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Super multa per la JPMorgan per manipolazione dei mercati. Ma tanto poi non cambia niente….

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

La JP Morgan Chase, la più grande banca americana, dovrà pagare una multa di 920,2 milioni di dollari, la più salata della storia, per protratte operazioni di manipolazione del mercato. La decisione è stata presa dalla Commodity Futures Trading Commission (Cftc), l’agenzia del governo statunitense che si occupa della regolamentazione dei future e di altri derivati finanziari contrattati sui mercati delle commodity, quelli delle materie prime e dei prodotti alimentari.  Il suo scopo è quello di garantire l’integrità del settore finanziario.

Secondo l’ordinanza della citata Cftc, dal 2008 al 2016 la JP Morgan ha tenuto “una condotta manipolatrice e ingannevole” in particolare nei mercati dei metalli preziosi e dei contratti future legati alle obbligazioni del Tesoro. Di fatto, gli operatori, i trader, della JP Morgan hanno emesso centinaia di migliaia di ordini di acquisto che venivano poi ritirati, cancellati, prima della loro esecuzione. In questo modo hanno stravolto il normale andamento della domanda e dell’offerta, inducendo gli altri investitori a intraprendere azioni finanziarie basate su valutazioni e attese falsate.

In pratica il sistema JP Morgan funzionava in questo modo: gli operatori emettevano ordini farlocchi di acquisto, per esempio, di contratti future sull’oro, i cosiddetti spoof order. Creavano così un “effetto onda”, imitato da altri operatori, per far salire il prezzo dei derivati. Poi, un momento prima di ritirare gli ordini fatti, essi emettevano un ordine vero, il cosiddetto genuine order, con il quale, invece, vendevano il future, il cui valore a quel punto era salito.  

Solo per un dato segmento di operazioni analizzate, è stato appurato che la JP Morgan avrebbe fatto profitti per oltre 172 milioni di dollari mentre gli altri operatori avrebbero avuto perdite per circa 312 milioni.

Nell’ordinanza della Cftc si legge anche che per anni la banca ha disinformato e manipolato la stessa agenzia di controllo, rallentando così ogni possibile intervento di correzione e di sanzione. La JP Morgan non ha potuto nemmeno giustificarsi e scaricare le responsabilità su qualche singolo dipendente “avventuriero”, in quanto i vari dirigenti dei dipartimenti preposti ai mercati erano direttamente coinvolti.

Soltanto nel 2016 la JP Morgan avrebbe iniziato a collaborare con l’agenzia di controllo. Per questa ragione, e ciò è alquanto sorprendente, l’ammontare della multa è stato proposto dalla banca e accettato dalla Cftc. Inoltre, sempre per tale tardiva e discutibile dimostrazione di buona volontà e di cooperazione, l’agenzia non ha chiesto che la banca fosse squalificata e dichiarata bad actor e, quindi, esclusa dai mercati perché “cattivo operatore”. Il che, e non solo secondo noi, sarebbe stata una vera rivoluzione nella finanza.  

Ancora una volta per le banche too big to fail si applica un conveniente accordo di favore. Le multe, anche se apparentemente salate, sono spesso solo una misera percentuale dei profitti fatti illegalmente e fraudolentemente. Il loro patteggiamento, di conseguenza, comporta sempre la fine delle indagini e dei procedimenti legali intrapresi.

In merito, comunque, il Dipartimento di Giustizia e il Procuratore dello Stato del Connecticut stanno istruendo dei procedimenti penali per frode. Anche la Security Exchange Commission (Sec), la Consob americana, l’agenzia federale preposta alla sorveglianza delle attività delle borse valori e alla protezione degli investitori, sta iniziando un caso legale in sede civile. Vedremo se andranno oltre l’imposizione di semplici ammende. C’è poco da sperarci.

Indubbiamente è in corso un profondo dibattito negli Stati Uniti circa l’efficacia delle azioni di controllo e di repressione da parte delle agenzie preposte al funzionamento dei mercati. Infatti, due consiglieri della succitata Cftc, si sono dichiarati non completamente soddisfatti per la mancata applicazione dello status di bad actor per la JP Morgan. Hanno richiesto una maggiore e fattiva collaborazione tra la Cftc e la Sec, che avrebbe l’autorità di escludere dai mercati le banche e gli operatori considerati inaffidabili. “Essenzialmente, hanno detto i due consiglieri, oggi la Sec consiglia alla Cftc quello che la Cftc deve consigliare alla Sec, il cui regolamento, poi, le vieta di fare”, Un “procedimento circolare” che oscura la trasparenza e le responsabilità con uno spreco di risorse. E’ qualcosa che anche in Europa e in Italia dovremmo imparare, circa le nostre varie agenzie di controllo.

La gravità dell’affaire della JP Morgan va ben oltre il caso in sé. La manipolazione dei mercati delle commodity non ha soltanto una valenza finanziaria. In questi mercati vengono contrattate le derrate e le risorse più importanti per l’economia e per la vita dei popoli e dei singoli cittadini: il cibo, l’energia, e tutte le materi prime che entrano nei settori produttivi dell’economia reale.

Non ci si può dimenticare dei picchi d’inflazione relativi ai prezzi del grano, del riso o del petrolio che, più volte in questi primi venti anni del ventunesimo secolo, hanno stravolto intere nazioni e impoverito, spesso fino alla fame, centinaia di milioni di persone.

Su problemi di tale portata non si dovrebbe né mettere la testa sotto la sabbia per non vedere né usare la mano leggera quando si scoprono comportamenti illegali. Essi, di solito, sono alla base di scandalosi arricchimenti.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Deutsche Bank: con la crisi aumentano i suoi manager milionari

Deutsche Bank: con la crisi aumentano i suoi manager milionari

Mario Lettieri * Paolo Raimondi**

In Europa nel settore bancario ognuno ha i suoi guai e i suoi compiti a casa da fare. L’Italia ha i crediti inesigibili da smaltire, la Germania ha la Deutsche Bank, il colosso sempre più traballante da sistemare. A ciò si aggiungano le mine vaganti delle banche “too big to fail” negli Stati Uniti che, come più volte sottolineato, rappresentano sempre un rischio sistemico. 

Da qualche tempo le azioni DB sono in caduta libera: sono scese sotto i 7 euro. Valevano ancora 20 euro nel 2017.

Non a caso i vari tentativi di salvataggio sono falliti. In particolare il piano di fusione con la banca tedesca numero due, la Kommerzbank, partecipata per il 15% dallo Stato. Si è dovuto prendere atto che, sommando i problemi delle due banche, non si sarebbe ottenuta una soluzione positiva. La DB è pur sempre un colosso con 200.000 clienti, mentre la Kommerzbank ne conta 180.000. Insieme sarebbero diventate la seconda banca europea per dimensioni, dopo l’inglese Hong Kong Shangai Bank Corporation.

Negli ambienti bancari si stima che, per restare a galla, la DB dovrebbe licenziare almeno 20.000 dei suoi attuali 90.000 impiegati. Anche in terra germanica, invece di rivedere il modello di business e di cambiare gli orientamenti e le priorità della gestione bancaria, si preferisce, purtroppo, penalizzare il lavoro e la tradizionale sana politica del credito alle famiglie e alle imprese. Del resto, si tenga presente che entrambe le banche tedesche sono partecipate da due tra i più speculativi hedge fund americani, Cerberus e Black Rock.   

Si ricordi che la Deutsche Bank ha il record di derivati finanziari per oltre 43.500 miliardi di euro, un po’ di più dei livelli delle tre banche americane, la JP Morgan Chase, la Citigoup e la Goldman Sachs. Il suo ammontare di attivi pari a circa 1.600 miliardi di euro contrasta con i soli 15 miliardi di capitalizzazione: uno tra i più squilibrati rapporti al mondo!

Secondo uno studio del quotidiano francese Les Echos, incomprensibilmente essa occupa anche il primo posto nella classifica delle banche europee con il più alto numero di manager con stipendi superiori al milione di euro: ben 643! Seconda è la Barclays inglese con 542. La nostra Intesa Sanpaolo è dodicesima con 33 dirigenti milionari.

In altre parole, le banche più attive nella speculazione e, di conseguenza più a rischio, pagano profumatamente chi, di fatto, le “pilota” nelle acque più burrascose e limacciose del business finanziario. Infatti, nella BD è proprio il capo del settore investment banking a guadagnare il massimo, 8,6 milioni di euro nel 2018! Ci sfugge la razionalità di tutto ciò.  

Qualche anno fa sembrava che la partecipazione in DB di HNA, il conglomerato cinese dell’aviazione e della logistica, avesse portato nuovi capitali e un po’ di stabilità, diventandone, di fatto, il maggiore azionista. Ma per realizzare simili operazioni il gruppo cinese si era pesantemente indebitato tanto da giungere alla soglia del collasso, costringendolo a una progressiva ritirata. 

L’uscita della HNA aveva momentaneamente aperto la strada della fusione con la Kommerzbank che, si ricordi, nel mezzo della crisi finanziaria globale, aveva già evitato la bancarotta solo per l’intervento di salvataggio del governo tedesco con oltre 16 miliardi di euro, in seguito, comunque, restituiti allo Stato.

In verità, è da un decennio che la DB è continuamente sotto osservazione e sotto indagini da parte delle autorità tedesche, inglesi e soprattutto americane. Si stima che nel periodo 2015-2017 essa abbia dovuto pagare soltanto agli enti di controllo americani e inglesi ben 11,2 miliardi di dollari in multe e condanne giudiziarie per varie truffe e per altri comportamenti finanziari sanzionabili, tenuti prima e dopo la crisi del 2008.

Più recentemente negli Usa la banca tedesca è coinvolta in alcune importanti indagini. La prima è relativa a una possibile frode bancaria attribuibile a Trump. Il presidente americano e tre dei suoi figli hanno presentato alla corte di New York  la richiesta di non trasmettere i dati relativi ai propri conti bancari presso la Deutsche Bank e la Capital One Financial Corporation, richiesti dal Congresso americano. La seconda ha a che fare con operazioni di riciclaggio di soldi sporchi da parte della Danske Bank, legata alla DB. Si indaga, poi, su un suo possibile ruolo nell’evasione fiscale di alcuni suoi clienti, come emerso nei famosi Panama Papers.  

Una cosa che disturba i tedeschi è quello che loro chiamano “Shadenfruede”,  cioè il piacere di alcuni per le disgrazie altrui. E’ la stessa irritazione che si prova anche in Italia quando alcuni esponenti europei si compiacciono delle nostre difficoltà.

Non è nostra intenzione discutere in questo modo dei problemi della Deutsche Bank. Al contrario, vorremmo che ci fosse un serio approccio europeo unitario nell’affrontare questi e altri problemi. L’Europa si costruisce anche con la condivisione degli intenti e degli impegni nei campi più importanti. E quello bancario certamente lo è.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Arrivano di nuovo le pagelle delle agenzie di rating

Arrivano di nuovo le pagelle delle agenzie di rating

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

 Arrivano le nuove pagelle delle agenzie di rating sull’Italia! La maggioranza dei media e tanti politici sono contenti come a Natale, sotto l’albero. Finalmente sapremo che i nostri titoli si avvicinano sempre più al livello di “spazzatura” e la cosa sembra consolare molti. In passato, abbiamo più volte messo in guardia da queste “incursioni”. Lo abbiamo fatto quando al governo c’era Berlusconi e le opposizioni usavano i rating per provare che tutto andava male. Lo abbiamo fatto quando al governo c’erano i vari governi del centrosinistra e le opposizioni sventolavano le pagelle negative. Lo facciamo anche ora con il nuovo governo e le nuove opposizioni.

 I rating di Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch  non sono valutazioni fatte da enti indipendenti ed eticamente impeccabili. Le agenzie sono imprese private con base negli Usa che hanno la pretesa di giudicare le economie del resto del mondo. In America, invece, sono annualmente tenute d’occhio dalle istituzioni di controllo per scovare eventuali conflitti d’interesse e non sono per niente amate dalle autorità di governo. Il loro ruolo nefasto e corresponsabile nella Grande Crisi del 2007-8, i loro trascorsi e i legami con le grandi banche e con la finanza speculativa, non depongono bene.

 Fitch è posseduta dal colosso della comunicazione Hearst, che ha capitali e partecipazioni in centinaia di differenti business privati. Tra i suoi executive vanta dirigenti che hanno lavorato con banche e finanziarie come Merryl Linch, Lehman Brothers, Goldman Sachs , l’inglese Lloyd Bank, la Beneficial Corporation, ecc.

 Moody’s Corp. ha un fatturato di 4,2 miliardi di dollari per i suoi servizi finanziari e di rating. I suoi grandi azionisti sono fondi d’investimento e grandi banche. I suoi dirigenti si sono fatti le ossa nella Federal Reserve, nella City Group, nella JP Morgan Chase, nelle multinazionali della farmaceutica e del petrolio, come l’ExxonMobil.

 La S&P Global controlla anche l’omonima agenzia di rating. Prima era controllata dal conglomerato Mc Graw Hill Financial, una multinazionale dei servizi finanziari, che ha cambiato nome. I grandi azionisti sono i chiacchierati fondi d’investimento Black Rock e Vanguard. Vanta dirigenti che sono stati in posizioni di comando alla City Bank, alla JP Morgan Chase, alla banca olandese ING, al francese  Credit Agricole, al Credit Suisse, e anche in grandi corporation tra cui la PepsiCo, la Lockeed Martin (tecnologia militare), ecc.

 Basterebbe una veloce occhiata ai loro siti internet per farsi un’idea precisa dei tanti passaggi dal mondo della grande finanza e della speculazione a quello delle grandi corporation che dominano i mercati e viceversa. E’ più che opportuno, quindi, ricordare quanto detto su di loro dalle massime autorità americane. Il documento “The financial crisis inquiry report”, preparato da una Commissione bipartisan e pubblicato dal governo americano nel 2011, evidenzia in oltre 650 dettagliatissime pagine le nefandezze perpetrate prima e durante la Grande Crisi finanziaria del 2007-8. Così sintetizza: ”Noi affermiamo che i fallimenti delle agenzie di rating sono stati delle cause essenziali della distruzione finanziaria. Le tre agenzie sono state le provocatrici chiave del meltdownfinanziario. I titoli legati alle ipoteche immobiliari, centrali nello scatenamento della crisi, non potevano essere valutati e venduti senza il marchio di approvazione delle agenzie. Gli investitori, spesso in modo cieco, hanno fatto affidamento sui loro rating. In alcuni casi erano persino obbligati a comprare tali titoli, pena un aggravamento degli standard relativi alle regole sui capitali loro impostogli. La crisi non sarebbe potuta avvenire senza le dette agenzie. I loro rating, prima alle stelle e poi repentinamente abbassati, hanno mandato in tilt i mercati e le imprese”.

 Anche il dossier del Senato americano “Wall Street and the financial crisis: anatomy of a financial collapse”, pubblicato nel 2011, sulla base di approfondite indagini e di numerose audizioni, dettaglia il ruolo centrale e nefasto delle agenzie nel provocare la Grande Crisi. Evidenzia, in particolare, il loro ruolo fraudolento nel propinare titoli taroccati dai loro rating. Non deve quindi sorprendere se nel 2015 solo la S&P ha pagato 1,5 miliardi di dollari di multa per simili comportamenti fraudolenti. Una sanzione monetaria molto conveniente, sia per il modesto importo, sia perché l’agenzia ha evitato che le indagini andassero più a fondo, facendo eventualmente emergere risvolti più scabrosi e penalmente perseguibili.

 Evidenziamo tutto ciò certo non per occultare gli evidenti problemi economici del nostro paese. Ci sembra, però, insopportabile la mancanza di critiche nei confronti delle citate agenzie private di rating, che, dopo aver contribuito grandemente a provocare la crisi finanziaria più grande della storia, di cui il mondo e l’Italia soffrono ancora, imperterrite, e riverite, proseguono a dare pagelle a tutti, governi e imprese.

 Se i loro rating fossero degli esercizi innocui di dispensare giudizi non richiesti, si potrebbe lasciarle giocare. Purtroppo i rating sono presi in considerazione dai mercati per giudicare le varie economie nazionali e, di conseguenza, per definire anche i tassi d’interesse sul debito pubblico. Si rammenti, inoltre, che la Bce li usa per definire l’affidabilità delle obbligazioni pubbliche dei paesi membri dell’Ue e per decidere se accettare o no tali titoli in garanzia per operazioni di credito e di finanziamento.

 Ciò, in verità, ci sembra una cosa del tutto “indigesta”.       

 *già sottosegretario all’Economia **economista

Si scrive Trump, ma si legge Goldman Sachs

Goldman Sachs all’arrembaggio della nave di Trump

 Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

 Molti negli Usa si riferiscono all’amministrazione Trump con l’appellativo “Government Sachs” in quanto ha imbarcato un numero impressionante di personaggi che, in vario modo, hanno lavorato o collaborato con Goldman Sachs, la più chiacchierata banca d’affari americana. Dall’esplosione della crisi globale la banca ha scalato molte posizioni nella lista delle banche americane più esposte in derivati finanziari over the counter fino a conquistare la terza posizione con oltre 45,5 trilioni di dollari di valore nozionale.

 Rispetto alle prime due, la Citigroup e la JP Morgan Chase, c’è una “piccola” differenza. Essa vanta il peggiore rapporto in assoluto tra il valore dei derivati e gli asset (gli attivi), che sono soltanto 880 miliardi di dollari. Il che significa che per ogni dollaro di asset, la GS ha quasi 52 dollari di derivati, mentre  la Citigroup ne ha 28,5 e la JPMorgan 20. Per cui, se queste due ultime non navigano in mari tranquilli, per la GS il mare rischia di essere sempre in burrasca. Sono dati significativi quanto preoccupanti tanto che anche l’Office of the Comptroller of the Currency (OCC), l’agenzia di controllo delle banche americane, a fine settembre 2016 ha affermato che il rapporto tra l’esposizione dei crediti e il capitale di base (credit exposure to risk-based capital) era del 433% per Goldman Sachs, rispetto al 216% della JP Morgan e al 68% della Bank of America.  Sempre secondo il citato rapporto, sei anni dopo l’entrata in vigore della riforma finanziaria Dodd-Frank, che obbligava le banche a sottoscrivere tutti i contratti derivati attraverso piattaforme regolamentate, la GS mantiene ancora il 76% dei suoi derivati in otc non regolamentati. Si tratta della percentuale più alta tra tutte le banche quotate a Wall Street.

 Come è noto l’opacità dei derivati otc ha giocato un ruolo determinante nella crisi finanziaria, in quanto le banche in quel periodo avevano in gran parte sospeso di farsi credito reciprocamente sospettando buchi nascosti. Di conseguenza le stesse hanno cercato di garantirsi contro eventuali crolli accendendo polizze presso le grandi assicurazioni, in particolare con il gigante AIG. Solo di recente è diventato noto che circa la metà dei 185 miliardi di dollari versati dal governo americano per salvare la citata AIG è andata a beneficio delle grandi banche “too big to fail”.  Infatti la GS ne avrebbe ricevuti ben 12,9 miliardi.

 Crediamo non debba sorprendere il fatto che la GS sia sempre stata al centro delle grandi indagini per far emergere i responsabili della crisi globale, né tanto meno il conoscere che la banca sia stata in prima fila nel tentativo di bloccare tutte le riforme del sistema bancario e finanziario americano.  E’ sorprendente, invece, che il presidente Trump continui a reclutare molti dei suoi uomini tra gli ex leader della GS. Da ultimo il suo team economico si è “arricchito” con l’arrivo di Dina Power, presidente della Fondazione della Goldman Sachs.

 Ma la nomina più provocatoria indubbiamente è quella di Jay Clayton a capo della Security Exchange Commission (SEC), l’agenzia governativa preposta al controllo della borsa valori, l’equivalente della nostra Consob. Clayton è un importante avvocato che ha lavorato per la GS, cosa che la di lui moglie fa ancora. Si tratta della stessa SEC che ha multato più volte Goldman Sachs per operazioni illegali di vario tipo: nel 2010 una multa di 550 milioni di dollari per operazioni fraudolente con titoli tossici immobiliari subprime e un’altra di 11 milioni  nel 2012 perché alcuni suoi analisti avevano segretamente favorito dei clienti ben selezionati.

 Anche la Federal Reserve nell’agosto 2016  le ha inflitto una sanzione di 36,3 milioni di dollari per aver usato informazioni confidenziali risultanti da operazioni di controllo fatte dalla stessa Fed. Per non dire della condanna a pagare 120 milioni per manipolazioni fatte sui tassi di interesse comminata nel dicembre dell’anno scorso dalla  Commodity Futures Trading Commission (CFTC), l’agenzia che ha il compito di controllare le borse delle merci e delle relative operazioni in derivati finanziari.

 Non è un caso, quindi, che nelle settimane passate alcuni senatori americani abbiano chiesto alla Goldman Sachs di  rendere pubbliche le sue attività di lobby contro la legge di riforma Dodd-Frank e di conoscere l’ammontare dei profitti risultanti dalla sua cancellazione. Si ricordi che tra i primi provvedimenti del presidente Trump c’è stata l’abrogazione della citata legge.

 Evidentemente, purtroppo, il presidente americano ha dimenticato quando da lui stesso detto qualche settimana fa: “Per troppo tempo, un piccolo gruppo nella capitale della nostra nazione ha raccolto i compensi governativi, mentre la gente ne ha sostenuto le spese. Washington ha prosperato, tuttavia il popolo non ha condiviso la sua ricchezza”. E’ il classico esempio di quanta distanza a volte c’è tra il dire e il fare.  

*già sottosegretario all’Economia  **economista

 

La ricchezza del mondo è nelle mani di pochi, mentre i poveri superano il miliardo

Esce il libro “Il casinò globale della finanza” di Mario Lettieri e Paolo Raimondi

Edito dalla EditricErmes, casa editrice di Potenza, arriva il libro «Il casinò globale della finanza” -Ricchezza per pochi. Un miliardo di poveri. Che mondo è?-. Gli autori, Mario Lettieri, già sottosegretario all’Economia, e Paolo Raimondi, economista con una lunga esperienza internazionale, dimostrano come, dopo 7 anni dal fallimento della Lehman Brothers e dallo scoppio della bolla finanziaria negli Usa, non siamo ancora usciti dal pantano della crisi globale Attraverso analisi e articoli, il libro ripercorre le tappe fondamentali della crisi globale fino a quella del debito pubblico in Europa e della Grecia.

Nel 2012 gli autori, nel loro precedente scritto “I gattopardi di Wall Street”, spiegavano che la crisi finanziaria globale non era un “avvenimento imprevedibile”, ma il risultato inevitabile dell’eccessiva finanziarizzazione dell’economia, del ruolo nefasto della speculazione e della finanza derivata e della grande propensione al rischio.

Molte economie, compresa quella italiana, sono state pesantemente colpite nei loro sistemi produttivi e sociali. Nel frattempo i super ricchi del pianeta lo sono diventati ancor di più, mentre i poveri hanno superato il miliardo. La ricchezza si è vertiginosamente concentrata nelle mani dello 0,1% dei più ricchi del mondo. I cittadini, le aziende e i governi, invece, sono stati oggetto di continue pressioni per far fronte ai propri debiti.

Nonostante i tanti summit internazionali le necessarie riforme non sono state fatte,. Invece, alle operazioni di bail out, cioè di salvataggio pubblico delle banche, è stato affiancato il bail in, cioè la possibilità di utilizzare anche parte dei depositi dei risparmiatori per salvare le banche in crisi!

La speculazione continua, anche sulle materie prime e sui beni alimentari. I derivati più pericolosi, gli OTC, ammontano ancora a 700.000 (settecentomila) miliardi di dollari. Tutto ciò purtroppo mette in discussione con effetti destabilizzanti gli stessi assetti geopolitici mondiali.

Nel libro si documenta come il processo di concentrazione del potere finanziario sia notevolmente cresciuto. Si pensi che, mentre nel 2009 le cinque maggiori banche americane detenevano l’80% dei derivati emessi negli Usa, oggi 4 banche soltanto – la JP Morgan Chase, la City Group, la Bank of America e la Goldman Sachs – detengono il 94% dell’intero ammontare, che è di circa 230 trilioni di dollari.
Tra l’altro si evidenzia il ruolo nefasto delle agenzie di rating e il loro grave conflitto di interesse con le “too big to fail”, cioè le banche più impegnate nella speculazione.

Sulla scena mondiale sono apparsi nuovi protagonisti, i Paesi del BRICS, che legittimamente rivendicano nuove e più giuste regole monetarie, commerciali e finanziarie. In discussione è anzitutto il ruolo del dollaro come unica moneta di riferimento. Mirano a creare un nuovo sistema monetario multipolare, in cui il commercio e le transazioni internazionali dovrebbero operare sulla base di un paniere delle monete più importanti. I loro grandi progetti infrastrutturali a livello continentale rappresenteranno un importante volano per la ripresa dell’economia reale, degli investimenti e dell’occupazione nel mondo, anche in Italia.

L’Europa non può sottrarsi a queste sfide epocali. Rendere più solidale e più coesa l’Unione europea è una necessità ineludibile.

E PER LE BANCHE USA “TROPPO GRANDI PER FALLIRE” BABBO NATALE HA PORTATO UN BEL REGALO. SPERIAMO CHE L’UNIONE EUROPEA NON LO IMITI CON LA BEFANA….

Regalo di Natale alle banche: ritorna il “bail out”

 Mario Lettieri* Paolo Raimondi** 

Solitamente Babbo Natale porta i regali ai più piccoli. Ma quest’anno, forse anche lui un po’ frastornato dalla valanga di messaggi di pubblicità o malignamente disinformato dall’onnipotente National Security Agency, ha fatto un bel regalo anche alle banche più grandi del pianeta.

Il Congresso americano infatti ha approvato delle misure che proteggono le “too big to fail” in tutte le operazioni con derivati finanziari. E’ stato cancellato il cosiddetto “Emendamento 716” della legge di riforma finanziaria Dodd-Frank che, per taluni derivati, costringeva le banche ad operare attraverso delle sussidiarie. Era un modo per evitare che i soldi dei depositi bancari venissero utilizzati in operazioni speculative.

Poiché i succitati depositi utilizzati usufruivano delle garanzie della Federal Deposit Insurance Commission (FDIC), tutte le banche in crisi finora hanno goduto di generose operazioni di salvataggio con fondi pubblici da parte del governo, i cosiddetti “bail out”.

In realtà la legge Dodd-Frank, originariamente concepita proprio per proteggere i risparmiatori dopo gli sconquassi della crisi finanziaria globale del 2007-8, era già stata abbondantemente annacquata. Permetteva quindi l’utilizzo dei depositi per i derivati relativi alla protezione rispetto ai rischi sui prestiti concessi, alla volatilità dei tassi di interesse e ai crediti inesigibili. Di fatto tale protezione riguardava ben il 95% di tutti i derivati.

Perciò è d’obbligo porsi la domanda del perché vi sia “tanta animosità” per il rimanente 5%, pari a 14 trilioni di dollari in rapporto a un montante nominale complessivo di circa 280 trilioni. Ciò soprattutto in considerazione del fatto che da tempo le banche possono contare anche sulla copertura del cosiddetto “bail in”, cioè sulla possibilità di attingere ai depositi, oltre che al capitale proprio, per coprire gli eventuali buchi provocati da operazioni finanziarie spericolate e da speculazioni andate male.

La risposta, secondo noi, sta proprio in quel 5% di derivati esclusi che include i derivati sulle commodity, rilevanti sotto tutti i punti di vista. Come evidenziato in passato, le banche hanno penetrato i mercati delle materie prime, su cui esercitano una crescente influenza sicuramente destabilizzante.

Oggi le banche americane sentono la necessità di garantirsi il “bail out” pubblico anche su questi segmenti di finanza speculativa in quanto i loro derivati, soprattutto quelli relativi al petrolio, rischiano di produrre grandissime perdite.

Infatti, mentre per i tassi di interesse il comportamento della Federal Reserve è una variabile prevedibile, l’andamento del prezzo del petrolio negli ultimi mesi non lo è stato. Non è stato quindi coerente con la legge della domanda e dell’offerta. In breve tempo esso è sceso da 110 dollari al barile a circa 60 dollari.

Vi è una chiara scelta politica sottesa alla volontà di inondare i mercati di petrolio e di continuare a produrne grandi quantità anche in situazioni di calo del prezzo assai vistoso. Normalmente non dovrebbe essere così, a meno che non vi siano forti ragioni geopolitiche. Ora appare evidente la volontà di mettere in ginocchio finanziariamente la Russia e l’Iran, due grandi produttori di petrolio i cui bilanci dipendono non poco da tale risorsa..

Però adesso le banche americane si trovano in pancia tanti prodotti derivati emessi in garanzia di aumenti del prezzo del petrolio oppure in rapporto a eventuali diminuzioni meno consistenti di quelle attuali.

La banca forse più esposta è la JP Morgan Chase, tanto che ha mandato il suo chief executive a testimoniare al Congresso per la rimozione dell’emendamento citato. La cosa in verità è passata sotto silenzio, “seppellita” nella legge finanziaria americana del 2015 che tra l’altro approva anche la copertura di spesa del governo per 1.100 miliardi di dollari per evitare così nuovi shut down.

Il voto delle leggi finanziarie spesso nasconde tra le migliaia di commi e di norme scelte e decisioni non giustificabili e non sostenibili. In verità il cosiddetto “assalto alla diligenza” accade anche da noi in sede di approvazione della Legge di Stabilità.

Speriamo che la scelta compiuta dal Congresso americano non venga imitata anche dall’Unione europea.

*Sottosegretario all’Economia del governo Prodi **Economista

Nuova indagine sulle banche USA padrone delle commodity

Nuova indagine sulle banche USA padrone delle commodity

Mario Lettieri* Paolo Raimondi**

Le grandi banche sono state pizzicate a speculare alla grande sulle commodity, sulle materie prime, sui cereali e su altri prodotti alimentari.

La Commissione d’Indagine del Senato americano, diretta dal democratico Carl Levin e dal repubblicano John McCain, ha pubblicato un dossier di 400 pagine dal titolo “Wall Street bank involvement with physical commodities” per denunciare con dovizia di dettagli come le “too big to fail” stiano manipolando, ovviamente a loro vantaggio, i mercati delle commodity. Naturalmente tutto ciò con riverberi sui mercati internazionali.

Per due anni la Commissione ha indagato sui casi più eclatanti che evidenziano come “il massiccio coinvolgimento di Wall Street nelle commodity mette a rischio la nostra economia, le nostre imprese e l’integrità dei nostri mercati. Bisogna reintrodurre – continua la Commissione – la separazione tra banca e commercio per prevenire che Wall Street utilizzi informazioni non di pubblico dominio a suo profitto e a spese dell’industria e quindi dei cittadini”. Ciò non vale soltanto per gli Stati Uniti ma per il mondo intero.

La Commissione sta procedendo con delle audizioni pubbliche per dimostrare come alcune banche abbiano fatto aumentare artificialmente i prezzi delle materie prime e speculato in derivati sulle stesse, sfruttando gli “effetti provocati” dalle manipolazioni. Il senatore Levin avverte anche di possibili futuri rischi sistemici per l’economia dovuti al fatto che le banche sono coinvolte in imprese esposte ad alti rischi di catastrofi ambientali.

Sono state analizzate in particolare le attività delle solite maggiori banche americane, tra cui la Goldman Sachs, la JP Morgan Chase, la Morgan Stanley e la Bank of America.

La Goldman avrebbe “assunto” il controllo del mercato dell’alluminio. Nel 2010 ha acquistato la Metro International Trade Services di Detroit, che gestisce lo stoccaggio certificato dalla London Metal Exchange, la principale borsa mondiale dei metalli. Nei suoi magazzini ci sarebbe l’85% di tutto l’alluminio contrattato alla borsa di Londra per il mercato americano. Trattasi di 1,6 milioni di metri cubi di alluminio pari al 25% dell’interno consumo annuale in Nord America. La banca ha aumentato la sua proprietà diretta di alluminio passando da una quantità pari a 100 milioni di dollari a 3 miliardi. Possiede, tra l’altro, anche un’impresa che commercia uranio e due grandi miniere di carbone in Colombia!

Il meccanismo messo in atto sembra piuttosto semplice. Attraverso varie manipolazioni e fittizi spostamenti di ingenti quantità da un magazzino all’altro la Goldman Sachs sarebbe riuscita a determinare ritardi nelle consegne del metallo alle industrie acquirenti. Invece dei 40 giorni necessari nel 2010, lo scorso settembre il tempo di consegna è stato di ben 600 giorni! Ovviamente ciò ha prodotto un aumento sul costo dello stoccaggio, la cui percentuale su quello totale è passata dal 6% del 2010 al 20% di oggi. Naturalmente tutto a beneficio di Metro-Goldman. La conseguenza è stata un’impennata dei prezzi dell’alluminio tanto che molte imprese colpite hanno denunciato la manipolazione, tra cui la Coca Cola. Sembra che al “giochetto degli spostamenti” abbiano partecipato anche altre banche come la Deutsche Bank e l’hedge fund inglese Red Kite,

I profitti realizzati con l’aumento dei prezzi di stoccaggio per la Goldman sono stati soltanto una piccola parte del guadagno. Il vero business lo hanno fatto con le speculazioni sui future dell’alluminio e con altri derivati costruiti in base alla manipolazione dei prezzi e alla posizione di monopolio dello stoccaggio.

Da parte sua la JP Morgan Chase ha ammassato grandi quantità di materie prime per un valore di mercato di 17,4 miliardi di dollari pari al 12% del suo capitale di base, il cosiddetto Tier 1. Poiché sono stati superati abbondantemente i limiti permessi, la banca furbescamente ha sottostimato di quasi due terzi tale valore prima di rendicontarlo alla Federal Reserve. E’ arrivata anche a possedere fino al 60% di tutto il rame negoziato sui mercati mondiali. Nel campo energetico possiede 25 milioni di barili di petrolio e controlla 19 centri di immagazzinamento di gas.

La Morgan Stanley invece controlla 58 milioni di barili di petrolio. Possiede 100 petroliere e circa 8.000 km di oleodotti. E’ padrona di 18 centri di immagazzinamento di gas. Contemporaneamente sta costruendo la propria centrale di compressione del gas ed è la fornitrice privilegiata di carburante per alcune grandi compagnie aeree.

La Bank of America ha 35 centri di stoccaggio di petrolio e 54 di gas.

In altre parole, all’ombra di una troppo abusata “globalizzazione” che tutto giustifica, le banche fanno sempre meno gli istituti di credito e, forti anche dei capitali ottenuti a tassi di favore dal governo, si mettono in diretta competizione con le imprese che operano nei settori dell’industria, dell’agricoltura, del commercio, della lavorazione e dello sfruttamento delle materie prime fino a determinarne i comportamenti e la stessa sopravvivenza.

Appare chiaro l’intreccio perverso tra banche e organismi di controllo che evidentemente non hanno fatto il loro dovere.

Avviata l’indagine senatoriale, la Goldman Sachs si è affrettata a licenziare due suoi importanti operatori coinvolti nelle manipolazione. Si è scoperto però che prima essi avevano lavorato per la Federal Reserve di New York. Del resto è noto che l’attuale capo della Fed di New York, William Dudley, è stato un alto dirigente della Goldman fino al 2005

E’ certamente importante che la Commissione d’Indagine del Senato lavori su questi casi specifici. In passato la stessa Commissione in verità aveva denunciato le responsabilità delle grandi banche americane nella crisi finanziaria globale dei mutui subprime, dei derivati Otc e dei titoli tossici. Il fatto che, a distanza di anni, si debba ancora denunciare simili gravi comportamenti, dovrebbe suonare come un vero allarme sui rischi sistemici di una finanza che purtroppo continua a ritenersi l’ agnello d’oro” da adorare sempre.

Ci saremmo aspettati che a Brisbane si fosse parlato anche di ciò.

* Sottosegretario all’Economia del governo Prodi **Economista

LE BANCHE CONTINUANO A MANIPOLARE I MERCATI E A TENERE AL GUINZAGLIO LA GIUSTIZIA

Dopo il LIBOR, le banche continuano con la manipolazione dei mercati.

Mario Lettieri* Paolo Raimondi**

Cinque grandi banche internazionali dovranno pagare all’agenzia di controllo americana Commodity Futures Trading Commission (CFTC), all’inglese Financial Conduct Authority (FCA) e all’agenzia di controllo svizzera Finma ben 4,3 miliardi di dollari di multa per aver manipolato per anni, almeno dal 2009 fino alla fine del 2013, i cosiddetti tassi Forex. Naturalmente la notizia sta suscitando grande sensazione

Ovviamente sono le “too big to fail”, 2 banche americane, la Citibank e la Jp Morgan Chase, due inglesi, l’HSBC Bank e la Royal Bank of Scotland, e la svizzera UBS. Inoltre c’è per l’inglese Barclays Bank un’indagine aperta.

Esse hanno manipolato i tassi di cambio usati come riferimento di base per stabilire i valori delle differenti monete e anche i tassi di cambio tra le stesse.

In una sorta di cabina di regia, usando nomi in codice da loggia segreta, gli operatori bancari incaricati si scambiavano anche informazioni riservatissime relative ad operazioni monetarie fatte dai loro clienti. Il tutto a beneficio naturalmente degli interventi fatti poi dalle banche stesse sui mercati dei cambi. Continua a leggere

INCREDIBILE MA VERO: IL LUCROSO BUSINESS DELLA BANCHE CHE FINANZIANO LA PRODUZIONE DI BOMBE ATOMICHE

http://www.unimondo.org/Notizie/BNP-Paribas-e-Deutsche-Bank-le-banche-UE-che-piu-finanziano-le-bombe-nucleari-142877

di Giorgio Beretta

Sono sempre loro: BNP ParibasDeutsche Bank. Già ai vertici delle operazioni a sostegno dell’export militare italiano, figurano anche tra i gruppi bancari europei più attivi nel finanziare l’industria degli armamenti nucleari. Sono preceduti solo dalla britannica Royal Bank of Scotland nella lista delle banche europee “most heavily involved” (più pesantemente coinvolte) nel supporto ai produttori di armi nucleari. Lo documenta il rapporto Don’t Bank on the bomb (qui in .pdf) diffuso ieri a livello mondiale dalla campagna ICAN (International Campaign to Abolish Nuclear Weapons) di cui la Rete Disarmo è partner italiano.

Il quadro internazionale: primeggiano le banche USA

La ricerca – che è stata sviluppata da IKV Pax Christi Olanda e la società di ricerche Profundo per la coalizione internazionale ICAN – fa seguito ad un’analoga ricerca pubblicata lo scorso anno: riporta le 298 istituzioni finanziarie pubbliche e private(soprattutto banche, assicurazioni, fondi pensione ecc.) che nell’ultimo quadriennio hanno investito circa 314 miliardi di dollari a favore di 27 compagnie ed industrie internazionali coinvolte nella produzione, manutenzione e modernizzazione delle armi nucleari.

La componete più consistente è rappresentata dalle istituzioni finanziarie con sede negliStati Uniti (ben 165 su 298) che sommate alle 9 del Canada hanno movimentato quasi 223 miliardi di dollari. Quelle basate in Europa sono 65 con finanziamenti complessivi per oltre 73 miliardi di dollari; 47 quelle in Asia e Oceania con movimentazioni di oltre 17 miliardi di dollari; le 10 con sede in Medio Oriente hanno operato per 958 milioni di dollari e una in Africa per circa 6,2 milione di dollari. “In altri paesi dotati di armi nucleari – come la Russia, la Cina, il Pakistan e la Corea del Nord – la modernizzazione delle forze nucleari è svolta principalmente o esclusivamente da agenzie governative” – avverte il rapporto (p. 29) e pertanto le istituzioni finanziarie di questi paesi non sono prese in considerazione. Continua a leggere

Progetti importanti tra illusioni di ripresa. E la rischiosa abboffata di profitti della banche Usa

di Mario Lettieri*  e Paolo Raimondi**

1) – Mobilitare il nostro sistema-paese sul territorio e a livello internazionale

Riteniamo che le prospettive economiche del nostro Paese non si possano misurare con meri dati statistici o peggio con qualche altro indicatore basato magari sulle aspettative degli intervistati. Le tante esternazioni di questi giorni sulla fine della recessione e sulla svolta economica positiva prevista per il terzo trimestre 2013 ci suonano più come auguri di Ferragosto che serie analisi suffragate da dati e andamenti reali. Non si tratta di iniziare una diatriba tra ottimisti e pessimisti sul futuro dell’economia nazionale. In passato questi “psicologismi spiccioli” hanno infatti dato spazio solo alla frustrazione e alla rabbia. Siamo consapevoli che spesso certe valutazioni negative sulla nostra economia, come quelle delle agenzie di rating, si sono tradotte, purtroppo, in tagli e spesso in cieca politica di bilancio.

Allo stato non esistono però concreti e solidi elementi per poter salutare l’uscita dalla crisi né a livello globale né a livello europeo e tanto meno a livello nazionale. Basti pensare che l’Ocse prevede un alto livello di disoccupazione. Per l’Italia il tasso relativo dovrebbe salire al 12,5% alla fine del 2014! E’ davvero difficile quindi immaginare una ripresa economica mentre l’occupazione scende così vistosamente, determinando ovviamente un conseguente generalizzato aumento della povertà. In Italia, purtroppo, da tempo manca una seria programmazione con una conseguente puntuale verifica di quanto realizzato. E’ indispensabile indicare percorsi di sviluppo ma anche progetti sul medio e lungo termine e scadenze precise.  Continua a leggere