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Il razzismo in Australia

Perché l’Australia è uno dei paesi più razzisti del mondo anglofono? Perché la politica dell’“Australia bianca” (con il rifiuto di tutti gli immigrati non bianchi) è stata ufficialmente abbandonata solo nel 1973.

La politica dell’Australia bianca fu un movimento politico isolazionista e di corrente xenofoba nato nel 1901, intenzionato a bloccare totalmente i flussi immigratori dall’estero.

L’ideatore di questo movimento fu Alfred Deakin, convinto che cinesi e giapponesi costituissero una seria minaccia al progresso del popolo bianco australiano, soprattutto per le proprie caratteristiche di instancabili lavoratori e la loro resistenza allo scarso tenore di vita.

Oggi invece è il gruppo di Murdoch che ha un istintivo atteggiamento islamofobo e xenofobo. Le varie testate della News Corp non si stancano mai di attaccare i musulmani e in generale di veicolare un razzismo spinto. Di recente hanno cominciato a sostenere i concetti del nazionalismo bianco e nel 2018 hanno diffuso ostinatamente il mito del “genocidio bianco” a danno degli agricoltori bianchi del Sudafrica.

Il dominio pressoché assoluto della News Corp nel panorama dei mezzi d’informazione australiani ha pochi eguali negli altri paesi democratici.

Sono così persuasivi che i profughi soccorsi in mare continuano a marcire in centri di detenzione nei vicini paesi insulari del Pacifico come Nauru e Papua Nuova Guinea. Oggi questa politica è talmente normalizzata da avere un sostegno bipartisan nel parlamento australiano.

Ma perché i bianchi australiani sono più razzisti dei bianchi neozelandesi, pur essendo stati i due paesi colonizzati a distanza di soli cinquant’anni l’uno dall’altro da persone provenienti dallo stesso paese e della stessa etnia: inglesi, irlandesi e scozzesi? La differenza sta nel fatto che i popoli che hanno incontrato erano molto diversi tra loro.

Gli aborigeni australiani vivevano in piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori, quasi disarmati e divisi da 600 lingue diverse. Non avevano mai sviluppato l’agricoltura, nonostante avessero abitato quelle terre per 65mila anni. I colonizzatori bianchi si limitarono a soggiogarli. Gli aborigeni non hanno ottenuto la cittadinanza e il diritto di voto fino al 1967.

La storia delle violenze razziali in Australia è andata avanti contro i cinesi nell’Ottocento, contro gli italiani negli anni trenta del Novecento e contro i libanesi nel 2005. Per questo motivo i bianchi australiani di oggi non sono preparati a un mondo segnato dal pluralismo culturale. Ma dovranno farsene una ragione, poiché al censimento della popolazione del 2001, solo il 39% della popolazione risultava essere di etnia bianca europea con avi appurati di origine britannica.

I maori neozelandesi, invece, erano arrivati appena cinquecento anni prima dei bianchi ma avevano già fattorie, vivevano in protostati (territori governati dai capi tribù) e avevano costruito fortezze in tutta la North Island.

L’arrivo dei colonizzatori bianchi fu devastante per i maori, ma erano un popolo abbastanza coriaceo da ottenere il rispetto degli invasori. Quando finalmente fu firmato un trattato, nel 1940, il documento era scritto in entrambe le lingue. Gli omicidi andarono avanti per altri trent’anni e i maori furono duramente colpiti, ma oggi il paese è ufficialmente bilingue e tutti i neozelandesi capiscono che si può vivere insieme a persone diverse.

Oggi le teorie razziste sono sostenute dai media di Murdoch, che hanno sicuramente favorito la strage di Christchurch del 15 marzo 2019, la quale, pur essendo avvenuta in Nuova Zelanda, era nata dal razzismo dell’Australia bianca.

Vi sono state 50 persone morte e il ferimento di altrettante. Furono prese di mira la moschea di Al Noor e il centro islamico di Linwood, entrambi i luoghi affollati da persone di religione musulmana che praticavano la preghiera del venerdì.

L’autore degli attentati di stampo islamofobo, un uomo australiano chiamato Brenton Harrison Tarrant di 28 anni vicino agli ambienti neofascisti, aveva trasmesso il video in diretta Facebook con una videocamera messa sulla testa. Sulle armi da lui utilizzate erano riportati nomi di storiche battaglie in cui i musulmani furono sconfitti (ad esempio quelle di Lepanto e di Tours) e nomi di personaggi storici o contemporanei responsabili di aver fatto guerra (in quanto comandanti militari) a persone di fede islamica e/o di aver ucciso persone di fede islamica.

È stato il più grande omicidio di massa della storia della Nuova Zelanda, un paese con una popolazione di più di quattro milioni di abitanti dove nel 2019 si sono verificati appena 35 omicidi.

La Nuova Zelanda è simile al Canada, dove il razzismo e i pregiudizi nei confronti degli immigrati e dei musulmani esistono, specialmente nelle aree rurali e nel francofono Québec, ma questa ostilità viene di rado manifestata apertamente, perché il rischio è quello di sembrare ignoranti. La gioventù delle città sembra sostanzialmente indifferente al colore della pelle.

Il genocidio (dimenticato) compiuto dagli inglesi contro i nativi australiani

https://justworldnews.org/2020/07/17/the-british-genocides-against-australian-first-nations/

I’ve been researching and thinking a lot about the forms of settler colonialism unleashed and maintained by “White” European nations– mainly, my own people-of-birth, the British– against people of color in many parts of the world. At times, doing this research– reading these accounts, seeing and trying to understand these pictures– makes me deeply, deeply sad; and it will probably have the same effect on many of you who follow me down this path. But being able to “wallow” in sadness and letting it paralyze you is a form of “White” privilege. I strongly believe that all of us who are “White” need to learn, reflect upon, and try to understand this globe-girdling story of the many forms of settler colonialism that “White” countries have engaged in for the past 500 years– since it is that practice that built the (im-)balance of global power that we see today.

I’ve been thinking about the successive waves of genocide that the British settler-colonial leaders and communities engaged in in the land-mass we currently know as “Australia”. This story is very important in its own right. If you ever wondered how it was that that vast continent came to be a “White”-dominated, British-cultured country (and part of George W. Bush’s “Five Eyes” gang of British-cultured countries!)… with only a few remaining patches in which the country’s surviving Indigenous peoples live– then, you could visit this Sovereign Union website, and click on either the “History” or the “Images” tab at the top. Or, look at some of the disturbing images on this “Welcome to Country” site. Or, do some research of your own into what happened to the Indigenous people of Tasmania…

The history of British genocides in “Australia” also occupies a special place in the global history of “White” settler colonialisms for a number of reasons:

It is one of a handful of instances in which the brutalities of the early “contact” between “White” settlers and Indigenous people came late enough in history that there is photographic evidence of some of the atrocities committed in that crucial period. The only other major instances of this that I can think of are the large-scale atrocities the Germans committed against the Herero and Nama peoples of Namibia in roughly 1904-1906, and the atrocity-laden expulsion and ethnic cleansing of Indigenous Palestinians that the infant “Israeli” state committed in 1947-49.

The atrocities the British committed against Indigenes in “Australia” lasted for many, many decades– that is a huge land-mass they were conquering, after all. But the atrocities certainly lasted until the early decades of the 20th century; and thus, as in Namibia and Palestine, there is shocking photographic “evidence” of what they did.

Indigenous men in Australia, enchained, early 1900s

Images like the photo of the Indigenous Australian “chain gang” at the top of this post or the one of chained Indigenous Australians under the smirking eye of a “White” supervisor, at right, are extremely disturbing. You can find many more at the “Sovereign Union” website linked to above.

Stories and images like these ones from “Australia” can also establish a vivid link, in the US cultural milieu, between the struggles of African Americans and of Native Americans.

Here in the USA, by and large, among the many atrocities that settlers visited on Indigenous people, enslavement was not the most common. Attempts were certainly made by settlers here to enslave Native Americans (and even, some “White” traders exported a few enslaved Native Americans to plantations in the Caribbean.) But very often members of the Native communities here were able to flee from the violent, gun-wielding settler hordes, though they lost access to their traditional hunting, fishing, and farming grounds by doing so. So, in order to get a totally captive, culturally “broken” workforce, the settlers here in North America ended up importing many millions of enslaved people from Africa…

In “Australia”, the violent, gun-wielding settler hordes were able to capture, culturally break, and enslave a  larger proportion of the Indigenous people. So there, you had enslaved people who were both Black and Indigenous. (And yes, often the “excuse” the Bible-wielding settlers would use for enslaving the Indigenous people and putting them to work in chain gangs was because they had committed “crimes” and needed to be “punished.” It was a School-to-Prison pipeline without even any pretense at a “school.”)

Oh and lest we forget, the settlers (and the missionaries who accompanied them) were also there to “civilize” those “savages.” And yes, that very often involved taking the Indigenous communities’ children from their families and putting them into boarding schools, or giving them to “White” families to raise. Anything to wipe out any traces of their “savage” and “primitive” culture.

Then, it seems clear that the lengthy, multi-century process of genociding the Indigenous peoples that the British settlers had been pursuing in the land-mass of “Australia” provided a good example to the settlers that Johnny-come-lately empire-builder Germany started implanting in Africa, in the mid-1880s.

Chain gang of captured Hereros, Namibia, early 1900s

Here is a photo from Namibia, around 1905, showing captured Herero men chained together in work-gangs by very heavy chains in exactly the same way the British settlers had chained  the captive  Indigenous Australians.

You can learn more about the twin genocides the Germans committed against the Herero and Nama peoples in Namibia, here or here.

Clearly, Germany had learned a good few tips about genociding, long before Adolph Hitler adopted the “Final Solution” against the Jews and Roma, in 1941.

As I said above, researching this history can be deeply disturbing. I find that photos like these ones somehow “speak to me” in a way that is more visceral and more incontrovertibly “probative” of the underlying facts of enslavement, degradation, dispossession, dehumanization, and mass slaughter than any number of lithographs or other hand-drawn prints that preceded them in the print mass media of the 19th century. The fact that they are photographs also reminds me that those acts were committed in the modern era (and by members of my own national group.)

There is a big question, of course, as to what the intention of those photographers was. True, the different people who created those different photographic images–and there were quite a lot of different images, though many telling a similar kind of story– may have had different motivations or intentions.

Here in the USA, photography started emerging at around the time of the country’s big civil war, in the early 1860s; and in those days, people of some means who went off to fight would often have a “Daguerrotype” portrait photo of themselves made– a lengthy and complex process– before they left for the front. They did it so that could be a memento for their family members while they were away, or a memento mori, should they never come back from the war. Poignant.

Then, there are “documentary” photographers who make images of people in hard circumstances– including, even a few, of enslaved people here in the USA back in the early 1860s– as a way of documenting their plight, and often with a view to arousing sympathy for them and motivating “White” people rich enough to buy the books and newspapers bearing those images to help to end their situation.

The taking of of photos like the ones I have shown above– and I did so only with trepidation– seem to have had a very different  intent. They are much, much more like the prideful “trophy” photographs that “Big Game” hunters (usually also “White” people) take of the lion, tiger, or giraffe that they have just shot. Or, God forbid, like the “trophy” photos that U.S. White supremacists would take long, long into the 20th century, of lynchings of African Americans and the gleeful “White” crowds that attended those gatherings. (Those photos often would get printed up as postcards, so the attendees could memorialize the event: A very different kind of memento mori.)

So these “trophy” photos I used above were captured, I am certain, by “White” photographers who never won or even sought any permission from the people portrayed in them. Plus, I understand that many Indigenous Australians– like numerous other peoples around the world– believe that if you “take” (that is, capture) an image of them photographically, then you may also be “taking” something vital from their very spirit. So I apologize for using these images. But I do so because I think there are many other people out there in the world who will find them, as do, deeply haunting in their power– and powerful in their haunting.

But let me finish with another image. It is a photo of a bronze statue of Pemulwuy, described in this “Sovereign Union” collection as “the fiercest resistance leader to the European invasion of Australia, which began with the arrival of what is called the First Fleet in 1788.” Look at more of the images of freedom fighters on that website, too– and of course, at the many informative documents there!

Hilary Clinton lo definisce non a caso “La nostra NATO economica”: la strategia del silenzio e della non informazione per far passare il trattato TTIP, che con la scusa del libero scambio ci rende di fatto colonia anche agroalimentare degli USA

TTIP: chi difende l’interesse dell’Europa?

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Si sta facendo di tutto affinché in Europa la stessa politica e la società civile non siano in grado di esprimere in modo sovrano e pacato un giudizio consapevole sul Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), il Trattato di libero scambio tra Stati Uniti e Unione Europea in cantiere da ben tre anni. Da una parte è stata imposta una peculiare quanto ingiustificata ed intollerabile segretezza sui documenti, sulle procedure e sul contenuto del Trattato. Dall’altra, avendo radicalizzato l’argomento e avendolo portato nelle piazze con forti dimostrazioni, a volte anche provocatoriamente degenerate in scontri, si tenta di etichettare come “facinoroso” chiunque chiede chiarezza e vuole esprimere la sua democratica opposizione.

Eppure, dal poco che è trapelato, il TTIP potrebbe avere un impatto profondo, per alcuni anche devastante, sulle nostre produzioni, soprattutto, ma non solo, nel settore agricolo ed agroalimentare, sul nostro sistema sociale di mercato e sul nostro commercio. I promotori vorrebbero la sua ratifica prima della scadenza della presidenza Obama, che ne è stato uno dei grandi promotori. Hilary Clinton lo ha già definito la nostra ‘Nato economica’. Alcuni parlamentari tedeschi hanno recentemente chiesto di visionare i documenti presso il Ministero dell’Economia di Berlino. Ne hanno fatto un resoconto desolante. Si possono leggere alcuni documenti solo sul computer in una stanza controllata, per poche ore senza consultazioni con altri e senza prendere appunti. Del materiale letto non se ne può neanche parlare pubblicamente.

E’ grave che il commissario europeo per il Commercio, Cecilia Malmström, sostenga che la stesura del trattato non sia di competenza dei parlamenti nazionali. L’obiettivo del TTIP sarebbe la creazione della più grande zona di libero scambio commerciale del pianeta, con circa 800 milioni di consumatori. Questa rappresenterebbe quasi la metà del Pil mondiale e un terzo del commercio globale. L’Ue è la principale economia e il maggior mercato del mondo. In gioco, quindi, ci sono enormi interessi economici. Ma in gioco c’è anche il futuro delle relazioni politiche internazionali. Non si tratta di mettere in discussione il rapporto di amicizia con gli Stati Uniti, ma la mancanza di trasparenza fa dubitare della bontà dell’accordo. Gli interrogativi che i cittadini e gli operatori economici, non solo italiani, si pongono sono tanti. Gli Usa usano gli ogm in agricoltura. Sarà anche l’Europa costretta a introdurli nelle sue coltivazioni? L’Italia ha 280 prodotti a denominazione d’origine protetta. E’ il numero più grande in Europa. Gli Usa li rispetteranno oppure avremo il ‘parmisan della Virginia’ o il ‘san danny del Minnesota’? Eventualmente venduti anche nei nostri mercati?

Molti, anche negli Stai Uniti, credono che uno dei principali pericoli del TTIP sia la possibilità che investitori privati possano iniziare procedimenti legali e querele milionarie contro gli Stati in tribunali internazionali d’arbitraggio. L’intenzione positiva di proteggere l’interesse pubblico potrebbe essere interpretata dalle multinazionali come una “limitazione dei profitti degli investitori stranieri”, un ostacolo al business e alla libera concorrenza. E’ molto importante notare che questa è anche la maggior preoccupazione della London School of Economics che punta appunto il dito sulle camere arbitrali, i tribunati istituiti dal Trattato. Nel suo studio l’istituto inglese cita come esempio una serie di querele passate, come quelle della Phillips Morris contro l’Uruguay e l’Australia per aver lanciato delle campagne contro il fumo.

In Europa si sentono voci di grande preoccupazione, anche se ancora espresse troppo sottovoce. Il governo francese afferma che dirà un forte no se il Trattato dovesse mettere in discussione la struttura della sua agricoltura. Ci si augura che l’Italia non si dica soddisfatta di qualche generica garanzia di rispetto del nostro ‘made in italy’. Per il sistema agroalimentare italiano, a partire da quello del Sud, il Trattato sarebbe esiziale. La geopolitica e il business tout court non possono mortificare le prerogative democratiche e indisponibili dei popoli e dei loro parlamenti, a partire dal diritto alla conoscenza.

*già sottosegretario all’Economia **economista

L’Australia riconosce Norrie come persona di sesso neutro

Lo so, ora molti sorrideranno; qualcuno alzerà le spalle e c’è chi rimarrà incredulo, non tanto per la condizione di  Norrie May-Welby, ma perché l’Australia è il primo Stato a riconoscere ad una persona lo stato di esere umano neutro: né gay, né trans, né etero. Neutro! E’ la battaglia vinta da questo/a quarantottenne, nato in Scozia, a Pasley,  e successivamente trasferitosi in Australia dove vive da cittadino/a a tutti gli effetti. La notizia di certo è parecchio curiosa: come ci si rivolgerà, parlando di lei/lui e con lei/lui? Il vocabolario pare non aiutarci, figurarsi la grammatica. Chi si può intendere di sesso neutro? Eppure il governo di Camberra ha preso la cosa sul serio e dopo una lunga ed estenuante battaglia legale, Norrie l’ha avuta vinta: sesso androgino, sessualità neutra.

Presi un acido ad una festa di eterosessuali. – ha dichiarato Norrie, raccontando la sua storia e le sue sofferenze – Da quel momento ho capito che non aveva senso chiedermi se ero donna o uomo. Sono un essere umano, voglio essere sia uomo che donna“.

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Iran: Berlusconi semina, Ahmadinejad raccoglie. Caro Ratzinger, ma lei l’ordine che ha inviato nel 2001 a tutti i vescovi del mondo di tacere alle autorità civili qualunque caso di pedofilia del clero lo ha ritirato sì o no? A giudicare dal nuovo scandalo e annesso silenzio della curia di Bologna, si direbbe proprio di no. Dalla Milano da bere alla Lombardia, e non solo, da spolpare: il nostro capo del governo spiega che i peggiori sono per lui “i migliori”

A Teheran stanno facendo il gioco di Silvio Berlusconi e dei suoi manovratori. Così è più facile ricominciare il tiro al piccione contro l’Iran, con l'”informazione” giornalistica che ci dà fulmineamente conto non solo di ciò che accade, ma anche di ciò che si vorrebbe accadesse ma non è ancora accaduto. Una domanda: come mai invece della Palestina non si ha MAI una altrettanto fulminea informazione? Per l’Iran diamo retta anche a twitter e affini, senza uno straccio di verifica, in Palestina invece diamo retta solo al portavoce del governo israeliano. Vi accadono soprusi a volte degni dell’Iran, ma NON se ne parla. Ahmadinejad gioca chiaramente la carta dell’esasperazione della tensione politica internazionale, in modo da poter dare meglio un giro di vite interno, e arriva a dichiarazioni provocatorie anche demenziali, però ha dichiarato chiaro e tondo in piazza che l’arricchimento dell’uranio per la famosa bomba atomica non interessa l’Iran. Concetti del resto già detti più volte, ma in quei casi ha fatto cilecca non solo twitter…

La rinuncia alle atomiche da parte di Ahmadinejad  sa di volpe che non arriva all’uva e dice che è acerba, visto che a parte le chiacchiere soprattutto made in Usa e Israele – remake delle balle sulla “bomba” irachena – l’Iran non ha nessuna possibilità di arrivare a costruirla. Però il gioco al massacro, per ora a parole in attesa di poterlo trasformare in carne e sangue dei vinti, continuiamo a giocarlo. Il capo del governo o il capo dello Stato iraniano gridano che in Israele “collasserà” il sionismo – solo il sionismo, si badi bene, non Israele – ma i giornali traducono che ha gridato “Israele sarà “schiacciato”. Israele, non il sionismo. Che è chiaramente cosa diversa da Israele, così come un qualunque regime politico di uno Stato è cosa diversa dallo Stato con quel regime. Gli Usa e Israele e l’Europa vogliono far crollare il regime teocratico dell’Iran, ma questo NON significa che vogliano schiacciare l’Iran. O no? Di ritorno dal mio viaggio in Iran scrissi che il regime teocratico era condannato a crollare, perché la società civile è molto più avanti del regime, e nessuno s’è sognato di accusarmi di volere che l’Iran venisse “schiacciato”. O no? Sono molti i Paesi che sperano che in Italia crolli il “regime berlusconiano”, cosa sperata da un buon terzo degli stessi italiani, ma a nessun furfante verrebbe in mente di dire che tutti costoro vogliono che a crollare o ad essere “schiacciata” sia l’Italia. O no? Continua a leggere