Quali competenze storiche?

Nonostante da più di vent’anni, cioè almeno dai programmi del 1985 per la scuola elementare, la storia come disciplina sia oggetto d’interesse da parte dei tanti Ministri della Pubblica Istruzione che fino ad oggi si sono succeduti e che han cercato di superare la ripetizione ciclica dei contenuti, a favore di una visione organica del curricolo tra scuole elementari e medie, il modello gentiliano domina ancora incontrastato.

La didattica di tale disciplina, probabilmente la più complessa di tutte, viene ancora concepita come trasmissione di conoscenze consolidate, frutto delle ricerche degli storici accademici, le quali vengono poi imposte dagli editori, previa semplificazione didattica, attraverso l’adozione del libro di testo, la cui tassativa obbligatorietà nessun Ministro ha mai messo in discussione.

Tale trasmissione avviene per lo più attraverso la lezione frontale e lo studio del manuale, che consiste nella memorizzazione, da parte dello studente, di fatti o eventi disposti in un ordine lineare-diacronico, sulla base del presupposto dell’unicità del tempo storico, coincidente col tempo cronologico degli eventi, che s’intendono riferiti teleologicamente all’Europa occidentale, un’area geo-storica a fronte della quale il resto del mondo o non esiste in maniera autonoma, oppure è visto come mero prolungamento dell’impatto euroccidentale sul pianeta: “nella gran parte dei manuali l’auspicato abbandono dell’eurocentrismo si riduce ancora ad una pura dichiarazione d’intenti”, così scrive R. Dondarini, in Per entrare nella storia, ed. Clueb, Bologna 1999.

Tutta la storia è concepita come un continuo narrativo di fatti eminentemente politico-istituzionali, che trovano il loro terminus ad quem nel presente della civiltà occidentale, il cui inizio storico stricto sensu viene fatto risalire al XVI secolo, fatte salve le anticipazioni di Italia e Fiandre, mentre l’inizio storico sensu lato parte addirittura dalle prime civiltà assiro-babilonesi e soprattutto da quelle mediterranee (egizia, fenicia, minoico-cretese ecc.), che sono a noi più vicine: in definitiva da tutte quelle civiltà caratterizzate dalla scrittura, dagli scambi commerciali, dall’urbanizzazione, dalla divisione del lavoro, dalla contrapposizione dei ceti ecc. e che hanno trovato il loro compimento più significativo nella nostra. Da quel lontano passato ad oggi l’unico momento poco meritevole d’essere preso in considerazione è il cosiddetto “Medioevo”, a causa della sua eccessiva caratterizzazione “rurale”, soprattutto di quel periodo che va dalle invasioni cosiddette “barbariche” al Mille. Insomma il nostro presente va a cercare nel passato una propria anticipata autorappresentazione. Antonio Brusa ha scritto, a tale proposito, un importante Prontuario degli stereotipi sul Medioevo (“Cartable de Clio”, n. 5/2004, reperibile anche in storiairreer.it): se ne citano almeno una quarantina.

Ancora oggi noi usiamo parole come “Medioevo”, “impero bizantino”, “barbari” ecc. che i protagonisti di quelle epoche avrebbero ritenuto del tutto incomprensibili se non addirittura inaccettabili. P.es. il termine “Medioevo”, che pur ci appare così cronologicamente neutro, e che è stato formulato in epoca umanistica, è alquanto dispregiativo: considerare mille anni di storia (che poi in Europa orientale furono molti di più e spesso con caratteristiche meno “feudali” delle nostre) come una sorta di “intermezzo barbarico” tra due “luminose civiltà”: quella greco-romana e quella umanistico-rinascimentale, sicuramente non è stato e continua a non essere il modo migliore per valorizzare quel periodo.

Chiarito infine che l’attributo più significativo con cui cerchiamo di distinguere la nostra civiltà da tutte le altre non meno commerciali, è la rivoluzione tecnico-scientifica, che ha permesso l’industrializzazione del business e il totale assoggettamento della natura, non resta che chiudere il primo ciclo dell’istruzione con la disamina del Novecento, dopodiché alle superiori – ecco perché parliamo di impostazione gentiliana – non resta che ricominciare tutto da capo.

Peraltro il “presente” di cui si poteva parlare in terza media fino allo scorso anno scolastico non era neppure tanto “contemporaneo”, in quanto, con la riforma morattiana, si era tornati a fare, in 60 ore disponibili, l’Ottocento e il Novecento. Questo poi senza considerare che del mondo contemporaneo, generalmente, non si fanno mai quelle cose che potrebbero davvero servire alla gioventù per affrontare al meglio il proprio tempo, e che invece spesso si ritrovavano in un qualunque manuale di educazione civica.

È vero che con le nuove Indicazioni per il curricolo (2007) s’è tornati a riproporre lo studio del solo Novecento nell’ultimo anno della scuola media, ma è anche vero che questa scelta stride ancor più con l’altra, non meno recente, d’aver voluto innalzare l’obbligo scolastico a 16 anni. Infatti se davvero fossimo favorevoli a una visione organica, in verticale, del curricolo di storia, dovremmo far fare il Novecento soltanto nell’ultimo anno del biennio delle superiori, che viene appunto a coincidere con la fine dell’obbligo; anzi, in questo stesso anno si dovrebbe prevedere un esame finale di stato, eventualmente in sostituzione di quello del primo ciclo d’istruzione.

In fondo non era così peregrina l’idea berlingueriana della Riforma dei cicli (n. 30/2000) secondo cui il periodo compreso dalla rivoluzione industriale ai giorni nostri sarebbe stato meglio farlo nelle prime due classi della scuola secondaria superiore, a conclusione appunto di un percorso iniziato in prima elementare. L’affronto più approfondito dei problemi ne avrebbe sicuramente tratto giovamento.