È attendibile Jossa come esegeta del N.T.?

Si prenda di Giorgio Jossa un libro qualunque, tanto le sue tesi di fondo son sempre le stesse e certamente non sgradite agli ambienti di area cattolica, che lui stesso peraltro frequenta ben volentieri: p.es. Il cristianesimo ha tradito Gesù? (ed. Carocci, Roma 2009). Siccome ha sempre svolto il mestiere di “storico del cristianesimo”, anche in questo libro deve necessariamente partire dalla questione delle fonti.

Ora, per dimostrare che quelle canoniche sono (purtroppo, bisognerebbe precisare) assolutamente prevalenti su tutte le altre, cita, per farlo capire indirettamente, le frasi che Giuseppe Flavio scrive a favore di Gesù Cristo: “Ci fu verso questo tempo Gesù, uomo saggio, se pure bisogna chiamarlo uomo: era infatti autore di opere straordinarie, maestro di uomini che accolgono con piacere la verità e attirò a sé molti Giudei e anche molti dei Greci. Questi era il Cristo. E quando Pilato per denuncia degli uomini notabili fra noi lo punì di croce, non cessarono coloro che da principio lo avevano amato. Egli infatti apparve loro al terzo giorno nuovamente vivo, avendo già annunciato i divini profeti queste e migliaia di altre meraviglie riguardo a lui. Ancora oggi non è venuta meno la tribù di quelli che da costui sono chiamati cristiani”.

Chiunque sa (anche un profano in materia) che il Testimonium Flavianum è un falso patentato almeno per tre ragioni: 1. lascia credere che Gesù avesse una natura sovrumana e compisse miracoli; 2. sostiene ch’egli attirò a sé anche “molti Greci”, come se fosse stato un seguace della teologia paolina; 3. attribuisce, insensatamente, allo stesso Flavio, e non ai cristiani, la convinzione che Gesù era il messia, ch’era risorto e riapparso ai suoi seguaci, adempiendo le profezie divine.

Queste affermazioni sono così inverosimili che non appaiono neppure nella versione araba del X sec. dello stesso testo. Neppure una sola parola un ebreo avrebbe mai potuto dire, né una parola che non sia stata desunta dai vangeli canonici. Non solo quindi è una falsificazione in piena regola ma è anche di basso livello.

Cosa fa invece Giorgio Jossa di fronte a un testo del genere? Afferma che: 1. è “fortemente sospetto d’essere almeno parzialmente interpolato da mano cristiana” (p. 23); 2. “esso conferma indubbiamente l’esistenza di Gesù e le modalità della sua morte” (p. 24). Detto altrimenti l’esegeta sostiene che l’interpolazione non è totale ma solo “parziale”, e che, pur essendoci una falsificazione, il testo può essere usato come “prova” di ciò che viene detto nelle fonti canoniche! Ci chiediamo: può un testo chiaramente falsificato confermare il valore di un altro? Come può uno storico del suo livello non sapere che si può rispondere affermativamente a tale domanda se anche l’altro testo è falsificato? E che tale conferma permane almeno fino a quando non si scoprono gli “altarini” di entrambi i testi?

Perle di questo genere ve ne sono tante nei suoi libri, le cui idee di fondo assomigliano, molto da vicino, a quelle di Mauro Pesce (un altro esegeta confessionale travestito da laico). La seguente, tanto per fare un altro esempio a caso, è ancora più incredibile: “io credo che siano state realmente le apparizioni di Gesù, e la conseguente fede nella sua resurrezione, a infondere coraggio ai discepoli impauriti e a dare l’avvio alla tradizione di Gesù” (pp. 30-31).

Ora, se c’è una cosa su cui non si dovrebbe neppure discutere è che i racconti di apparizione di Gesù risorto sono tutti inventati: il vangelo originario di Marco neppure li prevedeva. Se vi sono esegeti che ancora vi credono, sono in malafede. Come può uno studioso, che si qualifica come “laico”, non sapere che una qualunque “riapparizione” di una persona chiaramente morta violerebbe la libertà di coscienza di una persona viva, inducendola a credere in qualcosa con la forza dell’evidenza? La stessa parabola lucana del ricco epulone e del povero Lazzaro (16,19-31) dice espressamente che tra i vivi e i morti viventi “è stabilito un grande abisso”, sicché non vi è alcuna possibilità di contatto. Paradossalmente basterebbe questo racconto “evangelico” per far saltare la credibilità dei racconti di apparizione del Cristo.

In parte anche Jossa si rende conto di queste cose, là dove scrive: “lo storico naturalmente non può dire in che cosa esattamente [tali apparizioni] siano consistite” (p. 33). Tuttavia, siccome qui non si può parlare né di riapparizioni fisiche, né di miraggi o di allucinazioni (singole o collettive), uno storico davvero laico avrebbe dovuto trarre la conseguenza che tutti quei racconti sono soltanto delle invenzioni di tipo redazionale (poetiche quanto si vuole, ci mancherebbe!).

D’altra parte la prima di queste assurdità non appartiene neppure ai vangeli, ma è stata rivendicata da Paolo di Tarso, che nelle sue lettere ribadiva con forza di aver avuto una “rivelazione diretta” (una visione mistica) da parte di Gesù Cristo. Ora, è evidente che se il fondatore del cristianesimo ha potuto far passare un’idea del genere, chiunque avrebbe potuto sentirsi in diritto di imitarlo. In questo sta anche la differenza tra petrinismo e paolinismo, in quanto per Pietro era sufficiente credere nella “resurrezione” per poter sperare nell’imminenza della parusia trionfale del Cristo. Viceversa, per Paolo la “resurrezione” rimandava al “giudizio universale” della fine dei tempi. Se l’uno pensa al “Cristo risorto” secondo una finalità ancora politica, l’altro invece ha già smaterializzato e spoliticizzato tutto.

In ogni caso non è affatto vero che la fede nella resurrezione è stata una “conseguenza” delle apparizioni di Gesù. Semmai, redazionalmente, è avvenuto il contrario: i racconti di riapparizione sono stati inventati proprio perché la “fede nella resurrezione” non la si riteneva sufficiente come criterio per diventare cristiani. Anche perché se davvero le riapparizioni avessero preceduto la “fede” nella resurrezione, non si sarebbe creduta in questa per “fede”, ma secondo “ragione”. Nel ragionamento di Jossa vi è quindi un’incongruenza lapalissiana.

Un altro evidente errore ermeneutico appare subito dopo, là dove l’autore sostiene che i discepoli di Gesù hanno cominciato a credere nella sua “messianicità” solo dopo aver constatato la sua “resurrezione”, in quanto prima, mentre era vivo, si erano limitati ad accettarlo come “profeta e maestro” (p. 31).

Come può uno storico di chiara fama cadere in sviste del genere? Sin dall’inizio del suo ministero pubblico Gesù si era posto come “politico” e non semplicemente come “profeta e maestro”: proprio in questa differenza sta la sua rottura col movimento del Battista. Poiché aveva in mente di liberare la Palestina dai Romani e dalla casta sacerdotale del Tempio, facilmente veniva considerato dagli ebrei un “messia”. Semmai il problema stava nel cercare di chiarirsi sul significato della messianicità. Ciò in quanto il modello ideale degli ebrei era quello davidico, mentre il Cristo voleva contrapporre l’idea di democrazia a quella di monarchia, ovvero l’idea di volontà popolare a quella del sovrano autocrate, seppur confermato (unto) dal pontefice.

Se si sostiene che la messianicità del Cristo fu una conseguenza della sua resurrezione (p. 35), si deve per forza togliere al Cristo qualunque caratterizzazione politica; e se anche questa la si volesse accettare, pensando a una sua parusia trionfale imminente (come fece appunto Pietro), le si negherebbe inevitabilmente il suo presupposto democratico, in quanto la messianicità del Cristo non aveva affatto lo scopo di negare l’autodeterminazione al popolo ebraico. Cosa che invece verrebbe negata da una qualunque parusia, tanto più se questa fosse “trionfale”. Le due assurdità del petrinismo – resurrezione e parusia – si giustificavano a vicenda, e hanno continuato a farlo nel paolinismo, benché la fede stringente nell’imminenza sia stata trasformata in una vaga fede degli “ultimi tempi”.

Se la messianicità è un requisito della resurrezione, è evidente che il Gesù storico non aveva nulla di politico. Sostenere – come fa Jossa – che il cosiddetto “segreto messianico” è stata una scelta dello stesso Gesù e non un’invenzione del vangelo marciano, significa non capire la differenza tra Gesù storico e Cristo teologico. Senza poi considerare che un atteggiamento del genere rischia di portare su posizioni antisemitiche, in quanto si finisce col credere che gli ebrei non erano in grado di capire la messianicità di Gesù finché lui restava in vita.

Non si può pensare neanche per un momento che Gesù aveva imposto il silenzio sulla sua natura messianica perché non voleva esser capito sino in fondo. L’unica cosa che legittimamente si può sostenere è che egli aveva una concezione democratica della messianicità, mentre molti ebrei l’avevano di tipo monarchico, oppure che lui l’aveva di tipo laico (come fa capire alla samaritana), mentre gli ebrei non riuscivano a dissociare la religione dalla politica. Se non avesse avuto alcuna concezione di messianicità, non avrebbe organizzato l’ingresso trionfale a Gerusalemme; e tanto meno, per far capire la differenza tra le due concezioni politiche, avrebbe usato un asino (simbolo di mitezza) al posto del cavallo, quello che usavano i generali, con al seguito un esercito bene armato, intenzionati a occupare le città con la forza.

Sostenere inoltre che la prima predicazione missionaria dei discepoli di Gesù, compiuta oralmente, abbia riguardato la sua attività di “taumaturgo che guariva malati e cacciava demoni, di profeta che annunciava la venuta del regno di Dio e narrava parabole immaginose, di maestro che insegnava a commentare la legge di Mosè” (p. 32) – tutto ciò è assolutamente irreale.

Se davvero i primi discepoli si sono comportati così, la loro predicazione orale non ha affatto “preceduto” la stesura dei vangeli, ma semmai è avvenuto il contrario. Essi hanno potuto raccontare delle cose ch’erano già state messe per iscritto dai dei redattori mistificatori o comunque già decise in qualche consesso di natura privata: infatti son tutte cose che nulla hanno a che vedere col Gesù storico, sia perché egli non ha mai compiuto “miracoli” che non fossero alla portata dell’uomo, sia perché era un ateo e non avrebbe potuto predicare un “regno divino”, sia perché non era un rabbino che commentava la legge mosaica e le sue successive interpretazioni.

I vangeli non sono stati scritti per “ricordare” Gesù, ma per farlo dimenticare nella sua autentica storicità, tant’è che lo presentano con caratteristiche sovrumane, del tutto immaginifiche. Essi avevano lo scopo di divulgare l’interpretazione petrina della tomba vuota come “resurrezione” e l’interpretazione paolina del Cristo risorto come “unigenito figlio di Dio”, morto per salvare l’umanità dagli effetti devastanti del peccato originale e quindi per riconciliarla col Creatore, che voleva sterminarla come ai tempi di Noè.

Anche le antiche tradizioni “ellenistiche” rappresentate da Stefano, e quelle dichiaratamente giudaico-cristiane rappresentate da Giacomo il Giusto (parente stretto di Gesù) possono essere tranquillamente considerate come una forma di “tradimento” dell’originario messaggio gesuano. La prima perché focalizzava la strategia eversiva del Messia nell’unica direzione dell’opposizione contro il Tempio, dimenticando completamente quella contro la presenza romana. La seconda perché fingeva di non sapere che Gesù aveva già considerato irrilevante il culto presso il Tempio nel suo dialogo coi Samaritani. Al Cristo non interessava alcun tipo di culto religioso. Lo stesso quarto vangelo, benché profondamente teologico, in nessun luogo lascia capire che Gesù fosse una persona intenzionata a istituire dei “sacramenti” o dei riti mistici che andavano periodicamente ripetuti. I sacramenti del battesimo e dell’eucaristia sono stati presi dal mondo essenico quando i cristiani si riconciliarono coi battisti.

In ogni caso non si può assolutamente sostenere che “la predicazione apostolica ha certamente il suo fondamento nella storia di Gesù” (p. 33). Di tutti gli apostoli di Gesù soltanto Pietro appare attivamente negli Atti di Luca, e dopo di lui il protagonista è Paolo. Non c’è alcuna “predicazione apostolica” su temi comuni. Ciò che predica Pietro è già una forma di “tradimento” del messaggio originario del Cristo; e il fatto che gli altri apostoli non appaiano negli Atti, lascia pensare che la sua predicazione non sia stata affatto condivisa.

Quando i vangeli vengono messi per iscritto, non facevano che riflettere un’unica teologia, quella petro-paolina, di cui anche il quarto vangelo, debitamente manipolato, dovette tener conto. Se è stato scritto qualcosa in controtendenza, è andato distrutto. Già al momento della stesura definitiva del protovangelo marciano, non esisteva più la generazione ch’era stata “testimone oculare” del Cristo: un po’ perché già eliminata o costretta alla fuga dal giudaismo, un po’ perché scomparirà nel corso della guerra giudaica scoppiata nel 66.

D’altra parte Jossa è convinto che, siccome le fonti apocrife non hanno nulla di storico, le uniche che possono aiutarci a delineare una figura realistica di Gesù sono soltanto quelle canoniche. Dicendo ciò non si rende conto che tra le due tipologie di fonti la differenza sta solo nella diversa entità e configurazione del mito. Queste cose si sanno dai tempi di Reimarus e della Sinistra hegeliana (D. Strauss e B. Bauer).

Insomma Giorgio Jossa non è molto diverso, nella sua esegesi moderata, dalla coppia Pesce-Destro. In base ai principi della cosiddetta “Terza ricerca”, essi accettano di qualificare Gesù come un autentico ebreo, nel senso che la sua predicazione era “radicata nella tradizione giudaica” e la sua religiosità era debitrice “della spiritualità giudaica del suo tempo (nell’importanza attribuita alla preghiera, nel riferimento costante alla Scrittura, nell’osservanza alle prescrizioni della legge, nel rispetto delle regole del culto)” (p. 86).

Col che si confonde completamente la posizione di Gesù con quella di Giacomo il Giusto, che sostituì ben presto Pietro nella direzione della comunità giudaico-cristiana di Gerusalemme. In realtà Gesù non può aver elaborato alcuna preghiera, in quanto la preghiera in sé è uno strumento di automortificazione della volontà umana a vantaggio della onnipotenza divina.

Lo stesso riferimento alle Scritture non è mai stato “costante” nella sua predicazione, e, in ogni caso, quando lo ha usato, non aveva certo una funzione apologetica della propria messianicità, proprio perché questa andava dimostrata sul campo, col proprio impegno politico, non in una maniera del tutto intellettualistica, servendosi – come faranno gli evangelisti molto tempo dopo – di profezie interpretate nella maniera più fantasiosa. Tanto meno, ovviamente, si servì delle Scritture per dimostrare la propria divinità.

Quanto all’osservanza della legge, non pare proprio che Gesù rispettasse il sabato o le abluzioni o le minuziose prescrizioni alimentari, come si vantavano di fare i farisei, coi quali sembra interfacciarsi di continuo nei vangeli. Non parliamo poi delle regole del culto, poiché non lo si vede mai fare sacrifici al Tempio.

Jossa esclude categoricamente che Gesù sia stato un politico: “che l’ingresso di Gerusalemme sia stata una manifestazione politica tale da impensierire i Romani è certamente da escludere” (p. 91). Quanto siamo lontani dalle tesi di S. Brandon o di F. Belo!

Sulla base di cosa Jossa può sostenere questa sua certezza? 1. Sul fatto che mentre egli entrò nella Città Santa, i Romani non mossero un dito. E come avrebbero potuto – ci si può chiedere – se, a fronte di alcune migliaia di seguaci del Nazareno provenienti da tutta la Palestina, Pilato disponeva soltanto di una coorte di 600 militari? 2. Sul fatto che non fu Pilato a prendere un’iniziativa in proprio a carico di Gesù; semplicemente egli reagì a una denuncia da parte delle autorità giudaiche. Ecco un bel modo d’interpretare i vangeli come gli evangelisti volevano! Non solo, ma egli aggiunge che l’ingresso in Gerusalemme e la purificazione del Tempio non avevano affatto un contenuto messianico, come invece l’ebbe la dichiarazione di Gesù davanti a Caifa durante il processo giudaico riportato nel protovangelo.

Così facendo, però, Jossa diventa più “realista” del “re Marco”, dietro cui si cela Pietro. Per quest’ultimo, infatti, Gesù avrebbe anche potuto vincere se i sadducei non si fossero opposti, benché in quel vangelo tendenzioso la guerra contro i Romani venga completamente assorbita nella battaglia contro Caifa: tant’è vero che l’epurazione del Tempio viene collocata alla fine della carriera politica del Cristo, quando invece il quarto vangelo la colloca all’inizio, in un contesto di rivalità coi battisti.

Al dire di Jossa invece Gesù entrò nella capitale semplicemente per farsi ammazzare. Questo perché il suo ingresso non fu “così chiaramente messianico (e trionfale) come lo presentano gli evangelisti successivi” (p. 99). L’esegeta napoletano non capisce che se è vero che quell’ingresso non era “trionfale” come avrebbe potuto farlo un qualunque re d’Israele o un qualunque generale romano o ellenistico, era comunque “trionfale”, poiché migliaia di persone erano entrate insieme a lui e avevano il compito di proteggerlo e di realizzare l’obiettivo dell’insurrezione nazionale. Semmai gli evangelisti han fatto di tutto per attenuare la portata eversiva di quell’evento: i Sinottici, riducendola alla purificazione moralistica del Tempio; i manipolatori del quarto vangelo facendo parlare Gesù come un teologo incomprensibile.

Jossa ritiene che Gesù abbia affermato la propria messianicità solo davanti a Caifa, mentre questi lo interrogava, quindi proprio nel momento in cui Gesù associa la parola “messia” al titolo religioso di “figlio di Dio”!

Come può uno storico non rendersi conto che quel processo religioso (non riportato nel quarto vangelo) è stato completamente inventato da Marco, che non a caso pone solo Pietro come testimone? Come può uno storico sostenere che “non si spiegherebbe la condanna come re dei Giudei da parte dei Romani se Gesù di fronte al Sinedrio non avesse avanzato la pretesa d’essere il messia, e quindi il re d’Israele…” (p. 99)?

Come fa Jossa a non capire che Gesù non aveva bisogno di “dichiarare” alcunché per dimostrare ch’era il messia, in quanto gli sarebbero bastati i fatti? Come può non rendersi conto che proprio sulla base di questi fatti evidenti, Pilato aveva intenzione di farlo fuori? Secondo Jossa Gesù sarebbe stato giustiziato semplicemente perché “dichiarò” d’essere il messia (una volta entrato nella capitale), mentre all’apparenza si comportava solo come un profeta e un maestro. Ci voleva una sua “dichiarazione personale” (quella che p.es. il Battista si rifiutò di fare), altrimenti gli avversari politici non l’avrebbero capito e non avrebbero avuto motivo per eliminarlo. Può uno storico essere così ingenuo? Sono stati forse i suoi studi universitari in Giurisprudenza a condizionarlo così pesantemente?

Peraltro, quando mai gli ebrei erano contrari all’attesa di un messia anti-romano? Persino dopo averlo crocifisso, le autorità giudaiche si preoccuparono di chiedere a Pilato di cambiare il titolo della croce: non doveva scrivere “Il re dei Giudei”, ma “Io sono il re dei Giudei”. Potevano infatti le autorità del Tempio far vedere che l’avevano fatto giustiziare perché erano contrarie all’idea di aspettare un messia liberatore? Semmai avversavano un’idea di messianicità non conforme ai loro parametri.

Secondo Jossa invece l’idea di messia gli ebrei non potevano averla perché questa, per loro, era “una figura ideale lontana, e in un certo senso mitica…” (p. 100). Dicendo così, l’autore sposa le tesi di Mauro Pesce o quelle di Giuseppe Barbaglio, secondo i quali il regno di Dio doveva essere realizzato non dagli uomini ma da Dio stesso. Facendosi ammazzare, Gesù doveva semplicemente dimostrare che gli uomini, con le loro forze, non sono in grado di liberarsi delle loro contraddizioni.

Naturalmente Jossa si rende conto che una tesi del genere può fare acqua da tutte le parti, per cui inevitabilmente è costretto a chiedersi: “se Gesù non era un pericoloso ribelle politico, come quasi tutti gli studiosi riconoscono, che cosa avrebbe dovuto giustificare una iniziativa nei suoi confronti da parte dell’autorità romana?” (p. 102). E “se era un ebreo rigorosamente osservante e un pacifico dottore della legge, perché l’autorità giudaica avrebbe dovuto consegnarlo ai Romani?” (ib.).

Ed ecco la risposta “originale” dell’esegeta: la colpa della sua esecuzione ricade soprattutto sui sadducei, non sui farisei, per avere egli occupato il Tempio! I Romani ritenevano Gesù un “personaggio abbastanza innocuo” (p. 104), la cui predicazione in Galilea era passata “quasi inosservata”. Essi non si erano particolarmente preoccupati né dell’ingresso messianico né dell’occupazione momentanea, simbolica, del Tempio, in quanto non avevano avvertito il bisogno d’intervenire militarmente.

Pur di salvare la faccia ai farisei e fare un favore ai moderni esegeti ebraici dei vangeli, Jossa fa passare per dei mentecatti persino i Romani, obbligandoli, inspiegabilmente, a intervenire in maniera categorica non sulla base dei fatti che un imputato ha effettivamente compiuto, ma sulla base di una semplice dichiarazione sulla propria identità e sulla base di una falsa denuncia da parte delle autorità religiose (che avevano “invidia” di lui, come dice Marco); e Pilato lo manda al patibolo pur sapendo che materialmente non lo meriterebbe, non essendo colpevole di nulla, se non delle proprie “stravaganti” dichiarazioni. Anzi, addirittura lo crocifigge pur subodorando che un tipo come lui avrebbe potuto tornare comodo alla strategia imperialistica di Roma contro le obsolete tradizioni nazionalistiche d’Israele!

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