È possibile una biografia attendibile del Cristo?

La domanda se fosse possibile una ricostruzione sufficientemente attendibile della vita di Gesù, visto che i vangeli sono per così dire viziati da una visione teologica degli eventi, e visto che, a tutt’oggi, non vi sono fonti alternative che li possano smentire in maniera evidente, non poteva emergere che in ambienti non strettamente confessionali.

I ritrovamenti dei manoscritti di Qumran, sotto questo aspetto, sono stati abbastanza deludenti, anche se ci hanno aiutato a capire i rapporti tra esseni e battisti, tra esseni e il IV vangelo, tra esseni e la teologia sacramentaria del cristianesimo primitivo e, infine, tra essenismo e zelotismo poco prima della catastrofe del 70 d.C. Anche i codici di Nag Hammâdi (Egitto), trovati nel 1945, non hanno affatto costituito una svolta epocale. Molto più interessante invece è stata l’analisi scientifica della Sindone, che solo per un pregiudizio pseudo-ateistico o anti-clericale viene considerata un falso.

È senza dubbio vero che di nessun grande personaggio storico si può essere sicuri che le biografie tramandateci possano essere considerate attendibili. I grandi biografi del passato facevano gli interessi delle classi dominanti o erano addirittura sul libro-paga degli stessi sovrani di cui dovevano raccontare le gesta gloriose. Era quasi impossibile scrivere qualcosa in controtendenza, soprattutto se il sovrano era ancora vivo.

Inoltre, non esistendo la stampa, erano pochi i manoscritti che circolavano, per cui era relativamente facile toglierli di mezzo o manipolarli, se risultavano scomodi per qualche ragione. L’intellighenzia cristiana riuscì persino a modificare impunemente i testi di Flavio Giuseppe, che pur erano stati prodotti in un ambito prettamente giudaico. Anzi, non è da escludere che i suoi testi siano sopravvissuti proprio perché accusavano i Giudei d’essere stati la rovina di loro stessi.

Forse il primo esegeta neotestamentario che ha avuto il coraggio di tentare un’interpretazione della vita di Gesù radicalmente opposta a quella canonica dei vangeli, è stato Hermann Samuel Reimarus (1694-1768), filosofo illuminista tedesco, di religione protestante, il quale poté avvalersi delle sue forti competenze in campo linguistico.

La sua tesi di fondo era che la vicenda di Gesù aveva connotati chiaramente politico-eversivi, che gli evangelisti avevano censurato, in quanto la loro preoccupazione era quella di presentare un Cristo teologico dalla natura sovrumana, capace di compiere miracoli e di risorgere dopo morto, quando in realtà il suo corpo fu trafugato dagli stessi apostoli per trovare un’alternativa alla sconfitta politica.

Oggi è difficile incontrare un esegeta autenticamente laico che possa prescindere in toto da una tesi del genere, per quanto essa presenti una contraddizione di non poco conto. Infatti, se davvero il Cristo è stato un politico rivoluzionario (contro Roma e i collaborazionisti sadducei, che gestivano il Tempio), è difficile pensare che ai suoi più importanti seguaci, gli apostoli, che sicuramente erano sediziosi come lui, sarebbe venuto in mente di far credere, al mondo ebraico cui appartenevano, che Gesù era stranamente scomparso dal sepolcro se non lo fosse stato per davvero.

Cioè quello che non regge nell’analisi di Reimarus è l’idea di attribuire a degli ebrei fortemente politicizzati un atteggiamento che risente di influenze ellenistiche, quelle che il cristianesimo subirà successivamente ad opera della teologia paolina (benché lo stesso fariseismo tendesse a credere nell’idea di resurrezione dei corpi, in polemica col materialismo sadduceo). E questo senza considerare che anche nel mondo di cultura non ebraica, quando si parlava di morte e resurrezione, si dava per scontato che si trattasse di una finzione letteraria, di una elaborazione mitologica, in cui appunto “si fingeva” di credere.

Nel mondo pagano si credeva nella “resurrezione” di figure che potevano essere paragonate agli dèi o erano esse stesse delle divinità, ma assai difficilmente si sarebbe presa questa cosa come storicamente attendibile. Nessuno si sarebbe messo a fare delle ricerche per dimostrarne la fondatezza. Paolo, all’Areopago, venne canzonato quando cercò di sostenere che Gesù Cristo era davvero risorto.

Dunque la tesi di Reimarus, relativa al trafugamento del corpo di Gesù, è un controsenso, proprio perché non tiene conto che nessun seguace del movimento nazareno si sarebbe fatto martirizzare per una cosa che avrebbe potuto tranquillamente essere considerata mitologica. Nessuno s’è mai fatto uccidere sulla base dell’idea che i racconti di Omero rispecchiavano assolutamente la realtà.

Attribuire – come fa Reimarus – a un intero movimento come quello nazareno (caratterizzato in maniera politicamente eversiva) la convinzione che Gesù era risorto, senza che nessuno sollevasse alcuna perplessità, alcuna obiezione, comporta inevitabilmente il rischio d’apparire antisemiti. Pur essendo l’Antico Testamento infarcito di racconti assolutamente leggendari, erano piuttosto gli ebrei ad accusare i pagani di credere nelle favole, la prima delle quali, al tempo di Gesù, era la divinizzazione degli imperatori.

Con ciò ovviamente non si vuole affatto sostenere che i racconti di riapparizione del Cristo scomparso siano veri; anzi, essi sono stati un tentativo poetico, molto ingenuo, di opporsi alla inevitabile contestazione dei nemici del protocristianesimo (che pur aveva molti elementi risalenti al giudaismo), secondo i quali erano stati gli stessi apostoli a nascondere il suo corpo per farlo credere ancora vivo (o intenzionato a ritornare in modo, questa volta, “glorioso”). Già l’evangelista Matteo aveva affrontato una questione del genere (27,62 ss.), pensando di risolverla mettendo delle guardie giudaiche davanti alla porta del sepolcro.

Una qualunque “ricomparsa” di un Cristo redivivo avrebbe violato, ipso facto, la libertà di coscienza degli appartenenti al movimento nazareno, in quanto, imponendo d’imperio la verità delle cose, avrebbe negato il diritto a non credere.

L’unica “prova” che gli apostoli avevano della misteriosa scomparsa di Gesù dalla tomba, era la sindone, che però non poteva “dimostrare” alcunché: ecco perché quando Pietro inventò la tesi del ridestamento miracoloso, decise di non avvalersi di quel reperto.

L’idea di “resurrezione” venne in mente a un apostolo proveniente dalla Galilea, ch’era una regione palestinese più influenzata dall’ellenismo di quanto non lo fosse la Giudea. Ad essa probabilmente si opposero tutti gli altri membri del Collegio apostolico, che infatti negli Atti degli apostoli scomparvero molto presto (tant’è che Luca avrebbe fatto meglio a intitolarli “Atti di Pietro e Paolo”). Poi l’idea di Pietro venne portata alle sue estreme conseguenze ellenistiche da Paolo di Tarso, il vero fondatore del cristianesimo.

Ora, premesso questo, che cosa è necessario fare, almeno in via preliminare, per avvicinarsi il più possibile alla verità sulle caratteristiche del Cristo?

La prima cosa da fare è quella di avere un atteggiamento sospettoso, guardingo, soprattutto nei confronti di tutto ciò che induce a credere in qualcosa di mistico o di sovrannaturale o di sovrumano. Certo, un esegeta può arrivare a dire che se dai vangeli si tolgono queste cose, resta ben poco. Tuttavia è proprio qui che s’impone la seconda cosa: saper andare al di là dell’apparenza, nella consapevolezza che raramente ciò che appare coincide con la verità delle cose, pur essendo l’esegeta in presenza di cose realmente accadute.

Delle due, infatti, l’una: o si rinuncia del tutto a interpretare delle fonti tendenziose e ci si limita a svolgere il ruolo di “storico del cristianesimo” o della chiesa (come p.es. fece Ambrogio Donini), oppure ci si sforza di supporre o d’immaginare qualcosa di “umano”, soggetto a censura o falsificazione o mistificazione, a motivo di una certa interpretazione “teologica”, ovvero “mitologica” di fatti accaduti realmente.

Nel caso di Gesù bisogna partire da due presupposti fondamentali e, sulla base di questi, rileggersi le fonti tendenziose del N.T.

Il primo è quello che anche certa esegesi confessionale (soprattutto protestantica o cattolico-sudamericana) ha intravisto: la predicazione gesuana non aveva solo contenuti eversivi contro le autorità giudaiche connesse alla gestione del Tempio, e colluse con Roma, ma doveva avere anche dei contenuti politici contro l’occupazione romana, per cui la crocifissione non può essere considerata un errore giudiziario o il frutto di una debolezza politica di Pilato o di un raggiro ben orchestrato del pontefice Caifa, bensì una scelta consapevole del potere romano in carica, eventualmente di concerto con la volontà giustizialista della casta sacerdotale.

Il secondo presupposto è non meno radicale, almeno sul piano ermeneutico: Gesù Cristo era ateo, per cui, se anche voleva compiere un’insurrezione nazionale, dai nemici interni ed esterni, non aveva in mente di realizzare alcun “regno di dio”.

Naturalmente un qualunque esegeta può sostenere che una tale rappresentazione della figura di Gesù non è che una proiezione della stessa concezione di vita della persona che l’ha formulata. Ma da una tale critica non ci si può far mettere in crisi, poiché l’elemento soggettivo, nell’elaborazione di determinate tesi interpretative, va dato per scontato. Qualunque “comprensione” parte sempre da una “pre-comprensione”. Si legga Gadamer per convincersene.

Gli stessi vangeli vengono definiti “tendenziosi” proprio perché i redattori avevano come obiettivo principale quello di sostenere la “divinità” del Cristo (che è la cosa meno dimostrabile di questo mondo), spoliticizzandolo al massimo.

L’obiettività di un’argomentazione dipende dall’argomentazione stessa, non da qualche autorità dogmatica. Solo il tempo potrà dire quale tesi interpretativa risulta più obiettiva di altre.

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