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Samarcanda: la via della multilateralità

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

I risultati del summit dei Capi di Stato dei Paesi della Shanghai Cooperation Organization (Sco), tenutasi il 16 settembre a Samarcanda, nell’Uzbekistan, meritano di essere analizzati senza paraocchi ideologici o precostituiti. Permetterebbe di evitare errori di valutazione geopolitica di cui in seguito ci si potrebbe pentire.

La Sco è stata creata nel 2001, con lo scopo di coordinare le attività dei Paesi membri nella lotta al terrorismo, per la sicurezza e soprattutto per la cooperazione economica, tecnologica e infrastrutturale. Oggi conta nove membri, fra cui la Cina, l’India e la Russia. Insieme rappresentano il 40% della popolazione e il 25% del pil mondiale.

Sbaglia chi cerca di vedere nella Sco la realizzazione di una Nato dell’Eurasia. Le differenze tra i partecipanti sono troppe e profonde. Sarebbe altrettanto sbagliato, però, sottovalutarne l’importanza. Sarebbe profondamente fuorviante ripetere per la Sco gli errori di valutazione che molti intenzionalmente fanno in rapporto al ruolo dei Brics.   

Una lettura attenta della Dichiarazione finale di Samarcanda aiuterebbe a capire meglio i processi in atto. E’ opportuno, anzitutto, rilevare che, tra i vari Capi di Stato, erano presenti il presidente cinese Xi Jinping, il primo ministro indiano Narendra Modi e il presidente russo Vladimir Putin. Ciò nonostante, va sottolineato, il totale isolamento occidentale nei confronti di Putin e le sanzioni contro la Russia.

E’ opportuno, invece, prendere atto della valutazione geopolitica e geoeconomica offerta dal summit. Rispetto alla sicurezza si afferma che “Il mondo sta attraversando cambiamenti globali. Questi processi sono accompagnati da una maggiore multipolarità. L’attuale sistema di sfide e minacce internazionali sta diventando più complesso, la situazione nel mondo è pericolosamente peggiorata, i conflitti e le crisi locali si stanno intensificando e ne stanno emergendo di nuovi.”.

Circa l’economia si dice che “Il crescente divario tecnologico e digitale, le continue turbolenze nei mercati finanziari globali, la riduzione dei flussi d’investimento, l’instabilità nelle catene di approvvigionamento, l’aumento delle misure protezionistiche e altri ostacoli al commercio internazionale si aggiungono alla volatilità e all’incertezza nell’economia globale.”

Il concetto più ripetuto è quello della “multilateralità”, ponendo così la questione agli Stati Uniti e all’Occidente. 

Alcuni aspetti sulla cooperazione economica meritano attenzione. La Dichiarazione sostiene che i membri della Sco, con l’eccezione dell’India, “ riaffermano il sostegno all’iniziativa cinese One Belt, One Road (Obor, la Via della seta) e riconoscono il lavoro in corso per attuare il progetto e gli sforzi per collegare la costruzione dell’Unione economica eurasiatica con l’Obor.”  L’idea è di istituire un partenariato eurasiatico allargato che coinvolga, oltre alla Sco, l’Ueea, i Paesi dell’Asean, altri Stati interessati e le associazioni multilaterali.

Il testo, inoltre, fa riferimento all’importanza dell’uso delle monete nazionali nei regolamenti commerciali e monetari già praticato da alcuni Stati membri. Ciò avviene tra la Russia e la Cina e anche l’India dovrebbe a breve regolare i commerci con la Russia in monete nazionali.

Quest’orientamento avvicina la Sco alle politiche dei Brics. Infatti, la Dichiarazione finale riporta l’intenzione di creare una Banca di sviluppo della Sco, un Business Council, un Fondo di sviluppo all’interno di un Accordo quadro per la cooperazione nel commercio e nei servizi, di un Programma per lo sviluppo delle infrastrutture nei trasporti e nell’energia e di un Piano d’azione per lo sviluppo del commercio tra gli Stati membri. Tutte pratiche già sperimentate dai Brics.

Non è elegante ripetersi, ma speriamo che l’Unione europea e i suoi Stati membri non si limitino a dei semplici commenti ma partecipino attivamente ai progetti di sviluppo. Altrimenti, il summit di Samarcanda sarebbe soltanto la conferma di una pericolosa spaccatura del mondo in due blocchi contrapposti.  

La divisione in blocchi, soprattutto ora che c’è una guerra tra Russia e Ucraina, può ulteriormente aggravare la situazione. Crediamo che l’interesse dei popoli dell’Ue, a partire da quello italiano, sia, invece, quello di non interrompere il filo sottile delle relazioni tra mondi diversi per giungere ad una duratura e pacifica cooperazione.

*già sottosegretario all’Economia  **economista

Multilateralismo e NON Stati egemoni (leggi USA)

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Lo scorso 19 maggio i ministri degli Esteri dei Paesi BRICS ( acronimo usato in economia internazionale per riferirsi ai seguenti paesi: Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica ) si sono incontrati, in via telematica, per discutere della situazione strategica globale e per promuovere il loro processo di cooperazione e d’integrazione.

Si tratta di un evento degno di grande attenzione da parte dell’Occidente e in particolare dell’Unione Europea. E’ opportuno sempre ricordare che i BRICS rappresentano più del 40% della popolazione mondiale e ben il 20% del Pil del pianeta.

Ovviamente la guerra in Ucraina è stata affrontata. Al punto 11 della Dichiarazione finale si afferma: ”I ministri hanno ricordato le loro posizioni nazionali sulla situazione in Ucraina espresse nelle sedi appropriate, segnatamente il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e l’Assemblea Generale dell’Onu. Essi sostengono i negoziati tra Russia e Ucraina. Hanno anche discusso le loro preoccupazioni per la situazione umanitaria in Ucraina e dintorni ed hanno espresso il loro sostegno agli sforzi del Segretario generale delle Nazioni Unite, delle agenzie Onu e del Comitato Internazione della Croce Rossa per fornire aiuti umanitari in conformità con la risoluzione 46/182 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.”.

Importanza grande ha assunto la sessione separata del gruppo “BRICS Plus”, che ha incluso l‘Argentina, l’Egitto, l’Indonesia, il Kazakistan, la Nigeria, gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita, il Senegal e la Tailandia in rappresentanza dei Paesi emergenti e di quelli in via di sviluppo.  E’ in considerazione un possibile allargamento dei BRICS. Se ne discuterà a giugno in Cina al 14° summit annuale, dedicato a una “Nuova era di sviluppo globale”.

Il presidente cinese Xi Jinping, definendo la situazione attuale di grande “turbolenza e trasformazione”, ha chiesto un rafforzamento della cooperazione, della solidarietà e della pace attraverso la Global Security Initiative per una “sicurezza comune” da affiancare alla sua Global Development Initiative (Gdi). Egli ha rilevato che lo scontro tra blocchi contrapposti e la persistente mentalità della guerra fredda dovrebbero essere abbandonati a favore della costruzione di una comunità globale di “sicurezza per tutti”. E’opportuno ricordare che la Gdi è stata valutata positivamente da più di 100 Paesi e da molte organizzazioni internazionali, comprese le Nazioni Unite.

La Dichiarazione fa del multilateralismo l’idea portante della politica dei BRICS. Ribadisce il ruolo guida del G20 nella governance economica globale e sottolinea che esso “deve rimanere intatto per fronteggiare le attuali sfide globali.”. Evidentemente l’aggettivo “intatto” indica la volontà di avere anche la Russia nei meeting del G20, che, dopo l’Indonesia, nei prossimi tre anni saranno presieduti rispettivamente dall’India, dal Brasile e dal Sud Africa.

Un certo disappunto è stato manifestato nei confronti dei Paesi ricchi che nella pandemia Covid non hanno dato una giusta attenzione ai bisogni dei Paesi in via di sviluppo.

In sintesi, di là del dramma della guerra, nel mondo ci sono segnali per realizzare iniziative miranti a un nuovo ordine mondiale. Per esempio, l’ex presidente brasiliano Lula Da Silva, candidato alle elezioni di ottobre, propone esplicitamente la creazione di una nuova valuta, il Sur, da usare nel commercio latinoamericano per non continuare a dipendere dal dollaro.

A marzo diverse società cinesi hanno acquistato carbone russo pagando in yuan. E’ il primo acquisto di merci russe pagate in valuta cinese dopo che la Russia è stata sanzionata dai Paesi occidentali.

Crediamo che sia il momento non solo di valutare meglio gli interessi dell’Unione Europea, ma anche di accentuare il ruolo di maggiore autonomia per contribuire a realizzare un assetto multipolare.

*già sottosegretario all’Economia **economista

 

India e Pakistan ai ferri corti

L’India ha approvato una norma che consente ai cittadini indiani di acquistare terreni nei territori del Jammu-Kashmir, unico stato indiano a maggioranza musulmana (66%), da 70 anni rivendicato dal Pakistan, cioè da quando nell’agosto 1947 i britannici rinunciarono all’India come loro colonia e accettarono di dividere il territorio in due nuovi paesi indipendenti: l’India, a maggioranza induista, e il Pakistan, a maggioranza musulmana (da un pezzo del territorio pakistano nacque poi il Bangladesh, nel 1971). Milioni di persone migrarono da un paese all’altro e ci fu moltissima violenza: i morti furono centinaia di migliaia. Nell’accordo che aveva stabilito la divisione dell’ex colonia britannica non era stata inserita alcuna soluzione per lo stato principesco del Jammu-Kashmir, uno dei 565 domini semi-indipendenti attraverso i quali la corona britannica aveva amministrato i territori indiani non direttamente sottoposti al suo controllo.

A quel tempo il Kashmir era un’area a maggioranza musulmana (contadini poveri) con un sovrano e molti agrari induisti. Nel 1947 sia l’India sia il Pakistan rivendicarono il piccolo stato principesco come proprio sulla base di ragioni religiose e culturali. I pakistani inviarono sul posto un esercito di volontari, mentre il principe locale chiese aiuto all’esercito indiano. Alla fine l’India riuscì a occupare due terzi della regione, mentre il Pakistan si prese il restante terzo.

L’ONU stabilì che la decisione finale doveva spettare alla popolazione locale, ma le elezioni non si tennero mai e la regione del Kashmir rimase divisa in due: da una parte lo stato indiano del Jammu-Kashmir, dall’altra quello pakistano del Gilgit-Baltistan. In mezzo, quella che anni dopo sarebbe diventata la cosiddetta “linea di controllo“.

Ora il nuovo provvedimento cancella il diritto esclusivo per chi è residente permanente nello stato del Kashmir all’acquisto di terreni nello stato stesso.

I politici locali denunciano una costante riduzione dei diritti del popolo del Kashmir da quando, lo scorso anno, è stato abolito lo statuto speciale garantito dalla Costituzione indiana fin dagli anni Cinquanta e che ne faceva una regione autonoma con proprie regole su residenza e proprietà. L’articolo 370 concede allo stato indiano una propria costituzione, una bandiera separata e la libertà di fare leggi, sebbene gli affari esteri, la difesa e le comunicazioni restino appannaggio del governo centrale.

Nell’ottobre del 2019 infatti il parlamento indiano ha diviso lo stato di Jammu-Kashmir in due diversi territori: uno che continua ad avere lo stesso nome e un parlamento statale, mentre l’altro, al confine con la Cina, tra Tibet e Pakistan, chiamato Ladakh, privo di parlamento. Da allora sono entrambi Territori dell’Unione ma governati direttamente dal governo centrale.

Il primo ministro indiano Narendra Modi vuole uniformare le regole in vigore nel Kashmir col resto del paese.

Dagli anni Ottanta il Pakistan ha cominciato a incoraggiare movimenti di guerriglia nel Jammu-Kashmir, che insieme alla brutale repressione dell’esercito indiano hanno provocato la morte di più di 40mila persone.

In questa area i due paesi hanno combattuto altre tre guerre (nel 1965, 1971 e 1999), nelle quali sono morte decine di migliaia di persone: l’ultima si concluse nel 2003.

Nel 2019 Modi ha ordinato un attacco aereo contro il Pakistan, dopo che un miliziano del Kashmir legato a un gruppo pakistano aveva fatto esplodere un’autobomba contro un convoglio militare indiano, uccidendo almeno quaranta soldati.

Durante il primo mandato di Modi il governo indiano aveva iniziato a riscrivere i libri di storia, eliminando molte parti che parlavano dei governanti musulmani, e aveva adottato politiche sempre più favorevoli agli induisti conservatori. Il progetto del premier è quello di cambiare il carattere fondamentale dell’India: da stato laico, voluto dai padri fondatori (tra cui Nehru, il primo capo del governo indiano) a nazione induista. Infatti negli ultimi cinque anni l’India di Modi si è spostata sempre più su posizioni nazionaliste e i gruppi e le organizzazioni indù di destra hanno acquisito sempre più potere.

Molti temono che ora il partito Bharatiya Janata (BJP) di Modi possa adottare nuovi provvedimenti per colpire l’Islam in India, per es. eliminando alcune particolari leggi relative ai matrimoni e alle eredità nelle famiglie musulmane e costruendo un tempio indù ad Ayodhya, sulle rovine di una moschea.

Intanto il governo indiano ha imposto un coprifuoco per evitare manifestazioni, ha interrotto tutte le comunicazioni verso l’esterno, ha arrestato diversi politici locali, anche i più moderati, e ha vietato qualsiasi forma di riunione e protesta.

Il primo ministro pakistano, Imran Khan, che vorrebbe tutto il Kashmir per sé, ha detto che si batterà contro la revoca dello “status speciale” rivolgendosi al Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Teme una pulizia etnica da parte dell’India.

Insomma ci sono tutte le premesse per una nuova guerra tra queste due potenze nucleari. E quella è una delle zone più militarizzate del mondo.

Anche la vicina Cina, che si è presa una parte del territorio nel 1962, ha espresso opposizione alla mossa indiana, schierandosi coi pakistani.

Da notare che il premier nazionalista Modi si sta preparando per le elezioni del prossimo maggio. Probabilmente ha voluto alzare i toni dello scontro con il Pakistan per aumentare i consensi del proprio partito. Ma la situazione potrebbe facilmente degenerare.

In gioco non ci sono solo cospicui giacimenti di rubini, oro, argento, rame, carbone, ferro e manganese, ma anche lo sfruttamento delle foreste e soprattutto delle risorse idriche del bacino dell’Indo (la zona è ricca di ghiacciai e nevi perenni), anche se l’80% della popolazione lavora in campo agricolo e nell’allevamento.

L’India è interessata soprattutto all’acqua, poiché orienta da sempre la propria politica energetica sull’idroelettrico, di cui è settimo produttore mondiale e quarto potenziale, dopo Cina, Brasile e Canada. Le dighe — potenzialmente — sono in grado di bloccare l’80% dell’approvvigionamento idrico dell’agricoltura pakistana.

1) Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica cooperano con forte sviluppo mentre l’Europa si limita a guardare. 2) La matematica al servizio delle speculazioni globali gigantesche in tempo reale, che nel mondo intero rendono sempre più ricchi pochi e sempre più poveri troppi.

 

Goa: BRICS, alleanza sempre più stretta

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Il summit dei Paesi BRICS a Goa, India, tenutosi il 16 ottobre scorso segna un ulteriore passo avanti verso la creazione di una più stretta alleanza istituzionale tra i suoi membri. E’ indubbiamente la dimostrazione concreta che gli indebolimenti interni ai singoli Paesi e i tentativi esterni di destabilizzazione non hanno avuto gli effetti paralizzanti che certi interessi geopolitici si auguravano.

La Dichiarazione finale del summit afferma che i BRICS rappresentano “una voce influente sullo scenario internazionale capace anche di generare effetti positivi tangibili per i propri popoli”. Essi “contribuiscono grandemente all’economia mondiale e al rafforzamento dell’architettura finanziaria internazionale” anche attraverso i nuovi organismi come la Nuova Banca per lo Sviluppo (NDB) e l’Accordo per la Riserva di Contingenza (CRA) . Ciò dovrebbe agevolare la “transizione verso un ordine internazionale multipolare”.

Tale prospettiva si affianca alla denuncia dei “conflitti geopolitici che hanno contribuito al clima d’incertezza dell’economia globale”, in quanto lo sviluppo e la sicurezza sono strettamente collegati, direttamente proporzionali e determinanti per sostenere una pace duratura.

Al riguardo si ribadisce il sostegno al ruolo centrale dell’ONU come unica organizzazione multilaterale universale capace di lavorare per la pace, la sicurezza, lo sviluppo, la solidarietà e la tutela dei diritti umani. Tale sostegno è una scelta importante, per certi versi stridente con lo stesso silenzio dell’ONU rispetto a situazioni di crisi, come quelle in atto in Siria e in Nord Africa.

Si afferma con forza che “le politiche monetarie da sole non possono condurre ad una crescita bilanciata e sostenibile”. Si sottolinea perciò “l’importanza dell’industrializzazione e di efficaci misure finalizzate allo sviluppo industriale, che sono le fondamenta di una trasformazione strutturale”. In questo contesto l’innovazione tecnologica, si evidenzia, è centrale.

Durante la riunione del BRICS Business Council, formato da 25 importanti industriali, tenutosi il giorno prima del summit, i capi di governo dei BRICS hanno parlato con un linguaggio ancora più chiaro. Il presidente cinese Xi Jinping ha detto che l’economia mondiale langue nel mezzo di una “ripresa incerta e volatile”. E’ perciò necessario, ha aggiunto, che, dopo i successi dei passati dieci anni, i BRICS rafforzino la loro partnership.

A sua volta il primo ministro indiano Narendra Modi ha aggiunto che tale crescente e positivo rapporto tra i Paesi BRICS deve rafforzarsi con la creazione di nuove istituzioni e organizzazioni comuni, tra cui una propria Agenzia di rating, un Centro di ricerche agricole e quello per le infrastrutture e i trasporti ferroviari.

Il presidente russo Vladimir Putin, da parte sua, ha indicato una strategia comune per una nuova linea di cooperazione e di investimenti che colleghi le attività del Business Council con quelle della Nuova Banca di Sviluppo. L’intento è quello di rendere più operativi gli imprenditori privati. Molti dei quali, con l’occasione, hanno partecipato alla grande Fiera Commerciale di New Delhi dove sono stati presentati i nuovi prodotti tecnologici e industriali realizzati nei rispettivi Paesi

Noi pensiamo che nel prossimo futuro il mondo occidentale potrebbe essere sorpreso dai molti nuovi progetti realizzati congiuntamente dai BRICS in vari campi tecnologici.

I capi di governo dei BRICS hanno ribadito gli accordi e gli impegni presi al summit del G20 di Hangzhou in Cina all’inizio di settembre. In particolare hanno rinnovato l’impegno a lavorare con più decisione nel G20 per progetti di importanza globale, come l’Iniziativa per lo sviluppo dell’Africa e la definizione dei una più giusta ed equa governance del Fondo Monetario Internazionale.

Ci sembra che, anche in relazione al ruolo, sempre più incisivo, dei BRICS, l’Unione europea dovrebbe avviare con maggiore convinzione rapporti più stringenti con detti Paesi. Sarebbe il modo più concreto ed efficace di contribuire ad accelerare la ripresa economica globale, la crescita delle regioni in ritardo di sviluppo e, ovviamente, la realizzazione dell’indispensabile stabilità politica internazionale quale presupposto per una pace mondiale duratura.

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Algoritmi: parola magica per meglio speculare

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi **

Recentemente i mercati internazionali, sia delle valute che dei titoli, hanno registrato dei capovolgimenti così grandi da suscitare grandi preoccupazioni sulla tenuta dell’intero sistema bancario e finanziario mondiale. Eppure i governi e le autorità preposte, nonostante le loro indubbie preoccupazioni, hanno cercato di far passare tali eventi come ‘fisiologici per il mercato’.

Invece, così non è.

Venerdì 7 ottobre, nel giro di meno di 3 minuti, la lira sterlina è crollata del 6% per poi recuperare il 5 % in meno di un ora. Dopo aver raggiunto il minimo assoluto degli ultimi 31 anni, a fine giornata la sterlina registrava una perdita dell’1,6%.

Il crollo è avvenuto alle 7 di mattina sul mercato di Singapore, mentre a Londra ancora si dormiva profondamente e la borsa di Wall Street aveva già chiuso le sue operazioni.

E’ stata una pura speculazione, di inaudita pericolosità per l’intero sistema, per niente giustificabile con i possibili effetti della Brexit sull’economia inglese. L’unica spiegazione possibile, ci sembra, è legata al cosiddetto ‘electronic trading’, che avviene quando i computer sono programmati con un algoritmo specifico a fare in automatico operazioni di compravendita ad una velocità straordinaria, oltre ogni immaginabile umana capacità.

Algoritmi e computer basati su istruzioni relative all’andamento di certi scenari, come quello della Brexit.

Si arriva finanche ad impostare tali algoritmi in rapporto al numero e al tipo di informazioni riportate dai media, a volte addirittura dai social media!

L’algoritmo succitato avrebbe ‘letto’ i reportage negativi sulla Brexit come un segnale di vendita della sterlina. Poi, quando la moneta inglese ha cominciato a scendere, altri algoritmi si sono ‘attivati’ nelle stessa direzione.

Purtroppo i mercati internazionali dei cambi sono ancora grandemente non regolati. Secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali gli scambi della coppia dollaro-sterlina rappresentano il 9,2% di tutte le contrattazioni nei mercati dei cambi, che mediamente sono di 5,1 trilioni di dollari al giorno.

Negli ultimi tre anni l’‘algorithm trading’ sarebbe aumentato enormemente.  

Si rammenti che qualche giorno prima, il 30 settembre, le azioni della Deutsche Bank avevano perso il 9% in mattinata e avevano guadagnato il 5,7% a fine giornata. Una cosa inaudita, fuori dal normale andamento.

Le nostre critiche alla DB sono note. Qui però si è di fronte ad un colossale attacco speculativo, non facilmente spiegabile. L’anomalo andamento non può essere attribuibile semplicemente alla stratosferica multa comminata dalle autorità americane alla banca tedesca per le sue passate speculazioni con i derivati sui mutui subprime americani. Né la successiva risalita delle sue quotazioni può essere giustificabile con le notizie relative ad una eventuale riduzione della multa in questione.

Chi ha comprato le azioni per salvare la banca dal tracollo? E’ una domanda che sorge spontanea.

Mario Draghi, governatore della Banca Centrale Europea, nel suo recente discorso ai parlamentari tedeschi del Bundestag, ha detto che la sua politica del tasso di interesse zero, nel 2015 ha fatto risparmiare alla Germania ben 28 miliardi di euro. Sulla base di questo dato si può ipotizzare che negli ultimi anni Berlino abbia pagato meno interessi sul suo debito pubblico per almeno 100 miliardi.

La Germania non sembra aver usato tanta ricchezza per sostenere consumi e investimenti in casa propria o nelle regioni europee più deboli e bisognose di un sostegno concreto per il loro rilancio economico.

Molto probabilmente il ‘tesoretto’ tedesco è stato accantonato proprio per il salvataggio delle banche che non sono in buona salute!

I due recenti avvenimenti finanziari menzionati assumono una gravità eccezionale per le dimensioni e i velocissimi tempi delle operazioni. Essi ci dicono che l’intero sistema economico è esposto più di prima a terremoti di altissima magnitudo.

Non sono vicende da lasciare ai mercati o solo alle banche centrali e alle autorità di controllo. Sono questioni squisitamente politiche che, secondo noi, richiedono interventi e decisioni da parte dei governi. Senza indugi, prima che una nuova crisi sistemica bussi alla porta.

*già sottosegretario all’Economia **economista

 

1) Le banche sono sempre senza regole 2) Coinvolgere i capitali privati nella ricostruzione post terremoto 3) Russia e Giappone lavorano assieme: e l’Europa? 4) Le chiacchiere della FED 5) Il sistema bancario è sempre in bilico

Banche: multe miliardarie ma mancano le regole
Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

La recente richiesta del Dipartimento di Giustizia americano alla Deutsche Bank di pagare una multa di 14 miliardi di dollari per chiudere il contenzioso negli Usa sulla ‘frode’ dei mutui subprime, e dei relativi derivati finanziari, ha una rilevanza che va ben oltre la cifra stessa.
Nel frattempo, sempre sulla stessa questione, quasi tutte le banche internazionali too big to fail sono state chiamate a pagare altrettante multe miliardarie: nel 2013 la JP Morgan per 13 miliardi di dollari, nel 2014 la Citi Bank per 7 miliardi e la Bank of America per circa 17 miliardi, e poi la Goldman Sachs per 5,1 miliardi, la Morgan Stanley per 3,2 miliardi…
Sono cifre importanti che pongono una serie di domande pressanti e inquietanti. Quanto hanno incassato le banche negli anni della ‘bonanza’, se sono disposte a pagare decine di miliardi? Si può presumere che abbiano incassato centinaia di miliardi, ingigantendo a dismisura i loro bilanci tanto da superare persino quelli di molti Stati. Non solo dei più piccoli o meno industrializzati.
Inoltre, il danno prodotto all’intero sistema economico e finanziario globale è stato devastante. Si stanno ancora pagando gli effetti della recessione che ne è derivata. E’ ormai convinzione diffusa che sia stata proprio la grande speculazione sui mutui sub prime e sui derivati connessi a scatenare la più grande crisi finanziaria della storia.
Con spregiudicatezza e arroganza le grandi banche hanno giocato forte ai ‘casinò della speculazione’ usando ‘fiches’ non di loro proprietà, ma quelle dei risparmiatori, delle imprese e persino dei governi. E dopo il disastro hanno chiesto di essere salvate dalla bancarotta con i soldi pubblici!
Quanto ci sono costate la speculazione e la crisi? E’ molto complicato cercare di quantificarne i danni e le perdite che hanno prodotto alle economie e alle popolazioni di tutti i Paesi colpiti. Sono sicuramente immensi, tanto quanto le responsabilità dei principali attori.
Se si tratta di frodi conclamate, come è possibile che, con il semplice pagamento di una multa, i responsabili vengano sollevati da qualsiasi condanna civile e penale? Perché non vi è mai una responsabilità anche personale dei manager implicati? D’altra parte le multe sono di fatto pagate dai correntisti e dai clienti delle banche in questione.
Tutto ciò fa sì che i cittadini perdano ulteriormente fiducia nella giustizia percependo, come nelle società prima delle repubbliche sovrane, l’esistenza di due o più mondi: uno per i semplici mortali sottoposti e spesso tartassati da una miriade di leggi e l’atro, quello degli ‘dei dell’Olimpo’, dove si fanno regole e leggi su misura.
La questione più importante ovviamente riguarda la riforma del sistema bancario. La propensione ad un rischio incontrollato e illimitato è stata la molla della degenerazione dell’intero sistema. Le domande fondamentali, quindi, non riguardano solo il passato, ma soprattutto il presente e il futuro. Sono stati solo comportamenti sbagliati? Sono state introdotte nuove regole più virtuose? Sono stati messi a punto controlli opportuni? Purtroppo non ci sembra che si possano dare risposte incoraggianti a tali semplici domande.
Anche l’Unione bancaria europea non sembra andare a fondo nella questione. Garantire maggiori capitali e riserve per far fronte ad eventuali nuove crisi è giusto, ma non affronta la questione alla radice.
Fintanto che non si decide di introdurre una netta separazione bancaria, come quella della Glass-Steagall Act negli Usa dopo la crisi del ’29, che distingua le banche commerciali da quelle di investimento, proibendo alle prime di operare sui mercati speculativi, e fino a quando non si stabiliscono limiti ferrei ai derivati finanziari, le grandi banche too big to fail, purtroppo, si sentiranno autorizzate ad operare come sempre, business as usual.
Tutto ciò non depone bene anche per le grandi manovre bancarie che riguardano il nostro Paese, non solo il Monte Paschi di Siena ma anche la Banca Popolare di Vicenza, la Veneto Banca, la Banca Etruria, ecc.
In Italia purtroppo non si fa mai tesoro delle esperienze del passato. Si ha memoria corta. Eppure solo qualche decennio fa si verificarono i dissesti del Banco di Sicilia e del Banco di Napoli. E agli inizi del 2000 vi furono le vicende della Parmalat, dei bond argentini, della Banca 121. Nonostante il puntuale documento finale della Commissione di Indagine parlamentare, nessuno ne ha tenuto conto: né la Banca d’Italia, né la Consob, né i governi.
*già sottosegretario all’Economia **economista

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Come coinvolgere anche capitali privati nella ricostruzione e messa in sicurezza del territorio
Bond per la messa in sicurezza del territorio
Mario Lettieri* Paolo Raimondi**

Le devastazioni e la perdita di tante vite umane, a causa dei disastri che ripetutamente colpiscono il territorio del nostro Paese, naturalmente provocano emozioni forti, suscitano diffusa solidarietà e spingono gli stessi governanti ad assumere impegni. Ciò è quanto è accaduto anche a seguito del recente terremoto.
In verità la messa in sicurezza anti sismica è un problema antico che riguarda la gran parte del territorio italiano. La semplice ricostruzione delle aree colpite e la ristrutturazione anti sismica in tutto il territorio nazionale interesserebbero non meno di 12 milioni di unità abitative con investimenti prevedibili di circa 100 miliardi di euro.
Se si aggiungesse anche l’improcrastinabile intervento di stabilità idrogeologica dell’intero Paese, allo scopo di evitare le continue e devastanti alluvioni, frane e altri deterioramenti del territorio, bisognerebbe aggiungere almeno altri 40-50 miliardi di investimenti.
Indubbiamente si tratta di cifre molto importanti. Soprattutto se si considerano anche i costi delle perdite di vite umane e delle distruzioni di proprietà e di ricchezze provocate dai vari cataclismi.
Secondo l’ufficio studi della Camera dei Deputati in 48 anni sarebbero stati spesi circa 121 miliardi di euro per ricostruire ciò che i terremoti hanno distrutto!
Ovviamente il ruolo dello Stato, anche in questi casi, è insostituibile. Non c’è libero mercato che tenga. E’ compito dello Stato garantire la sicurezza ai propri cittadini. Perciò è sacrosanto, come fa il nostro presidente del Consiglio dei ministri, chiedere che gli investimenti per la ricostruzione e per la messa in sicurezza del territorio siano posti fuori dai ristretti parametri del Trattato di Maastricht.
La dimensione degli investimenti richiesti non potrebbe essere soddisfatta da una semplice flessibilità di bilancio!
Lo Stato, secondo noi, potrebbe emettere specifiche “obbligazioni per la ricostruzione” al fine di creare liquidità da destinare esclusivamente alla realizzazione del programma di investimenti. Potrebbe essere la Cassa Deposti e Prestiti a farsene carico, al fine di non farli rientrare nell’alveo del debito pubblico. Del resto la stessa Germania usa in tale senso la sua Kreditanstalt fuer Wiederaufbau, la gigantesca banca di sviluppo tedesca che, con attivi per oltre 500 miliardi di euro, è da sempre considerata fuori dal bilancio statale. La KFW è stata il motore della ricostruzione e dello sviluppo dell’economia tedesca.
Tale scelta non potrebbe che essere condivisa perché, come noto, il debito sarebbe strettamente legato a politiche di sviluppo che creano non solo unità abitative sicure ma anche produzione, occupazione, aumento della produttività e maggiori introiti fiscali. Così lo stesso debito iniziale verrebbe in parte ripagato e creerebbe allo stesso tempo nuova ricchezza.
Ai sottoscrittori delle obbligazioni si potrebbe estendere la garanzia dello Stato fino al valore di 100.00 euro, così come avviene per i conti correnti bancari. Sarebbe una forma di forte incentivazione.
Importante che detti titoli siano di lungo termine, almeno 10 anni, con capitale nominale garantito, ad un tasso di interesse basso ma comunque superiore al tasso zero di oggi.
Un secondo strumento per sostenere i menzionati investimenti potrebbe essere simile a certi contratti di assicurazione sulle vita. Il risparmiatore verserebbe un capitale, ad un tasso di interesse stabilito, mantenendolo bloccato per un certo numero di anni. Alla scadenza avrebbe diritto alla restituzione del capitale investito più gli interessi maturati, oppure ad una rendita commisurata. In questo caso non si avrebbe alcuna emissione di obbligazioni ma si tratterebbe di “assicurazioni sulla stabilità del territorio”. Anche questo strumento potrebbe essere gestito dalla stessa CDP.
Per incentivare tali “polizze assicurative”, lo Stato potrebbe anche qui offrire una garanzia fino a 100.000 euro e altri eventuali incentivi.
Purtroppo i governi preferiscono creare un debito anonimo, e non mirato a settori specifici di intervento, perché in questo modo possono gestirlo come meglio credono, anche per coprire altri buchi di bilancio. Ma il disegno che dovrebbe stare alla base delle messa in sicurezza dell’intero territorio rappresenta una grande sfida ma anche l’opportunità di indirizzare e programmare l’economia in un modo differente dal passato, compatibile con la difesa della natura e dell’ambiente.
Naturalmente i controlli di qualità, di trasparenza e di rispetto delle regole sono fondamentali per la riuscita del progetto. Così come è indispensabile il coinvolgimento delle popolazioni interessate.
*già sottosegretario all’Economia **economista

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A Vladivostok Russia e Giappone lavorano insieme. E l’Europa?
Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Non deve sorprendere se la dichiarazione finale del recente summit del G20 tenutosi a Hangzhou in Cina è la solita retorica piena di belle parole e buone intenzioni. Come al solito sono gli Usa, anche con il sostegno non sempre entusiasta dell’Ue e dei Paesi europei, a dettarne il contenuto.
Ciò stride non poco con gli interventi propositivi e concreti di alcuni altri attori, non ultimi la Cina, la Russia e il Giappone.
Il presidente cinese Xi Jinping, alle mere enunciazioni, ha contrapposto i grandi progetti in corso di realizzazione, i corridoi di sviluppo infrastrutturale della Silk Road Economic Belt, che collegheranno l’Oceano Pacifico a quello Atlantico e all’Europa, e quelli della 21st Century Maritime Silk Road,la strada marittima che collegherà la Cina all’India e oltre. E’ importante rilevare che in merito l’Asian Infrastructure Investment Bank è già molto attiva con le sue grandi linee di credito.
Nelle sue parole Xi ha legato la realizzazione di questi grandi progetti e la costruzione di numerose zone di libero scambio sul territorio cinese con l’intenzione di rendere il renminbi una forte moneta internazionale nel quadro di un necessario miglioramento della governance economica globale .
Presentando il programma “Blueprint on Innovative Growth” ha delineato con chiarezza i settori prioritari del nuovo sviluppo globale, tra cui “l’innovazione, una nuova rivoluzione scientifica e tecnologica, la trasformazione industriale, l’economia digitale e l’interconnessione delle reti infrastrutturali”.
Per chiarire lo stato reale dell’economia produttiva cinese egli ha ricordato che, nel primo semestre dell’anno, essa è cresciuta del 6,7%.
La pochezza e la scarsa portata del summit balzano con nettezza se si considerano i risultati del Forum Economico di Vladivostok tenutosi il giorno prima tra il presidente Putin, il primo ministro giapponese Shinzo Abe, il presidente della Corea del Sud, la signora Park Geun-hye e l’ex pm australiano Kevin Rudd.
Putin ha presentato il suo programma più ambizioso, quello di trasformare il Far East nel centro dello sviluppo sociale ed economico della Russia. Tra i progetti illustrati ci sono la realizzazione congiunta di un “super ring” di infrastrutture energetiche che metterà in relazione Russia, Cina, Corea e Giappone, la costruzione di infrastrutture di trasporto trans-euroasiatiche e regionali, quali i corridoi Primorye 1 e 2 che collegheranno le regioni cinesi del nord e i porti russi, nonché la costruzione della sezione russa della nuova Via della Seta che dovrebbe collegare la Cina all’Europa. Putin ha lanciato ai suoi interlocutori l’idea di realizzare un polo internazionale per le scienze, l’istruzione e le tecnologie sull’isola di Russky di fronte al porto di Vladivostok dove si prevede anche una grande zona di libero scambio.
Sono progetti concreti di indubbia rilevanza che sollecitano ulteriori coinvolgimenti, anche europei, per accelerare la ripresa della crescita globale.
Per simili grandi lavori la Russia ha già creato un Far East Development Fund che concederà prestiti al tasso di interesse del 5%, meno della metà del tasso di sconto della Banca centrale russa. Certamente è importante l’accordo siglato con la grande Japan Bank for International Cooperation per finanziare i progetti relativi al porto di Vladivostok che vedono la partecipazione di imprese giapponesi.
Tra le altre iniziative concrete c’è il fondo di sviluppo russo-cinese per investimenti nel settore agroalimentare.
L’importanza delle joint venture russo-coreane, in particolare quelle negli investimenti di Vladivostok, è stata sottolineata dalla presidente coreana, signora Park, anche in vista dell’apertura del passaggio artico della Northen Sea Route. Ha ricordato inoltre che la politica di isolamento è fondamentalmente sbagliata. Lo dimostrano le esperienze del passato come quella della Grande Depressione quando l’aumento dei dazi da parte di molti Paesi provocò una riduzione del 40% del commercio in 4 anni.
Dal resoconto del Forum emerge tuttavia che l’intervento politico più pregante sembra quello pronunciato da Shinzo Abe che ha detto: “Trasformiamo Vladivostok nella porta che unisce l’Eurasia con il Pacifico”. In verità i rapporti e le joint venture tra i due Paesi si sono fortemente consolidati tanto che il governo giapponese ha creato uno specifico Ministero per la cooperazione economica russo- giapponese.
Al Forum di Vladivostok l’Unione europea e i Paesi europei erano totalmente assenti, evidenziando ancora una volta, come sottolineato anche da Romano Prodi, “il momento più basso del cammino dell’Europa verso il processo di armonizzazione tra gli Stati”.
Il Giappone invece sta dando una grande lezione di politica, non solo economica. Certo, sotto la pressione americana aderì alle sanzioni contro la Russia, ma ora Tokyo si muove in modo del tutto indipendente.
Il continente euroasiatico è per metà europeo, come evidenzia il nome. E’ lecito chiedere quando l’Europa si emanciperà e assumerà il ruolo che dovrebbe naturalmente avere rispetto ai nuovi scenari economici e geopolitici che si stanno profilando?
*già sottosegretario all’Economia ** economista

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La Fed continua con le politiche monetariste del Qe
Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

L’oracolo di Jackson Hole ha parlato per bocca del governatore della Federal Reserve, la signora Janet Yellen. Ma come sempre, dai tempi di Delfi in poi, non è stato molto chiaro. Sì, forse, ma anche no, sulla possibilità di un piccolo ritocco, un rialzo del tasso di sconto da parte della banca centrale americana.
Organizzato come ogni anno alla fine di agosto dalla Fed di Kansas City, il convegno di banchieri ed esperti internazionali era spasmodicamente atteso da tutti gli operatori finanziari del mondo. Conoscere le future intenzioni monetarie americane, come noto, è da sempre un fatto cruciale per i mercati per poi prendere le decisioni sulle grandi operazioni finanziare. Naturalmente anche quelle speculative.
Nella sua analisi, Janet Yellen ha riconosciuto che la persistente debolezza nella ripresa degli investimenti, la bassa produttività e la troppo alta propensione al risparmio frenano l’economia, nonostante l’aumento dell’occupazione registrato anche negli ultimi tre mesi negli Usa.
I differenti e molteplici indicatori economici non permettono, quindi, di affermare con chiarezza se ci sia l’intenzione di aumentare il tasso di interesse, come in precedenza ventilato anche nei documenti ufficiali del Federal Open Market Committee della Fed.
La lettura delle proiezioni e degli scenari elaborati dalla stessa banca centrale indicherebbe un 70% di probabilità che esso possa variare tra lo 0 ed il 4,5% entro la fine del 2018! E’ una vaghissima stima che non giustifica affatto l’aver scomodato centinaia di importanti esperti. La ragione di tale vaghezza sarebbe ovviamente da ricercare nell’andamento dell’economia che spesso è colpita da rivolgimenti imprevedibili. Perciò “quando avvengono forti choc e l’andamento economico cambia, la politica monetaria deve adeguarsi”, ha affermato la Yellen.
Si spera che non sia questo il suo vero oracolo.
Leggendo con più attenzione il suo discorso vi è comunque un messaggio molto chiaro: continuare senza limiti di tempo la politica monetaria accomodante del Quantitative easing.
In merito si consideri che, secondo una ricerca della Bank of America, il totale delle politiche di Qe condotte dalle banche centrali a livello mondiale ammonterebbe a 25 trilioni di dollari.
Sul piano concreto la Fed ha anzitutto deciso di mantenere i titoli, compresi quelli più complessi e quindi potenzialmente pericolosi come gli abs, che ha acquistato negli anni passati, liberando così le banche dai loro titoli rischiosi e fornendo maggiore liquidità all’intero sistema bancario.
In questo contesto la Yellen riconosce che il bilancio della Fed è passato da meno di un trilione a circa 5 trilioni di dollari e ritiene pertanto che una sua riduzione potrebbe avere delle conseguenze imprevedibili sull’economia.
E’ evidente che per il governatore americano la politica di acquisto di titoli e di “guidance” resterà una componente essenziale della strategia complessiva della Fed. Per “guidance” si intende anche l’annuncio che il tasso di interesse potrebbe restare vicino allo zero per un lungo periodo di tempo. Più che di economia monetaria trattasi di una politica della comunicazione!
Ma l’annuncio più importante è quello di voler prendere in considerazione l’utilizzo anche di nuovi strumenti d intervento monetario, tra cui quello di allargare il raggio di acquisto di titoli e di altri asset finanziari. Ciò inevitabilmente potrebbe voler dire l’acquisto di titoli e derivati ancora a più alto rischio. Si considererà anche la possibilità di alzare il target del tasso di inflazione dal 2 al 3%, allungando così i tempi di applicazione del Qe. Allo stato non ci sembra una prospettiva rosea.
Tuttavia la Yellen deve ammettere che una prolungata politica del tasso di interesse zero potrebbe incoraggiare le banche e gli altri operatori finanziari a intraprendere operazioni eccessivamente rischiose.
Si calcola che il Qe ha determinato che titoli per circa 11 trilioni di dollari oggi siano a tasso zero o negativo. Trattasi di circa il 20% del debito sovrano mondiale! Un terzo di tutti i titoli di debito pubblico globale emessi nel 2016 sono stati ad un tasso negativo.
E’ chiaro che la continuazione delle politiche monetarie accomodanti riflettono “la paura che siamo di fronte ad un prolungato periodo di stagnazione economica secolare”, come ha ammesso persino Stanley Fisher, il vice presidente della Fed.
E’ evidente, quindi, che il tasso di interesse zero non sempre si rivela efficace nel sostegno alla ripresa e alla crescita.
Per questa ragione, senza iattanza, da sempre noi ribadiamo la necessità che i governi non lascino alla politica monetaria e alle banche centrali il compito di rimettere in moto l’economia, ma se ne assumano essi la piena responsabilità decisionale. Servono politiche di investimento di partenariato pubblico privato nei campi delle infrastrutture, delle nuove tecnologie. In Italia anche nel campo della messa in sicurezza del territorio sempre più minacciato da inondazioni, frane, dissesti idrogeologici e terremoti, come dimostrano i drammatici recenti disastri di Amatrice e della vasta area laziale-marchigiana-umbra.
*già sottosegretario all’Economia **economista

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Continue difficoltà del sistema bancario internazionale, nonostante la pausa estiva.
Il sistema bancario sempre in bilico
Mario Lettieri* e Paolo Raimondi **

Dopo le grandi agitazioni nel mondo bancario internazionale provocate dagli stress test, le vacanze estive sembra abbiano creato un’ovattata atmosfera di apparente tranquillità. Ma, osservando con più attenzione i processi finanziari in corso, l’emergenza resta sempre dietro l’angolo.
Non solo per quanto riguarda il futuro della MPS, della Veneto Banca e di altre banche in Italia.
Negli Usa, per esempio, la componente repubblicana del Comitato per i Servizi Finanziari della Camera dei Deputati ha recentemente presentato un dossier sul coinvolgimento della grande banca inglese, la Hong Kong Shanghai Bank Corporation (HSBC), nel riciclaggio dei soldi provenienti dal traffico di droga operato dal cartello messicano di Sinaloa e da quello colombiano del Norte del Valle.
Sono stati documentati ben 881 milioni di dollari “lavati” dai narcotrafficanti nel sistema bancario americano. Quella emersa e documentata dalle indagini in realtà è solo una piccola parte dell’enorme business che si è sviluppato, in modo incontrastato, per anni.
Durante le indagini, iniziate nel 2013, la HSBC aveva ammesso il crimine e accettato di pagare una multa di circa 2 miliardi di dollari.
Il rapporto accusa in particolare il Dipartimento di Giustizia americano di avere bloccato il processo contro la banca, anche su pressione della Financial Services Authority, l’equivalente inglese della Consob, in quanto “ esso avrebbe potuto avere serie conseguenze per il sistema finanziario”.
E’ un’accusa molto forte che la dice lunga sull’opacità di certe operazioni fatte da importanti attori del sistema bancario americano e inglese. Soprattutto sulla capacità delle ‘too big to fail’ di influenzare le decisioni delle istituzioni finanziarie di controllo e addirittura di quelle dei governi. L’opacità naturalmente si estende anche a molte altre operazioni finanziarie e ai bilanci delle banche che spesso non riflettono il loro vero stato di salute. Nonostante gli stress test.
Anche in Europa sono in corso alcune complesse operazioni bancarie, in particolare in Germania. All’inizio di agosto l’indice borsistico europeo Stoxx Europe 50 ha rimosso dal suo listino la Deutsche Bank e il Credit Suisse per evitare che il livello dell’indice fosse influenzato negativamente dalle continue perdite di valore delle azioni delle suddette banche.
Attraverso le pagine del quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung, Martin Hellwig, un importante economista dell’istituto tedesco di ricerca Max Planck, ha addirittura ventilato l’ipotesi della necessità di una nazionalizzazione della Deutsche Bank che si troverebbe in “una crisi peggiore di quella del 2008”. Il bail in, con la partecipazione di azionisti e obbligazionisti nella copertura delle perdite della banca, non sarebbe sufficiente a salvarla.
Da parte sua il Fmi ha recentemente dichiarato che la DB “presenta grandi rischi ” per l’intero sistema bancario. Infatti essa sarebbe grandemente indebitata e pericolosamente sotto capitalizzata.
La DB è anche in continuo conflitto con l’agenzia americana Commodity Futures Trading Commission (CFTC), che controlla il mercato dei derivati, in quanto non esporrebbe in modo chiaro la vera situazione delle sue operazioni in derivati finanziari otc, “compromettendo la capacità di valutare i potenziali rischi sistemici del mercato dei derivati”.
Da ultimo anche la Banca del Regolamenti Internazionali e l’International Organization of Securities Commissions (IOSCO), che coordina gli enti di vigilanza dei mercati finanziari a livello mondiale, affermano che persino le Central Counterparty Clearing (CCP), cioè le “casse di compensazione” che dovrebbero garantire le parti coinvolte nei contratti in derivati, non sarebbero in grado di far fronte ai loro compiti per mancanza di fondi.
Al riguardo non è un caso che la stabilità delle casse di compensazioni e i rischi derivanti dalla speculazione finanziaria siano stati posti, su iniziativa della Cina e dell’India, nell’agenda del G20 che si terrà nella città cinese di Hangzhou all’inizio di settembre.
Ciò dovrebbe essere di monito anche in Europa per far sì che il sistema bancario e i derivati non siano lasciati in balia del “fai da te“ del mercato. Senza ulteriori indugi essi dovrebbero essere sottoposti ad una stringente e profonda revisione da parte dei governi che dovrebbero ovviamente mirarli più al credito produttivo che agli interessi della speculazione

Il colpevole e suicida silenzio su cosa fanno i Paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica)

UFA: I BRICS SI ISTITUZIONALIZZANO

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**  

L’Europa, concentrata sui propri problemi e sul suo difficile quanto insostituibile processo di unificazione, purtroppo sta sottovalutando le recenti importanti decisioni assunte dai paesi BRICS, acronimo composto dalle iniziali dei cinque Stati che ne fanno parte: BrasileRussiaIndia,  CinaSudafrica

  Eppure esse sono destinate ad incidere profondamente sugli assetti mondiali.

Dall’8 al 10 luglio si è svolta a Ufa, in Russia, la settima conferenza dei BRICS. Nella stessa sede si sono tenute anche la riunione dell’Unione Economica Euroasiatica e quella della Shanghai Cooperation Organization, che coinvolge tutti i Paesi dell’Asia. I tre incontri hanno oggettivamente assunto una valenza politica di grande rilevanza perché, oltre agli aspetti economici, sono stati trattati anche quelli relativi alla sicurezza.

Oggi il peso geo-economico dell’alleanza tra Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa è accresciuto. Insieme occupano il 30% della terra, hanno il 43% della popolazione mondiale e il 21% del Pil del pianeta. La loro produzione agricola è il 45% del totale, mentre la produzione delle merci e dei servizi rappresenta rispettivamente il 17,3% e il 12,7% del totale.

Il loro Pil aggregato supera i 32 trilioni di dollari e fa registrare un aumento del 60% rispetto al momento della loro costituzione 6 anni fa. Sono dati in continua crescita, nonostante gli inevitabili riverberi della crisi occidentale, delle bolle speculative e delle “politiche monetarie non convenzionali” delle banche centrali.

Nella dichiarazione finale si sottolinea che il summit di Ufa segna l’entrata in vigore della Nuova Banca di Sviluppo dei BRICS (con 100 miliardi di capitale) e del Contingent Reserve Arrangement (Cra), che è un fondo di riserva di 100 miliardi di dollari contro eventuali destabilizzazioni monetarie e delle bilance dei pagamenti negli stati membri.

E’ significativo il fatto che la suddetta Nuova Banca di Sviluppo si impegni a collaborare con le altre istituzioni finanziarie aventi la stessa mission, in particolare con l’Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB) recentemente promossa dalla Cina, che registra una grande positiva partecipazione anche europea.

”The strategy for BRICS economic partnership” di Ufa prevede l’avanzamento nella cooperazione in tutti i settori fondamentali dell’economia e della società, soprattutto nelle relazioni sud-sud. Comunque la suddetta Banca si impegnerà nella promozione di grandi progetti infrastrutturali e di sviluppo sostenibile anche in altri Paesi emergenti e in via di sviluppo, di cui una cinquantina già avviati.

Sul fronte monetario e finanziario le banche di sviluppo dei singoli Paesi del BRICS daranno luogo ad un “Financial Forum”, per definire nuovi accordi relativi al sistema dei pagamenti, e ad un “meccanismo di cooperazione interbancaria” che preveda tra l’altro l’utilizzo di linee swaps, cioè trasferimenti di liquidità per far fronte anche “all’impatto negativo di politiche monetarie realizzate da Paesi che emettono monete detenute anche nelle riserve”: Cioè gli Usa e l’Ue, quindi il dollaro e l’euro. L’intento è l’utilizzo delle monete nazionali nelle transazioni commerciali, fino al 50% del totale. Evidentemente tale svolta vuole essere una spinta per la costruzione di un paniere di monete rispetto all’attuale dominio del dollaro.

Al centro della crescente cooperazione vi sono non solo i tradizionali settori portanti dell’economia ma anche quelli relativi alla scienza, alla tecnologia e all’innovazione nei campi delle nanotecnologie, della biomedicina e della ricerca spaziale. Da ciò si evince l’errore che spesso nei cosiddetti Paesi avanzati si commette banalizzando i Paesi BRICS e ignorando quanto di nuovo in essi si muove.

E’ indubbio che l’”istituzionalizzazione dei BRICS”, così come è emersa a Ufa, rappresenta una notevole pressione verso le grandi istituzione politiche ed economiche internazionali.

Anzitutto l’ONU che, a settant’anni dalla sua creazione, è chiamato ad assolvere un ruolo decisivo nelle sfide globali garantendo un ordine internazionale più giusto.

Perciò i BRICS sostengono con forza l’iniziativa dell’ONU in merito alla ristrutturazione del debito pubblico dei Paesi più poveri e più esposti, non solo della Grecia, e complessivamente di quello mondiale.

In quest’ottica i BRICS intendono rilanciare il ruolo del G20 come “primo forum internazionale di cooperazione finanziaria ed economica”, soprattutto nella definizione di una nuova architettura finanziaria internazionale che tenga conto dell’economia reale. La presidenza della Cina del G20 l’anno prossimo dovrebbe essere il primo banco di prova. La prima vera occasione per vincere le resistenze, soprattutto americane, verso la riforma della governance del Fondo Monetario Internazionale

Riteniamo che anche per l’Unione europea, anche se fragile e divisa, non sia più tollerabile sottovalutare quanto si muove in quella parte del mondo.

*già sottosegretario all’Economia

**economista

FINE DELL’EGEMONIA DEL DOLLARO E RUOLO DELL’ORO

L’alternativa al sistema del dollaro. Il ruolo dell’oro

Mario Lettieri* Paolo Raimondi** 

I maldestri tentativi da parte americana di salvare a tutti i costi il ruolo egemone del dollaro stanno spingendo molti Paesi a lavorare più alacremente per costruire un’alternativa monetaria multipolare. Oggettivamente il dollaro, come unica valuta degli scambi e delle riserve internazionali, ha concluso il suo ciclo storico. Bisogna prenderne atto.

Le destabilizzazioni finanziarie e le svalutazioni monetarie nei Paesi emergenti, provocate dalle politiche di liquidità “yo-yo” della Federal Reserve, hanno indotto alcuni governi a denunciare una “guerra monetaria” in corso. Le “cadute pilotate” dei prezzi del petrolio e dell’oro mirano a mettere in difficoltà soprattutto i Brics, la Russia e l’Iran. Contemporaneamente i prezzi di alcune materie prime vengono manipolati al rialzo con l’effetto di “gambizzare” le politiche industriali e di sviluppo dei Paesi emergenti e anche dell’Unione europea.    

Anche se non lo volessero, da tempo molti Paesi sono quindi stati costretti a immaginare e a proporre un nuovo sistema monetario. Alcune recenti decisioni lo confermano.

Infatti la creazione a Fortaleza della Banca di Sviluppo dei Brics ha in sé le potenzialità per diventare un organismo monetario internazionale alternativo al Fmi e alla Banca Mondiale del defunto sistema di Bretton Woods.

La stessa Cina fa grandi accordi con il Brasile, con la Russia, con il Giappone, con la Corea del Sud regolati in yuan o in altre monete nazionali.

Sono contratti nella forma di swap monetari che permettono di saldare gli scambi nelle valute stabilite. Recentemente li avrebbe proposti anche all’Ue. Una parte del grande accordo di forniture di gas tra la Russia e la Cina per l’equivalente di 400 miliardi di dollari del resto verrà regolata in rubli o in yuan.

Si ricordi inoltre che lo scorso aprile il governo di Mosca ha annunciato che una parte dei contratti internazionali stipulati dalle grandi corporation russe dovrà avvenire in rubli. Al recente summit dell’Asia-Pacific Economic Cooperation (APEC) di Pechino, il presidente Putin ha affermato che”faremo un uso sempre maggiore di accordi e compensazioni in monete nazionali nel nostro commercio con la Cina. Siamo pronti a fare i primi accordi in rubli e in yuan, anche nel settore dell’energia”. Una Commissione intergovernativa russo-cinese è già al lavoro per studiare simili opzioni. La stessa Banca Centrale russa ha annunciato la volontà di creare con i partner dei Brics un “sistema di swap multilaterali”.

Naturalmente i riverberi politici non mancano. Infatti la conferenza per la sicurezza del Shanghai Cooperation Organization (SCO), che già coinvolge Cina, Russia, Kazakhstan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan, vedrà a breve la partecipazione anche di India, Pakistan, Iran, Afghanistan e Mongolia. Anche la Turchia, che è un membro della Nato, sembra volervi aderire. Formerebbero così un blocco che in campo energetico controllerebbe il 20% delle riserve mondiali di petrolio ed il 50% di quelle di gas.

In tale contesto, come prevedibile, anche il ruolo dell’oro è ritornato al centro delle discussioni . Con la volatilità del suo prezzo registratasi nei mesi recenti si mira a renderlo instabile e quindi poco utilizzabile in eventuali accordi monetari internazionali. Però si ha notizia che a Mosca sarebbe in discussione proprio l’aggancio del rublo all’oro. E’ facilmente intuibile che l’attuale svalutazione del 30% della moneta russa sia frutto di speculazioni e manipolazioni internazionali. Di sicuro non riflette la reale capacità economica e l’immensa ricchezza della Russia. Agganciare il valore della valuta alle riserve auree avrebbe un effetto stabilizzante sui cambi della moneta.

Come è noto, a parte il debito sovrano al 15% del Pil, la Russia vanta riserve auree pari al 27% della quantità di rubli in circolazione. Gli Usa invece hanno un debito pubblico al 105% del Pil, mentre le loro riserve auree coprono appena il 2,3% dell’offerta monetaria.

Non si comprende il perché esperti occidentali tentano a minimizzare un possibile ruolo futuro dell’oro nel sistema monetario. Si ignora che da tempo tutti i governi europei importanti, a cominciare dalla Germania, dall’Olanda, dalla Gran Bretagna, dalla Svizzera stanno effettuando forti campagne pubbliche per riportare a casa il loro oro, attualmente detenuto nei caveau di Fort Knox negli Usa.

Su questo terreno assai movimentato e complesso riteniamo che il ruolo dell’Unione europea possa diventare più centrale e più incisivo. Una politica dell’Europa, veramente indipendente, potrebbe agevolare una soluzione non conflittuale verso un nuovo sistema politico e monetario internazionale. Una nuova architettura monetaria, come anche noi da tempo sosteniamo, dovrebbe portare alla costituzione di un paniere di monete dove ovviamente dovrebbe esserci anche il dollaro insieme all’euro e ad altre importanti monete.

Occorre prendere atto che con la caduta del Muro di Berlino il mondo necessita di un assetto multipolare, anche monetario.

*Sottosegretario all’Economia del governo Prodi **Economista

La Fed stampa dollari. I Brics comprano oro. A quando la resa dei conti? E l’Europa tace.

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Se bastasse creare dal nulla liquidità per rilanciare l’economia e uscire dalla crisi, saremmo da tempo nel paese di bengodi, soprattutto negli Usa. Ma così non è. Pertanto la recente decisione assunta della Federal Reserve di continuare ad immettere nel sistema nuova liquidità rivela semplicemente che essa non è più in grado di staccare la spina dell’alimentatore di risorse ad un sistema sempre più “drogato”. Certo le borse hanno risposto in modo vivace con l’aumento dei listini, ma non è detto che ciò sia un reale segnale positivo. Infatti la stessa Fed, dopo il meeting del suo Open  Market Committee, ha dovuto ammettere che “se dovesse continuare l’irrigidimento delle condizioni finanziarie (con l’aumento dei tassi di interesse), osservato nei mesi recenti, il processo di miglioramento dell’economia e del mercato del lavoro potrebbe rallentare.”

L’inevitabile conseguenza di tale “filosofia”è che negli Usa si proseguirà con la “politica monetaria accomodante”, immettendo 85 miliardi di dollari al mese per comprare nuovi titoli del Tesoro e derivati asset-backed-security. Anche il governatore Bernanke, il cui mandato sta per scadere, ha ribadito che i “quantitative easing” continueranno fino a che negli Usa il tasso di disoccupazione non scenderà sotto il 6,5%. E questo si spera avvenga entro la fine del 2014, nel frattempo avremmo però circa 1.500 miliardi di nuovi dollari sui mercati internazionali. Continua a leggere

Berlusconi riattacca il disco rotto della lotta al comunista. Sentiamo cosa dice Oliviero Diliberto, segretario nazionale del Partito dei Comunisti Italiani

Ma che fine hanno fatto i comunisti, di cui Berlusconi  ha sempre parlato in continuazione come fossero orde pronte a qualunque sopruso? E lo sapevate che Romano Prodi insegna economia ai quadri del partito comunista cinese? E che Cina, Giappone e Coree stanno comprando interi pezzi d’Africa anche per mandarvi ad abitare centinaia di migliaia di propri cittadini? Ce lo rivela in questa intervista Oliviero Diliberto, ex ministro della Giustizia nel governo D’Alema e rieletto di recente segretario del Partito dei Comunisti Italiani (PdCI).

Domanda – Berlusconi si è dimesso. Lei ha brindato?

Ovviamente! Però per ubriacarmi aspetto la fine della legislatura. Infatti, pur nella gioia immensa per l’insperata suo sfratto da palazzo Chigi, il mio è stato un brindisi robusto, ma senza ubriacatura.  Berlusconi non è morto, è solo uscito da palazzo Chigi, ma resta ben radicato nel parlamento. Che userà per condizionare il più possibile il governo Monti, ovviamente non per motivi politici, ma solo per continuare a fare gli interessi delle proprie aziende. A partire da quelle televisive senza le quali chissà dove sarebbe…. Forse già ad Hammamet, anche se lui come è noto preferisce Antigua.

E ora… Continua a leggere

Il capitalismo dal feudalesimo ad oggi

Intorno al Mille il capitalismo non nacque solo come reazione al feudalesimo in generale, altrimenti dovremmo chiederci il motivo per cui non sia nato anche in Europa orientale, dove il servaggio era pur sempre presente.

Il capitalismo è stato anche la conseguenza, più o meno inevitabile, di un certo tipo di feudalesimo: quello appunto dell’Europa occidentale, sviluppatosi sotto l’influenza del cattolicesimo latino. E’ stato, in un certo senso, una risposta sociale individualistica a un’affermazione politica individualistica.

Se vogliamo il capitalismo, ai suoi albori, cioè nella fase meramente mercantile e manifatturiera, non è neppure stato un’esplicita reazione al feudalesimo corrotto dei Franchi, dei Sassoni e soprattutto della chiesa romana.

Sarebbe meglio dire che, almeno nella sua fase iniziale, il capitalismo ha potuto convivere in maniera relativamente tranquilla col feudalesimo occidentale, proprio perché qui il livello di eticità dei poteri forti era piuttosto basso.

Essendo i vertici governativi (sovrani laici ed ecclesiastici) molto corrotti (i Franchi, che permisero al papato di diventare una potenza politica, avevano preso il potere con vari colpi di stato e cattolicizzarono con la forza i Sassoni), inevitabilmente col tempo lo era diventata anche la società (specie quella delle realtà urbane), e quanto più questa si corrompeva, tanto meno i vertici erano in grado di controllarla, salvo usare, di tanto in tanto, durissime contromisure (inquisizioni, scomuniche, crociate ecc.), le quali però incontravano resistenze ancora più forti, e non necessariamente in positivo, ma anche solo in negativo, come quando, p.es., dopo tutte le inaudite repressioni a carico dei movimenti ereticali medievali, scoppiò improvvisamente la riforma luterana, che certo non faceva della povertà evangelica uno stile di vita.

Il capitalismo euroccidentale ha incontrato un’opposizione esplicita da parte del feudalesimo soltanto quando ha preteso una rilevanza politica. Infatti, finché si è mantenuto entro i limiti dell’opposizione economica, è stato relativamente tollerato, nel senso che ci sono stati periodi di maggiore e minore acquiescenza, a seconda delle particolari situazioni.

Il primo vero scontro politico tra feudalesimo e capitalismo è avvenuto con la riforma protestante; il secondo con la rivoluzione francese (anticipata da quella americana, che però più che uno scontro tra feudalesimo e capitalismo, fu uno scontro nell’ambito del capitalismo, tra madrepatria e colonia, in quanto in quest’ultima il feudalesimo era praticamente inesistente. Gli inglesi giunti nel Nordamerica, ma anche i francesi, gli olandesi ecc., avevano sin dall’inizio l’intenzione di comportarsi come capitalisti, e hanno potuto farlo molto agevolmente proprio perché non incontrarono opposizioni di sorta, salvo quella indigena, che però non ebbe mai una direzione centralizzata per opporsi efficacemente: l’unica fu quella di Sitting Bull).

Si può in sostanza dire che il feudalesimo ha avuto il suo picco trionfale col Congresso di Vienna del 1815, cui subito dopo fecero seguito vari moti popolari che portarono alle rivoluzioni del 1848-49, sino alle ultime del 1860-61 e 1870-71.

La borghesia riuscì finalmente a rovesciare dal trono l’aristocrazia politica e a gestire il potere in proprio, senza peraltro riconoscere alcun vero diritto agli operai e soprattutto ai contadini che l’avevano aiutata in questa impresa. Ecco perché si parla, in riferimento all’Ottocento, di rivoluzioni tradite.

La borghesia non volle spartire il potere con nessuno, anzi, una volta acquisito definitivamente quello di tipo politico-nazionale, scatenò una fase colonialistica su scala mondiale (imperialismo), riducendo a un nulla il primato storico degli imperi coloniali di quelle nazioni che non erano mai diventate capitalistiche in senso industriale (Spagna e Portogallo) e che pensavano di poter campare di rendita in eterno.

Olanda, Francia e Inghilterra dominarono il mondo, proprio perché la borghesia, una volta andata al potere, non ebbe ripensamenti di sorta, voleva arricchirsi a tutti i costi, usando qualunque mezzo.

Al loro posto avrebbero dovuto esserci l’Italia e la Germania, che con l’Umanesimo, la prima, e la riforma protestante, la seconda, erano riuscite ad anticipare tutti. Ma la borghesia di questi due paesi fu pavida e, per timore di non farcela, cercò i compromessi coi poteri forti del feudalesimo: la chiesa in Italia, i latifondisti in Germania.

Ecco perché furono proprio questi due paesi a scatenare le due guerre mondiali o comunque a mettere gli altri paesi in condizioni di doverlo fare. Avevano bisogno di recuperare il tempo perduto, di rimettere in discussione la spartizione della torta coloniale. Avevano soprattutto bisogno di eliminare gli ultimi residui europei di imperi feudali: russo, turco e austro-ungarico. Cosa che se riuscirono a fare con gli ultimi due, nulla poterono col primo, dove l’inaspettata rivoluzione bolscevica, con un colpo solo, aveva posto fine tanto all’autocrazia zarista quanto al neonato capitalismo.

Gli operai e i contadini al potere preoccuparono così tanto le nazioni borghesi che, ad un certo punto, alle loro rivalità interimperialistiche prevalsero le intese anticomuniste. Si volle sì condannare il nazifascismo, ma solo rispetto alla democrazia parlamentare borghese.

Oggi la dialettica storica ci porta a questa situazione paradossale: proprio mentre il capitalismo occidentale è riuscito a imporsi a livello mondiale, riuscendo persino a dimostrare che il socialismo di stato non era in grado di reggere il confronto, le leve del potere economico sembrano trasferirsi alle potenze asiatiche (Cina e India), le quali, nel prossimo futuro, inevitabilmente, si sentiranno impegnate a togliere all’area occidentale (statunitense, europea e nipponica) anche le leve del potere politico.

La Russia sta cercando di recuperare i ritardi del proprio sviluppo capitalistico, sfruttando le enormi riserve della Siberia, ma non ha i numeri demografici sufficienti per farlo e non ha neppure (se non nelle grandi città, ma questo, al momento, vale anche per Cina e India) la mentalità giusta per compiere un’autentica rivoluzione borghese. Perché la mentalità cambi occorre acquisire l’ideologia dei diritti umani teorici, delle libertà giuridiche formali: è proprio questa ideologia che permette di mascherare le forme economiche dello sfruttamento.

Due incognite, al momento, restano il Sudamerica e l’Africa, che non riescono a liberarsi del neocolonialismo economico che le lega agli interessi del polo occidentale (anzi, in questo momento, stanno subendo anche la penetrazione delle merci e dei capitali cinesi). In ognuno di questi due centri del Terzo Mondo le nazioni, prese singolarmente, sono troppo deboli per potersi opporre con successo all’imperialismo del capitale.

La tragedia di Haiti è anche il nostro ignorare l’enorme debito morale, politico e civile che l’intero Occidente ha nei suoi confronti

La tragedia di Haiti è tale da lasciare senza parole. E da rendere ancor più piccine e petulanti se non tragicamente ridicole quelle che affollano la scena politica italiana. Sto leggendo un bel libro, che consiglio a tutti, “I giacobini neri”: narra la storia della rivoluzione degli schiavi di Haiti, allora ricchissima e invidiatissima colonia della Francia, in contemporanea con la Rivoluzione Francese. Quella di Haiti è l’unico esempio nella Storia del genere umano di rivoluzione vittoriosa di schiavi contro i padroni schiavisti. Tralascio le efferatezze compiute di routine e per un paio di secoli – con la benedizione del clero – dalla “superiore” civiltà europea contro qualche milione di poveri disgraziati sradicati dall’Africa e trasformati in schiavi dall’altra parte del mondo e spesso anche nella stessa Europa. Basti pensare a un particolare abominio creato dai cattolicissimi coloni: la suddivisione dei mulatti in ben 168 tipi, sottotipi e sottosottotipi a seconda delle frazioni – da una a 167 – di sangue da avi bianchi che potevano vantare: la quantità e il tipo dei diritti loro concessi variavano in base a quelle frazioni di sangue, fermo restando che comunque erano pur sempre angariati e discriminati anche quando avevano 167 parti di sangue “bianco” e una sola di sangue “nero”, per quanto assurdi siano questi termini.
E tralascio il fatto, molto poco noto, che lo stesso Robespierre aborriva sì la definizione di schiavo, ma non la sostanza della situazione, del resto lo stesso Voltaire lucrava con quote di possesso di navi addette alla tratta degli schiavi, le famigerate navi negriere, e che il grande Napoleone e la borghesia francese post rivoluzione francese hanno voluto con testardaggine riesumare lo schiavismo. Se non ci sono riusciti se non per breve periodo, lo dobbiamo agli haitiani, agli schiavi haitiani che si sono ribellati e hanno vinto guadagnandosi anche l’indipendenza di Haiti. E con l’indipendenza ci fu la prima abolizione definitiva dello schiavismo in uno Stato, dopo quella proclamata nel 539 a. C., cioè quasi 2.000 anni prima, da Ciro il Grande, creatore del concetto, e della pratica, dei Diritti mani, abolizione, concetto e pratica caduti però purtroppo in disuso con i suoi successori. Gli Stati Uniti infatti, considerati con la Rivoluzione francese i primi abolizionisti, in realtà lo schiavismo lo hanno abolito sull’intero territorio nazionale solo il 6 dicembre 1895, quando venne finalmente completato l’iter dell’approvazione del XIII emendamento della Costituzione. Ovvero, un secolo dopo Haiti! Continua a leggere