Fatti e interpretazioni

I fatti in sé non sono molto importanti nella storiografia, poiché su di essi si possono dare le versioni più disparate. Sono le interpretazioni che contano e soprattutto quelle supportate da classi sociali, da movimenti popolari. È su di esse che gli storici si devono confrontare. I fatti possono essere utilizzati a sostegno delle interpretazioni. Ma, in ultima istanza, non c’è fatto che provi qualcosa al 100%, proprio perché i fatti non sono mai in sé evidenti, in quanto non offrono la possibilità di una lettura univoca.

Che i discepoli del Cristo abbiano potuto constatare una tomba vuota, può essere considerato un fatto; che il corpo sia “risorto” è certamente un’interpretazione. Ci sono voluti però 2000 anni prima che si cominciasse a parlare di altre ipotesi esegetiche: trafugamento del cadavere, morte apparente, misteriosa scomparsa, trasformazione della materia, leggenda religiosa, mito ancestrale…

Non sono mai sicure le cause che generano i fatti. O meglio, ci possono essere cause prevalenti e cause secondarie o concause, cioè cause collaterali, che hanno inciso in maniera indiretta ma efficace. Apparenza e realtà non coincidono: la realtà è sempre incredibilmente complessa, spesso determinata da fattori del tutto imponderabili o comunque non chiaramente definibili. Come un effetto può essere stato determinato da più cause, così una causa può determinare più effetti. Di qui l’impossibilità di fare delle generalizzazioni troppo semplificate.

La storia è la scienza della libertà umana, non della necessità. La necessità subentra dopo che si son fatte delle scelte, ma anche dopo averle fatte, la possibilità è sempre dietro l’angolo. Infatti ogni necessità, col tempo, rivela i propri limiti, le proprie contraddizioni, che vanno superate. È la libertà che impedisce di dare interpretazioni univoche o di dare per scontate le cose. Tutto è in perenne movimento e ciò rende precaria, per definizione, qualunque storiografia.

Non ha senso pensare che l’interpretazione emerga dall’analisi dei fatti. Uno storico può anche procedere dai fatti all’interpretazione, facendo in modo che sia il lettore a giungere alle sue stesse conclusioni, non enucleate in via preliminare come ipotesi interpretative. Tuttavia il fatto d’indurre il lettore a non avere l’impressione d’essere stato a ciò condizionato, è soltanto una procedura psicopedagogica o didattica. Nella sostanza lo storico ha già proprie idee interpretative dei fatti prima ancora di prenderli in esame. Anzi, il più delle volte sono proprio queste idee preliminari a indurlo a fare delle ricerche per trovare delle conferme alla loro giustezza. Il che non vuol dire che uno storico non possa imbattersi casualmente in determinati fatti e sentirsi solleticato a esaminarli; in tal caso però, pur non avendo idee precostituite su tali fatti, egli resta pur sempre un essere pensante, che non può fare a meno di avere determinate idee. Quanto più è consapevole di questo, tanto più sarà onesto con se stesso.

Tale pre-comprensione raramente viene smentita dai fatti. Perché lo sia, occorre almeno una delle due condizioni: una’interpretazione alternativa alla propria, della cui fondatezza il ricercatore si convince personalmente, sulla base di un proprio percorso ermeneutico; oppure ci si avvale di fatti drammatici (come p.es. una guerra), contemporanei alla vita dello storico, che possono in qualche modo sconvolgere le sue certezze.

La storiografia quindi è soltanto uno scontro di interpretazioni, che mutano al mutare delle condizioni socio-ambientali in cui gli storici si trovano a vivere. In tal senso è del tutto naturale che talune interpretazioni, cadute in oblio per un certo periodo di tempo, vengano successivamente riprese e adattate alle nuove circostanze di tempo e luogo.

Quando Aristotele venne riscoperto dalla Scolastica, non era esattamente l’Aristotele originale; così come non si può parlare di fedeltà al Platone storico da parte del neoplatonismo umanistico-rinascimentale. Non bisogna essere contrari a tali usi strumentali, proprio perché sono del tutto naturali: la storia è una sorta di evoluzione, in cui, anche se le cose si ripetono, non lo sono mai in maniera identica.

FINE DELL’EGEMONIA DEL DOLLARO E RUOLO DELL’ORO

L’alternativa al sistema del dollaro. Il ruolo dell’oro

Mario Lettieri* Paolo Raimondi** 

I maldestri tentativi da parte americana di salvare a tutti i costi il ruolo egemone del dollaro stanno spingendo molti Paesi a lavorare più alacremente per costruire un’alternativa monetaria multipolare. Oggettivamente il dollaro, come unica valuta degli scambi e delle riserve internazionali, ha concluso il suo ciclo storico. Bisogna prenderne atto.

Le destabilizzazioni finanziarie e le svalutazioni monetarie nei Paesi emergenti, provocate dalle politiche di liquidità “yo-yo” della Federal Reserve, hanno indotto alcuni governi a denunciare una “guerra monetaria” in corso. Le “cadute pilotate” dei prezzi del petrolio e dell’oro mirano a mettere in difficoltà soprattutto i Brics, la Russia e l’Iran. Contemporaneamente i prezzi di alcune materie prime vengono manipolati al rialzo con l’effetto di “gambizzare” le politiche industriali e di sviluppo dei Paesi emergenti e anche dell’Unione europea.    

Anche se non lo volessero, da tempo molti Paesi sono quindi stati costretti a immaginare e a proporre un nuovo sistema monetario. Alcune recenti decisioni lo confermano.

Infatti la creazione a Fortaleza della Banca di Sviluppo dei Brics ha in sé le potenzialità per diventare un organismo monetario internazionale alternativo al Fmi e alla Banca Mondiale del defunto sistema di Bretton Woods.

La stessa Cina fa grandi accordi con il Brasile, con la Russia, con il Giappone, con la Corea del Sud regolati in yuan o in altre monete nazionali.

Sono contratti nella forma di swap monetari che permettono di saldare gli scambi nelle valute stabilite. Recentemente li avrebbe proposti anche all’Ue. Una parte del grande accordo di forniture di gas tra la Russia e la Cina per l’equivalente di 400 miliardi di dollari del resto verrà regolata in rubli o in yuan.

Si ricordi inoltre che lo scorso aprile il governo di Mosca ha annunciato che una parte dei contratti internazionali stipulati dalle grandi corporation russe dovrà avvenire in rubli. Al recente summit dell’Asia-Pacific Economic Cooperation (APEC) di Pechino, il presidente Putin ha affermato che”faremo un uso sempre maggiore di accordi e compensazioni in monete nazionali nel nostro commercio con la Cina. Siamo pronti a fare i primi accordi in rubli e in yuan, anche nel settore dell’energia”. Una Commissione intergovernativa russo-cinese è già al lavoro per studiare simili opzioni. La stessa Banca Centrale russa ha annunciato la volontà di creare con i partner dei Brics un “sistema di swap multilaterali”.

Naturalmente i riverberi politici non mancano. Infatti la conferenza per la sicurezza del Shanghai Cooperation Organization (SCO), che già coinvolge Cina, Russia, Kazakhstan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan, vedrà a breve la partecipazione anche di India, Pakistan, Iran, Afghanistan e Mongolia. Anche la Turchia, che è un membro della Nato, sembra volervi aderire. Formerebbero così un blocco che in campo energetico controllerebbe il 20% delle riserve mondiali di petrolio ed il 50% di quelle di gas.

In tale contesto, come prevedibile, anche il ruolo dell’oro è ritornato al centro delle discussioni . Con la volatilità del suo prezzo registratasi nei mesi recenti si mira a renderlo instabile e quindi poco utilizzabile in eventuali accordi monetari internazionali. Però si ha notizia che a Mosca sarebbe in discussione proprio l’aggancio del rublo all’oro. E’ facilmente intuibile che l’attuale svalutazione del 30% della moneta russa sia frutto di speculazioni e manipolazioni internazionali. Di sicuro non riflette la reale capacità economica e l’immensa ricchezza della Russia. Agganciare il valore della valuta alle riserve auree avrebbe un effetto stabilizzante sui cambi della moneta.

Come è noto, a parte il debito sovrano al 15% del Pil, la Russia vanta riserve auree pari al 27% della quantità di rubli in circolazione. Gli Usa invece hanno un debito pubblico al 105% del Pil, mentre le loro riserve auree coprono appena il 2,3% dell’offerta monetaria.

Non si comprende il perché esperti occidentali tentano a minimizzare un possibile ruolo futuro dell’oro nel sistema monetario. Si ignora che da tempo tutti i governi europei importanti, a cominciare dalla Germania, dall’Olanda, dalla Gran Bretagna, dalla Svizzera stanno effettuando forti campagne pubbliche per riportare a casa il loro oro, attualmente detenuto nei caveau di Fort Knox negli Usa.

Su questo terreno assai movimentato e complesso riteniamo che il ruolo dell’Unione europea possa diventare più centrale e più incisivo. Una politica dell’Europa, veramente indipendente, potrebbe agevolare una soluzione non conflittuale verso un nuovo sistema politico e monetario internazionale. Una nuova architettura monetaria, come anche noi da tempo sosteniamo, dovrebbe portare alla costituzione di un paniere di monete dove ovviamente dovrebbe esserci anche il dollaro insieme all’euro e ad altre importanti monete.

Occorre prendere atto che con la caduta del Muro di Berlino il mondo necessita di un assetto multipolare, anche monetario.

*Sottosegretario all’Economia del governo Prodi **Economista