Guerra e religioni

I credenti, di qualsivoglia religione, possono compiere guerre in nome del loro dio? Una domanda del genere è mal posta, per almeno una ragione: la guerra in sé non è un male; lo è solo quando è offensiva; chi rifiuta una guerra difensiva è solo un codardo e, in definitiva, fa gli interessi del nemico.

Semmai ci si dovrebbe chiedere cosa si è fatto per impedirla. Il detto latino, si vis pacem para bellum, guerrafondaio per definizione, andrebbe rovesciato, nisi bellum vis para pacem (“se non vuoi la guerra, prepara la pace”). Una guerra difensiva ha sempre una ragione in più, anzi ha l’unica ragione possibile, anche se chi la fa non è un campione di democrazia. Lo zarismo, p. es., vinse giustamente le truppe napoleoniche, e lo stalinismo quelle hitleriane, e il Vietnam quelle americane, e via discorrendo.

Ancora oggi vediamo, nel mondo islamico, che alcune sue componenti scatenano stragi, eccidi, persecuzioni in nome del fatto che hanno un dio diverso da far valere o un modo diverso di vivere precetti religiosi più o meno simili.

Questa cosa non si verifica solo nel mondo islamico, ma anche là dove esistono Stati confessionali o pluriconfessionali. È sufficiente infatti che nelle compagini governative vi siano elementi del clero o che uno Stato abbia un rapporto privilegiato con una determinata confessione, o che un capo di Stato o un primo ministro, pur essendo un laico sul piano dello status civile, chieda una “benedizione divina” per il buon esito di un conflitto bellico appena fatto scoppiare, ed ecco che il rischio del fanatismo fa capolino. Rischi del genere si corrono anche coi cosiddetti “Stati laici e a-confessionali”; figuriamoci con tutti gli altri.

Ormai sembra essere diventata l’idea stessa di “Stato” a non garantire più nulla di democratico. La democrazia è diventata una lotta quotidiana del cittadino comune, al punto che la pretesa di garantirla, da parte di uno Stato, sembra equivalere, tout court, a una sua violazione.

Laddove esistono società basate sugli antagonismi sociali, è facile diventare “talebani”, anche senza richiamarsi a una religione specifica o a una modalità particolare di vivere i suoi dogmi. Non solo quindi è la religione in sé che si presta facilmente alle strumentalizzazioni del potere politico ed economico, ma vi si prestano anche tutte quelle culture o quei valori di tipo “fondamentalistico”, che sono “laici” solo all’apparenza.

Chiunque sia convinto d’avere la verità in tasca, sia egli credente o meno, non potrà certo essere favorevole alla democrazia politica o all’eguaglianza sociale o al rispetto dei valori umani universali. Laicità vuol dire non avere alcuna idea che possa interferire con la necessità di soddisfare bisogni indispensabili alla sopravvivenza del genere umano.

Indubbiamente oggi usare la religione per cercare d’imporre la propria volontà, fa parte d’un retaggio medievale. Ma è anche vero che chi lo fa, si trova a essere privo di altri strumenti culturali, è ideologicamente immaturo, appunto perché proviene da ambienti disagiati, dove le contraddizioni sono molto evidenti. Chi soffre si esprime come può quando decide di lottare.

Una persona di vedute aperte dovrebbe cercare di andare oltre certi modi di esprimersi, per capire quali situazioni di disagio materiale vi stanno dietro. E, in tal senso, fomentare scontri di civiltà – come fece p. es. l’ultima Oriana Fallaci -, opponendo un “credo” a un altro, non fa che aumentare le distanze. Laicità vuol dire abbassare i reciproci ponti levatoi, uscire disarmati dai propri castelli e riempire insieme i reciproci fossati con della terra comune, che possa servire a far pascolare le rispettive idee. In Italia vi sono stati addirittura degli alti prelati che, preoccupati per un massiccio afflusso di immigrati islamici, chiedevano di favorire solo quelli chiaramente “cristiani”!

Se guardiamo alla storia della chiesa cattolico-romana, dobbiamo dire che, dopo la svolta costantiniana e soprattutto teodosiana, che fece diventare il cristianesimo l’unica religione lecita, non c’è stato un momento in cui il papato o comunque il clero o gli esponenti laici più intolleranti di questa confessione, non abbiano usato motivazioni religiose per giustificare persecuzioni, eccidi e guerre d’ogni genere. L’elenco è così lungo che ci vorrebbero dei libri: in tal senso ci si può limitare a quelli di K. Deschner, Il gallo cantò ancora (Massari ed.) e di W. Peruzzi (scomparso di recente), Il cattolicesimo reale (Odradek ed.), vere “bibbie” sull’intolleranza cattolica.

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