Debellare un virus mortale

Quando si parla di “comunismo superiore” – come fa p.es. la rivista “n+1″ nei numeri 27 e 28/2010), sarebbe meglio rinunciare all’idea che la “superiorità”, rispetto al “comunismo primitivo”, stia nella nostra scienza e tecnica.

Quando si affermerà il futuro comunismo, non avrà nulla dell’attuale sistema capitalistico, proprio perché di questo sistema non vi è nulla di umano e di naturale. La “superiorità” sarà solo a livello di coscienza, in quanto gli uomini saranno del tutto consapevoli dei limiti delle civiltà antagonistiche precedenti.

Quanto alle forme, esse non saranno molto diverse da quelle del comunismo primitivo, proprio perché solo quest’ultimo ha saputo rispettare integralmente la natura.

Perché una società possa dirsi davvero democratica, occorre che la sua scomparsa non lasci alcuna traccia a livello ambientale. L’uomo è ospite della natura, non è il suo padrone, non può fare quello che vuole in casa altrui. Meno fa e più rispetta le regole dell’ospitalità.

I doni che la natura offre all’uomo non devono farci pensare che siano dovuti. Sono doni offerti gratuitamente: si tratta soltanto di gestirli con parsimonia e oculatezza.

La natura non è un magazzino di risorse pienamente disponibili in forme illimitate, la cui porta può essere aperta e chiusa a nostra discrezione. La natura non è un oggetto di cui si può fare quel che si vuole. E’ un organismo vivente, che produce esseri viventi, tra cui noi stessi.

L’unica differenza tra gli esseri viventi è che l’uomo è in grado di influire così tanto sui processi naturali da rendere impossibile la loro riproduzione. Non c’è nessun animale e neppure alcun fenomeno naturale (glaciazione, eruzione vulcanica, terremoto…) che abbia la capacità di questa irreversibilità.

L’uomo delle civiltà artificiali è un virus che distrugge il sistema, è l’unico elemento patogeno che alla fine arriva a distruggere persino se stesso. Non è solo un parassita che sfrutta risorse altrui, come può essere una zecca o un tafano, ma è come un’anofele, che mentre succhia sangue, uccide di malaria. Quando ha finito di uccidere tutti in un determinato luogo, si sposta in un altro, nella convinzione che le risorse siano infinite.

Un mostro di questo genere non può essere fermato con le buone parole, anche se possiamo usare lo strumento del linguaggio per ingannarlo. Occorre la violenza organizzata dei sopravvissuti.

La resistenza armata deve essere collettiva, perché solo in questa maniera si potrà rinunciare alla violenza quando l’obiettivo sarà stato raggiunto.

Bisogna creare le condizioni – e questo è ancora più difficile che debellare il virus – perché, nel corso della lotta armata, non nascano pretesti per inoculare nuovi virus nella popolazione. Che è appunto quel che venne fatto nel passaggio dal leninismo allo stalinismo.

Per cortesia, non offendiamo le vajasse.

La miseria del berlusconismo e dell’Italia che l’ha partorito e che ne è nata è ben rappresentato dallo scontro tra le parlamentari Mara Carfagna e Alessandra Mussolini. La prima ha voluto offendere la seconda chiamandola “vajassa”, che in napoletano pare significhi “donna dei quartieri bassi”, cioè in pratica popolana, e la seconda s’è offesa perché è stata, appunto; chiamata “donna dei quartieri bassi”, ovvero popolana. Abbiamo cioè due donne, entrambe assise in parlamento ed entrambe convinte di veicola “valori”, anche se non si è mai capito quali se non quelli trasportati dai “portavalori”, che usano come insulto un epiteto esprimente una condizione femminile non fortunata, quella della popolana, o donna del popolo,  e che si sentono offese se si sentono associare a una tale condizione femminile di donna del popolo. Le vajasse napoletane oltre che per la solita “monnezza” dovrebbero scendere in strada e protestare contro questa nuova monnezza berluscona. Sono infatti loro, le vajasse, a doversi offendere per l’uso offensivo del loro nome da parte delle due grandi dame (?) del parlamento ridotto come è ridotto e dei “quartieri alti”.
Avrei potuto capire il litigio se la signora Carfagna avesse dato alla signora Mussolini della “troja”, con tutto il rispetto dovuto alle professioniste del sesso estranee ai giri del bunga bunga e alle promozioni politico parlamentari, ma usare e interpretare come offese e insulti sostantivi o aggettivi tipo “donna dei quartieri bassi”, popolana, è davvero da miserabili, da donne di basso conio. Basso il conio, eh, non il quartiere. Insomma, donne di bassa qualità e scarso valore benché ben piazzatesi con accorgimenti vari nei “quartieri alti”. Scarso valore umano, culturale e politico, intendo, non mi riferisco a qualità di bunga bunga o simili.

Insomma, siamo allo sconcio. Insultarsi tra donne intendendo come offensiva essere popolane, cioè la condizione femminile sfortunata o comunque non favorita dalla sorte e dagli uomini che possono. Bell’esempio, tra l’altro, di femminilità, se non di femminismo. E sorvolo su tutto il resto di questa misera pantomima andata in scena purtroppo nel parlamento italiano. E poi c’è chi parla di “quote rosa” battendo magari i pugni o le scarpe, a spillo, sul tavolo.