LETTERA APERTA AL COLLEGA DEL CORRIERE DELLA SERA FABRIZIO PERONACI – Il pessimo giornalismo ha trasformato in una trentennale farsa a puntate quella che doveva essere la tragedia privata della scomparsa di Emanuela Orlandi

DATA LA PROSECUZIONE E L’AGGRAVARSI DELLE SCORRETTEZZE DA ME DOCUMENTATE IN QUESTA LETTERA APERTA E DATO IL SILENZIO DEL DESTINATARIO, RITENGO OPPORTUNO RITARDARE DI QUALCHE GIORNO IL NUOVO ARGOMENTO DEL BLOG. GRAZIE PER LA COMPRENSIONE.

Egregio collega Fabrizio Peronaci,

l’altro ieri 21 aprile 2012 sulla pagina Facebook del gruppo denominato petizione.emanuela@libero.it – Gruppo ufficiale fondato da Pietro Orlandi è comparso il seguente tuo appello:

“UN’INVESTIGAZIONE PER EMANUELA
cari amici, chiedo un aiuto a quanti di voi abbiano tempo e un certo fiuto per l’investigazione.
In breve la questione è la seguente: sarebbe molto, molto importante riuscire a trovare riscontri sulla presenza a Roma nel giugno del 1983 (cercando su Internet o da altri fonti) del principe erede del Liechtenstein Hans-Adam.
Come io e Pietro raccontiamo nella nuova edizione di “Mia sorella Emanuela” (a pag 289), Alì Agca ha espressamente accusato Hans-Adam (ancora oggi regnante) di aver partecipato a una sorta di vertice in Vaticano avvenuto l’11 giugno 1983 (tra i presenti ci sarebbe stato anche il cardinal Casaroli), nel quale fu deciso il sequestro e il trasferimento di Emanuela nel piccolo paese del centro Europa. Se questo racconto fosse confermato da un documento che attesti la presenza a Roma in quei giorni di Hans-Adam, capite bene che avremmo trovato un riscontro fondamentale alle dichiarazioni del presunto pazzo Agca.
Io da settimane sto navigando su Seby Interlandinet, ma non ho avuto la fortuna di trovare il link giusto… Qualcuno ci prova? ciao a tutti, f.”.

Non intendo giudicarne il contenuto, ma rilevo che tale appello segue l’ennesima asserita “rivelazione” lanciata la sera prima, venerdì 20 aprile, da te e dall’avvocato Ferdinando Imposimato nel corso del programma Metropolis di RomaUnoTv dando ampio credito alle affermazioni del cittadino turco Alì Mehmet Agca, noto anche per essersi definito “unico Gesù Cristo in terra”. Affermazioni non a caso riportate – come tu stesso specifichi nell’appello – nella nuova edizione del libro tuo e del cittadino vaticano Pietro Orlandi. Questo è il link del video che su Youtube immortala il lancio delle nuove “rivelazioni”, come al solito disinvoltamente opposte alle “rivelazioni” precedenti:  http://www.youtube.com/watch?v=m4RVS0oJjQI
Premetto che non si capisce perché si insista a ingannare il pubblico continuando a presentare Imposimato come esperto che si è occupato del caso Orlandi quando era giudice istruttore a Roma, mentre invece come magistrato non se ne è mai potuto occupare perché già uscito dalla magistratura. Premetto anche che da almeno 12 anni lo stesso Imposimato ha più volte pubblicamente affermato che “rientrato Agca in Turchia, Emanuela Orlandi sarò sicuramente liberata”. S’è visto…. Premetto infine che è strano, anche dal punto di vista deontologico, che lo stesso Imposimato dopo essere stato il legale di Agca, quando questi era detenuto nel carcere di Ancona, sia infine diventato il legale della signora Maria Pezzano, madre di quella Emanuela Orlandi che lo stesso Imposimato sostiene da anni e anni essere stata rapita in favore proprio del suo ex cliente Agca. Tu non lo trovi almeno un po’ strano o che quanto meno sia un piccolo caso di conflitto di interessi? O vogliamo sostenere che il conflitto di interesse esiste solo se riguarda Silvio Berlusconi?
Ciò premesso, noto che la “rivelazione” del 20 sera in tv e il suo rilancio su Facebook il giorno dopo seguono lo stesso schema di un’altra “rivelazione”, quella del 17 giugno dell’anno scorso sempre su RomaUnoTv, e rilanciata il giorno dopo da te sul Corriere della Sera. Mi riferisco alla “rivelazione” lanciata in diretta telefonica dall’asserito “ex agente segreto del Sismi” con nome in codice “Lupo”, in realtà il pataccaro Luigi Gastrini, nel corso della puntata di Metropolis visibile sul seguente link: http://www.youtube.com/watch?v=qNgtvibZGts .
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Romanzo – e verità – di una strage: quella di piazza Fontana del 12 dicembre 1969. E della perdita della nostra innocenza.

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Questo qui sopra è il link del file dell’intervista che mi ha fatto Radio Città Futura il 3 aprile riguardo le polemiche feroci nate dal film di Marco Tullio Giordana “Romanzo di una strage”. Il film è stato tratto dal libro “Il segreto di piazza Fontana”, scritto dal mio amico e collega Paolo Cucchiarelli, il quale sostiene che a piazza Fontana le bombe erano in realtà due. Una di scarsa potenza messa molto probabilmente dall’anarchico Pietro Valpreda, incolpato subito della strage a mo’ di capro espiatorio e uscito indenne di scena dopo qualche anno di galera grazie al sottoscritto e a Mario Scialoja de L’Espresso. L’altra, di potenza devastante, messa da un provocatore prezzolato somigliante a Valpreda per poterlo incastrare, come in effetti avvenne. Per reazione a quella strage e al disegno autoritario che le stava dietro nacque il terrorismo di sinistra, dagli anni delle bombe fasciste e di Stato agli anni di piombo. Qualcuno – mi pare il sindaco di Milano Giuliano Pisapia – ha detto che il 12 dicembre 1969 noi italiani, e non solo quelli della nostra generazione, abbiamo perso la nostra innocenza. E’ vero.

Prima che Cucchiarelli scrivesse il libro ho parlato con lui un paio di volte, raccontandogli le cose che mi sono tenuto dentro per decenni e alle quali ho accennato a volte nel nostro blog.

Quando mi hanno intervistato non avevo ancora visto il film e non volevo vederlo: meglio guardare avanti che indietro. Per giunta, così in profondità…. Poi su consiglio di Scialoja tre giorni fa sono  andato a vederlo. E oggi a Cucchiarelli ho scritto questa lettera:

“Caro Paolo, il film non lo avevo ancora visto e non volevo vederlo. Poi Mario Scialoja m’ha chiesto un commento al suo blog dedicato proprio al film e alla strage, e m’ha detto che  valeva la pena lo vedessi. Molto potenti, e per me emotivamente insostenibili, le scene delle manifestazioni di massa. Di forte impatto la scena dell’esplosione che si riversa sulla piazza. M’è venuta in mente la scena del film Vajont di Martinelli nella quale l’arrivo dell’onda che spazzerà via mille vite umane e qualche paese è preceduta dal vento spinto avanti in crescendo dall’acqua che avanza tutto travolgendo. Una scena che ferma il tempo. Ti inchioda al dolore. Ti inchioda al riviverlo…. Il vento in arrivo ti succhia via il fiato, ti svuota i polmoni, l’irrompere della massa d’acqua ti annega nei ricordi… Continua a leggere

Sul fatto che gli ex-tossici si raccontino ad estranei

E’ consuetudine che le scuole superiori vengano periodicamente visitate da ex-tossici che raccontano, in forma assembleare, la loro esperienza o che gli studenti li vadano a trovare nelle loro comunità per conoscere i loro ambienti e percorsi di recupero, le loro motivazioni ecc.

Ci si chiede se tutto quello che si fa in questi incontri sia pedagogicamente utile. Molte cose lo sono sicuramente, ma forse una no: quella di raccontare ad estranei, da parte dell’ex-tossico, i propri problemi più intimi, più personali.

Questi ex-tossici vivono ancora nelle comunità di recupero per una qualche ragione: hanno superato la dipendenza fisica ma non quella psichica, oppure hanno scelto di vivere definitivamente nella propria comunità (come spesso succede in quella di San Patrignano, dove lavorano, si sposano ecc.), oppure vengono giudicati “utili” dai loro dirigenti come forma di testimonianza positiva da divulgare appunto nelle scuole e in altri ambiti sociali.

Ho l’impressione che il fatto di mettersi a raccontare tutto di sé a chi viene visto per una sola volta rischi di diventare una forma di violenza nei confronti di se stessi, anche nel caso in cui vi si acconsenta liberamente. E’ infatti difficile pensare che una persona che ha scelto di vivere in una di quelle comunità invece che in carcere, possa sentirsi così libera nei confronti di chi gli chiede (o anche solo gli propone) di offrire una testimonianza del genere.

Indubbiamente non si sta qui a mettere in discussione l’utilità terapeutica di raccontare la propria esperienza a chi vive problemi analoghi o a chi si pensa che in qualche modo possa aiutarci a risolverli. La domanda che ci si pone è un’altra: siamo sicuri che il raccontare la propria esperienza a soggetti del tutto estranei non rischi di diventare una forma di esibizionismo (in relazione alla propria capacità di affrontare e superare il problema della dipendenza), o, peggio, una forma di propaganda a favore della propria comunità di recupero?

E’ noto infatti che sono gli stessi gestori di tali comunità che si servono dei propri ex-tossici (o ex-alcolisti) per far conoscere la propria struttura, per far vedere i loro successi e per chiedere sostegni finanziari alle istituzioni. Gli ex-tossici raccontano al mondo le loro esperienze anche perché le varie comunità di recupero sono in concorrenza tra loro. Questo rischia di trasformarsi in un modo non di raccontarsi ma di vendersi.

Se un ex-tossico va in giro a raccontare ad estranei tutta la propria storia, rischia di mettersi in faccia una maschera, quella appunto dell’ex-tossico. Prima si sentiva disperato, ora si sente esaltato, poiché ha visto che può fare della propria disperazione un’occasione di autostima, di orgoglio, e non s’accorge d’essere strumentalizzato dai propri dirigenti. Prima s’illudeva d’essere qualcuno “facendosi”, ora s’illude d’essere qualcuno “non facendosi”.

Chi ascolta queste storie forse non ha davvero bisogno di sentirsele raccontare da chi le ha vissute: è sufficiente che le raccontino gli esperti del settore. Anche perché non si deve alimentare l’emotività o la curiosità fine a se stessa. Gli studenti non devono essere “spettatori” di un evento che rischia di porsi in maniera “teatrale”, che tale è in quanto, subito dopo averlo osservato, non potranno fare alcunché (se non riflettere su di sé fino al momento in cui, e sarà abbastanza breve, ciò che hanno visto resterà impresso nella loro mente).

Le storie personali devono restare appunto “personali” per gli estranei. Non si può rinunciare alla privacy solo perché si è vissuto nel fango una parte della propria vita. Supponiamo infatti che chi si mette a nudo s’incontri di nuovo, una volta uscito dalla comunità, con le stesse persone che hanno conosciuto per filo e per segno tutta la sua storia. E’ vero, questo è difficile che accada, poiché generalmente i drogati vengono collocati in comunità lontane dai loro luoghi d’origine, oppure, quando escono, vanno a vivere in luoghi lontani dalle loro stesse comunità.

Ma supponiamo per un momento che ciò accada. Chi racconta tutto di sé al primo venuto, riuscirà, una volta uscito dal gruppo che l’ha accolto quando aveva un problema, a sentirsi davvero libero, a stabilire dei rapporti normali con chi sa che in passato si drogava, rubava, mentiva, si prostituiva, era violento ecc.? Ci si può fidare al cento per cento di uno che nel passato s’era comportato in questo modo? Non è forse meglio che non si sappia nulla del suo pregresso e si stabilisca con lui o lei un rapporto ex-novo, alla pari?

Quando uno racconta il peggio di sé al primo venuto, sarebbe meglio, una volta uscito dalla propria comunità, che andasse a vivere molto lontano dal luogo del suo recupero (o del suo raccontarsi), proprio per essere più sicuro di potersi rifare completamente una vita. Se bisogna uscire dalla comunità dopo aver risolto il proprio problema, non si può uscirne con appiccicata in fronte l’etichetta “ex-problema”. Se non ha senso fare del proprio problema un motivo di vanto per averlo superato, non è neppure giusto doverselo portare dietro dopo averlo superato.

Se io fossi un ex-drogato o un ex-alcolista o un ex-carcerato o un ex-terrorista o un ex-mafioso ecc., mi piacerebbe guardare in faccia un estraneo in piena libertà, senza dover neanche per un momento sospettare che quella persona sta pensando al mio passato (o che può comunque pensarci in qualunque momento). Il mio debito l’ho già pagato; questo debito m’ha segnato profondamente e preferirei che non me lo si ricordasse ogni volta, anzi vorrei essere sicuro che a nessuno possa sfiorare il pensiero che io ho avuto un determinato problema. Vorrei essere sicuro che chi mi guarda o mi parla o vive o lavora con me, mi dia la possibilità di sentirmi del tutto libero dal mio passato e vorrei che anche lui si sentisse libero di rapportarsi a me senza essere minimamente condizionato da ciò che io ho fatto nel passato.

Se io avrò voglia di raccontare tutta la mia vita a chi mi pare, lo farò dopo essere uscito dalla comunità di recupero, senza condizionamenti esteriori, senza che qualcuno me lo chieda. Non voglio spettacolarizzare il mio dolore, a meno che non voglia appunto farlo come forma di “spettacolo”, liberamente, in cui la finzione viene usata su un palcoscenico, nella piena consapevolezza di stare recitando una parte. In tal caso mi lascerò coinvolgere solo quel tanto che basta a produrre un determinato effetto. Magari su una cosa del genere potrò anche trovare di che vivere, e se non sono capace di recitare, potrò sempre chiedere che lo faccia un altro al mio posto, oppure mi metterò a scrivere un libro o la sceneggiatura di un film. L’importante è che tutto questo venga fatto nel rispetto della mia libertà di coscienza.

Libertà di coscienza vuol appunto dire anche questo: sentirsi liberi di aver avuto un problema senza che tutto il mondo debba per forza saperlo.

Non ha alcun senso dover soddisfare delle conoscenze o curiosità intellettuali da parte dei giovani: non si evita di cadere nella droga semplicemente ascoltando storie raccontate da ex-drogati, anche perché per drogarsi le occasioni sono infinitamente di più. Non sono le storie drammatiche, quelle a maggior impatto emotivo, che aiutano meglio a non cadere negli stessi errori, a non avere gli stessi problemi: se fosse così facile, la droga, l’alcool, il fumo ecc. neppure esisterebbero.

I giovani hanno bisogno di esempi positivi quotidiani, hanno bisogno di credere che la vita abbia per loro un senso. Se proprio hanno bisogno di “emozioni forti” per crescere, è sufficiente far vedere queste storie drammatiche nei film, mediante attori professionisti, che sanno recitare alla perfezione, magari con la scritta in calce: “Tratto da una storia vera”.

Se proprio, per crescere in questa difficile fase della vita che è l’adolescenza, hanno bisogno di toccare con mano certe situazioni inusuali, gliele si faccia sperimentare da vicino, per un breve periodo di tempo, affiancandoli da esperti e specialisti, e rinunciando a priori a degli incontri estemporanei che servono soltanto a illudersi, sia da parte di chi parla, sia da parte di chi ascolta.

Metafora dello specchio

I

Quando ci guardiamo allo specchio, ci riconosciamo perché siamo abituati a un certo volto; e siamo abituati a vederlo mutare, seppure così lentamente che spesso non ci ricordiamo come eravamo venti, trent’anni prima. Se mutassimo all’improvviso, forse la memoria sarebbe migliore. Invece così facciamo abitudine a un mutamento progressivo, quasi convinti d’essere sempre gli stessi.

Ci riconosciamo per abitudine, grazie allo specchio. Ma se in casa nostra ne fossimo privi, noi non potremmo riconoscerci da soli: avremmo bisogno che altri lo facessero per noi. Sarebbe un riconoscimento reciproco, della e nella collettività domestica: ognuno riconoscerebbe l’altro e ognuno, di conseguenza, riconoscerebbe se stesso. Riconosceremmo la nostra identità personale in quanto appartenenti a un gruppo.

Lo specchio è stato dunque un’invenzione della cultura individualistica, di quella forma di libertà che induce le persone a riconoscersi da sé, nella propria individualità, che è, in tal caso, sinonimo di solitudine. Noi sappiamo chi siamo nella nostra privatezza, mentre per la sfera pubblica siamo costretti a riconoscerci nelle istituzioni che s’impongono con la loro forza, col peso della loro evidenza.

Non pensiamo mai a questa assurdità semplicemente perché siamo abituati a viverla sin dalla nascita. Ci illudiamo che l’esperienza dello specchio dia sicurezza, aumenti la nostra identità, la consapevolezza di noi stessi.

In realtà il bambino acquista coscienza di sé solo nel rapporto coi propri genitori e coi propri simili. L’esperienza dello specchio è del tutto inutile, anzi, può diventare fuorviante, può indurre a comportamenti narcisistici, come la strega delle fiabe che, guardandosi allo specchio, si chiede continuamente se in tutto il reame vi sia qualcuna più bella di lei. Narciso, rimirandosi, s’era innamorato di se stesso, fino a dimenticare Eco, fino a perdersi nella propria immagine.

L’illusione più grande che lo specchio offre è proprio questa, di farci credere che quello che vediamo siamo proprio noi. Lo specchio non è altro che la presunzione di definire l’identità umana, che è indefinibile per definizione. La nostra identità va sempre al di là della sua apparenza. Noi non siamo ciò che sembriamo, se non in misura minima o relativa. La nostra identità, per sentirsi umana, ha bisogno di ben altri riconoscimenti.

L’unica cosa che può concedere lo specchio è il riconoscimento dei lineamenti fisici del nostro corpo, ma di ciò potremmo anche fare a meno, in quanto la vera identità umana è qualcosa di spirituale. Il che non vuol dire che sia qualcosa di “immateriale”, di impalpabile, di impercettibile, ma vuol dire qualcosa di “profondo”, che va oltre le apparenze, le sembianze.

Noi non possiamo fare a meno della materialità della vita, ma dovremmo fare a meno di ciò che fa di questa materialità un idolo da adorare. La nostra immagine allo specchio è uno di questi idoli che quotidianamente adoriamo.

Prima di uscire di casa, noi anzitutto abbiamo bisogno di guardarci allo specchio, poiché temiamo il giudizio altrui. E in una società maschilista come la nostra, le donne sono quelle che soffrono maggiormente di questa frustrazione. Sono costrette a vedersi belle, a fare di tutto per sentirsi piacevoli agli occhi degli uomini.

Con questo non si vuol dire che gli specchi andrebbero tutti distrutti: se lo facessimo, conservando l’individualismo dei nostri rapporti, ci sentiremmo ancora più frustrati. Si vuol semplicemente dire che la relazione sociale aiuta di più all’affermazione dell’identità personale. E’ sbagliato partire dalla propria autoconsapevolezza per stabilire delle relazioni: bisogna fare il contrario.

Noi siamo nella misura in cui gli altri ci riconoscono, o meglio, nella misura in cui ci riconosciamo reciprocamente. Chi si guarda troppo allo specchio fa la fine di Alice, che, entrandovi dentro, s’immagina un mondo che non esiste.

Noi in realtà non sappiamo affatto chi siamo finché qualcuno non ce lo dice, e se pensiamo che possa o addirittura debba dircelo lo specchio, allora siamo già entrati nel mondo dei sogni.

II

Una delle cose più curiose dei racconti mistificati relativi alle cosiddette “apparizioni di Gesù risorto”, è che nessun discepolo è in grado di riconoscerlo se non è lui stesso a farlo per primo. Già da questo si può capire che chi ha scritto quei racconti – tutti del quarto vangelo – apparteneva a una medesima comunità, in cui vigeva l’idea che l’identità umana va al di là delle sue apparenze.

Gesù non viene riconosciuto da Maria Maddalena se non dopo che si è autorivelato (Gv 20,14 ss.), né viene riconosciuto dai discepoli se non dopo che ha mostrato le mani e il costato trafitti (Gv 20,20: da notare che questa comunità già ignorava che la trafittura era avvenuta nei polsi). Di nuovo non lo riconoscono quando lo rivedono sul lago di Tiberiade (Gv 21,4). Solo dell’apostolo Giovanni viene detto che lo riconobbe prima ancora che Gesù rivelasse la propria identità ultraterrena (Gv 21,7). Ma questo è stato scritto in polemica con altre tradizioni cristiane, delle quali comunque si condivideva l’assunto fondamentale della divinità del Cristo.

Insomma i discepoli possono riconoscerlo solo se è lui a rivelare espressamente la propria identità, mostrando p.es. segni caratteristici della sua persona o compiendo azioni già fatte quand’era in vita. Questo quindi vuol dire che, nella fantasia religiosa di questi redattori, egli non poteva essere riconosciuto dal volto, dallo sguardo, anche se ad un certo punto riescono a farlo, come se scattasse in loro un’improvvisa illuminazione.

I redattori di questo vangelo hanno voluto far credere che per accettare l’idea di resurrezione, cioè di un corpo che non si vede, bisogna avere la “fede”, cioè bisogna essere davvero convinti che Gesù sia “risorto”: non vi sono altre prove.

L’esperienza della fede in sostanza assomiglia a questo: mentre ci si guarda allo specchio, si vede dietro di noi un’altra persona. Cioè si vedono due persone: una reale (alienata) e l’altra immaginaria.

Tuttavia, nonostante questa forma di alienazione (tipica di ogni esperienza religiosa), resta interessante l’intuizione che considera l’identità umana molto più complessa delle sembianze ch’essa assume. L’identità è qualcosa che va oltre le apparenze. La sostanza immutevole si dà continuamente forme mutevoli per poter apparire.

Se ci pensiamo, tutta la nostra vita, giorno dopo giorno, sperimenta la mutevolezza di queste forme. Chi non accetta tale mutevolezza fisica e cerca d’impedirne meccanicamente lo svolgimento, soffre sicuramente di problemi d’identità, non riuscendo ad accettarsi.

Il senso della vita sta invece proprio nel cercare di rispecchiarsi nell’identità o nell’autenticità altrui.

Che ne è dei rapporti tra socialismo e religione?

Dopo il crollo del muro di Berlino e dell’Urss, il tema del rapporto tra socialismo e religione, in Europa occidentale, sembra essere totalmente scomparso. Eppure abbiamo ancora oggi il più grande partito comunista del mondo, quello cinese, che gestisce un sesto dell’umanità. Abbiamo Cuba che resiste imperterrita al più grande embargo della storia americana (e forse della storia in generale). Abbiamo altri paesi del sud-est asiatico che hanno chiaramente conservato tracce del più recente socialismo; per non parlare del pericoloso autoritarismo (sedicente comunista) della Corea del Nord. E che dire di quei paesi che al loro interno hanno porzioni di territorio in cui le comunità locali vivono reminiscenze di socialismo ancestrale, pur senza professarne l’ideologia?

Questo per dire che dal punto di vista mondiale non ci sarebbero tanti motivi per mettere una pietra sopra il tema suddetto.

Dai tempi del socialismo utopistico ad oggi i progressi fatti sul piano della laicità sono stati enormi: dal concetto di Stato laico alla secolarizzazione dei costumi e degli stili di vita.

Nonostante le aberrazioni del cosiddetto “socialismo reale”, l’idea di emanciparsi progressivamente dalla superstizione e dal clericalismo è andata avanti; anzi si può dire che, oltre alla scoperta dei diritti tipicamente “sociali” (lavoro, assistenza, previdenza, istruzione, sanità, sicurezza…), il maggior contributo allo sviluppo dell’umanità il socialismo l’abbia dato proprio nel campo della laicizzazione (la quale, si badi bene, non può essere confusa con l’ateizzazione gestita dallo Stato).

Col tempo abbiamo capito che “Stato laico” vuol semplicemente dire “aconfessionale”, cioè indifferente alle religioni, anche se le istituzioni non possono restare “neutrali” di fronte ai tentativi d’ingerenza clericale nelle leggi parlamentari.

Il miglior Stato che possa favorire la libertà di coscienza è appunto quello “laico”, che in Italia, come noto, non esiste, a motivo della presenza dell’art. 7 della Costituzione, che riconosce un privilegio fondamentale alla chiesa romana, in virtù del Concordato e dei Patti Lateranensi.

Il futuro socialismo democratico (perché comunque di “socialismo” dobbiamo parlare, non potendo buttar via acqua sporca e bambino) non dovrà in alcun modo creare uno “Stato ateo”, né tentare di separare la chiesa dalla società civile. Ognuno dovrà essere lasciato libero di credere nella religione che vuole, e ogni credente dovrà sforzarsi il più possibile, quando vorrà opporsi a determinate leggi statali, di farlo semplicemente in quanto cittadino, senza chiamare in causa i contenuti della propria fede.

In occidente è finito da un pezzo il periodo in cui era necessario opporsi a un’idea religiosa con un’altra idea religiosa, o quello in cui si permetteva alla religione di avere una propria presenza politica (teocrazia, ierocrazia, integralismo della fede, teologia politica ecc.). Solo in Italia si hanno ancora dubbi al riguardo.

L’umanità procede verso una sempre più grande laicizzazione della vita sociale, pur in mezzo a errori madornali, dalle conseguenze spesso spaventose. Tali errori sono stati compiuti proprio perché s’è capito che non basta la laicità per rendere migliore la vita: occorre anche la giustizia. E in questo campo, essendo gli uomini da millenni abituati all’antagonismo sociale, ovvero ai conflitti di classe, siamo ancora lontanissimi dall’aver trovato una strada davvero praticabile.

Si pensi solo al fatto che se, per l’affermazione dell’umanesimo laico oggi ci accontentiamo di un regime di separazione tra chiesa e Stato, tale separazione non è affatto sufficiente per garantire la realizzazione di un socialismo davvero democratico.

I migliori classici del socialismo hanno infatti sempre sostenuto che parlare di “Stato democratico” è una contraddizione in termini, in quanto l’obiettivo finale prevede l’autogestione delle risorse e dei bisogni collettivi.

AUGURI e una riflessione per Pasqua: i costi pazzeschi ma incompleti della guerra in Afganistan e Iraq.

Pasqua, festa di resurrezione di Cristo per i credenti e di resurrezione interiore anche per i non credenti. Pasqua in pieno periodo di crisi finanziaria mondiale pericolosa e non ancora superata, tanto meno nel Belpaese. Assieme agli auguri, forse è utile riflettere su qualche cifra. Anche per capire meglio la realtà in cui viviamo e quella che ci aspetta se non si reagisce. E cosa ci aspetta se davvero l’indecente governo israeliano attaccherà militarmente l’Iran come Netanyahu pare proprio sia deciso a fare, stando anche la sua intervista odierna su Repubblica, infarcita delle solite frottole. Come sempre mai rilevate dagli intervistatori.

http://znetitaly.altervista.org/art/4104

Il costo reale della guerra

6 APRILE 2012

Di Bill Moyers – 6 aprile 2012

Molte discussioni inerenti il “costo della guerra” si concentrano su due tipi di cifre: i dollari spesi e i soldati americani che hanno dato la propria vita. Dopo un immersione di un decennio nella guerra al terrore questi sono i costi ufficiali: oltre mille miliardi di dollari e più di 6000 morti.

Ma, per quanto sconcertanti, questi numeri non ci raccontano tutta la storia. Continua a leggere

La parola alla vedova di Enrico “Renatino” De Pedis. Che fa piazza pulita delle sciocchezze lanciate con fragore da Valter Veltroni e già ridicolizzate dal ministro Cancellieri.

Il tormentone sempre più da circo della scomparsa di Emanuela Orlandi, avvenuta il 22 giugno 1983, si avvia a compiere quasi 30 anni di vita, fatta di depistaggi, silenzi del Vaticano, scoop di carta pesta, colpi di scena sempre più ridicoli, puntate televisive sempre più assurde e ormai spesso ignobli. Ora impazzano più che mai le demenziali polemiche sulla sepoltura di Enrico De Pedis, detto “Rematino”, nel sotterraneo della basilica di S. Apollinare a Roma. Polemiche nate da una telefonata anonima a “Chi l’ha visto?” del settembre 2005, che anziché essere cestinata o consegnata ai magistrati proprio perché anonima, è stata abilmente sfruttata da quel programma televisivo per assicurarsi sette anni di audience. Nei mesi scorsi Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, ha lanciato online una petizione che ha raccolto quasi 100 mila adesioni. Per l’ex sindaco di Roma e sventura del Partito Democratico Walter Veltroni, un bel bottino di voti in caso di elezioni. Ecco perché s’è fatto strenuo paladino degli ultimi deliri, troppo spesso forcaioli come si può leggere nella pagina creata su Facebok da Pietro Orlandi per supportare la sua petizione, della quale peraltro la scorsa estate sono stato il primissimo firmatario pur venendone in seguito ripagato in un modo che definire ignobile è poco.

Come che sia, nonostante gli infiniti “scoop”, “colpi di scena”, “rivelazioni” e “supertestimoni”, uno più fasullo dell’altro, e nonostante polemiche, isterismi e accuse a ciclo continuo, siamo sempre al punto di partenza: cioè a zero. La verità non ha fatto un paaso avanti, mentre passi avanti li hanno fatti le tasche di Federica Sciarelli, la strana conduttriche di “Chi l’ha visto?”.

Pubblico qui una mia intervista alla signora Carla De Pedis, vedova di Enrico, e più in basso un mio articolo sulla buffonesca polemica portata avanti da Valter Veltroni contro la sepoltura di “Renatino” in un sotterraneo della basilica. Da notare che nonostante si insista a dire il contrario nella basilica NON è sepolto nessun santo, papa o cardinale,  e il sotterraneo NON è neppure in terra consacrata.

Buona lettura. Spero Continua a leggere