Di quale degrado stiamo parlando?

Che dichiarazioni contraddittorie quelle di mons. Negri, vescovo di San Marino-Montefeltro, rilasciate in un’intervista a Maria Antonietta Calabrò su fattisentire.org.

Se la prende duramente con “Famiglia cristiana”, la cui recente denuncia del degrado politico del paese e soprattutto della corruzione della classe politica dirigente, viene qualificata come “giustizialista”. Come se la stampa cattolica, quando al potere è la destra, potesse esprimere giudizi solo in positivo, senza alcuna criticità.

Se si è permessa di criticare, l’ha fatto – secondo il prelato – “solo per vendere qualche copia in più” (sic!). Il problema infatti non sta nella denuncia che non costruisce, ma “nell’educare a una cultura diversa”, dice serafico il vescovo.

A quale cultura però lo sappiamo, quella della fede cattolica, che deve permeare di sé anche la politica. Dunque il degrado esiste – secondo questi illuminati cattolici – perché la politica si comporta in maniera a-religiosa: per superarlo ci vuole la politica della fede!

Sembra un discorso di altri tempi, un discorso del più retrivo fondamentalismo, quale si può constatare in un movimento come Comunione e liberazione, cui il prelato appartiene.

Invece è un discorso attualissimo, proprio perché si vuol prendere come esempio di come sia possibile superare il degrado, un fatto recente, accaduto in Afghanistan, stravolgendone del tutto il significato.

Alla Calabrò, che gli ricordava il cardinale Bagnasco, quando aveva indicato l’esempio di San Lorenzo martire quale via da seguire per risolvere il degrado attuale, mons. Negri aggiunge un altro esempio che ha a dir poco dell’incredibile: “Sì, i martiri esistono anche oggi, come gli otto medici uccisi in Afghanistan dai talebani, messi a morte non perché curavano i poveri ma perché erano cristiani. Sono i martiri che dimostrano che una vita positiva è possibile”.

Dunque i medici sono stati uccisi perché “cristiani”, cioè perché erano andati a esercitare la loro professione in quanto credenti, al seguito delle truppe dell’Onu.

Anche prescindendo dalle dichiarazioni dei talebani, secondo cui costoro erano in realtà delle spie al servizio degli americani e che i “missionari cristiani” facevano proselitismo, avendo “Bibbie in dari da distribuire alla gente”, qui si ha a che fare col peggiore irrazionalismo.

Non solo il prelato (come d’altra parte il suo collega Bagnasco e aggiungiamoci anche mons. Bertone) non intravede neppure lontanamente il nesso imperialistico tra “intervento armato” e “assistenza umanitaria”, non solo continua a ribadire che il cristianesimo è migliore dell’islam, che l’occidente è migliore dell’oriente, che l’Europa e gli Stati Uniti sono migliori dell’Asia, ma, quel che è peggio, fa del martirio una forma di garanzia assoluta di autenticità della fede (allo stesso modo, peraltro, dei fondamentalisti islamici!).

Ma come! Mons. Negri non aveva parlato prima di “educazione a una cultura diversa”? quindi di un processo lungo e faticoso? E ora se ne esce con questa infelice esaltazione del gesto estremo? Come se quei medici avessero voluto farsi ammazzare per tenere alta la fede che li ispirava!

Ma siamo davvero sicuri che da parte di questa chiesa possa venire qualche luce per indicarci in quale direzione dobbiamo andare per risolvere il problema del degrado della politica? Siamo davvero sicuri che il degrado sia il frutto della mancanza di religione e non invece di qualcos’altro? Questo appellarsi al martirio à tous prix non è già esso stesso una forma di “degrado”?

A una condizione non firmerò il Testamento biologico

A volte mi chiedo cosa farei se diventassi tetraplegico a causa di un incidente stradale. Ammesso e non concesso che mi lascerebbero “fare” qualcosa. Cioè se volessi rifiutare di essere assistito, rispetterebbero la mia volontà? Oppure, vedendomi in un momento di grave sconforto, in cui una qualunque valutazione della realtà non può essere obiettiva, i medici o i parenti farebbero meglio a non ascoltare la mia richiesta?

Mi chiedo insomma che senso possa avere fare una dichiarazione preventiva, chiamata “testamento biologico”, su quello che dovrebbero farmi o non farmi, nel caso in cui diventassi tetraplegico o entrassi in coma vegetativo. Che senso ha fare una dichiarazione mentre si è sani, da utilizzare nell’eventualità che si sia gravemente ammalati? Peraltro se uno avesse già fatto una dichiarazione a favore della donazione dei propri organi, quale delle due dichiarazioni – visto che potrebbero essere tra loro in contraddizione – dovrebbe prevalere?

E se proprio nell’esperienza della malattia io potessi scoprire nuovi valori umani, nuovi criteri di comportamento? Perché impedirmelo? Se nel testamento biologico io dichiarassi che non voglio, in determinati casi, alcuna assistenza medica, come farei a sapere se proprio in virtù di quella assistenza potrei trovare un qualche giovamento morale?

Qual è il limite oltre il quale la difesa del diritto alla vita può trasformarsi in una violazione della libertà di coscienza? Può un medico impormi la sua assistenza in nome del diritto alla vita (che in tal caso diverrebbe un mio dovere irrinunciabile), senza tener conto che con la mia libertà di coscienza avrei il diritto di rinunciarvi?

Se io fossi in coma, una qualunque assistenza medica non potrebbe tener conto in alcun modo della mia volontà, e il giorno in cui mi risvegliassi potrei sì ringraziare il medico, ma potrei anche – naturalmente con la stessa cortesia – maledirlo. Perché una differenza così abissale di reazioni psicologiche? Il motivo è semplice: se il medico mi fa tornare come prima (o quasi come prima), probabilmente non avrei motivo di maledirlo, specie se ho ancora molti anni da vivere. Il problema invece sussiste quando ci si risveglia che non si è neppure in grado di mangiare da soli, si deve reimparare a parlare, si ha una memoria quasi azzerata, insomma si è come neonati in procinto di ricominciare da capo.

Per quale ragione uno dovrebbe essere obbligato a fare questo? Solo perché lo vogliono i medici, gli amici e i parenti? C’è un limite di tempo oltre il quale un qualunque risveglio dal coma ci farebbe tornare a vivere in condizioni che per un adulto sarebbero sub-umane? Se i medici non sanno definire, con ragionevole sicurezza, questo limite, se non possono sapere, se non molto ipoteticamente, le conseguenze effettive di alcun coma, perché rischiare una soluzione che sarebbe peggiore di un decesso naturale, senza assistenza farmacologica attraverso le moderne tecnologie?

Ha senso parlare – come fanno i cattolici – di un diritto “assoluto” alla vita? La vita è forse un valore in sé, a prescindere dai suoi valori spirituali? Se una vergine si suicidasse per non essere violentata, la chiesa la metterebbe all’inferno? Che cos’è la vita? Essere alimentati da un sondino nasogastrico, senza poter far nulla? Il corpo di cui sono rivestito appartiene non a me ma allo Stato “padre e padrone” o a un dio in cui non credo?

Io dunque penso che in caso di perdita di coscienza, in cui il soggetto non sia in grado di esprimere in alcun modo la propria volontà, i medici, dopo aver lasciato passare un tempo utile per poter ipotizzare un ritorno sufficientemente dignitoso alle proprie funzioni vitali, dovrebbero staccare la spina, cioè dovrebbero avere il dovere di farlo.

Supponiamo invece il caso in cui io non sia in coma ma vigile, cosciente, benché enormemente paralizzato, come appunto i tetraplegici: un caso sicuramente estremo, ma non infrequente e sicuramente non paragonabile a quelli che perdono l’uso delle gambe o della vista.

In questo caso il medico deve per forza interagire con me. E che medico sarebbe se non rispettasse la mia volontà? Se io non voglio essere assistito e sono in grado di comunicarlo, foss’anche solo col battito delle palpebre, lui non dovrebbe approfittare della mia condizione per non esaudirmi.

Se mia madre mi dicesse di mettere le sue ceneri in un tombino e io invece le mettessi in un altro, non avrei violato la sua volontà, proprio perché sarebbe già morta: al massimo sarei venuto meno a una promessa, a un impegno. Ma se io dico che non voglio vivere in una condizione da tetraplegico e il medico invece mi costringe a farlo con le sue macchine, lui mi sta sicuramente facendo violenza.

E tuttavia voglio venirgli incontro: come lui, in quanto medico, ha bisogno di un certo tempo per ipotizzare un’uscita dal coma in condizioni sufficientemente accettabili, anch’io mi voglio dare un certo tempo, in condizioni da tetraplegico, prima di chiedergli di staccare la spina. Cioè se restassi cosciente in condizioni pietose, vorrei potermi sentire libero di chiedere al medico di staccare la spina e di riattaccarla, in caso di ripensamento, subito dopo.

Posso continuare a pretendere questa forma di libertà o devo considerarmi un semplice “caso clinico”, incapace di intendere e di volere come un comune mortale, su cui è possibile esercitare qualunque terapia?

Io vorrei dare a me stesso un po’ di tempo per vedere cosa è possibile fare in una condizione di sopravvivenza che di umano sembra non avere più nulla. Vorrei poter mettere liberamente alla prova me stesso, la mia capacità di sopportazione del dolore, la mia disponibilità ad apprendere nuove forme comunicative.

Se un dottore mi garantisse questa possibilità, io non firmerei alcun testamento biologico. Piuttosto dovrebbe essere lui a dover firmare una dichiarazione in cui s’impegna a non usare quello che per lui è un diritto-dovere alla vita come occasione per violare la mia libertà di coscienza.

Il fatto è purtroppo che il disegno di legge approvato dal Senato il 26 marzo 2009 è lontanissimo da questa preoccupazione (infatti definisce la vita umana un “diritto indisponibile” anche nella fase terminale dell’esistenza), e se passa anche alla Camera, così com’è, la firma dovrò metterla subito dopo sulla richiesta di referendum abrogativo, anche per impedire che il divieto a esercitare il diritto all’autodeterminazione non finisca coll’istigare al suicidio.

La Turchia ieri e oggi

Quando, nel XV secolo, Costantinopoli era in procinto di cadere in mano turca, gli intellettuali bizantini non poterono non arrivare a pensare che se la cultura islamica era sicuramente alcuni passi indietro rispetto alla loro, aveva almeno il pregio di non essere ipocrita come quella cattolico-romana, che dietro la fede cristiana ambiva a mire egemoniche sullo stesso impero bizantino, di religione non meno cristiana.

La cultura islamica era una cultura semplice, basata sì sull’uso della forza, ma solo per affermare l’appartenenza a tribù, etnie, stirpi, clan e famiglie, che sicuramente erano per loro più importanti di qualunque “impero” e tanto più del concetto di “stato”. Era una cultura che non avrebbe tollerato monarchi assoluti e divinizzati. E soprattutto non era una cultura borghese ma rurale, proveniente da allevatori nomadici, che durante le conquiste islamiche s’erano trasformati in agricoltori, artigiani e commercianti, facendo fortuna con le spezie.

I turchi ottomani erano più “laici” degli arabi, ma anche più militaristi, più burocrati, più feudali nei rapporti agrari, più esosi sul piano fiscale. Nella gestione dei loro patrimoni assomigliavano molto agli spagnoli colonialisti e controriformisti.

Nonostante siano stati molto repressivi nella storia (basta guardare lo sterminio degli armeni e dei kurdi, ma anche delle popolazioni di rito bizantino e persino di quelle arabe, pur professando con quest’ultime una medesima fede islamica), i turchi hanno impedito uno svolgimento in senso capitalistico della ex società bizantina. Ciò determinerà una grande debolezza dell’impero ottomano rispetto alle nazioni europee che nel XIX secolo cominceranno a imporsi sulla scena internazionale, al punto che crollerà come impero durante la prima guerra mondiale.

Ma la debolezza dipese anzitutto dal fatto che gli emiri e i sultani turchi non permisero mai alcuna riforma agraria. Per mezzo millennio (dopo il 1453) il loro impero restò un’autocrazia dispotica, i cui rapporti feudali impedivano qualunque forma di democrazia.

La Turchia moderna, cioè “borghese”, nasce solo con Ataturk, nel 1923, il quale, temendo che la fine del feudalesimo comportasse lo smembramento di quel che era rimasto dell’ex impero ottomano, provvide a sterminare gli armeni e a isolare completamente i kurdi sulle montagne. Si comportò sul piano etnico in maniera più dispotica che nei secoli precedenti, anche se il suo Stato fu in un certo senso considerato “eretico” dal mondo musulmano, e non solo certamente perché sostituì l’alfabeto arabo con quello latino, ma anche e soprattutto perché non voleva i mullah al governo.

Pur di sopravvivere in mezzo ai colossi che volevano disintegrarla (Francia e Inghilterra in primis: l’Italia si limitò a sottrarle l’odierna Libia e alcune isole del Dodecaneso), la Turchia fu disposta ad allearsi coi tedeschi: lo fece nella prima guerra mondiale e lo rifece nella seconda, pagando tutti i prezzi di questa alleanza perdente, e facendoli pagare agli stessi tedeschi e alle loro teorie di razza pura e superiore. Oggi i quasi tre milioni di turchi sono la minoranza più forte in Germania e, per quanto laici siano nei rapporti tra chiesa e stato, restano pur sempre di confessione islamica, almeno in grande maggioranza. Nel mondo islamico la religione non può essere un fatto privato, anche quando – come in questo caso – lo Stato si dichiara “laico”, proprio perché la fede è una sorta di collante socioculturale.

Il fatto che oggi l’Europa abbia al suo interno una nazione di quasi 80 milioni di abitanti senza radici cristiane (per non parlare dei molti milioni di immigrati islamici), lo si deve, originariamente, alla volontà di Francia e Inghilterra d’impedire alla Russia zarista di sferrare un colpo demolitore alla Turchia. A partire dagli anni Venti dell’Ottocento la Russia aveva cominciato ad aiutare i greci e tutte le popolazioni balcaniche a liberarsi dell’oppressione ottomana.

L’obiettivo avrebbe potuto realizzarsi abbastanza facilmente se non l’avessero impedito sia gli austriaci, che col loro vetusto impero volevano arrivare sino al Mare Egeo (ma si fermarono ad amministrare la Bosnia e l’Erzegovina), sia, e soprattutto, gli anglo-francesi, che non volevano assolutamente permettere alla Russia né di minacciare i loro interessi imperiali nel Vicino Oriente, né di entrare con la sua flotta da guerra nel Mediterraneo; e, per impedirglielo, fecero scoppiare la guerra di Crimea (1853-56), cui partecipò anche il nostro Regno Sabaudo, e che fu disastrosa per lo zar, benché un ventennio dopo (1877-78) i russi, da soli, poterono approfittare della guerra franco-prussiana per obbligare i turchi a dare l’indipendenza a tutti gli Stati balcanici.

Oggi il ruolo della Turchia è quello di essere un avamposto americano nel Vicino Oriente, in grado di controllare i paesi arabi limitrofi, la Russia e parte del Mediterraneo. Ancora oggi, nei dibatti politici e culturali interni, non vogliono sentir parlare né di kurdi né di armeni, né di questione cipriota (l’isola che hanno occupato per metà nel 1974), per quanto alcuni timidi passi siano stati fatti.

Può entrare in Europa un paese che non permette di dire una parola convincente al proprio interno su argomenti del genere? No, non può. Ci farebbe comodo avere nell’Unione Europea un paese che smetterebbe di stare supinamente dalla parte degli americani? Sì, potrebbe farci comodo. Dobbiamo forse temere la presenza di tutti questi islamici turchi in Europa? Nessun timore: i turchi sono i primi a non volere alcuna forma di integralismo politico-religioso, anche se non ammetterebbero mai che questa loro forma di laicità gli deriva proprio dalla concezione diarchica del potere che avevano i bizantini.

Ormai è ufficiale: il governo Berlusconi si regge sugli interessi privati del premier e sulla complicità di chi (non solo) politicamente ci guadagna

Ormai dunque è ufficiale, lo ha detto chiaro e tondo una fetta del suo partito di governo: il Chiavaliere Papino il Breve, al secolo Silvio Berlusconi, sta al governo solo per sfuggire alla Giustizia. E il governo si regge su ricatti e “do ut des” nei confronti dell’Unto d’Arcore che fanno leva sulle sua magagne pregresse, quelle per le quali sta sfasciando il Paese pur di non andare sotto processo. I parlamentari che hanno scelto di seguire Gianfranco Fini nella rottura con il Chiavaliere – gente che certo non è di sinistra né ci si è improvvisamente convertita – hanno ammesso chiaro e tondo nelle utlime ore don Silvio pratica “il ricatto e il killeraggio”. Ovviamente il killeraggio è per chi non essendo ricattabile non ama calare le mutande come una qualsiasi ragazzotta, ansiosa di andare in parlamento o in tv, in un giornale o in una particina in qualche film. L’onorevole Italo Bocchino – e mi scuso per l’ironia involontaria di queste tre parole, comunque in tema con la prassi corrente – ha fatto sapere all’onorevole Niccolò Ghedini, l’arcigno maggiordomo del contenzioso giudiziario del suo padrone politico e cliente di bottega, che è pronto “l’elenco delle società off shore riconducibili all’impero finanziario del Chiavaliere”. In aggiunta, è stato ritirato fuori il noto sporco affare della vendita della reggia di Arcore, l’ex convento bendettino di 147 stanze,  un enorme parco di un milione di metri quardi, una biblioteca ricca di preziosi libri antichi e una pinacoteca con quadri preziosi, per un totale di 3.500 metri quadri di appartamento coperto dove il grande Papino il Breve si accontenta di abitare quando è in zona. Continua a leggere

Eutanasia e Testamento biologico

Nessuna discussione sul testamento biologico può prescindere da una discussione sull’eutanasia, proprio perché in entrambi i casi si chiede di evitare l’accanimento terapeutico e quindi in entrambi i casi chi è contrario parla di “omicidio” (così come ne parla quando c’è di mezzo l’aborto).

Ma, mentre sull’espressione “accanimento terapeutico” ci si può confrontare abbastanza serenamente, cercando di chiarirsi, tecnicamente, quando è lecito cominciare a parlarne e quando no, viceversa sulla parola “eutanasia” (“buona morte”, alla lettera) – condizionati come siamo ancora dall’uso mistificatorio che ne fece il nazismo – le opinioni sembrano convergere verso un assunto abbastanza condiviso: legalizzare l’eutanasia è troppo rischioso, potrebbe portare a conseguenze eticamente imprevedibili.

Ciò su cui ci si scontra è la difficoltà di poter stabilire fin dove può arrivare la libera volontà in un individuo consapevole di essere affetto da una malattia molto dolorosa e/o incurabile (si pensi ai casi di Piergiorgio Welby o di Giovanni Nuvoli). Tanto più ci si chiede come sia possibile stabilire tale volontà in un soggetto giovane clinicamente morto ma tenuto in vita vegetativa da una strumentazione specifica, nell’ovvia speranza che possa risvegliarsi e concludere il suo ciclo vitale in maniera naturale.

Partiamo da quest’ultima ipotesi, che ha trovato in un caso molto famoso, quello di Eluana Englaro, materia sufficiente per scatenare durissime polemiche, al punto che il parlamento non è ancora riuscito a varare una legge sul testamento biologico (l’unico testo a disposizione è quello approvato dal Senato il 26 marzo 2009).

Intorno a questo caso i dibattiti si sono concentrati su due argomenti: uno tecnico (fino a che punto l’alimentazione forzata è un atto dovuto e non una terapia arbitraria?) e l’altro etico (ha senso parlare di violazione del diritto alla vita in un soggetto incapace non solo di intendere e volere, ma anche di percepire e sentire?).

Ad un certo punto ci si chiese se non fosse necessario che ogni persona maggiorenne stabilisse, preventivamente, per iscritto, le proprie ultime disposizioni in caso di improvvisa situazione comatosa, anche per sollevare il personale medico dagli inevitabili dubbi amletici.

Tuttavia anche in questo caso la domanda restava in tutta la sua pregnanza: davvero si viola la libertà di coscienza quando si cerca di tenere in vita una persona giovane che pur aveva preventivamente dichiarato di fare nulla in caso di situazioni disperate? E se quella persona si risvegliasse e fosse contenta di averlo fatto?

Ci può essere una soluzione convincente a questo problema? Fino a che punto il proprio diritto alla vita può diventare un dovere altrui senza violare la propria libertà di coscienza? Ci si può sostituire alla coscienza di un individuo caduto improvvisamente in coma, decidendo se farlo morire o se farlo vivere in una condizione vegetativa?

E se il soggetto, una volta risvegliatosi, non fosse affatto contento della nostra iniziativa terapica? Se si ritrovasse in una condizione di estrema difficoltà, in cui dovesse p.es. imparare di nuovo a parlare o a mangiare o a fare movimenti coordinati, sarebbe davvero contento di ricominciare da capo?

Qual è dunque il limite oltre il quale una legittima assistenza medica, volta a tutelare il diritto alla vita, può trasformarsi in un atto arbitrario che viola la libertà di coscienza? Il limite può essere deciso solo dal soggetto e il soggetto può stabilirlo solo se viene informato di tutte le possibili conseguenze della sua decisione. Quindi ciò presuppone ch’egli sia cosciente, poiché solo se è cosciente può arrivare a capire che anche un’esperienza di dolore può essere significativa.

Nessun diritto alla vita può diventare un obbligo a vivere, né può sostituirsi a una libera scelta di un’esperienza di dolore. Quindi se da un lato è giusto rendersi conto che anche la scelta di vivere un’esperienza dolorosa può essere un atto umano, dall’altro bisogna convincersi che un’esperienza del genere non può essere imposta.

Dunque in caso di coma, qual è il limite oltre il quale un eventuale risveglio non garantirebbe il ripristino delle precedenti funzioni vitali nelle condizioni in cui erano? Esiste un limite ragionevole di tempo? La scienza è in grado di stabilirlo? Se il rischio è quello che un eventuale risveglio non è assolutamente in grado di garantire il recupero integrale delle proprie facoltà (o almeno un loro recupero significativo, che non pregiudichi la dignità della vita), per quale ragione la scienza deve avere più potere della coscienza?

Per quale motivo deve essere la scienza a decidere quando uno in coscienza preferirebbe morire piuttosto che trovarsi in una condizione assolutamente diversa da quella che aveva quand’era sano? Questo potere della scienza non rischia di trasformarsi in un potere politico e amministrativo sul corpo di un paziente?

Altri testi si trovano qui http://www.homolaicus.com/uomo-donna/eutanasia.htm

E’ morto Cossiga. Schiacciato anche dal peso di avere accettato la decisione dell’inviato Usa, Steve Pieczenik, uomo del segretario di Stato Kissinger, di spingere le Brigate Rosse a uccidere Aldo Moro. Che proprio da Kissinger era stato minacciato di “eliminazione” se avesse portato i comunisti a far parte del governo

Volevo scrivere un pezzo dedicato solo al succo del discorso che emerge dall’assalto delle truppe berluscone al presidente della Camera, Gianfranco Fini, e alla sua famiglia. Ma la scomparsa di Francesco Cossiga mi porta a dedicare qualche riga anche a lui.
Sì, certo, Cossiga è stato – come Giulio Andreotti – l’asse portante del lato più oscuro del potere politico in Italia. Per essere chiari: il lato responsabile anche delle stragi come quella del 12 dicembre 1969 a piazza Fontana a Milano. Cossiga ne era talmente cosciente che, oltre ad avere accennato più volte alle proprie responsabilità, ha nominato Andreotti senatore a vita spiegando pubblicamente che questi avrebbe dovuto essergliene grato perché una tale nomina lo metteva per sempre al riparo della legge e dei magistrati. Cossiga ha cioè ammesso di avere procurato ad Andreotti, perché ne aveva evidentemente bisogno, ciò che il Chiavaliere Mascarato Pipino il Breve sta tentando di ottenere con testardaggine da anni, anche a costo di sfasciare man mano il parlamento, le istituzioni e le fondamenta del Paese intero.
In particolare, Cossiga è corresponsabile della morte di Aldo Moro. Corresponsabile, si badi bene, e non responsabile: perché la responsabilità è delle Brigate Rosse che lo hanno prima rapito e poi materialmente ucciso. Corresponsabile della sua uccisione, forse anche del rapimento se è vero che fu lui a negare l’auto corazzata chiesta per Moro dal capo della sua scorta, il maresciallo dei carabinieri Oreste Leonardi.
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Fondamentalismo ed Evoluzionismo

Mi è capitato casualmente di leggere il n. di gennaio 2010 del mensile cattolico di “informazione e formazione apologetica”, “Il Timone” (www.iltimone.org), il cui dossier era dedicato all’evoluzionismo, e devo dire di aver condiviso quasi integralmente le critiche nei confronti di questa teoria cosiddetta “scientifica”. Tuttavia nel complesso il dossier è quanto di più reazionario si possa leggere sui rapporti tra fede e ragione: come si spiega questa contraddizione? Per quale motivo una valida obiezione scientifica può trasformarsi, nelle mani del fondamentalismo religioso, in uno strumento favorevole soltanto al clericalismo politico? Quali sono i criteri per capire il carattere strumentale di un’analisi che in apparenza non vuole essere apologetica? Vediamoli per punti.

  1. Quando il fondamentalismo religioso (in questo caso cattolico, ma il rilievo può valere anche per i geovisti, che sull’argomento dicono le stesse cose) usa argomentazioni di tipo scientifico, confutando altre argomentazioni analoghe, non lo fa per restare nell’ambito della scienza ma per dimostrare che l’unica verità possibile è di tipo religioso. Cioè usa la scienza per sostenere una verità non scientifica, che tale è in quanto i suoi presupposti sono indimostrabili (p.es. l’esistenza di un dio assoluto o la necessità di una specifica chiesa).
  2. Questo modo di procedere non solo è incompatibile con qualunque criterio di gestione del sapere scientifico, ma è, in un certo senso, contraddittorio con la stessa religione in generale, poiché questa, basandosi sulla fede, non dovrebbe servirsi di argomentazioni scientifiche per dimostrare la fondatezza dei propri assunti.
  3. La fede può aver ragione sulla scienza quando i suoi principi producono effetti migliori di quelli prodotti dalla scienza (p.es. perché più umani o più democratici). Un qualunque dialogo tra fede e ragione non può vertere su argomentazioni di tipo scientifico, ma, al massimo, sulle conseguenze etiche di tali argomentazioni.
  4. Se il fondamentalismo religioso vuole escludere qualunque valore al concetto di “scienza”, per sostenere che, in ultima istanza, tutto è “opinione”, dovrebbe però nel contempo rinunciare a tutte le proprie “verità di fede” (che, come tali, sono indiscutibili), ai propri dogmi, né dovrebbe credere in concetti come “infallibilità” (che i cattolici applicano al pontefice) o “indefettibilità” della propria chiesa.
  5. Ogniqualvolta la fede religiosa vuole usare una scienza “vera” contro una scienza “falsa”, non fa aumentare ma diminuire la propria verità, proprio perché un tale uso della scienza è meramente strumentale all’affermazione non di un “sapere scientifico” ma di un “potere politico”, quello clericale.
  6. Se la chiesa avesse basato la verità dei propri contenuti su fatti razionalmente dimostrabili, non avrebbe chiesto la fede per credervi ma la ragione. Nessun credente può sostenere la verità scientifica dei propri postulati religiosi e il fatto di pretendere che siano comunque più “logici” di altri assunti di tipo scientifico, non rende la fede più vera.
  7. Una chiesa che si serve della scienza per contestare gli assunti di un’altra scienza che non le piace (perché p.es. non parte da presupposti religiosi), è una chiesa non meno atea o razionalista della scienza che vuole combattere. In questa chiesa i presupposti religiosi risultano infatti del tutto astratti, formali, vuoti di contenuto, usati non solo per fare un discorso che non può oggettivamente essere scientifico, ma che anche sul piano soggettivo non ha nulla di edificante (in senso religioso).
  8. Quando si vuole sostenere che l’evoluzionismo non è scientifico come pretende, non si può dare per scontato, nelle proprie argomentazioni, che dio esiste e che la sua esistenza è la “prova ultima” dell’inconsistenza di qualunque teoria scientifica non religiosa. Se l’evoluzionismo è solo un’opinione infondata, al centro dell’universo resta comunque l’uomo. L’umano è l’unica realtà di cui possiamo fare esperienza, anche per confutare verità che credevamo acquisite. L’inesistenza di dio non rende impossibile l’esperienza dell’umano.
  9. Vi sono scienziati credenti (p.es. Zichichi, intervistato nel dossier) che sostengono che, siccome tutto l’universo è basato su leggi necessarie, su una logica stringente, allora deve per forza esserci da qualche parte un’intelligenza superiore, che loro chiamano “dio”. E quando vedono gli scienziati atei negare la necessità di questa conclusione, dicono che tali scienziati fanno solo una professione di fede (nell’ateismo), non avendo prove concrete per dimostrare alcunché. Zichichi afferma che è molto più “logico” un atto di fede nel “creatore” (cfr Perché io credo in Colui che ha fatto il mondo, 2009, Tropea).
    In pratica Zichichi fa un ragionamento di questo genere, che è tutto meno che scientifico: siccome c’è un effetto di portata colossale (l’essere umano e l’universo che lo contiene), allora ci deve essere una causa equivalente, e questa causa – vista l’incredibile complessità e perfezione dell’effetto – non può essere che “dio”. Cioè proprio nel momento in cui egli dovrebbe dare una risposta scientifica ne dà una mistica.
    Invece di far coincidere la causa con l’effetto o invece di affermare la relatività e la limitatezza delle nostre conoscenze, propone una soluzione precostituita, fatta passare come “logica”.
    Questo modo di ragionare pare essere il frutto di un condizionamento sociale ritenuto inspiegabile. Gli scienziati credenti apologizzano non solo la loro fede ma anche il sistema sociale in cui essa si forma, in quanto sostengono che, siccome gli uomini, pur essendo unici nel cosmo, non riescono a risolvere i loro problemi, ciò è dovuto al fatto che si sono allontanati da dio. Gli uomini sono infelici perché atei, non perché basano la loro vita sulla proprietà privata.
    Singolare inoltre il fatto che uno scienziato credente, quando offre soluzioni di tipo mistico, si senta indotto a compiere anche una scelta di tipo confessionale: Zichichi infatti è dell’avviso che solo la chiesa romana abbia l’interpretazione più esatta del concetto di “dio”, la migliore esperibilità della fede.
  10. Una semplice posizione laica dovrebbe invece limitarsi a sostenere che quando l’essere umano si comporta in maniera non-umana, è sempre l’essere umano quello titolato a trovare una soluzione ai propri problemi. Al massimo si potrebbe sostenere che quando l’uomo è nemico dell’uomo e si comporta quindi in maniera innaturale, è la stessa natura che in qualche maniera gli ricorda i suoi limiti.
    La natura infatti subisce le conseguenze dei conflitti sociali, degli antagonismi tra classi e nazioni, e si modifica, spesso in maniera irreversibile, rendendo invivibile l’ambiente (desertificazioni, mutazioni climatiche, dissesti idrogeologici, avvelenamento del pianeta…).
  11. Evoluzione vuol dire “adattamento progressivo all’ambiente”. Ma per poterlo fare, occorre che questo sia vivibile, altrimenti c’è involuzione, scomparsa progressiva del genere umano, la cui esistenza futura non può essere data per scontata solo perché nell’universo siamo “unici”. Non possiamo cioè dare per scontata la nostra sopravvivenza come specie, a prescindere dalla tipologia dell’ambiente naturale in cui dobbiamo vivere, per quanto l’uomo sia in grado di trasformare in maniera artificiale qualunque ambiente.
    Quello che manca alla cultura occidentale (borghese) è la consapevolezza del limite oltre il quale una trasformazione antropica dell’ambiente non può andare, se lo stesso essere umano vuole tutelarsi. Il rapporto che abbiamo con l’ambiente naturale è così mediato dai nostri mezzi tecnologici che inevitabilmente ci accorgiamo della loro pericolosità solo dopo averli usati.
    Siamo così innaturali che non riusciamo a prevedere l’assurdità di ciò che noi chiamiamo “progresso”. Persino quando cerchiamo un rimedio ai nostri guai, siamo contraddittori. P.es. abbiamo imparato a riciclare la plastica, ma continuiamo a produrla senza pensare a sostituirla o a riutilizzarla fino al suo esaurimento. Abbiamo preferito la plastica al vetro, ma così abbiamo rinunciato al riutilizzo.
    Il problema dello smaltimento dei rifiuti (che comporta sempre un certo inquinamento) ci ha indotti a puntare sul riciclo della plastica. Ma il riciclo presuppone una trasformazione del prodotto, che comporta spese e ulteriore inquinamento. Riutilizzo invece vuol dire che una stessa cosa, che dovrebbe essere fabbricata per durare, viene usata fin quando è possibile.
    Il riutilizzo dovrebbe porre un freno alla pubblicità. La vera pubblicità da seguire dovrebbe essere quella educativa, che insegna come riutilizzare i beni durevoli e come riciclare quelli che non lo sono.
  12. La cultura occidentale ha creato solo un’immensa spazzatura. Con le prime civiltà schiavistiche si sono formati i deserti in seguito alla deforestazione; con la civiltà industriale si formeranno dei deserti superinquinati là dove si ammasseranno i nostri rifiuti.
    E’ il concetto in sé di “evoluzione” che va rimesso in discussione. Se guardiamo i rapporti sociali tra esseri umani e i rapporti tra gli uomini e la natura, dobbiamo dire di essere in presenza di una grande “involuzione”, che non potrà certo essere risolta né affidandosi alla misericordia di dio né ai miraggi della scienza.

Il momento giusto per cambiare

Nei vangeli esistono parabole molto suggestive per indicare i comportamenti da tenere nei casi di transizione politica. P.es. quella delle dieci vergini, cinque delle quali si preoccupano di tenere accesa la lampada della speranza, nell’attesa dello sposo.

Ma esistono anche affermazioni di tipo profetico che i sinottici han voluto attribuire al Cristo, per quanto il loro contenuto non sia in sé anti-rivoluzionario: “Vegliate perché non sapete in quale giorno il messia verrà”(Mt 24,42) e simili.

In tutte le piccole apocalissi evangeliche la necessità di compiere una insurrezione anti-romana viene sostituita col dovere di attendere fiduciosi il giorno del giudizio universale.

Forse l’argomentazione più significativa, in tal senso, è offerta dal vangelo di Giovanni, allorché il Cristo, rivolto ai suoi parenti, che gli chiedevano di esporsi in Giudea, risponde: “Per voi che vivete secondo il principio del tanto peggio tanto meglio, ogni occasione è buona”(Gv 7,6).

Per un essere umano è molto difficile stabilire il momento in cui è possibile che avvenga un cambiamento significativo delle cose, che non vuol dire ovviamente “saper sfruttare l’occasione della propria vita”, ma saper vedere questa occasione come un’opportunità generale, che non riguarda solo una vita individuale, anche perché nelle società basate sui conflitti di classe, sugli antagonismi sociali, spesso le occasioni individuali vengono usate a titolo di rivalsa personale, senza tener conto degli interessi altrui.

Noi misuriamo lo scorrere del tempo sulla base della nostra esperienza, ma per poter avere una percezione obiettiva del tempo, bisognerebbe che l’esperienza fosse la più possibile condivisa. Un’esperienza individuale o familiare o di piccolo gruppo non è di molta utilità per avere il polso della situazione.

Il tempo ha delle pretese che solo un popolo può soddisfare, anche perché i tempi sono sempre incredibilmente lunghi, in grado di andare ben oltre l’esistenza di individui singoli.

Le masse si muovono solo quando convinte che un certo modo di vivere la vita ha concluso il suo tempo. Occorre una percezione collettiva del problema, un sentire comune.

Le masse si muovono quando smettono d’illudersi che un determinato tipo di esistenza possa continuare a essere sopportato. Ma perché sorga questa convinzione occorrono situazioni disperate, di gravissima crisi. Non bastano le contraddizioni, i conflitti, gli antagonismi: ci vuole la disillusione, cioè la convinzione che se non si fa qualcosa di completamente diverso, si perde solo tempo, si rende il problema ancora più irrisolvibile.

Quelli sono i momenti in cui le masse, per prendere decisioni epocali, hanno bisogno di essere guidate da leader intelligenti e coraggiosi, dotati di senso tattico e strategico, capaci di organizzazione politica e persino militare (poiché bisogna sempre tenersi pronti a difendere le conquiste rivoluzionarie), insomma leader all’altezza della situazione, consapevoli del momento cruciale.

E’ così che nascono le svolte epocali. Per questo la storia potrebbe essere studiata solo a partire dalle rivoluzioni, che sono un concentrato di tutti i problemi di un’epoca e dei tentativi messi in atto per risolverli.

Tra una rivoluzione e l’altra il compito è soltanto quello di porre le condizioni perché la transizione avvenga nel miglior modo possibile, cioè rispettando le esigenze più vere, quelle più generali, possibilmente senza spargimento di sangue.

La lotta diventa tra speranza e disperazione, in attesa che giunga il momento decisivo: la speranza di chi vuole uscire dalla disperazione, la disperazione di chi non vuole uscire dai propri privilegi.

Siamo noi che diamo alle cose il loro senso e il loro tempo, e quando il tempo non dà più senso alle nostre cose, è ora di cambiarlo.

Ecco perché il Chiavaliere vuole il bavaglio alle intercettazioni. Non è vero che si disinteressa di Mediaset e anzi la usa per corrompere anche a fini politici

RIPORTO DAL SITO DE L’ESPRESSO

Pronto Silvio, sono Saccà
ESCLUSIVO. Il testo e l’audio della conversazione tra il manager Rai e il Cavaliere: ‘Lei è amato nel paese, glielo dico senza piangeria’. Dai giochi in azienda, alla fissa di Bossi per il Barbarossa fino alle scritture per le attrici: ‘Sto cercando di avere la maggioranza in Senato:
http://espresso.repubblica.it/multimedia/video/25690705

Giugno 2007. Urbani, Leone, Minoli, Moratti a colloquio con il direttore di Rai Fiction, Agostino Saccà
(26 giugno 2008)
18 giugno 2007 ore 17:51
Urbani chiama Saccà e gli chiede una mano per la sua compagna Ida di Benedetto, titolare della Titania Produzioni
http://espresso.repubblica.it/multimedia/2447253/1/1

18 giugno 2007 ore 17:57
Saccà parla con una funzionaria Rai la quale racconta la scenata telefonica che le ha fatto la Di Benedetto per la miniserie ‘Angelica’. Parlano anche del serial ‘La meravigliosa storia di suor Bakhita’. Infine di ‘Paura d’amare’ la fiction di Maria Venturi autrice per la Di Benedetto

http://espresso.repubblica.it/multimedia/2447253/1/2

18 giugno 2007 ore 18:02
Saccà chiama la sua segretaria e le chiede a che punto sia l’attivazione del contratto per ‘Paura d’amare’ la fiction di Maria Venturi

http://espresso.repubblica.it/multimedia/2447253/1/3
19 giugno 2007 pre 15:31
Giovanni Minoli, direttore di Rai Educational, chiama Agostino Saccà che gi accenna di aver parlato con Roberto Cuillo, ex Ds quindi viceresponsabile dell’informazione del Partito Democratico, del suo “piano strategico”: si tratta della sostituzione dell’attuale direttore generale della Rai Cappon con lo stesso Minoli
http://espresso.repubblica.it/multimedia/2447253/1/4 Continua a leggere

Umanesimo e socialismo tra uomini primitivi e contemporanei

Su sei miliardi di abitanti è forse possibile ipotizzare che circa 200 milioni di abitanti vivano ancora in forme primitive, in forme cioè non solo pre-borghesi e pre-feudali, ma anche pre-schiavistiche. Gli ebrei avrebbero detto di se stessi, nei loro momenti più tragici, ch’era rimasto “l’ultimo resto di Israele”.

Queste popolazioni tribali praticano delle religioni che gli occidentali hanno definito di tipo animistico-totemico, mentre sul piano più propriamente socioeconomico si avvicinano a uno stile di vita che in qualche maniera ricorda quello del cosiddetto “comunismo primordiale”.

Molte tradizioni di queste popolazioni si possono riscontrare anche là dove esse hanno accettato il cristianesimo conosciuto attraverso i colonizzatori europei. Nella sola Africa p.es. esistono almeno seimila chiese che, pur richiamandosi al cristianesimo, si considerano “separatiste”, in quanto contestatrici del cristianesimo ufficiale, sia esso cattolico o protestante. Tra queste chiese le più significative sono quelle raggruppate entro le denominazioni di “messianiche” (Africa centrale e orientale), di “etiopiche” e “sionistiche” (Africa australe) e di “oranti” (Africa occidentale).

Una parte di questi culti africani si ritrova, grazie alla stessa colonizzazione, anche in Sudamerica (p.es. ad Haiti il vudu, o in Brasile il candomblé e l’umbanda, dove il cristianesimo è sopportato soltanto come una facciata priva di vero significato). Ma le forme di contestazione nei confronti della cultura occidentale si ritrovano anche in altre religioni primitive non influenzate dall’africanismo, come p.es. nel peyotismo del Nordamerica, erede della “ghost-dance”, con cui s’invoca il ritorno dei morti per difendere gli ultimi indiani rimasti, oppure nei culti cosiddetti “cargo-cults” dell’Oceania (Nuova Guinea, Polinesia, Malesia).

Molti studiosi han cercato dei punti di contatto con queste popolazioni e con le loro religioni, ma con scarsi risultati scientifici, anche perché le prime teorie etno-antropologiche cominciarono a essere elaborate e sviluppate quando il colonialismo prima e l’imperialismo dopo avevano ridotto ai minimi termini le stesse popolazioni che i ricercatori andavano a studiare.

L’opera che fa da capostipite a queste indagini fu quella di E. B. Tylor, uno dei più importanti antropologi della scuola evoluzionista britannica: Primitive Culture, del 1871. In essa si cercò di applicare una teoria presa dalla psicologia associazionista alle credenze dell’uomo primitivo. La tesi in sostanza era questa: supposto che la natura umana sia uniforme, cioè abbia un meccanismo mentale universale, che prescinda dal tempo e dallo spazio, qual è quella esperienza appartenente a ogni essere umano, che gli offre la percezione di essere diverso da quel che è? Ecco, partendo da questa domanda piuttosto ingenua, la cui ovvia risposta era il sogno, Tylor era convinto di poter dimostrare che i primitivi, credendo nell’esistenza di un “doppio di sé”, cioè in sostanza di un’anima che si stacca dal corpo nel momento del sogno, ma anche in uno svenimento, in un delirio febbrile e persino nella morte, avrebbero in un certo senso creato la religione.

Successivamente questo alter ego con la morte si sarebbe ipostatizzato e, pur restando senza corpo, avrebbe svolto il ruolo di “spirito protettore”. La gerarchizzazione di questi sosia invisibili sarebbe avvenuta quando la comunità decise di sceglierne uno in particolare, considerandolo un dio supremo, superiore a tutti.

Il fatto di aver bisogno di “spiriti protettori” per affrontare le difficoltà della vita, comportò inevitabilmente la fede nell’esistenza di spiriti negativi, avversari. Il fatto invece che nessuno di questi spiriti potesse essere visto coi propri occhi, portò a credere che la loro presenza fosse ovunque e che la natura servisse loro proprio per manifestarsi.

Questa religione fu chiamata “animistica”, proprio perché i primitivi accettavano l’idea che tutto l’universo fosse mosso da una forza vitale, avente un rapporto privilegiato con gli esseri umani.

* * *

Ora qui non si vuole ripercorrere tutta la storia dell’etno-antropologia mostrando in quali modi queste idee vennero confermate o confutate. Ci si vuole piuttosto chiedere se quella parte di umanità che oggi non professa alcuna religione (in quanto si dichiara indifferente o agnostica o atea) possa avere dei punti di contatto con quest’altra parte di umanità, la cui religione (che noi consideriamo “primitiva”) ha il vantaggio di non aver nulla in comune con quelle che si sono imposte nella storia delle civiltà antagonistiche.

Forse il mondo laico, specie quello interessato a sviluppare una società di tipo socialista, potrebbe iniziare a chiedersi se, nel cercare di dare corpo alle proprie istanze emancipative e di liberazione, possa avvalersi dell’insegnamento delle ultime tribù ancestrali, le cui origini e tradizioni si perdono nella notte dei tempi.

Sino alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso queste tribù primordiali venivano etichettate con epiteti denigratori come “senza cultura”, “senza scrittura”, “senza dio”, “senza tecnica”, e quindi pagane, selvagge, primitive, agli inizi dell’evoluzione umana. Poi s’è cercato di rimediare con espressioni più sfumate, tipo “popoli primari”, “popolo tradizionali, “popoli allo stato di natura”. In realtà noi non abbiamo neanche le parole per definire i nostri più antichi antenati, proprio perché da loro ci separa un abisso, un vuoto incolmabile.

L’Africa resta ancora il grande continente di questi popoli ancestrali, soprattutto in quella zona che va dalla fascia subsahariana all’Africa australe, e non a caso è questo il continente che più soffre della logica economicistica del globalismo.

Un altro grande territorio caratterizzato dalla presenza di queste tribù è il Sud del Pacifico, con a capo l’Australia, la Nuova Guinea, le Isole Salomone, la Melanesia e la Polinesia. Poco invece resta tra gli indiani delle praterie d’America, dello Yucatan, del Messico e dei Caraibi. Anche altre tribù del Sud America e dell’India sono state in qualche maniera influenzate dallo stile di vita occidentale e dalle sue religioni.

Che sappiamo di queste popolazioni prive di testi scritti, di archivi, di documenti, su cui noi siamo soliti basarci per fare la “storiografia”? Com’è possibile capire la cultura orale di popoli che usano racconti in veste di favole, proverbi, miti in cui viene detto di credere in un dio, pur senza fare alcuna professione di fede? pur senza neppure interrogarsi sulla sua natura? pur dichiarandosi insofferenti a qualunque colonizzazione di tipo religioso? La maggior parte delle lingue usate dai popoli primitivi non dispone neppure di una parola equivalente a “religione”.

In Africa, se si esclude la civiltà egizia, non s’è mai trovata alcuna forma materiale che rappresenti la divinità; tra queste popolazioni ancestrali non esistono templi o caverne in cui dio possa abitare (la sua dimora è il cielo). Non possono quindi esistere sacerdoti che si rivolgono a lui espressamente: indovini, maghi, sciamani, stregoni… compiono il loro culto agli antenati, agli spiriti buoni o cattivi, ma non all’essere supremo.

Qui non solo non ci sono simboli per esprimere la natura di dio, ma neppure delle preghiere simili al “Padre nostro”, in quanto per loro non ha alcun senso rivolgersi a chi sa già cosa ha bisogno l’uomo per sopravvivere. Frasi come queste: “Se dio c’è, perché permette il male?”, “Se dio non c’è, allora tutto è possibile”, “Occorre vivere come se dio non esistesse”, “Dio è un’ipotesi che non ho considerato”, sono frasi senza alcun senso, esattamente come le prove ontologiche dell’esistenza di dio, sia perché di fronte a qualcosa di assoluto non ci può essere alcun “se dubitativo”, sia perché qualunque forma di male proviene sempre dagli esseri umani, sia perché le cose, per essere accettate, non hanno bisogno di essere spiegate, facendo esse parte di una tradizione infinitamente più grande delle capacità di comprensione di qualunque essere umano.

L’unico vero intermediario tra dio e l’uomo è la natura, che non a caso, per queste popolazioni, è tutta animata, tutta ordinata e regolata nei suoi ritmi e nei suoi cicli. Compito dell’uomo è appunto quello di adeguarvisi liberamente in virtù della propria coscienza, che permette di distinguere il bene dal male.

I miti della creazione, sebbene spesso privi di logica, esprimono la consapevolezza dell’uomo di fronte alla presenza del mistero, lo richiamano al dovere del bene, gli ricordano il giusto posto nell’universo, il significato della sua storia.

In questi miti il creatore non s’impone mai, preferendo lasciare all’uomo la responsabilità del suo agire; anzi, rispetta persino l’avversario (che in molti miti è presente come simbolo dell’origine del male), proprio per insegnare all’uomo che non deve sentirsi padrone della libertà altrui. Il creatore è “padre” anche quando l’uomo viola le norme di comportamento. Propriamente parlando dio non “crea” l’essere umano, ma lo “plasma”, lo “modella” a sua immagine.

L’uomo infatti, nelle concezioni cosmiche di questi popoli, è al centro di un universo la cui materia è energia vitale, che va “umanizzata”. E la caratteristica fondamentale di questa materia è la dualità, cioè tutto nell’universo è preposto a formare una coppia di elementi che si attraggono e si respingono.

La morte della materia non è che la sua trasformazione in altra materia o in altra energia. La stretta continuità tra terra e cielo fa sì che queste popolazioni diano grande importanza al culto degli antenati, che non vanno mai dimenticati. Gli avi hanno assicurato la continuità della stirpe, della tribù, la fedeltà alla tradizione, il rispetto di valori comuni e fondanti per i destini delle comunità.

Ma forse l’aspetto più significativo di queste popolazioni è la capacità di vedere le cose come un unicum inscindibile. Non vedono alcuna differenza tra “sacro” e “profano”, poiché ogni aspetto della vita è “sacro”, tutto è interconnesso, interdipendente, concatenato. L’ordine del mondo non è logico o meccanico, ma olistico, è un’armonia vivente che permette a tutti di trovare il loro giusto posto. Lo squilibrio di una sola parte di questo insieme ha ripercussioni sul tutto.

* * *

Ora si tratta di capire in che maniera il moderno umanesimo laico può convergere con questa concezione della realtà e dell’universo. In altra sede si dovrà esaminare come far convergere le idee del socialismo democratico con la pratica di vita di queste popolazioni studiate dagli etnologi.

La differenza fondamentale che separa l’uomo contemporaneo dall’uomo primitivo è la concezione della natura. L’uomo primitivo si considerava ateo in quanto naturale, oggetto di natura, dipendente dalla natura, e ha cominciato a diventare religioso quando, dopo aver perduto se stesso, ha preso a vedere la natura come qualcosa che avrebbe anche potuto minacciare la sua esistenza, ha cioè attribuito falsamente alla sua dipendenza l’origine dei suoi problemi, dopodiché, personificando questi stessi problemi, ha inventato gli dèi, dando a ognuno di essi i nomi dei suoi problemi e anche le corrispondenti risposte illusorie.

Questa situazione è andata avanti fino a quando non è stata compiuta la rivoluzione tecnico-scientifica, che è potuta avvenire solo dopo che gli uomini hanno cominciato a credere d’essere molto più importanti delle natura, talmente più importanti che, volendo, si poteva anche smettere di credere in dio.

Gli uomini tuttavia, pur cominciando a dominare la natura, si sono accorti che persistevano i loro problemi sociali, sicché nei confronti delle religioni hanno deciso di essere più tolleranti, poiché sapevano che per quanti subiscono il peso delle contraddizioni sociali, la fede in qualche divinità può costituire un certo conforto.

Oggi quindi gli uomini contemporanei si trovano nella seguente condizione: sono atei in quanto dominano la natura, ma, poiché in questo dominio permane la schiavitù sociale, lasciano chiunque libero di credere nella superstizione e nel clericalismo.

Se incontrassero un uomo primitivo che dice di essere credente in quanto dipendente dalla natura, direbbero che è superstizioso. Ma se incontrassero un primitivo che dicesse di essere ateo pur nel riconoscimento di questa dipendenza, cosa direbbero? Durante l’epoca del colonialismo si è sempre data un’unica risposta a tale domanda: gli uomini primitivi senza religione non sono umani. L’ateismo dell’uomo primitivo ha giustificato la sua sottomissione, la sua civilizzazione, la sua cristianizzazione.

Cos’è dunque che impedisce all’uomo contemporaneo d’incontrarsi davvero con l’uomo primitivo? Non è la fede e neppure la sua mancanza. Ciò che li separa in maniera abissale è proprio il rapporto che si ha con la natura, che per l’uomo contemporaneo deve essere di dominio, così come lo sono i suoi rapporti sociali.

E’ nel modo di vivere i rapporti sociali la fonte della loro abissale distanza. Quando gli uomini contemporanei impareranno a superare gli antagonismi sociali, capiranno da soli se, nel loro rapporto con la natura, è necessario essere credenti o è naturale essere atei.

Facciamoci due risate! Finché possiamo.

Ma sì, facciamoci due risate. Guardando come la sciùra Michela Vittoria Brambilla, grande capitana d’industria, esibisce con disinvoltura il capezzolo alla solita festa romana de Roma e come al (sodia del) papa gli si alza la tonaca come le gonne di Marylin Monroe nella famosa scena di “Agli uomini piaccino le bionde”. Che si trati di un sosia lo si capisce dal fatto che non ha le solite scarpine rosse. E facciamoci infine due risare con il fotomontaggio prelevato dall’ottimo Dagospia per illustrare le ultime rivelazioni di un’altra escort barese – Terry De Nicolò – sulle orge del Chiavaliere Papino il Breve. Il quel, poverello, non sapeva che “Giampi” Tarantini gli pagava le professionista esattamente come il povero Scajola non sapeva che gli pagavano la casa…. E poi vogliono pure restare al governo!.


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Per una transizione al socialismo: due problemi da risolvere

 I due problemi che una qualunque transizione al socialismo si deve porre sono i seguenti:

  1. fino a che punto la tecnologia è compatibile con l’ambiente?
  2. in che maniera staccarsi dalla dipendenza nei confronti del mercato?

Questi due aspetti sono strettamente correlati, nel senso che – a differenza di quello che pensava il marxismo – non è possibile affrontarli separatamente. La rivoluzione russa affrontò solo il secondo problema, dando per scontato che sotto il socialismo si potesse usare la stessa tecnologia del capitalismo o comunque gli stessi metodi scientifici per ottenerla, pensando che la differenza stesse soltanto nelle forme di applicazione. Fu – come noto – un errore macroscopico, che comportò, come concausa, il crollo dell’intero sistema.

Il primo problema da affrontare è di tipo culturale, mentre il secondo è di tipo sociale e, per poterli affrontare insieme, per una transizione al socialismo umano e democratico, ci vuole un’organizzazione di tipo politico, che preveda anche aspetti di tipo militare (difensivo).

Il capitalismo si serve della tecnologia per dominare il pianeta. La tecnologia viene usata non solo per produrre beni materiali, ma anche per sfruttare le risorse naturali, amministrare i capitali, assicurare la formazione, divulgare le informazioni, gestire i conflitti. Quindi si tratta di capire quale tecnologia è idonea a una concezione di vita in cui il “dominio” sia escluso.

La natura non va “dominata” ma “gestita” come fonte di vita. La natura non può essere “sfruttata”; al massimo può essere “utilizzata”, e dentro la parola “uso” ci deve essere quella di “rispetto”, “tutela”. Nei suoi confronti bisogna stare attenti alle parole che si usano. Gli antichi lo facevano per un’entità che oggi abbiamo capito essere inesistente (dio); a maggior ragione dobbiamo farlo per ciò che ci caratterizza ogni giorno in maniera evidente, sia nel senso che sappiamo vivere secondo natura, sia nel senso che, non sapendo vivere in questa maniera, ci comportiamo come esseri alienati.

L’essere umano deve pensarsi come ente di natura e non come qualcosa al di sopra di essa. E’ vero che in noi vi è una sorta di autoconsapevolezza della natura, come se in noi essa avesse trovato il suo compimento, come se le sue leggi oggettive avessero potuto trovare in noi la sintesi suprema della più grande legge dell’universo: quella della libertà di coscienza. Ma è anche vero che noi, come prodotto finito, non possiamo sussistere senza fare continuamente riferimento agli elementi primordiali che ci costituiscono.

La riproduzione della specie umana deve essere strettamente compatibile con la riproduzione della natura. Se non vi è questo adeguamento libero e consapevole, non è la natura che va cambiata ma l’uomo.

Dunque nei confronti del capitalismo va fatta un’operazione culturale che ne rovesci i suoi presupposti di fondo. La natura è al servizio dell’uomo fintantoché l’uomo si comporta in maniera naturale. La natura infatti ha proprie leggi, le quali, se non vengono rispettate, non permetteranno la sopravvivenza del genere umano. Quanto più l’uomo, con la propria attività, incide sulla natura, tanto più finirà col mettere a repentaglio la propria stessa esistenza.

L’aspetto sociale è interconnesso a questo: infatti se si permette alla natura di autoriprodursi agevolmente, significa che si è capita l’importanza dell’autoconsumo. Se si rispetta l’autonomia della natura, non si può tollerare che la propria sopravvivenza dipenda da fattori indipendenti dalla propria volontà. E’ stato un grossolano errore quello di credere che l’uso della scienza avrebbe potuto liberarci dalla dipendenza nei confronti della natura. Una liberazione di questo genere è stata la nostra condanna.

Una comunità non può essere definita “di vita” se dipende dal mercato, cioè dalle forniture di cibo che altri soggetti economici mettono a disposizione. Il consumatore non può essere nelle mani del produttore, soggetto continuamente a ricatto sulla qualità del prodotto, sul suo prezzo, sulla sua reperibilità.

Una comunità del genere è, nell’ambito del mercato capitalistico, una sorta di colonia da sfruttare, un luogo di lavoro servile, che vive secondo esigenze che non le appartengono. Chiunque sostenga che una comunità, per diventare autonoma e progredire, deve puntare sull’export, inevitabilmente vuole che quella comunità resti per sempre dipendente nei confronti di altri soggetti economicamente più forti.

Qui tuttavia il problema diventa più serio di quello culturale, poiché, mentre il capitale può anche tollerare che una comunità resti all’età della pietra, non può tollerare che in questo primitivismo essa non sia funzionale alle esigenze del mercato.

Cioè anche se una comunità può rinunciare, per motivi di principio, a una certa tecnologia, non può rinunciare di mettere al servizio la tecnologia di cui dispone alle esigenze del capitale, se questo è penetrato nella sua struttura economica. Anzi, quanto più una comunità è dipendente dal mercato, tanto più sarà indotta, se vuole un minimo sopravvivere, a rinunciare ai propri principi e a utilizzare tecnologie più avanzate. Tutta la storia del colonialismo e dell’imperialismo può essere letta in questa maniera.

Come liberarsi di questo fardello? Come tornare all’autoconsumo? Qui vale un vecchio detto: “l’unione fa la forza”. La strategia politica è tutta da inventare ed è difficile, in tal senso, che dei contributi significativi possano venire dall’Europa o dagli Usa o dall’occidente in generale o dai paesi capitalistici sparsi nel mondo.

Infatti, non solo va messa in discussione l’utilità della scienza e della tecnica in uso sotto il capitalismo, ma, in via del tutto generale e quindi astratta, va considerata anche ogni merce come rispondente a un falso bisogno. Occorre cioè guardare con sospetto ogni merce e negare l’identità che il mercato pone tra valore di scambio e valore d’uso.

I valori d’uso non possono mai essere decisi dal mercato ma solo dalla comunità di appartenenza. Di ogni merce bisogna imparare a chiedersi se sia davvero indispensabile e non sostituibile con qualcos’altro. Il problema non è soltanto quello che si pone il “consumo critico” (riduzione, riutilizzo, riciclo, rispetto), ma è anche quello di fare di queste regole un motivo per uscire dal mercato.

Le comunità basate sull’autoconsumo da quali Stati potrebbero essere difese se non da se stesse? Gli Stati, per definizione, difendono solo i poteri più forti, cioè proprio quei poteri che meno ne avrebbero bisogno.

Generalmente oggi le comunità autosussistenti non avvertono neppure d’essere l’unica alternativa praticabile al capitalismo. Cercano soltanto di resistere il più possibile, attendendo rassegnate la loro assimilazione progressiva. Si lotta per conservare un passato ancestrale, non per costruire un nuovo futuro per l’intera umanità.

Per noi occidentali le comunità autarchiche sono solo – nel migliore dei casi – oggetto di studio etno-antropologico. Non ci sfiora neanche lontanamente l’idea ch’esse possano costituire un’alternativa praticabile al nostro sistema di vita alienato, dipendente del tutto da fattori esogeni. Le vediamo troppo lontane da noi. Preferiamo pensare d’essere tutto sommato un sistema senza alternative realistiche, che durerà per un tempo indefinito e che quando scomparirà si porterà con sé l’intera umanità.

Quando pensiamo di aiutare le realtà più povere del mondo, p.es. col commercio equo-solidale o col microcredito, lo facciamo sempre col proposito d’inserirle in un sistema illusorio, che da un momento all’altro potrebbe distruggerle definitivamente. Ci interessa che entrino in questo sistema solo perché il lavoro che impiegano nel costruire determinati manufatti costa pochissimo. Ma non le mettiamo mai in condizione di potersi autogestire senza aver bisogno di un mercato. Noi diamo sussidi, aiuti estemporanei allo scopo di mettere tutti in condizione di dover dipendere da qualcosa che li sovrasta: tutti devono diventare come noi, adoratori del valore di scambio.

Per settant’anni abbiamo creduto che il socialismo reale avrebbe potuto costituire un’alternativa al sistema borghese, pur con tutti gli evidenti limiti di quel modello. Ma oggi solo l’idea di riproporre un “socialismo statale” ci appare pura follia. Lo stesso socialismo cinese, che pur sul piano politico resta autoritario e sul piano culturale alquanto limitato e ideologico (specie nel campo dei diritti umani), sul piano sociale ha preferito accettare la logica del mercato.

Ci vorranno probabilmente ancora alcuni secoli prima di capire che l’unico socialismo possibile, alternativo al capitalismo, è quello precedente alla formazione delle civiltà antagonistiche. Tale forma antichissima di socialismo sussiste nelle regioni più remote del pianeta, in attesa di essere colonizzate da qualche monopolio.

Queste regioni dovremmo tutelarle come si fa con la biodiversità, come si proteggono le specie animali in via di estinzione. Ma lo faremo? Riusciranno queste comunità a far valere il loro diritto a vivere in un mondo che tende a negarglielo? Possono esse sperare che l’esplosione degli antagonismi risulti più doloroso a chi le opprime che non a loro stesse? Ha senso avere questa speranza quando di fatto un qualunque disastro (ambientale, finanziario, bellico…) che avvenga in una qualunque regione del mondo ha ripercussioni sull’intero pianeta, a causa delle strette dipendenze che si sono volute creare?

I momenti migliori per fare le rivoluzioni sono quelli in cui gli antagonismi creano situazioni invivibili, ma sono anche quelli in cui si scatenano gli elementi peggiori dell’umanità, proprio perché l’interesse, quando si è abituati ad agire in maniera individualistica, è sempre superiore alla ragione. Chi detiene il potere non vuole cederlo ed è anzi disposto a tutto. Chi vuole acquisirlo, rischia di comportarsi anche peggio, proprio perché da tempo ci si è disabituati a vivere rapporti umani. Quando scoppiano le crisi e le popolazioni non sono abituate a provvedere a se stesse, essendo schiave dei mercati, l’ira diventa davvero “funesta”.

Fare le rivoluzioni politiche senza prima aver chiaro che del sistema che si vuole abbattere non si può riutilizzare quasi nulla, o almeno non lo si può fare nei modi ch’erano divenuti tradizionali, è un’impresa praticamente impossibile, anche perché, proprio nel momento in cui si preparano le rivoluzioni, si organizzano e materialmente si fanno, non si può in alcuna maniera lavorare per l’autoconsumo, cioè per la vera alternativa. La politica, di per sé, senza l’aiuto della cultura e del sociale, è come un guscio vuoto, che quando cade dall’albero non si sa dove va a finire.

Forse più che compiere delle rivoluzioni, bisognerebbe attrezzarsi per affrontare il peggio, cioè bisognerebbe iniziare da subito a organizzarsi in senso autoconsumistico, ristrutturando quegli ambienti che il capitale considera poco appetibili. Di sicuro però bisognerà prevedere delle opere di tipo difensivo, a tutela del proprio vissuto, poiché là dove non c’è un minimo di sicurezza, non si riesce a costruire nulla.

La corruzione nell’Italia post-unitaria

 

Gli italiani si lamentano spesso del fatto di avere politici altamente corrotti, specie quelli del parlamento nazionale. Il fatto stesso di prendere stipendi dieci volte superiori a quelli di un operaio medio è considerato sufficiente per screditare anche il più onesto di loro.

Tuttavia la corruzione non è un male endemico al solo nostro paese. La SugarCo nel 1987 pubblicò un poderoso lavoro di J. T. Noonar, Ungere le ruote, in cui l’autore la faceva risalire addirittura al 3000 a. C., come caratteristica saliente di tutte le civiltà antagonistiche.

Là dove esiste un potere politico gestito da una ristretta minoranza, lì c’è sempre corruzione. Quanto più l’economia su cui si basa questo potere è ricca, tanto più è forte la corruzione. Sono praticamente leggi di una natura perversa. E in Italia abbiamo avuto degli esempi davvero eclatanti: dalla Banca Romana, ai tempi di Crispi e Giolitti, allo stragismo rimasto impunito, alla P2, al caso Moro, a Mani pulite, al più recente berlusconismo.

Il fatto che i nostri politici siano particolarmente corrotti non deve indurre a pensare che il popolo italiano sia peggiore di altri popoli. Anzi, considerando la netta separazione che vige nel nostro paese tra politica e società, si potrebbe pensare che gli italiani, fin quando non s’interessano di politica, sono un popolo altamente morale e che eventualmente diventano immorali quando cercano di difendersi, a titolo individuale, dalle prepotenze dello Stato; in tal caso infatti, poiché comunque lo Stato chiede d’essere pagato e obbedito, il cittadino più furbo scarica sul più ingenuo il costo e i doveri di quanto lui stesso dovrebbe sostenere.

Le spiegazioni che generalmente si danno a questo increscioso fenomeno, che offre di noi un’immagine assai poco lusinghiera, ineriscono a fattori di tipo storico e non psico-antropologico.

  1. Lo Stato centralista e autoritario è stato visto sin dall’inizio come una forma di tradimento nei confronti delle istanze democratiche che avevano portato all’unificazione nazionale. La società civile, nel suo complesso, pur essendo stata caratterizzata da momenti di forte contestazione (come durante il Biennio rosso degli anni Venti, la Resistenza e il Sessantotto, durato circa un decennio), si è come rassegnata a questo quotidiano sopruso della politica. I tentativi di decentrare i poteri dello Stato hanno fino ad oggi conseguito modestissimi risultati (regioni a statuto speciale, una più marcata regionalizzazione in talune materie di competenza statale).
    Attualmente si sta vagliando l’idea di realizzare un federalismo fiscale, dopo aver varato quello demaniale. Si teme tuttavia che accanto all’idea di federalismo, la politica voglia trasformare la repubblica da parlamentare a presidenziale, col pretesto di voler bilanciare il peso del decentramento dei poteri, che, se troppo forte – si dice – rischierebbe di compromettere l’assetto nazionale. Inoltre si teme che se col federalismo non si rinuncia sul piano nazionale a molte strutture dell’assetto politico-istituzionale, il cittadino finirà col pagare due volte, per cui un qualunque federalismo calato dall’alto non farà che peggiorare la sua situazione finanziaria. D’altra parte è assurdo pensare che la politica voglia rinunciare spontaneamente ai propri privilegi.
  2. L’Italia ha fino ad oggi avuto una politica altamente corrotta perché, essendo il nostro un paese che ha cominciato ad arricchirsi notevolmente solo a partire dal boom economico del secondo dopoguerra, la politica è sempre stata vista come una forma di arricchimento alternativa a quella tipicamente industriale-commerciale (industriali prestati per così dire alla politica sono sempre stati da noi molto pochi: questo è anche uno dei motivi per cui non è mai esistita una legge sul conflitto d’interesse).
    Nel nostro paese i politici possono anche avere origini socialmente modeste: l’importante è che non mettano in discussione la linea del loro partito, il quale viene ad essere considerato come un padrino che permette di fare carriera. In cambio viene chiesto di far approvare in parlamento cose che possono anche non essere personalmente condivise. Da questo punto di vista, anche se a un cittadino può apparire contraddittorio, a un parlamentare risulta abbastanza normale passare da uno schieramento perdente a un altro vincente, oppure che vari partiti minori possano sciogliersi e fondersi in uno nuovo, o anche che un partito possa cambiare periodicamente denominazione, al fine di mostrare un aggiornamento di sostanza. Quello che conta non è l’idea ma il potere e per conservarlo l’opportunismo è la regola.
  3. Non avendo mai avuto l’Italia unificata un impero coloniale equivalente a quello inglese o francese, ma avendo anzi dovuto creare al proprio interno una colonia (il Mezzogiorno) con cui far decollare lo sviluppo industriale del centro-nord, la politica ha dovuto svolgere sin dall’inizio una funzione di compromesso con cui rassicurare gli agrari del sud che i loro interessi non sarebbe stati minacciati, permettere una facile carriera politica o amministrativa o militare agli intellettuali meridionali, trasformare questi intellettuali, in agenti, diretti o indiretti, del capitalismo, contro gli interessi dei contadini del sud, che andavano velocemente trasformati in operai per le fabbriche del nord.
    E così, mentre i politici settentrionali sono l’espressione esplicita degli interessi della borghesia industriale e commerciale, i politici meridionali sono invece l’espressione di una borghesia rurale poco competitiva o di un ceto impiegatizio che cerca di estorcere allo Stato padre e padrone quanto più possibile (dai diplomi e carriere facilitati all’assistenzialismo, agli investimenti a fondo perduto, che tante cattedrali nel deserto hanno edificato). A volte i politici possono anche essere l’espressione di una criminalità organizzata, cioè di un ceto storicamente di estrazione rurale che vuole arricchirsi sulle spalle della borghesia del sud e del nord.
    La criminalità organizzata, che è molto diffusa in Italia, proprio perché la colonia da sfruttare è stata tutta interna alla nazione, rappresenta il modo più violento, sicuro e veloce di diventare borghesi senza averne le caratteristiche fondanti, che sono quelle tipiche dell’imprenditore industriale. Oggi la criminalità organizzata può essere considerata una delle componenti essenziali della corruzione della politica nazionale.
  4. La politica italiana è altamente corrotta anche perché i politici hanno in genere una formazione cattolica, che per sua natura, essendo basata su valori quali obbedienza, gerarchia, centralismo…, è antidemocratica e amorale. Questi valori si possono riscontrare persino nei grandi partiti della sinistra, che non a caso venivano definiti (e in parte lo sono ancora oggi) delle “chiese laiche”.
    Per secoli la cultura cattolica ha concepito il potere solo per il potere, pur mascherando questa esigenza con discorsi di tipo etico-religioso. La politica come servizio, gli ideali umani della politica, la politica come espressione del diritto universale spesso non sono che finzioni del più volgare cinismo.
    La formazione cattolica è anche alla base di quella cultura idealistica che considera imparziale lo Stato rispetto agli interessi delle classi sociali contrapposte. Ora, è evidente che per conservare questa forma di illusione, i politici si sentono autorizzati a qualunque cosa, proprio perché essi sanno di far parte di un establishment indipendente da una naturale alternanza di governo. I politici parlamentari raramente, per motivi democratici, hanno rinunciato spontaneamente ai loro privilegi prima di aver raggiunto i massimi benefici possibili, che permettessero loro un’esistenza agiata anche al di fuori della politica. Gli inquisiti cercano addirittura di non uscire mai dalla politica. La politica o è una lucrosa professione o è un salvacondotto per la propria impunità. Chi rinuncia spontaneamente alla politica è perché già dispone di un’attività molto redditizia, salvo eccezioni naturalmente.
    Un altro aspetto della formazione cattolica sta nella ideologizzazione dello scontro politico, nel senso che agli interessi nazionali spesso vengono opposti quelli particolari di una chiesa, di un territorio, di una lobby economica o finanziaria, di un partito politico, di una coalizione di potere. Anche se formalmente lo Stato viene presentato come equidistante, interclassista, nella sostanza invece viene usato come strumento fondamentale per coltivare interessi corporativi (di casta, di cricca). Uno Stato che alla resa dei conti è autoritario e centralista, facilmente sviluppa una società indifferente alla politica e tendenzialmente anarchica, disposta a rispettare le leggi solo formalmente. E’ dunque evidente che quanto più la democrazia viene vissuta passivamente, tanto più la politica e con essa la società si corrompono.

Fatta questa lunga premessa, si possono ora proporre alcune semplici “ricette” contro questo virus apparentemente ineliminabile della corruzione politica, la quale poi, nell’ambito del capitalismo, è solo un riflesso di quella economica.

  1. Decentrare al massimo i luoghi decisionali, secondo questo criterio proporzionale: va riconosciuto tanto più potere quanto più le realtà territoriali, in cui esercitare la democrazia, sono piccole o circoscritte, delimitate geograficamente. Le istanze superiori servono per confrontarsi, non per prendere decisioni, a meno che i delegati non siano stati espressamente autorizzati a farlo da parte delle loro comunità di appartenenza.
  2. Va riconosciuto un potere politico effettivo a quelle realtà territoriali in grado di dimostrare d’essere economicamente autosufficienti, cioè non dipendenti da forniture esterne, essenziali alla loro sopravvivenza. I mercati hanno senso solo per lo scambio delle reciproche eccedenze.
  3. Qualunque carica politica andrebbe considerata temporanea, rivedibile o ricusabile in qualunque momento, soggetta a frequente controllo. Nessuno va considerato insostituibile, inamovibile, al di sopra di ogni critica.
  4. Una democrazia deve essere strutturalmente diretta e autogestita e solo provvisoriamente può essere delegata.
  5. Una democrazia è diretta e autogestita quando il suo soggetto decisionale è un organo collettivo eletto da una comunità precisa di riferimento.