebraico contro quelli dichiaratamente cristiani o laicisti; salvo poi dire, nella sostanza, ciò che il cristianesimo ha sempre sostenuto. Non accetta l’idea che una fede si debba istituzionalizzare in una struttura ecclesiastica, quando questa cosa – se davvero fosse un esegeta ebraico – sarebbe costretto ad accettarla molto tranquillamente.

Le ricerche di Bultmann e l’attuale esegesi laica

Rudolf Bultmann (1884-1976) è stato un teologo evangelico che ha inventato il metodo storico-morfologico in ambito neotestamentario. Ha sempre insegnato teologia e i suoi principali allievi (come lui di fama mondiale) sono stati tutti dei credenti in qualche religione. Praticamente il meglio di sé l’ha dato dagli anni ’30 alla metà degli anni ’50.

Viene definito il “teologo della demitizzazione”, in quanto ha separato il “Gesù storico” dal “Cristo teologico” che i vangeli han voluto trasmettere. Il “Cristo teologico” sarebbe stato – secondo lui – un’invenzione di Paolo di Tarso, sotto l’influenza di una cultura ellenistica.

Bultmann non ha mai smesso di credere in Dio, non ha mai fatto professione né di ateismo né di agnosticismo, anche se dal suo “manifesto sulla demitizzazione” sorgeranno numerosi movimenti radicali, alcuni dei quali confluiranno nella teologia della “morte di Dio”.

La sua filosofia rientra in quell’esistenzialismo religioso a-confessionale che si può ritrovare anche in Heidegger, che lui, non a caso, considerava come proprio maestro. Quando la Chiesa evangelica tedesca pensò a misure disciplinari a suo carico, fu difeso da un altro grande teologo, Karl Barth.

Egli ha praticamente ridotto il cristianesimo (anche quello primitivo) a una filosofia di tipo esistenzialistico, in cui il misticismo è comunque rimasto, seppure in forma meno accentuata rispetto alle classiche teologie. Ha cercato, in sostanza, di rendere il cristianesimo più attuale, spogliandolo di tutte quelle sovrastrutture ideologiche ormai divenute incompatibili con la mentalità tecnico-scientifica del nostro tempo.

Quindi egli ha sottoposto a critica soltanto le “forme” in cui il mito cristiano si è presentato, non tanto le “intenzioni” con cui lo si era creato, proprio perché tali intenzioni – secondo lui – fanno parte dell’uomo comune, bisognoso di credere in un essere superiore che dia significato alla propria esistenza, limitata sotto ogni punto di vista. In altre parole ha voluto compiere un’opera di aggiornamento, facendo della filosofia religiosa qualcosa di più importante, perché di natura più universale, rispetto alla tradizionale teologia, che implica aspetti di divisione come dogmi, strutture ecclesiastiche, sacramenti ecc.

Bultmann era forse riuscito a capire che, nell’ambito del capitalismo, anche la cultura scientifica può essere usata in chiave mitologica? No. Era forse riuscito a capire che la dimensione religiosa in sé, a prescindere dalle forme che si dà, è oggettivamente una forma di alienazione? Meno ancora. Conseguenza di ciò? I suoi testi protestanti sono stati ampiamente tradotti anche delle case editrici cattoliche del nostro paese.

Possiamo tuttavia sostenere ch’egli è stato un grande teologo, che ha favorito un approccio di tipo “laicistico” ai vangeli? Sì, lo è stato. A distanza di oltre mezzo secolo dalle sue principali opere esegetiche, l’esegesi laica contemporanea può forse dare per acquisita la tesi della demitizzazione, con cui si rinuncia a credere a tutto ciò che nei vangeli appare di sovrumano o d’innaturale? Indubbiamente sì. È dai tempi di Reimarus che si è proceduto a demitizzare i vangeli (l’ebreo Spinoza l’aveva già fatto con l’Antico Testamento). Sarebbe assurdo rinunciare a un patrimonio culturale del genere.

Detto questo, rispondiamo ora alla seguente domanda: l’esegesi laica deve forse oggi sentirsi in dovere – come fanno taluni esegeti della cosiddetta “terza ricerca” – di approfondire l’ebraicità del Cristo, cioè di scoprire quanto il “Gesù storico” fosse sostanzialmente “giudaico”, più spiritualmente “giudaico” degli stessi farisei, che, al suo confronto, dovremmo ritenere dei “formalisti” o “legalisti”? No, non ha l’obbligo di approfondire un argomento del genere. Non c’interessa sapere se Gesù aveva una fede più “pura” di tanti altri Giudei. Meno che mai c’interessa trovare, su questa cosa, dei punti di contatto con quella recente esegesi ebraica che ha iniziato a riscoprire il lato giudaico del Cristo.

L’esegesi laica deve forse cercare di capire che lo stesso giudaismo conteneva aspetti di misticismo, tali per cui non vi era alcuna necessità di andarli a chiedere in prestito alla cultura ellenistica per poter fondare la nuova religione cristiana? No, non ha bisogno di cercare di capire questa cosa, proprio perché l’esegesi laica non ha bisogno d’interessarsi di “religione”.

La religione va considerata come una sovrastruttura mistificante qua talis. Su questo assunto non ha alcun senso mettersi a discutere. È del tutto irrilevante sapere, tanto per fare un esempio, se l’idea di “resurrezione” era stata presa dalle mitologie pagane o se l’ebraismo l’aveva elaborata in proprio. Questi sono aspetti che non ci aiutano minimamente a comprendere la natura democratica, umanamente laica e politicamente rivoluzionaria, del movimento nazareno messo in piedi del Cristo.

Se davvero si vuole attualizzare il suo messaggio, bisogna farlo in rapporto ai due contenuti fondamentali che possono aiutarci ad affrontare efficacemente il nostro presente, altrimenti è meglio lasciar perdere “il caso Gesù”. Questi due contenuti sono appunto l’umanesimo laico e il socialismo democratico. Altri non ve ne sono.

Oggi possiamo tranquillamente affermare che Bultmann, in tal senso, non è di alcun aiuto alla comprensione dell’ateismo e della strategia politicamente eversiva del Cristo. Al suo confronto, molto meglio l’opera del teologo anglicano Samuel Brandon.

Se nei testi canonici del Nuovo Testamento o in quelli apocrifi che sono stati scartati dalla Chiesa; se nei testi ebraici in generale, canonizzati nell’Antico Testamento o esclusi da esso, o sviluppati in quella straordinaria raccolta chiamata Talmud, vi sono elementi che possono aiutare a capire l’importanza fondamentale di quei suddetti contenuti, bene! Vorrà dire che la “religione” avrà ancora qualcosa da insegnare all’umanità. In caso contrario non avremo perso nulla.

Addendum sulla sua storiografia

Quando Rudolf Bultmann diceva che “allo storico non spetta né fare dell’apologia né dimostrare la verità del cristianesimo”, in quanto ciò “resta sempre questione di libera decisione personale”; quando diceva che non è compito dello storico “dare un ‘giudizio di valore’ sui fenomeni storici dopo averli descritti”, in quanto “il suo compito è di interpretare i fenomeni della storia passata alla luce delle possibilità dell’interpretazione dell’esistenza umana, in modo tale da far acquisire queste possibilità alla coscienza anche come possibilità di un’interpretazione dell’esistenza attuale”1, da un lato faceva professione di positivismo o di sociologismo weberiano; dall’altro riproduceva un modo di pensare simile a quello esistenzialistico di Heidegger.

All’apparenza – pur insegnando teologia – aveva la pretesa di fare un discorso neutrale o, come dice lui, “da storico”; di fatto però si preoccupava di come attualizzare il cristianesimo per l’uomo moderno. Era una sua caratteristica, quella di far passare dei contenuti “religiosi” non direttamente attraverso la teologia, bensì attraverso una filosofia cripto-mistica, servendosi della mediazione storiografica relativa al cristianesimo primitivo.

Oggi un tale modo d’impostare la storiografia (generalmente intesa, ma ancora più se in riferimento a quella cristologica) dovremmo considerarlo del tutto superato per almeno due ragioni: anzitutto perché lo storico non può scindere in se stesso il ruolo del ricercatore dalla sua condizione umana, che inevitabilmente si basa su determinati valori etici e politici; in secondo luogo perché quando si esamina un evento caratterizzato politicamente come quello gesuano, sarebbe molto riduttivo pensare di farlo soltanto come “storico”.

Se non ci si vuole pronunciare anche politicamente, poiché si pensa che l’evento-Cristo avesse solo una connotazione etico-religiosa, automaticamente si finisce col fare proprio quell’apologia che si voleva evitare, cioè ci si pone dalla parte di quella rappresentazione di Gesù che è stata data dalla teologia petro-paolina. Sicché, in men che non si dica, tutta la propria pretesa equidistanza storica viene a cadere come un castello di carte. Anche contro la propria volontà, si arriva a fare gli interessi di una religione che, per quanto depurata dalle proprie incrostazioni dogmatiche ed ecclesiastiche che col tempo si sono sedimentate, resta pur sempre una “religione”.

Rifare il maquillage della fede, rendendola più idonea all’homo technologicus dei tempi moderni, è un’operazione legittima da parte di quello storico che premette di dichiararsi ideologicamente situato. Viceversa, nell’esegesi bultmanniana – che pretende d’essere “scientifica” -, diventa un’operazione subdola, indegna di un ricercatore impegnato a trovare la verità delle cose. A meno che Bultmann non vada considerato come uno di quei tanti ricercatori confessionali che, pur essendo giunto col tempo su posizioni “laicistiche”, non ha avuto il coraggio di “rompere” in maniera definitiva con le scelte compiute in gioventù e, con fare opportunistico, ha cercato di far convivere, come meglio poteva, le garanzie offerte dalla docenza universitaria con una visione delle cose che, in teoria, sarebbe dovuta apparire eretica all’ufficialità protestantica.

1 Il cristianesimo primitivo, ed. Garzanti, Milano 1964, p. 6.

È possibile una biografia attendibile del Cristo?

La domanda se fosse possibile una ricostruzione sufficientemente attendibile della vita di Gesù, visto che i vangeli sono per così dire viziati da una visione teologica degli eventi, e visto che, a tutt’oggi, non vi sono fonti alternative che li possano smentire in maniera evidente, non poteva emergere che in ambienti non strettamente confessionali.

I ritrovamenti dei manoscritti di Qumran, sotto questo aspetto, sono stati abbastanza deludenti, anche se ci hanno aiutato a capire i rapporti tra esseni e battisti, tra esseni e il IV vangelo, tra esseni e la teologia sacramentaria del cristianesimo primitivo e, infine, tra essenismo e zelotismo poco prima della catastrofe del 70 d.C. Anche i codici di Nag Hammâdi (Egitto), trovati nel 1945, non hanno affatto costituito una svolta epocale. Molto più interessante invece è stata l’analisi scientifica della Sindone, che solo per un pregiudizio pseudo-ateistico o anti-clericale viene considerata un falso.

È senza dubbio vero che di nessun grande personaggio storico si può essere sicuri che le biografie tramandateci possano essere considerate attendibili. I grandi biografi del passato facevano gli interessi delle classi dominanti o erano addirittura sul libro-paga degli stessi sovrani di cui dovevano raccontare le gesta gloriose. Era quasi impossibile scrivere qualcosa in controtendenza, soprattutto se il sovrano era ancora vivo.

Inoltre, non esistendo la stampa, erano pochi i manoscritti che circolavano, per cui era relativamente facile toglierli di mezzo o manipolarli, se risultavano scomodi per qualche ragione. L’intellighenzia cristiana riuscì persino a modificare impunemente i testi di Flavio Giuseppe, che pur erano stati prodotti in un ambito prettamente giudaico. Anzi, non è da escludere che i suoi testi siano sopravvissuti proprio perché accusavano i Giudei d’essere stati la rovina di loro stessi.

Forse il primo esegeta neotestamentario che ha avuto il coraggio di tentare un’interpretazione della vita di Gesù radicalmente opposta a quella canonica dei vangeli, è stato Hermann Samuel Reimarus (1694-1768), filosofo illuminista tedesco, di religione protestante, il quale poté avvalersi delle sue forti competenze in campo linguistico.

La sua tesi di fondo era che la vicenda di Gesù aveva connotati chiaramente politico-eversivi, che gli evangelisti avevano censurato, in quanto la loro preoccupazione era quella di presentare un Cristo teologico dalla natura sovrumana, capace di compiere miracoli e di risorgere dopo morto, quando in realtà il suo corpo fu trafugato dagli stessi apostoli per trovare un’alternativa alla sconfitta politica.

Oggi è difficile incontrare un esegeta autenticamente laico che possa prescindere in toto da una tesi del genere, per quanto essa presenti una contraddizione di non poco conto. Infatti, se davvero il Cristo è stato un politico rivoluzionario (contro Roma e i collaborazionisti sadducei, che gestivano il Tempio), è difficile pensare che ai suoi più importanti seguaci, gli apostoli, che sicuramente erano sediziosi come lui, sarebbe venuto in mente di far credere, al mondo ebraico cui appartenevano, che Gesù era stranamente scomparso dal sepolcro se non lo fosse stato per davvero.

Cioè quello che non regge nell’analisi di Reimarus è l’idea di attribuire a degli ebrei fortemente politicizzati un atteggiamento che risente di influenze ellenistiche, quelle che il cristianesimo subirà successivamente ad opera della teologia paolina (benché lo stesso fariseismo tendesse a credere nell’idea di resurrezione dei corpi, in polemica col materialismo sadduceo). E questo senza considerare che anche nel mondo di cultura non ebraica, quando si parlava di morte e resurrezione, si dava per scontato che si trattasse di una finzione letteraria, di una elaborazione mitologica, in cui appunto “si fingeva” di credere.

Nel mondo pagano si credeva nella “resurrezione” di figure che potevano essere paragonate agli dèi o erano esse stesse delle divinità, ma assai difficilmente si sarebbe presa questa cosa come storicamente attendibile. Nessuno si sarebbe messo a fare delle ricerche per dimostrarne la fondatezza. Paolo, all’Areopago, venne canzonato quando cercò di sostenere che Gesù Cristo era davvero risorto.

Dunque la tesi di Reimarus, relativa al trafugamento del corpo di Gesù, è un controsenso, proprio perché non tiene conto che nessun seguace del movimento nazareno si sarebbe fatto martirizzare per una cosa che avrebbe potuto tranquillamente essere considerata mitologica. Nessuno s’è mai fatto uccidere sulla base dell’idea che i racconti di Omero rispecchiavano assolutamente la realtà.

Attribuire – come fa Reimarus – a un intero movimento come quello nazareno (caratterizzato in maniera politicamente eversiva) la convinzione che Gesù era risorto, senza che nessuno sollevasse alcuna perplessità, alcuna obiezione, comporta inevitabilmente il rischio d’apparire antisemiti. Pur essendo l’Antico Testamento infarcito di racconti assolutamente leggendari, erano piuttosto gli ebrei ad accusare i pagani di credere nelle favole, la prima delle quali, al tempo di Gesù, era la divinizzazione degli imperatori.

Con ciò ovviamente non si vuole affatto sostenere che i racconti di riapparizione del Cristo scomparso siano veri; anzi, essi sono stati un tentativo poetico, molto ingenuo, di opporsi alla inevitabile contestazione dei nemici del protocristianesimo (che pur aveva molti elementi risalenti al giudaismo), secondo i quali erano stati gli stessi apostoli a nascondere il suo corpo per farlo credere ancora vivo (o intenzionato a ritornare in modo, questa volta, “glorioso”). Già l’evangelista Matteo aveva affrontato una questione del genere (27,62 ss.), pensando di risolverla mettendo delle guardie giudaiche davanti alla porta del sepolcro.

Una qualunque “ricomparsa” di un Cristo redivivo avrebbe violato, ipso facto, la libertà di coscienza degli appartenenti al movimento nazareno, in quanto, imponendo d’imperio la verità delle cose, avrebbe negato il diritto a non credere.

L’unica “prova” che gli apostoli avevano della misteriosa scomparsa di Gesù dalla tomba, era la sindone, che però non poteva “dimostrare” alcunché: ecco perché quando Pietro inventò la tesi del ridestamento miracoloso, decise di non avvalersi di quel reperto.

L’idea di “resurrezione” venne in mente a un apostolo proveniente dalla Galilea, ch’era una regione palestinese più influenzata dall’ellenismo di quanto non lo fosse la Giudea. Ad essa probabilmente si opposero tutti gli altri membri del Collegio apostolico, che infatti negli Atti degli apostoli scomparvero molto presto (tant’è che Luca avrebbe fatto meglio a intitolarli “Atti di Pietro e Paolo”). Poi l’idea di Pietro venne portata alle sue estreme conseguenze ellenistiche da Paolo di Tarso, il vero fondatore del cristianesimo.

Ora, premesso questo, che cosa è necessario fare, almeno in via preliminare, per avvicinarsi il più possibile alla verità sulle caratteristiche del Cristo?

La prima cosa da fare è quella di avere un atteggiamento sospettoso, guardingo, soprattutto nei confronti di tutto ciò che induce a credere in qualcosa di mistico o di sovrannaturale o di sovrumano. Certo, un esegeta può arrivare a dire che se dai vangeli si tolgono queste cose, resta ben poco. Tuttavia è proprio qui che s’impone la seconda cosa: saper andare al di là dell’apparenza, nella consapevolezza che raramente ciò che appare coincide con la verità delle cose, pur essendo l’esegeta in presenza di cose realmente accadute.

Delle due, infatti, l’una: o si rinuncia del tutto a interpretare delle fonti tendenziose e ci si limita a svolgere il ruolo di “storico del cristianesimo” o della chiesa (come p.es. fece Ambrogio Donini), oppure ci si sforza di supporre o d’immaginare qualcosa di “umano”, soggetto a censura o falsificazione o mistificazione, a motivo di una certa interpretazione “teologica”, ovvero “mitologica” di fatti accaduti realmente.

Nel caso di Gesù bisogna partire da due presupposti fondamentali e, sulla base di questi, rileggersi le fonti tendenziose del N.T.

Il primo è quello che anche certa esegesi confessionale (soprattutto protestantica o cattolico-sudamericana) ha intravisto: la predicazione gesuana non aveva solo contenuti eversivi contro le autorità giudaiche connesse alla gestione del Tempio, e colluse con Roma, ma doveva avere anche dei contenuti politici contro l’occupazione romana, per cui la crocifissione non può essere considerata un errore giudiziario o il frutto di una debolezza politica di Pilato o di un raggiro ben orchestrato del pontefice Caifa, bensì una scelta consapevole del potere romano in carica, eventualmente di concerto con la volontà giustizialista della casta sacerdotale.

Il secondo presupposto è non meno radicale, almeno sul piano ermeneutico: Gesù Cristo era ateo, per cui, se anche voleva compiere un’insurrezione nazionale, dai nemici interni ed esterni, non aveva in mente di realizzare alcun “regno di dio”.

Naturalmente un qualunque esegeta può sostenere che una tale rappresentazione della figura di Gesù non è che una proiezione della stessa concezione di vita della persona che l’ha formulata. Ma da una tale critica non ci si può far mettere in crisi, poiché l’elemento soggettivo, nell’elaborazione di determinate tesi interpretative, va dato per scontato. Qualunque “comprensione” parte sempre da una “pre-comprensione”. Si legga Gadamer per convincersene.

Gli stessi vangeli vengono definiti “tendenziosi” proprio perché i redattori avevano come obiettivo principale quello di sostenere la “divinità” del Cristo (che è la cosa meno dimostrabile di questo mondo), spoliticizzandolo al massimo.

L’obiettività di un’argomentazione dipende dall’argomentazione stessa, non da qualche autorità dogmatica. Solo il tempo potrà dire quale tesi interpretativa risulta più obiettiva di altre.

Giulio Regeni, un cadavere gettato contro l’Eni e Al Sisi

La ricerca della verità riguardo l’uccisione al Cairo di Giulio Regeni a volte appare se non proprio pilotata almeno spintonata rudemente verso direzioni prestabilite. Vale a dire:

1) verso la chiusura del cerchio dando tutte le responsabilità agli apparati polizieschi e di sicurezza egiziani, cioè in definitiva al presidente Al Sisi, indicandolo come colpevole quanto meno di omertà
2) e verso il biasimo dell’operato della nostra Eni per metterle almeno i bastoni tra le ruote, colpevole dell’enorme duccesso colto, come vedremo, proprio in Egitto. 

A guardar meglio le cose Al Sisi potrebbe essere invece vittima del tentativo di un qualche “servizio” egiziano di screditarlo, date le lotte feroci che da sempre esistono in Egitto tra militari, anche perché sono loro i veri padroni dell’economia del Paese. Colpevole o vittima Al Sisi, sta di fatto che in ogni caso viene esercitata una pressione enorme anche sull’Eni.
 
La clamorosa notizia sparata di recente dal New York Times con un lungo articolo a firma dell’autorevole giornalista Declan Walsh sembra voler dire tutto, ma in realtà a leggerlo bene non chiarisce nulla, a partire da chi sia la fonte e se racconta fatti veri o no. Chiarisce però invece bene la volontà, appunto, di chiudere il cerchio attorno al collo di Al Sisi.
 
Ecco i passi più importanti – riportati dai giornali italiani – dell’articolo di Walsh, dove il virgolettato è quanto detto a lui dalla fonte, purtroppo anonima, mentre il resto sono parole del giornalista: 

“Gli Stati Uniti vennero in possesso dall’Egitto di prove di intelligence esplosive, prove che dimostravano come Regeni fosse stato rapito, torturato e ucciso da elementi della sicurezza egiziani”. Fonti dell’allora Amministrazione Obama citate dallo stesso giornale affermano che l’amministrazione USA era in possesso di “prove incontrovertibili delle responsabilità egiziane”. A questo punto il materiale venne girato “al governo Renzi su raccomandazione del Dipartimento di Stato e della Casa Bianca”. Ma “per evitare di svelare l’identità della fonte non furono passate le prove così come erano, né fu detto quale degli apparati di sicurezza egiziani si riteneva fosse dietro l’omicidio”. Altre fonti sempre citate dal New York Times affermano: “Non è chiaro chi avesse dato l’ordine di rapire e, presumibilmente, quello di uccidere” Regeni, ma “quello che gli americani sapevano per certo, e fu detto agli italiani, è che la leadership egiziana era pienamente a conoscenza delle circostanze dell’uccisione “del ricercatore””. 
 
Il racconto pubblicato dal New York Times purtroppo è privo di qualunque elemento di prova e quindi potrebbe anche essere falso, la fonte potrebbe avere ingannato a bella posta Walsh per strumentalizzarne l’autorevolezza, tant’è che il governo italiano ha subito seccamente smentito la parte che lo tira in ballo. Ma vediamo come prosegue il racconto dell’articolo del New York Times, sempre tenendo presente che il virgolettato è quanto detto a Walsh dalla sua fonte, mentre il resto sono parole del giornalista:

““Non abbiamo dubbi di sorta sul fatto che i fatti questo fosse conosciuto anche dai massimi livelli”. Insomma, non sapevamo se fosse loro la responsabilità, ma sapevano, sapevano”. Questo portò alcune settimane dopo “l’allora segretario di Stato, John Kerry, a un aspro confronto con il ministro degli esteri egiziano Sameh Shoukry, nel corso di un incontro che si tenne a Washington”. Si trattò di una conversazione “quanto mai burrascosa” anche se da parte della delegazione americana non si riuscì a capire se il ministro stesse erigendo un muro di gomma o semplicemente non conoscesse la verità”.
 
Come si vede, con la prima frase la fonte ammette che gli USA non sapevano se Al SISI e dintorni fossero colpevoli o no, si limita ad affermare che sapevano cosa fosse successo, e con l’ultima frase riporta tutto in alto mare: il ministro degli Esteri egiziano forse del caso Regeni non ne sapeva nulla, cosa piuttosto inspiegabile se Al Sisi e i vari apparati fossero davvero colpevoli. 
 
Dobbiamo ricordare che nell’agosto di due anni fa, qualche giorno prima della scomparsa e uccisione di Regeni, l’ENI aveva scoperto nelle acque del mare egiziano il più grande giacimento di gas del Mediterraneo. Si chiama Zhor e contiene la mostruosa quantità di 850 miliardi di metri cubi di gas, in grado di dare all’Egitto l’autonomia energetica per un bel pezzo e alla società italiana un bel pacco di miliardi di euro. Ce n’è abbastanza per scatenare gli appetiti e la concorrenza dei vari Stati che, come la Francia e l’Inghilterra, per non parlare degli Stati Uniti, per accaparrarsi le altrui fonti energetiche hanno ampiamente e sempre dimostrato di non arretrare di fronte a nulla, guerre comprese.
 
Gli egiziani sono così imbecilli da alienarsi le simpatie dell’Italia dell’ENI con un delitto spettacolare da incapaci? Gli agenti dello spionaggio ti fanno sparire e basta, senza lasciare tracce, e lo sanno fare a iosa anche quelli egiziani, senza ricorrere a torture e sevizie da vecchi film. 
 
Regeni invece è stato ucciso con metodi più da camorra che da “servizi” e il suo cadavere, con bene in vista le prove di quei metodi, è stato dato in pasto all’opinione pubblica indirizzando di conseguenza le indagini in modo fin troppo scoperto. Come se le polizie e i servizi segreti di Al-Sisi dovendo liquidare qualcuno fossero così scemi e autolesionisti da autodenunciarsi mettendo in piazza la via crucis e la crocifissione finale della loro vittima anziché farla sparire totalmente come avvenuto e avviene regolarmente non solo in Egitto. Se del povero Regeni non si fosse fatto trovare nulla, non sarebbe scoppiata nessuna tempesta. 

Bisogna inoltre per onestà e completezza  ricordare che secondo il quotidiano La Stampa ( 
https://www.lastampa.it/2016/02/16/esteri/regeni-a-londra-lavor-per-unazienda-dintelligence-Ue3kZmmArej9wuMH279t5J/pagina.html    ) il 28enne Giulio Regeni, da dieci anni in Inghilterra, dove si è laureato, conoscitore della lingua araba,  e dottorando in un’Università sempre inglese, collaborava – a propria insaputa o no – con i servizi segreti inglesi, il famoso, mitico e sempre sfuggente M16. L’articolo, scritto a Londra, prende lo spunto dal fatto che Regeni aveva lavorato un anno per la Oxford Analytica ( https://en.m.wikipedia.org/wiki/Oxford_Analytica ), società che a detta dell’autore dello stesso articolo, Alessandra Rizzo, è dei servizi inglesi. Affermazione che però non trova conferma ufficiali, ovviamente. Interessante comunque notare che la Oxford Analytica è stata fondata da un ex consigliere del Segretario di Stato Usa Henry Kissinger ed ex membro del potentissimo National Security Council all’epoca di Nixon, nel cui Watergate fu coinvolto, tale David Young ( https://en.m.wikipedia.org/wiki/David_Young_(Watergate)   ).

Forse Regeni con l’M16 non c’entrava nulla, ma l’intervista (  http://www.corriere.it/esteri/16_febbraio_16/regeni-lavoro-ad-oxford-analytica-genitori-giulio-non-era-servizi-23c620a8-d4af-11e5-8855-fe9a1275bf2e.shtml ) al Numero Uno della Oxford Analytica, Graham Hutchings, pubblicata il 16 febbraio dell’anno scorso dal Corriere della Sera e gli annessi “No comment” di una sua collega di lavoro lasciano perplessi. Come che sia, è impensabile che l’M16 dato il campo di studi e ricerche del nostro connazionale non abbia preso diligentemente nota della sua presenza. 
Il giornalista Marco Gregoretti, ex inviato di “Panorama” e vincitore del Premio Saint-Vincent per i suoi servizi sulle violenze (stupri, torture) commesse nelle missioni di pace in Somalia, ha ipotizzato anche una collaborazione con i servizi segreti civili italiani ( 
http://www.marcogregoretti.it/cronaca-misteri/giulio-regeni-era-un-agente-segreto-dellaise/ ). Che però hanno prontamente smentito, anche se in ogni caso non avrebbero potuto fare altro. 
Difficile, se  non impossibile, stabilire con certezza cosa ci sia di vero in quelle notizie. Che a onor del vero paiono un po’ tirate per i capelli, possibile frutto del sensazionalismo che in certi casi non manca mai, ma contribuiscono a rendere il quadro meno decifrabile di quel che sembra o si vuole far sembrare. Il caso riguardante la scomparsa di Emanuela Orlandi, il 22 giugno 1983, è un caso da manuale per quanto riguarda i danni da sensazionalismo e scoopismo a tutt i costi.

Altre perplessità e domande possono nascere dal fatto che è molto impegnata nella campagna “Verità per Regeni” l’organizzazione non governativa (ONG) Amnesty International. I malpensanti hanno notato infatti che il suo organigramma USA riporta presenze come quella della direttrice esecutiva dal 2012 al 2013, Suzanne Nossel, con un passato al Dipartimento di Stato americano, e come quella di chi ne ha preso il posto, Margaret Huang, nel cui curriculum figura un impiego presso il Comitato per gli Affari Esteri del Senato, sempre Usa. Ovviamente c’è chi si chiede se le due manager una volta entrate in Amnesty abbiano o no reciso ogni legame con i citati ambienti di provenienza.
Domande eccessive e fuori luogo? Può darsi. Però non manca neppure chi fa notare che tra i maggiori finanziatori di Amnesty sono comparse la Ford Foundation e la Open Society Foundations. La prima è tra le più ricche fondazioni statunitensi, sovvenziona fin dal 1954  il famoso e molto chiacchierato gruppo Bilderberg. La seconda è invece la cassaforte della quale lo straricco speculatore globale George Soros si serve per finanziare rivoluzioni e sommosse ovunque ci sia da lucrare attirando interi Paesi, dalla Libia all’Ucraina, nell’orbita occidentale e magari anche Nato. 

 Insomma, non si può affatto escludere che Regeni, in nome della ormai secolare lotta feroce per le fonti energetiche, possa essere stato ucciso o fatto uccidere e fatto ritrovare apposta cadavere martoriato, se non per mano almeno per ispirazione dei servizi di Sua Maestà out similia. Che potrebbero anche avere “solo” suggerito a poliziotti e 007 egiziani a libro paga di fare quello che è stato fatto. Non c’è bisogno di accusare in blocco l’M16 o uno degli organi di sicurezza egiziani: noi italiani sappiamo benissimo che certe cose, specie se orrende, possono essere farina del sacco non dei servizi segreti in quanto tali, quelli ufficiali, ma dei loro “pezzi deviati”…
 
Mettere in difficoltà Al Sisi e l’Eni avrebbe l’indubbio vantaggio di prendere due piccioni con una fava. Nonostante tutto, l’Eni in quei giorni tempestosi è però riuscita comunque a portare a casa il contratto per lo sfruttamento di Zhor. Ma è da notare che qualche giorno dopo il ritrovamento del cadavere del nostro connazionale la British Petroleum è riuscita a concludere con l’egiziana Natural Gas Holding Company (EGAS) un bel contratto che prevede tra l’altro lo sviluppo del giacimento Atoll di gas, a nord di Damietta, e una concessione offshore nel delta orientale del Nilo. 
In aggiunta, l’allora presidente francese Hollande è riuscito a vendere all’Egitto armi per oltre un miliardo di dollari, compresi aerei piuttosto vecchi. È impressionante vedere a volte all’aeroporto del Cairo la sterminata quantità di aerei piuttosto obsoleti dismessi soprattutto dall’Europa. Aerei a parte, è noto che Italia e Francia dietro le quinte dei bei sorrisi sono da sempre in lotta dura tra loro per accaparrarsi gas e petrolio altrui. La nostra ENI (in origine acronimo di Ente Italiano Idrocarburi) per poter avere ottimi rapporti con l’Algeria, importante produttrice di gas naturale e petrolio, ne ha finanziato sotto banco la Resistenza contro la Francia coloniale occupante. La Francia in tempi più recenti ha ricambiato il favore organizzando, assieme agli inglesi, la caduta di Gheddafi e la “rivoluzione” libica anche per scalzare l’Italia prendendone almeno in parte il posto nei buoni rapporti, vale a dire negli 11 miliardi di euro di interscambio. Come conferma il recente tentativo della francese Total di soppiantare l’Eni.
 
Così stando le cose, le proteste per la ripresa in questi giorni delle relazioni diplomatiche con l’Egitto, fatta oltretutto passare per uno schiaffo in faccia alla famiglia Regeni, ha un sapore leggermente strumentale, oltre che buonista e “politicamente corretto” a metà tra il libro Cuore e Alice nel Paese delle Meraviglie. Buono solo a farsi un po’ di (dubbia) pubblicità.

Per un’esegesi critica dei vangeli

Al giorno d’oggi non ha più senso scrivere un testo su Gesù Cristo usando i “forse”, i “può darsi”, le frasi dubitative o interrogative, come se non fosse possibile fare altro. Non è più ammissibile lasciare alle confessioni cristiane il diritto d’interpretare un personaggio storico come questo, peraltro così indebitamente strumentalizzato, sotto il pretesto che le fonti sono quello che sono e altre non ne abbiamo.

L’esegesi confessionale non ha mai usato i “se” e i “forse”, e continua a non farlo. Sono circa due secoli che invece lo fa quella laica, per cercare di smontare l’avversaria, svelando le tante incongruenze delle fonti e le loro interne contraddizioni. Tuttavia è ora di superare questa fase di critica negativa.

Non possiamo aspettare di scoprire una fonte decisiva, che smonti in maniera incontrovertibile le consuete interpretazioni dei classici vangeli. Tutte le nuove fonti che dal 1945 ad oggi sono state ritrovate (dai codici di Nag Hammâdi ai rotoli di Qumran) non ci hanno chiarito, in maniera definitiva, i dubbi e le perplessità che suscitano, a una lettura non superficiale, le cosiddette “fonti canoniche”.

Forse l’unica vera fonte che ci ha lasciato senza parole è stata, nell’ultimo secolo, la Sindone. Per noi infatti si può tranquillamente escludere che la complessità di quell’immagine sia da attribuire a un falsario.

Noi diamo per scontato che qualunque azione sovrumana abbia potuto compiere Gesù, in vita, costituisca una falsificazione o mistificazione operata dagli evangelisti o comunque dalle loro comunità di appartenenza. Stesso giudizio diamo per le frasi o i gesti di tipo mistico o religioso in cui egli si esprime. Siamo però disposti ad accettare l’idea che in quel lenzuolo funebre l’immagine si sia impressa in una maniera che sfugge alla nostra comprensione razionale. Tuttavia siamo lontanissimi dall’intenzione di costruirci sopra una nuova religione o di usare quel reperto per cercare delle conferme a favore del cristianesimo.

Questo per dire che oggi possiamo fare un passo avanti, rispetto alla tradizionale esegesi demitizzante (nata in ambito protestantico), e rischiare una lettura non dubitativa ma affermativa dei fatti riportati nei vangeli. Una lettura che sia la più possibile coerente, la cui credibilità stia proprio nella sua intrinseca organicità e non tanto nell’erudizione intellettualistica con cui si va al disquisire sul significato originario di questo o quel termine o singolo versetto.

Non possiamo soffermarci troppo sui significati reconditi delle parole. Non è possibile pensare che la semantica di un detto di Gesù, di una pericope o di un evento o dell’intera sua vicenda possa dipendere proprio da un qualche enigma o cripticità appositamente voluta dal redattore di un vangelo.

Dobbiamo abituarci ad avere uno sguardo d’insieme, senza soffermarci troppo sui particolari, anche se non è da escludere che proprio alcuni particolari possono aiutarci in maniera decisiva ad avere una visione olistica delle cose. Dobbiamo trovare il filo conduttore che tiene uniti gli eventi, nella consapevolezza che la ricostruzione sarà comunque limitata, benché non tendenziosa come quella confessionale.

Certamente siamo consapevoli che non tutti sono liberi di parlare, di dire quello che pensano: gli stessi evangelisti furono enormemente condizionati dall’egemonia di quella teologia che può essere definita col termine “petro-paolina”.

Tuttavia qualunque redattore deve essere consapevole che se col suo testo vuole trasmettere un messaggio a qualcuno, non può pretendere che solo una mente sopraffina possa capirlo. Non ci piace pensare che il senso ultimo delle cose debba essere diffuso in virtù di un certo aristocraticismo intellettuale. Anche perché tale modo di esprimersi sarebbe del tutto contraddittorio a quello scelto da Gesù, che addirittura si rifiutò di lasciare qualcosa di scritto, sapendo evidentemente che la scrittura non offre maggiori garanzie di autenticità rispetto alla trasmissione orale delle conoscenze.

Se nei vangeli appaiono cose che apparentemente non hanno alcun senso (come p.es. maledire un fico che non dava frutti, essendo fuori stagione), ciò va attribuito esclusivamente agli autori dei vangeli, non a Gesù Cristo. E noi non possiamo perdere tempo nel cercare d’individuare l’esatto significato delle loro parole, anche perché, avendo a che fare con autori “sospetti”, si continuerebbe a restare entro il perimetro del loro misticismo.

Tornando alle questioni delle fonti, si può qui aggiungere che si è capito da un pezzo che su nessuna cosa (idea o fenomeno che sia) si possono avere delle prove schiaccianti, assolutamente inconfutabili. Il che però non vuol dire che dobbiamo essere dei relativisti assoluti, poiché anche una posizione del genere sarebbe dogmatica. Vogliamo semplicemente dire che alla verità oggettiva delle cose ci si può avvicinare soltanto in maniera graduale, nella certezza che una qualche oggettività necessariamente esiste.

Spesso la stessa scienza non è altro che un atto di fede, soprattutto quando si pensa che determinate scoperte o invenzioni non avranno conseguenze negative sull’ambiente e sulla vita umana. Oggi la laicità non si qualifica semplicemente perché dice di “pensare” o di “ragionare” e non di “credere”. Tutti crediamo in qualcosa, che lo si voglia o no. Al 100% non siamo sicuri di nulla. Ci giochiamo la nostra libertà di scelta all’interno di un certo margine d’incertezza. Siamo umani e non ce ne vergogniamo.

Un esegeta quindi non deve fare sfoggio di particolare erudizione, meno che mai se vuole rivolgersi a un pubblico di media cultura. Può ammettere tranquillamente, sin dall’inizio, di non sapere che poche cose essenziali, di non aver letto le oltre centomila biografie che negli ultimi tempi sono state scritte su Gesù Cristo. Se un esegeta dovesse prendere in esame tutte le versioni discordanti, presenti nelle fonti del cristianesimo primitivo, che si riferiscono a questo o a quel versetto o pericope, mostrando i pro e i contro, finirebbe con lo scrivere dei mattoni per pochi specialisti. La forza dei suoi ragionamenti deve invece stare nella capacità di argomentare determinate tesi. Il resto deve lasciarlo decidere alla storia.

Le uniche cose che un esegeta laico non può permettere è che, in nome di una fede religiosa, tutti siano costretti a credere o comunque ad accettare una Chiesa di stato o uno Stato della chiesa o uno Stato confessionale. La libertà di coscienza è un valore che va difeso dalla coscienza della libertà.

Oltre a ciò è evidente che un esegeta laico non può interpretare i vangeli, neanche per un momento, così come i redattori volevano essere interpretati. Questo perché deve dare per scontato che le loro posizioni ideologiche sono fortemente tendenziose, non solo per il forte contenuto antisemitico, ma anche per la continua preoccupazione che hanno a trasformare, da un lato, l’ateismo del Cristo in una palese teologizzazione della sua vita personale e della vita umana in generale; e, dall’altro, a spoliticizzare al massimo la sua strategia insurrezionale contro l’occupazione romana e il collaborazionismo ebraico che la supportava. In entrambi i casi l’intenzione era e ancora oggi è quella di ridurre quanti credono in lui in persone scettiche e rassegnate, disposte a sostituire la parola “liberazione” con la parola “redenzione”.

Nelle intenzioni degli evangelisti il Cristo è “politicizzato” solo quel tanto che serve per opporsi alla casta sacerdotale, per la quale la religione era, peraltro, un tutt’uno con la politica. Il Cristo dei vangeli viene obbligato dai redattori a porre le premesse ideologiche per la nascita di una istituzione religiosa, la Chiesa, che non crede possibile la liberazione umana su questa Terra e che, nel contempo, non permette all’istituzione civile di agire in assoluta autonomia. Sarà infatti la Chiesa a spiegare ai sovrani ciò che è bene e ciò che è male sul piano teologico e persino etico (quante volte si è sentito dire dalle autorità ecclesiastiche che senza religione l’etica non può essere umana?).

Ovviamente ci rendiamo conto che, in teoria, tutte le fonti scritte rischiano di apparire come tendenziose, proprio perché esistono delle civiltà antagonistiche da almeno seimila anni. In genere gli intellettuali si pongono al servizio dei potenti, e quando non lo fanno, vengono facilmente travisati, manipolati o censurati. Nell’antichità, prima della nascita della stampa, era sufficiente modificare i pochi manoscritti esistenti, riscrivendoli in maniera appunto tendenziosa o capziosa, ed eliminando l’originale.

Oggi invece è sufficiente fare in modo che i mezzi di comunicazione non… comunichino nulla di autentico, nulla di originale. Uno può dire o scrivere ciò che vuole contro il sistema, ma difficilmente riuscirà a divulgare in modo significativo le proprie informazioni o interpretazioni.

Al tempo dei Greci e dei Romani erano i cosiddetti “barbari” ad essere ostracizzati, nonché tutti quelli che non parlavano greco o latino. Nel Medioevo l’ostilità ideologica era nei confronti della Chiesa ortodossa e dell’Impero bizantino, avvertiti nell’Europa occidentale come concorrenti molto più temibili degli Arabi o dei Turchi. In epoca moderna l’odio viscerale si è manifestato, in tutto il mondo, nei confronti delle idee social-comuniste.

Rebus sic stantibus: ha senso “citare le fonti”? Quali fonti possono pretendere maggiore attendibilità di altre? Esiste forse qualcuno che possa garantirlo? Il discorso qui sarebbe lungo, ma, se vogliamo essere concreti, è meglio sostenere che uno studio su Gesù Cristo può avere un qualche valore se ciò che si pensa di affermare può essere utilizzato come premessa per affrontare il nostro presente, impegnandosi per risolvere le contraddizioni che c’impediscono d’essere liberi.

Ovviamente non ha alcun senso fare di questa “premessa” il significato “integrale” della propria vita. Occorre uno svolgimento pratico della teoria, che porti a riformulare quest’ultima in chiave moderna e a trovare nuove soluzioni operative per il presente. Ciò d’altra parte sarebbe conforme allo stesso oggetto esaminato, cioè i vangeli, che sono appunto un invito a cambiare vita. E dobbiamo farlo in relazione all’epoca in cui viviamo, lontanissima da quella del movimento nazareno e del cristianesimo primitivo.

Chi pensa sia sufficiente un esame meramente “teorico” del “caso Gesù”, si è già posto fuori strada. Sarebbe come esaminare i grandi rivoluzionari della storia (Marx, Lenin, Trockij, Mao Zedong, Che Guevara, Ho Chi Minh…) senza chiedersi se quanto hanno detto e fatto abbia ancora un valore effettivo per il presente. Chi non attualizza le grandi idee e conquiste del passato, non è in grado di comprendere nulla in maniera adeguata.

Quando l’esegesi diventa inutile

In un libretto delle ed. Carocci, del 2008, intitolato L’enigma Gesù, vi sono tre esegeti italiani, Claudio Gianotto, Enrico Norelli e Mauro Pesce che, sul piano metodologico, dicono sostanzialmente le stesse cose, inclusa la curatrice Emanuela Prinzivalli.

L’esegesi moderna si sforza di andare oltre quella confessionale, ma, per timore di finire su posizioni dichiaratamente ateistiche, si limita a fare discorsi di tipo sociologico sul cristianesimo primitivo, che aiutano sicuramente a comprendere meglio le varie caratteristiche in cui si sono formati i vari testi canonici e apocrifi, ma non aiutano a demistificare l’intenzione originaria che i cristiani hanno avuto di trasformare il Gesù storico in un Cristo teologico.

A motivo delle grandi competenze che richiede in varie discipline, l’esegesi neotestamentaria è diventata una cosa molto complessa, in cui solo pochi esperti si possono impegnare. Così facendo però si trasforma l’esperienza del movimento nazareno (quello antecedente al cristianesimo) in un qualcosa di intellettualistico, perdendo di vista il motivo fondamentale per cui esso era nato: compiere un’insurrezione nazionale contro l’occupante romano e i suoi collaborazionisti interni, in special modo i gestori sadducei del Tempio.

Il fatto che tale movimento abbia fallito il proprio obiettivo non può essere considerato come prova per negare al Cristo una caratterizzazione politica. L’esegesi laica deve anzi cercare di capire perché l’iniziativa di tale insurrezione nazionale venne presa nel 66 non dal movimento nazareno, bensì da quello zelota.

Gli zeloti si erano già ribellati ai Romani prima che nascesse il movimento nazareno, tant’è che alcuni di loro militavano tra gli apostoli e sicuramente erano presenti tra quei cinquemila Galilei che volevano marciare su Gerusalemme facendo di Gesù un sovrano dai poteri assoluti.

Il movimento nazareno eredita il meglio dello zelotismo galilaico, ma cerca anche un continuo confronto dialettico col fariseismo giudaico, al fine di poter unire le due più importanti correnti politiche. Le altre due forze combattive con cui il Cristo s’era messo in relazione furono l’essenismo del Battista e il samaritanesimo.

La guerra giudaica, durata circa un sessantennio, ha spazzato via definitivamente l’idea politica di poter costituire una nazione libera e indipendente. Ciò che è sopravvissuto non era più la stessa cosa di prima. I farisei hanno indubbiamente sostituito i sadducei, ma si sono trasformati in guide spirituali e intellettuali, accontentandosi di gestire le loro sinagoghe. I nazareni sono diventati “cristiani”, facendo propria la teologia mistica di un ex fariseo, Paolo di Tarso, che accettò l’interpretazione petrina della tomba vuota come “resurrezione”, arrivando a fare del Cristo “l’unigenito figlio di Dio”, in via del tutto esclusiva. Quanto all’essenismo, si può pensare che il suo stile di vita sia confluito nel monachesimo cristiano, che indubbiamente è a capo del quarto vangelo.

Il grande sconfitto è stato lo zelotismo, che forse si è diluito in quelle correnti cristiane che hanno originato una parte della letteratura apocrifa.

Di tutti questi movimenti l’unico ad aver veramente trionfato è stato il cristianesimo, benché in una forma completamente diversa da quella del movimento nazareno. Ora, per comprendere la diversità di queste due forme, secondo noi non ha senso sostenere che il “Gesù reale” resta inconoscibile (come fanno appunto i suddetti autori), in quanto le fonti a nostra disposizione al massimo ci permettono di distinguere tra un “Gesù storico” e uno “teologico”, intendendo quest’ultimo il prodotto definito e definitivo della teologia paolina, mentre l’altro il prodotto culturale di varie correnti cristiane, spesso in opposizione tra loro.

In realtà dobbiamo dire che tutta quanta la letteratura cristiana è sostanzialmente “teologica”, essendo nata da comunità politicamente sconfitte. È una letteratura che ha dovuto necessariamente fare della falsificazione (invenzione stricto sensu) e della mistificazione (interpretazione distorta di fatti reali) gli strumenti della propria affermazione.

Quando è stato deciso il “canone” non si sono scelti i testi più attendibili, ma i testi la cui irrealtà era riuscita a imporsi meglio col passare dei secoli. Se non si parte da queste premesse, è impossibile pretendere di elaborare un’esegesi laica, cioè critica.

Non si può essere contrari a tutte le interpretazioni che vedono in Gesù un soggetto di idee ateistiche e di comportamenti politicamente eversivi, soltanto perché questi due aspetti non appaiono con chiarezza o non appaiono affatto nelle fonti a nostra disposizione.

Bisogna anzi partire dal presupposto che se consideriamo quelle fonti l’esito di una sconfitta politica, allora è molto probabile che il Cristo da esse raffigurato sia completamente diverso da quello che è stato nella realtà. Non bisogna aver paura di dire queste cose, anche perché, in via del tutto generale, dovremmo considerare la religione in sé una sorta di mistificazione della realtà.

Scarsa chiarezza e arretramenti al G20 di Amburgo

Pericolosi passi indietro al G20 di Amburgo
Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**Scarsa 
L’ultimo summit del G20 di Amburgo segna, purtroppo, un grande e pericoloso arretramento sul fronte delle riforme dell’economia e della finanza.
Si ha l’impressione che sia stato definito un “commercio internazionale à la carte”. Infatti, nonostante i media abbiano evidenziato il compromesso raggiunto sul commercio estero, secondo noi, non vi è affatto chiarezza. Nel documento si afferma che “continueremo a combattere il protezionismo e tutte le pratiche commerciali scorrette e riconosciamo allo stesso tempo il ruolo degli strumenti di difesa commerciale legittima”, ma sembra proprio che ogni Paese sia legittimato a fare ciò che vuole. Protezionismo no, ma anche sì. Potrebbe aversi una ripresa delle guerre commerciali.

L’altro fronte, tanto sbandierato, è quello del clima. Gli Usa hanno bloccato il loro contributo finanziario per la realizzazione del trattato di Parigi, mantenendo un vago impegno ad abbassare le emissioni di co2 nel quadro del sostegno alla propria crescita economica e del miglioramento della propria sicurezza energetica. Ad alcuni può suonare accettabile, ma si tratta di un drastico ritorno alla politica dell’unilateralismo americano.
I passi indietro sono ancora più evidenti se si confronta il comunicato di Amburgo con le linee guida e le proposte formulate qualche mese prima a Baden Baden nel summit dei ministri delle finanze e dei governatori delle banche centrali del G20.

Sono del tutto scomparsi alcuni passaggi rilevanti relativi alla politica monetaria. Per non mettere in discussione eventuali prolungamenti del Quantitative easing , non si fa più riferimento al fatto che “la politica monetaria da sola non può portare ad una crescita bilanciata”.
Coerentemente con la nuova politica commerciale con meno regole, la dichiarazione finale non menziona più che ”l’eccesso di volatilità e i movimenti disordinati sui tassi di cambio possono avere delle implicazioni negative per la stabilità economica e finanziaria”. Scompare anche la volontà di “trattenersi da svalutazioni competitive e dall’uso dei tassi di cambio per scopi competitivi”.

Scompare il precedente impegno a “ridurre gli eccessivi squilibri economici”. Prima si voleva mitigare i grandi surplus commerciali di alcuni Paesi per non danneggiare gli altri e per evitare eventuali crisi sistemiche.

Nel documento finale non si menziona più “il rafforzamento dei controlli sui flussi di capitale e della gestione dei rischi risultanti da un’eccessiva volatilità del flusso di capitali”. Meno male che si riafferma la necessità di mantenere i controlli su possibili rischi sistemici e sulle vulnerabilità associate al cosiddetto “sistema bancario-ombra”.

Particolarmente grave è l’assenza di ogni riferimento al pericolo rappresentato dai derivati over the counter, notoriamente i più speculativi e destabilizzanti. Mentre a Baden Baden si affermava l’importanza del lavoro del Financial Stability Board nel definire le riforme dei mercati dei derivati otc e si invitava i membri del G20 a completare tempestivamente e a rendere operative in tempi brevi le riforme relative agli otc.

Inoltre il G20 ha quasi del tutto ignorato le analisi e le raccomandazioni del Fondo Monetario Internazionale che, poco tempo prima, aveva evidenziato l’importanza della progressiva multipolarità negli affari economici, monetari e commerciali internazionali. Si ricordi che, tra l’altro, il Fondo aveva anche sollevato la questione destabilizzante, divenuta periodica, della volatilità nei flussi di capitali e degli alti debiti pubblici di molti Paesi. Di conseguenza, il Fondo aveva proposto il rafforzamento di una Global Financial Safety Net, che è un insieme di misure per evitare eventuali destabilizzazioni finanziarie. A tal fine poneva l’accento sul ruolo positivamente crescente dei Diritti speciali di prelievo che, com’è noto, sono la moneta internazionale basata su un paniere di valute importanti.

Il summit ha anche ignorato le raccomandazioni della Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea che ha evidenziato il rischio rappresentato dal debito globale dei paesi del G20. Si ricordi che, senza contare il settore finanziario, esso è pari a 220% del loro Pil, con un aumento del 40% rispetto al 2007.

Nel documento di Amburgo, purtroppo, non si tiene conto del monito della BRI circa l’aumento del protezionismo: escludendo i dazi, dal 2010 le misure concernenti i regolamenti protettivi e i sussidi, sono quadruplicate. Mentre in dieci anni il commercio internazionale è rimasto fermo al 60% del Pil mondiale.

Si ha l’impressione che il meeting di Amburgo sia stato negativo nei risultati. Tutt’al più è stato uno scenario amplificato per l’ingresso di due nuovi protagonisti, Trump e Macron.
*già sottosegretario all’Economia **economista