Dal Mille ad oggi

I
Potremmo chiederci il motivo per cui lo sviluppo di una borghesia di tipo industriale-capitalistico (e non semplicemente di tipo mercantile-commerciale) abbia richiesto così tanto tempo in Europa occidentale e non abbia trovato un proprio equivalente nel resto del mondo, se non dopo la nascita del colonialismo europeo.
La nascita della borghesia commerciale, in Europa, viene fatta risalire intorno al Mille. Ma in quel periodo esisteva una borghesia commerciale anche in altre parti del pianeta: p.es. nell’impero bizantino, in Cina, in India, nel Medio oriente islamico, per non parlare del fatto che quando nacquero le prime civiltà commerciali in Mesopotamia, noi in Europa eravamo ancora all’età della pietra.
Dunque perché solo la borghesia commerciale del Medioevo europeo è riuscita a diventare industriale, condizionando il mondo intero? Cioè per quale ragione è riuscita a compiere un passaggio del genere una borghesia che sul piano commerciale non era più evoluta di altre borghesie del pianeta?
La risposta non sta ovviamente in qualcosa di genotipico e neppure in alcuna condizione ambientale o materiale, ma sta soltanto nella cultura di riferimento, che nel caso della borghesia euroccidentale è stata prima cattolica e poi protestantica.
Che particolarità aveva la cultura cattolico-romana per permettere lo sviluppo di una borghesia diversa da tutte le altre? Essa aveva la particolarità di permettere alla persona di sdoppiarsi in credente davanti alla chiesa e in mercante davanti alla società.
Per quale motivo la chiesa permetteva al borghese di scindersi in due persone così diverse? La risposta è semplice: essa stessa, al suo interno, era divisa tra una base contadina credente e un vertice ecclesiastico corrotto.
Quando all’interno di un’organizzazione collettiva di potere (quale appunto era la chiesa romana feudale), il vertice ecclesiastico afferma determinati valori (etico-religiosi) e ne pratica altri di natura opposta, riuscendo a ingannare la propria base, se anche tra quest’ultima emerge qualcuno che s’accorge dell’abuso e vuol cercare di approfittarne per ritagliarsi uno spazio di manovra in cui poter esercitare la medesima doppiezza, i vertici di quella organizzazione avranno pochi motivi per impedirglielo, soprattutto se questa imitazione della corruzione non ha come fine immediato quello di rovesciare il potere costituito.
La borghesia non va considerata come un figlio bastardo della chiesa romana, ma come un figlio legittimo, benché cadetto, in quanto il primogenito restava il contadino ubbidiente, disposto ad accettare il servaggio senza reagire. Nei confronti della borghesia la chiesa romana sperava di poter esercitare una funzione di controllo, approfittando nel contempo di tutti i benefici economici che poteva ricavare da un rapporto particolare con tale classe; la quale sicuramente, coi propri traffici, era in grado di far diventare la chiesa ancora più ricca e potente.
La chiesa infatti poté politicamente opporsi agli imperatori e ai grandi feudatari grazie all’appoggio economico della borghesia (comunale e signorile). Nessun’altra ideologia del mondo riuscì a compiere lo stesso percorso di quella cattolico-romana, proprio perché in quest’ultima, nei suoi ranghi di livello elevato, l’ipocrisia non era l’eccezione ma la regola. In ogni altra parte del mondo l’attività borghese restava strettamente controllata dallo Stato, oppure era disprezzata in quanto contraria alla pratica dei valori religiosi.
Certo, la borghesia – come già detto – è esistita anche prima del cristianesimo, ma non poteva avere la stessa falsità. Quando una persona viene considerata schiava dalla nascita o può finire in una condizione schiavile semplicemente per una sconfitta militare o per un debito non pagato, non è indispensabile sforzarsi di cercare mille ragioni per dimostrare a questa persona che le cose non stanno così.
La retorica del cristianesimo primitivo sotto questo aspetto fu incredibile: il Cristo s’era fatto “servo di dio” ed era morto per i peccati di tutto il genere umano, rendendo irrilevante essere liberi o schiavi di fronte a dio, chi si abbassa sarà esaltato, gli ultimi saranno i primi, se uno ti percuote porgi l’altra guancia, e così via.
La cultura pagana non era mai arrivata a principi del genere, che, come minimo, sarebbero stati equiparati a una forma di pusillanimità: una sofferenza ingiusta andava sempre punita e la vendetta era una forma di giustizia. L’ipocrisia del paganesimo raggiunse il vertice quando si volle dimostrare che il passaggio alla civiltà commerciale era giustificato dal fatto (puramente inventato) che in quella agricolo-pastorale gli uomini erano simili agli animali (l’esempio eclatante era Polifemo).
E’ ben noto tuttavia che lo schiavismo si ripropose anche dopo lo sviluppo del cristianesimo, nei confronti di chi non era mai stato “cristiano”, verso cui quindi non era necessario usare l’arma della doppiezza. Ma, anche a prescindere dal fatto che a questa pratica schiavile si opposero alcuni esponenti di rilievo dello stesso cattolicesimo, ciò che più conta dire è che il capitalismo non si sviluppò affatto all’interno di questo rapporto schiavile. Il capitalismo si sviluppa soltanto – Marx lo disse migliaia di volte – quando sul mercato si trovano, l’una di fronte all’altra, due persone giuridicamente libere, di cui una può vendere soltanto la propria forza-lavoro.
II
La nascita dell’individualismo borghese post-schiavistico è strettamente correlata allo sviluppo dell’individualismo dei vertici ecclesiastici nell’ambito del collettivismo cattolico. Quest’ultimo infatti riguardava più che altro il mondo contadino, ma le sue leggi erano in contraddizione con quelle del potere autoritario, assolutistico, che s’andavano affermando attorno alla figura del pontefice e dei suoi vescovi.
Dunque la prima borghesia commerciale e imprenditoriale nasce, in epoca feudale, sotto il patrocinio delle autorità ecclesiastiche, le quali però, quando videro che la borghesia era intenzionata a compiere rivendicazioni anche sul terreno politico, si spaventarono e fecero marcia indietro. Permettendo alla borghesia di svilupparsi economicamente, in funzione antifeudale, la chiesa pensava di farsela alleata, invece ad un certo punto dovette prendere atto ch’essa non sopportava più i condizionamenti di nessun potere politico e che anzi aveva intenzione di diventare “protestante”.
Di fronte al rifiuto che la chiesa romana diminuisse il proprio potere, la borghesia prese a usare la forza: dapprima quella intenzionata a modificare l’ideologia stessa della chiesa, affinché l’attività del borghese avesse più facilità etica di manovra; in seguito si usarono le pressioni di tipo politico-militare, al fine di rovesciare lo stesso temporalismo ecclesiastico. In Italia, prima ancora della riforma protestante, s’imposero, per un certo tempo, le signorie e i principati, che non misero in discussione i principi religiosi della fede, ma solo il loro uso politico. Poi s’affermarono culture umanistiche che, invece di mettere in discussione i principi della fede (come invece fecero i movimenti pauperistici ereticali), si limitarono a porre le basi del moderno agnosticismo ed ateismo.
La riforma protestante e le rivoluzioni borghesi servirono appunto per togliere alla chiesa romana i poteri ideologico e politico. Col calvinismo la borghesia poteva avere finalmente ampie giustificazioni per agire senza alcuno scrupolo religioso, e nel contempo poteva riconoscersi in uno Stato che, sebbene religioso, agiva in maniera indipendente dalla chiesa.
Questo processo fu lunghissimo: partito intorno al Mille, dovette superare la Controriforma per affermarsi in maniera definitiva. Fu la sicura autonomia dal potere ecclesiastico che determinò il passaggio dalla fase commerciale a quella industriale della borghesia. Non ci sarebbe stata nessuna rivoluzione industriale se la borghesia non avesse appreso perfettamente come rendere schiavo un operaio dicendogli che giuridicamente era libero di non esserlo. Che l’aria di città rendesse liberi, i Comuni italiani iniziarono a dirlo almeno cinque secoli prima degli altri paesi europei.
Dopodiché tutto il mondo dovette subire le conseguenze di questo sviluppo anomalo dell’economia, profondamente ambiguo e, alla resa dei conti, disumano. La cosa stupefacente è stata che questo sviluppo, pur essendo partito da un’infima propaggine del continente asiatico (perché in fondo per gli asiatici l’Europa occidentale altro non è che questo), non solo non è riuscito a incontrare una valida resistenza da parte delle altre culture mondiali, ma da queste è stato addirittura adottato. Volente o nolente oggi tutto il mondo è dominato dal capitale.
Una certa resistenza la si è vista con la rivoluzione d’ottobre in Russia, con la nascita del cosiddetto “socialismo reale” nell’Europa orientale e in Cina, e con la decolonizzazione dopo la fine della seconda guerra mondiale, ma dopo il crollo di quello che si rivelò essere un “socialismo da caserma”, il capitalismo ha assunto proporzioni gigantesche, senza ostacoli di sorta sul suo cammino.
La contraddizione principale non è più quella tra due sistemi sociali che dicevano d’essere opposti, ma è tutta interna a un unico sistema, dove la gran massa dei lavoratori si trova schiacciata da un crescente monopolio produttivo e potere finanziario che sfuggono a ogni controllo. La concentrazione delle ricchezze è in mano a pochissime strutture economiche: le multinazionali e gli istituti di credito (che tendono, a loro volta, a trasformarsi in imprese). Una crescente globalizzazione dell’economia, priva di regole efficaci, soggetta a speculazioni finanziarie di ogni tipo, che minacciano continuamente paurosi crolli borsistici, sta caratterizzando il nostro tempo, in cui non si vedono elementi in controtendenza.
Nel passato, quando una civiltà voleva imporre i propri valori commerciali oltre misura, si scontrava con altre di tipo nomade, che con ferocia la spazzavano via. Ma oggi, se la resistenza non si formerà dall’interno, difficilmente verrà qualcuno a “salvarci”.

26 commenti
  1. Controcorrente
    Controcorrente says:

    caro Enrico,
    due appunti…

    tu affermi :

    La contraddizione principale non è più quella tra due sistemi sociali che dicevano d’essere opposti, ma è tutta interna a un unico sistema, dove la gran massa dei lavoratori si trova schiacciata da un crescente monopolio produttivo e potere finanziario che sfuggono a ogni controllo.
    E poi subito sotto..
    La concentrazione delle ricchezze è in mano a pochissime strutture economiche: le multinazionali e gli istituti di credito (che tendono, a loro volta, a trasformarsi in imprese). Una crescente globalizzazione dell’economia, priva di regole efficaci,…

    Personalmente oserei affermare che nella prima osservazione è inesatto affermare che sia esistita una contrappossizione tra due sistemi sociali (a questo punto penso anche da intendersi assai diversi)…ma semplicimente un confronto tra due sistemi di cui uno più inefficiente dell’altro che ha oltretutto perso una partita che tutto sommato non poteva vincere..”la logica della partita era una sola…(mi pare che tu accolga questo concetto con la frase ..che si dicevano diversi..

    La tua seconda affermazione non è una novità assoluta , ma è perfettamente inquadrabile in un percorso storico,descritto dal marxismo..

    In conclusione oserei dire che “al capitalismo è ancora assegnato un “compito storico”, preciso a cui non può sfuggire neanche lo volesse..per esempio deve proletarizzare due delle più grandi culture ..quella Indiana e quella Cinese..mentre il fatto che maturino le contraddizioni a cui tu accennavi ,mi pare ineludibile…
    Lo scontro quindi può avvenire tra opposti imperialismi e sfere di Influenze , poichè altra caratteristica del sistema capitalista è quella che “eeso” non può vivere senza conflitto e senza rapina, ossia quest’ultima intesa anche come “sviluppo ineguale di aree mondiali.

    A mio avviso, cosa tutto questo ci lascerà , non lo so..ma di sicuro credo sia importante mai dimenticarsene e sempre testimoniarlo..

    Panta Rei

    cc
    No, nessuno arriverà a salvarci ed il mondo alla fine sarà quello che si riuscira a fare in un processo dialettico..così come è sempre stato..

  2. Enrico Galavotti
    Enrico Galavotti says:

    Per me, nonostante le aberrazioni dello stalinismo, il socialismo sovietico restava comunque un sistema opposto al capitalismo. Un socialismo di stato è semmai una variante eretica del socialismo democratico ma non una variante del capitalismo, proprio perché in Urss lo Stato s’era sostituito alla società civile, e la nomenklatura svolgeva il ruolo dei capitalisti senza capitale, cioè il ruolo di burocrati il cui potere era assoluto. Non era costume che in Urss i politici si sacrificassero al denaro ma semmai al potere e all’ideologia. Non ho mai creduto al concetto di “capitalismo di stato” applicato all’Urss.
    Da noi potere e ideologia sono sempre subordinati al capitale: cosa che fa del nostro sistema un qualcosa di molto individualistico, anche in presenza di trust e cartelli. Infatti le banche, i broker, gli istituti finanziari non hanno scrupoli, perseguendo i loro loschi traffici, di mandare all’aria intere nazioni. Nel capitalismo non c’è un concetto ideale ma solo funzionale di Stato, che viene visto come macchina per estorcere tasse e finanziare grandi aziende e banche (qui si applica davvero il concetto di “capitalismo di stato”).
    In Urss l’illusione è stata quella di credere che idealizzando la proprietà statale, si potesse creare il socialismo, quando invece una proprietà pubblica deve essere solo sociale e non statale, anzi lo Stato deve progressivamente sparire. Se l’Urss non avesse avuto questa concezione idealistica dello Stato, da noi non ci sarebbe mai stato il Welfare State, che doveva appunto servire come contraltare al loro, per accontentare la nostra sinistra, che infatti si accontentò.
    Peraltro che il socialismo di stato fosse meno efficiente del capitalismo di stato è ancora da chiarire: sia perché i sovietici dimostrarono di essere più efficienti dei nazisti (i quali potevano disporre di 20 milioni di lavoratori che in Europa occidentale lavoravano gratis per loro), sia perché i sovietici non hanno mai avuto un Terzo Mondo da sfruttare impunemente (anzi, semmai era i paesi satelliti ad aver continuamente bisogna di mamma orsa). Il socialismo di stato è crollato per motivi interni: assenza di democrazia, di diritti, di libertà…
    Difficilmente il nostro sistema potrà crollare per la mancanza di queste cose, proprio perché noi abbiamo la percezione che non manchino, quando invece sono totalmente assenti nel Terzo Mondo che continuiamo a sfruttare a piene mani. Ma che cosa faremo quando dalle nostre ex-colonie ci arriverà il messaggio che non vogliono più essere vincolate alle nostre monete forti, alle nostre borse di merci e capitali e soprattutto ai nostri crediti e che preferiranno dichiarare bancarotta piuttosto che mantenere il nostro benessere?
    Noi occidentali dominiamo il mondo: abbiamo risorse infinite, che ci permettono di farlo per altri secoli a venire. Se il nostro Terzo Mondo alzerà la testa, ci alleeremo con la Cina per portare via alla Russia tutta la Siberia. E quando la Cina avrà capito che può dominare il mondo anche senza di noi, ci metterà a tacere in un batter d’occhio. Già adesso i suoi contadini stanno lavorando in Siberia col permesso di Mosca, che non ha manodopera disponibile; già adesso i suoi tecnici stanno sfruttando in Africa quelle incredibili risorse energetiche di cui ha bisogno.
    ciaooo

  3. Controcorrente
    Controcorrente says:

    caro Enrico,
    non so se hai avuto modo di leggere l’ultima intervista di Gorbaciov sulla Stampa di un paio di giorni fa.
    Gorbaciov elenca una serie di cause del fallimento,non ultima proprio quella dell’incapacità di “dare “risposte in termini economici alla domanda di beni interna, cosa su cui giocava fortemente tutta la “pressione occidentale”.(ideologica propagandistica)
    Ovviamente gli altri fattori hanno fatto il “resto”.
    Sulla Stalinizzazione..mi sembra chiaro che Lenin stesso si rendesse perfettamente conto che “fallita” la rivoluzione almeno Europea con il fallimento di Spartaco ,una fase si era chiusa e bisognava pensare ad altro “tatticamente” per l’immediato.
    Cosa diavolo avrebbe fatto lui non ci è concesso sapere ,in quelle condizioni storiche.
    La Nep era una direzione di marcia…ma poi bisognava vedere cosa diavolo sarebbe successo di fronte alla pressione internazionale…e all’attacco della germania…che comunque era inevitabile!
    Yalta decise comunque poi il cammino seguente …!!
    Io non credo che comunque i Cinesi avranno vita facile anche se tutti i dati macroecomici sono chiaramente ed inequivocabilmente dalla loro parte.
    Il mondo quando sarà tutto capitalista è destinato ad esplodere od implodere e l’attenzione va sempre posta sullo scontro delle aree che si contendono gli sviluppi ineguali.
    Sull’Ex urss il destino è segnato , non per niente Gorbaciov stesso parla della necessità urgente di una nuova perestroika.
    Sono proprio mal messi,si stanno vendendo il Kulo dell’avvenire, con uno sviluppo basato sulla vendita (svendita delle materie prime).
    Tipico di un sistema ormai completamente mafiosizzato.
    Mi sembra la tipica situazione Pre-Prima guerra mondiale in maturazione rapida.
    Per adesso can-can e ballerine sono ristrette in Otalia , attenzione al loro diffondersi, sarà un segnale preciso!

    cc

  4. Enrico Galavotti
    Enrico Galavotti says:

    Il socialismo non potrà mai essere costruito in un’isola deserta: a fianco ci saranno sempre forme di società di segno opposto. A meno che non ci si decida per il socialismo dopo una terza guerra mondiale, che però riporterebbe l’umanità all’età della pietra, con in più lo svantaggio di non poter andare quasi da nessuna parte, perché sarà tutto inquinato per secoli.
    È quindi evidente che i russi soffrissero di una mancanza di beni di consumo. Ma non era questo il vero problema. Se invece di impedire di fare i confronti, i governi socialisti, rischiando, l’avessero permesso, forse oggi avremmo in Russia cittadini più consapevoli.
    Sei mai andato in un paese socialista? Sei mai entrato in un supermarket prima del crollo del sistema? Un unico sapone, un unico dentifricio… negli scaffali un unico di tutto. E allora dove stava il problema? La libertà sta forse nello scegliere tra mille prodotti che alla fine sono tutti uguali? Se tu sapessi che acquistandone uno solo, favorisci la democrazia, non lo faresti? Non rinunceresti a una possibilità di scelta materiale che in fondo non ha alcun valore sul piano spirituale? Che cos’è la libertà? Avere il telecomando per passare da un canale uguale all’altro?
    E poi sei proprio sicuro che dal punto di vista materiale gli oggetti che produceva l’Urss fossero più scadenti di quelli occidentali? Dovendo risparmiare, i loro oggetti erano tutti più robusti, perché dovevano durare nel tempo. Magari antiestetici ma sicuramente resistenti. Come da noi 40-50 anni fa, nel dopoguerra, quando la gente aveva pochi soldi da spendere e non si poteva permettere il lusso di cambiare ogni 5-10 anni la televisione, il frigo, il freezer, la macchina, qualunque elettrodomestico (tutte cose che oggi sembrano destinate ad autodistruggersi per poter essere riacquistate). E da noi non c’era forse più democrazia sotto la Dc che non sotto il Pdl?
    I russi sono idealisti da secoli, filosofi nati, tutta la loro letteratura offre altissimi valori spirituali: han sempre dato poco peso alle questioni materiali. Il socialismo da loro non è crollato perché non potevano scegliere cosa mangiare o come vestirsi. Semmai perché questa mancanza di scelta rifletteva un’imposizione del regime.
    Lenin, che aveva vissuto i 3/4 della sua vita politica all’estero e che quindi conosceva i limiti del capitalismo meglio di chiunque altro in Russia, se avesse potuto resistere un altro decennio, avrebbe estromesso Stalin dalla direzione del partito e avrebbe portato avanti la Nep fino a quando non fossero stati i soviet a decidere come rendere la società autonoma dallo Stato. Gli ultimi suoi testi sono tutti favorevoli alla cooperazione e contrari al burocratismo.
    ciaooooo

  5. Uroburo
    Uroburo says:

    Caro Galavotti,
    il comune amico Controcorrente mi ha segnalato questo suo sito e questo tema. Trovo al sua analisi interessante ma mi manca qualcosa.
    Le società islamiche erano delle classiche società mercantili ed il commercio vi era regolamentato quanto agli usi legali ma era riconosciuto come un’attività prestigiosa ed utile. Tuttavia una produzione capitalistica non si è sviluppata. Qual è stata la differenza?
    Una delle differenze è stata che l’Occidente ha dovuto sviluppare una tecnologia marinara adatta alla navigazione atlantica: quindi navi robuste e che hanno potuto essere potentemente armate in modo da spazzar via ogni concorrenza sui mari (come ha fatto Vasco de Gama appena arrivato nell’Oceano Indiano).
    L’industria cantieristica permette numerose applicazioni industriali che vanno al di là dell’artigianato e si sviluppa in grossi centri produttivi, assai simili alle fabbriche.
    Perchè la vera superiorità dell’Occidente su tutte le altre culture è stata poi la tecnologia e l’uso che se n’è fatto. Uroburo

  6. Enrico Galavotti
    Enrico Galavotti says:

    Se guardiamo solo le motivazioni economiche e tecnologiche non capiremo mai il motivo per cui il capitalismo non si sia sviluppato anzitutto nell’impero romano o nell’islam o a Bisanzio, ch’erano tutte società basate sul mercato.
    Il motivo va cercato sul piano culturale. Per quale ragione il capitalismo non può svilupparsi là dove esiste lo schiavismo o il servaggio? Semplicemente perché il capitalismo presuppone due persone giuridicamente libere: una che vende forza-lavoro e l’altra che gliela compra.
    Questa cosa, per una civiltà che sul piano culturale sia o troppo seria (eticamente) o troppo semplicistica, risulterebbe un folle controsenso.
    Per far credere alla società che questo folle controsenso rientra perfettamente nella normalità ci vuole una cultura non semplice ma sofisticata, ed ecco l’importanza del cristianesimo, e ci vuole una variante del cristianesimo che abbia dell’uomo una considerazione molto astratta e formale, tale per cui sul piano pratico si possa fare esattamente il contrario di ciò che si dice, ed ecco l’importanza del protestantesimo, che ha ereditato dai vertici clericali del cattolicesimo-romano quella necessaria doppiezza a far nascere una società mistificata.
    Il protestantesimo è l’estensione a livello sociale dell’ipocrisia che il cattolicesimo viveva a livello politico. E solo quando l’ipocrisia si è estesa a livello sociale (c’è voluto mezzo millennio), è stato possibile convincere il servo della gleba che l’aria di città lo rendeva più libero.
    Quando un imprenditore trova in città un servo divenuto libero (perché è fuggito dal feudo o s’è ribellato al feudatario), ha necessariamente bisogno di porre tra lui e il servo una cosa che non metta formalmente in discussione la libertà di chi si accinge a sfruttare: questa cosa è la macchina. Quella cosa che prima del capitalismo non s’è mai voluta sviluppare più di tanto, proprio perché sarebbe parso impensabile accumulare capitali oltre le proprie esigenze di lusso.
    Tu dirai che il capitalismo è coesistito con lo schiavismo. È vero, ma non in Europa, dove tutti si era cristiani. Lo schiavismo è stato applicato dai capitalisti là dove si potevano sfruttare lavoratori non cristiani. Ma anche là dove si è potuto fare questo, lo si è potuto fare solo fino a quando non si è sviluppato il capitalismo industriale basato sulla libertà reciproca dei contraenti. Poi è bastata una guerra civile negli Usa, ed ecco che lo schiavismo legalmente divenne vietato.
    Ecco perché il socialismo democratico deve andare di pari passo con l’umanesimo laico.
    ciaoooo

  7. Controcorrente
    Controcorrente says:

    Caro Enrico,

    quindi se la religione è un “prodotto sociale”,così come mi pare dicesse Marx,in parziale polemica con Feuerbach e poi Stiner ,ricadiamo nel paradosso che in ultima analisi è il dato “produttivo” , un tempo si chiamavano “forze produttive “ad innescare certi processi che via via in un discorso dialettico si autosostengono.
    Ricordo però che l’analisi di Stiner , se non erro metteva al centro della realtà l’individuo unico ed assoluto.(individualismo)
    Sostanzialmente quello poi che tutto sommato si rifà alla visione dell’Umanesimo.
    In questo senso direi che sia corretto pensare che in un quadro come Il “nostro” odierno , dove nonostante tutto io penso che il cristianesimo sia in crisi,sia necessario prestare attenzione al fatto che bisogna evitare che “nascano” nuove religioni fondate su nuove paure.
    A dettare i tempi penso che sia in ultima istanza ancor oggi uno scontro tra diversi imperialismi (vecchi e nuovi in maturazione)a dettare certe regole del gioco e ad alimentare nuove paure.
    Una partita è quella della produzione di energia e di energia pro-capite per individuo su aree a diverso indici di sviluppo in prospettiva.
    Non vorrei che alla fine fosse l’emissione di CO2, una nuova religione per quale ci si batterà in futuro ,convinti di avere ragione su tutti gli schieramenti.
    Come al solito al servizio di Sua maestà il capitale e le necessarie ed imprescindibili ragioni necessarie ectt,ectt,ectt

    un saluto

    cc

  8. Enrico Galavotti
    Enrico Galavotti says:

    Continuamente Marx si chiedeva il motivo per cui il capitalismo non fosse nato nelle zone più ricche e commerciali del pianeta. Dava sempre risposte di carattere socioeconomico ma a volte doveva ammettere a se stesso di non essere pienamente soddisfatto, tant’è che molti suoi testi si rifiutò di pubblicarli (p.es. le Formen il cui commento lo vedi qui: http://www.homolaicus.com/teorici/marx/formen.htm).
    Marx riuscì soltanto a intuire che per realizzare la transizione da un sistema economico a un altro, la sovrastruttura culturale (in primis la religione) poteva svolgere un ruolo o propulsivo o di freno, ed infatti comprese perfettamente che il protestantesimo era la religione più adatta allo sviluppo del capitalismo.
    Ma questa intuizione si fermò lì, non venne mai sviluppata, se non in parte da Engels e soprattutto da Weber, il quale però si poneva come teorico della borghesia e non del proletariato.
    Solo dopo la morte di Marx, Engels fu costretto ad ammettere che il primato dell’economia nell’analisi storica andava considerato vero non in prima bensì in ultima istanza, in quanto tra struttura e sovrastruttura vi è un processo dialettico. Cosa che infatti capì molto bene Lenin, che non volle aspettare la maturazione economica del capitalismo in Russia prima di poter parlare di transizione al socialismo. Lenin diede un primato alla sovrastruttura, che però restava per lui esclusivamente quella politica.
    Beato sarà chi riuscirà a dare un primato alla sovrastruttura culturale senza uscire dall’esigenza di fare una rivoluzione di tipo politico. Sì perché il problema è proprio questo: non fare come Gramsci, che seppe sì capire il primato della sovrastruttura culturale, ma non fu abbastanza determinato per realizzare una vera rivoluzione politica.
    ciaoooo

  9. Pino Nicotri
    Pino Nicotri says:

    DA PARTE DI UROBURO
    ———————————
    Caro Galavotti,
    sono stato via un po’. Riprendo quindi la nostra conversazione.

    1) “Se guardiamo solo le motivazioni economiche e tecnologiche non capiremo mai il motivo per cui il capitalismo non si sia sviluppato anzitutto nell’impero romano”.
    Si racconta che uno scienziato del museo di Alessandria avesse presentato a Vespasiano una macchina con cui sarebbe stato possibile risparmiare molta mano d’opera nel costruire un certo prodotto (forse anfore). E che Vespasiano abbia risposto: Diamo qualcosa da fare ai nostri schiavi. Che è una risposta precipuamente economica. In effetti in una società schiavile le macchine, tolti alcuni specifici contesti come quello militare, servivano a poco: c’erano gli schiavi.
    Ma questa non è una ragione culturale, è prima di tutto una ragione economica.
    Nella Firenze del Duecento, all’epoca del tumulto de’ Ciompi, servi non ce n’erano proprio più, ma il capitalismo non c’era ancora. In effetti mancava la tecnologia, le macchine, e l’ambiente produttivo, le fabbriche.
    2) “Tu dirai che il capitalismo è coesistito con lo schiavismo. È vero, ma non in Europa”
    Una sorta di capitalismo nel Novecento c’è stato anche in situazioni molto vicine al servaggio: ad esempio in America Latina; c’è stato nel Giappone dell’era post-Meiji e nella Cina ante-rivoluzione. In Europa c’è stato nella Russia zarista fino al 1867: ci sono stati proprietari di industrie che erano di condizione servile; condizioni praticamente servili c’erano poi in tutti paesi dell’est dove in effetti non ci fu mai capitalismo. Ma in Russia sì, ed anche discretamente sviluppato.
    Per altro il capitalismo non è mai stato esclusivo della cultura protestante: c’era in Francia ed ora c’è in tutto il mondo.

    3) “… lo si è potuto fare solo fino a quando non si è sviluppato il capitalismo industriale basato sulla libertà reciproca dei contraenti”.
    A me pare chela schiavitù sia stata abolita in epoche moderna per le stesse ragioni per cui decadde nel tardo impero romano: non rendeva più, era economicamente svantaggiosa. I servi costavano meno ed i proletari ancora di meno.

    4) “Engels fu costretto ad ammettere che il primato dell’economia nell’analisi storica andava considerato vero non in prima bensì in ultima istanza”
    In effetti Engels scrisse che “in ultima istanza” l’economia, il modo di produzione, determina il modo di vivere di una società. Ma oggi non c’è proprio più nessuno che non sappia che “tra struttura e sovrastruttura vi è un processo dialettico”; concezioni contrarie erano proprie del proto-marxismo del pre-Sessantotto rozzo.

    5) “Gramsci, che seppe sì capire il primato della sovrastruttura culturale, ma non fu abbastanza determinato per realizzare una vera rivoluzione politica”.
    Nell’Italia degli anni Venti neanche Dio avrebbe potuto fare la rivoluzione: l’Italia non era la Russia e la nostra classe digggerente era decisamente più capace di quella russa.
    La cosa veramente tragica non fu tanto quella ma il non essere stati capaci di impedire il colpo di stato della borghesia più reazionaria. Insomma il mancato appoggio a Giolitti. Ehhh sì … Serrati era un cretino.

    Un saluto Uroburo

  10. Enrico Galavotti
    Enrico Galavotti says:

    Le ragioni economiche non sono mai separabili da quelle culturali, altrimenti dopo Marx, che è stato un maestro nelle scoprire le prime, noi avremmo anche potuto smettere di pensare.
    L’esempio che tu riporti e che è famoso contiene proprio una ragione culturale, che è la seguente: il rapporto dello schiavista con lo schiavo era di tipo personale, proprio perché la mentalità dominante non voleva accettare l’idea che lo schiavo fosse un uomo o potesse diventare libero o che di fronte a dio avesse gli stessi diritti del suo padrone e cose del genere.
    Lo schiavo era soltanto una cosa e il rapporto che si poteva avere era soltanto funzionale alla soddisfazione di un bisogno. I padroni rendevano liberi gli schiavi o quando qualcuno era in grado di riscattarli o di pagarglieli molto di più del loro prezzo di mercato, oppure quando ricevano dai loro schiavi dei favori insperati, o quando li premiavano della loro buona condotta sul letto di morte, al momento di fare testamento.
    Quando il padrone s’accorse che non poteva più ottenere schiavi perché Roma non era in grado di conquistare più nulla, li trasformò in coloni, ma non ci fu nessun padrone che li rese liberi perché li riconosceva come persone. Gli schiavi furono liberati dai barbari e poterono diventare contadini relativamente indipendenti (in comunità di villaggio) prima che in Europa s’imponesse il feudalesimo carolingio e normanno.
    I barbari li liberarono perché non avevano il concetto di schiavo come i romani: al massimo avevano il concetto di servo domestico (che era stato uno sconfitto sul piano militare), ma nessuna popolazione barbarica ambiva a vivere di rendita sulle spalle degli schiavi. Tra i barbari non è mai esistito il disprezzo del lavoro, né l’idea di schiavizzare uno della propria tribù per motivi di debiti.
    Perché il concetto di schiavitù elaborato dai romani fu il più eticamente rivoltante nella storia delle antiche civiltà? Perché gli storici affermano che con Roma la schiavitù raggiunse il suo apogeo? La sua organizzazione sistemica? Non era forse esistita la schiavitù anche nelle civiltà assiro-babilonesi, egizie, elleniche ecc.?
    Il motivo è che con la civiltà romana il diritto raggiunse vette eccelse. Cioè proprio nel momento in cui i Romani ponevano le basi democratiche di un rapporto tra libero e libero (come ogni legge in teoria deve fare), impostavano anche con gli schiavi un rapporto semplicemente mostruoso, quasi facendo pagare a loro quei diritti che avevano dovuto riconoscere ai plebei romani che glieli avevano strappati con la lotta civile e politica.
    Col cristianesimo invece (che s’incontrò con le orde barbariche) lo schiavismo doveva necessariamente trasformarsi in servaggio: il feudatario era cristiano come il contadino, non poteva non riconoscerlo come persona. E tuttavia, proprio perché il cristianesimo era una religione politicamente fallimentare, in quanto predicava l’uguaglianza solo nell’aldilà, il padrone ha potuto continuare a sfruttare il servo della gleba.
    Il rapporto era sempre personale, ma siccome il contadino fruiva di una certa libertà, poteva esserci un certo progresso negli strumenti produttivi. Il contadino si trovava interessato ai successi del proprio lavoro, almeno in quella parte della giornata in cui non lavorava per il padrone.
    Ma fu solo quando il contadino poté rendersi libero dal padrone al 100% che nacque il capitalismo, che è il vertice dello sfruttamento economico pur in presenza di una legislazione che formalmente garantisce l’uguaglianza terrena di tutti gli esseri viventi.
    Avrai dunque notato che lo sfruttamento economico diventa tanto più sofisticato e terribile quanto più sul piano culturale si afferma l’uguaglianza delle persone. Questa doppiezza è stata possibile anzitutto grazie al cristianesimo. Le altre culture (inclusa quella stalinista) l’hanno semplicemente ereditata in forma laicizzata.
    Questa è solo una risposta alla prima metà del tuo primo punto. Le altre a seguire.
    ciaooo

  11. Enrico Galavotti
    Enrico Galavotti says:

    Sbagli a pensare che il capitalismo non ci fosse all’epoca dei Ciompi semplicemente perché ancora non c’erano gli strumenti meccanici tipici di questo sistema economico.
    È vero, Marx sostiene che non si possa parlare di capitalismo in senso proprio prima del XVI sec. Ma è anche vero che aveva già constatato che in Italia s’erano preceduti i tempi e che proprio dopo la caduta di Bisanzio e la scoperta dell’America, si ritornò in un certo senso al Medioevo (lui parla di primato dell’orticoltura).
    Voglio dirti che senza l’apporto della borghesia italiana, di religione cattolico-romana, probabilmente lo sviluppo del capitalismo avrebbe subito notevoli ritardi. Non sarebbero bastate le Fiandre, anche perché non erano così autorevoli come la nostra penisola.
    La cultura che ha fatto nascere il capitalismo (se vuoi prima quello commerciale, poi quello manifatturiero ecc.) non è stata quella protestante, che ancora non esisteva, ma quella cattolica, quella che riscopriva l’importanza dell’aristotelismo e che si laicizzava progressivamente.
    Questa cultura (che, col suo concetto di papa-re, viveva già l’aspetto fondamentale dell’individualismo) stava chiaramente da parte della grande borghesia comunale e signorile, contro le pretese degli imperatori e i freni dell’aristocrazia terriera.
    Chi si oppose allo strapotere della chiesa, degli aristocratici e dei grossi mercanti fu la piccola-borghesia urbana, che si sviluppò sempre agli albori del basso Medioevo e che dagli storici viene chiamata “pauperistica” non tanto perché i protagonisti fossero le plebi urbane o rurali, quanto piuttosto perché gli intellettuali piccoli-borghesi delle città predicavano uno stile di vita egualitario, che anticipava in un certo senso i temi del socialismo utopico. I movimenti creati da questi intellettuali (che raccoglievano sicuramente anche plebi urbane e rurali) furono sterminati usando come pretesto l’accusa di eresia.
    Tuttavia, come spesso succede, chi fa da apripista (in questo caso la nostra grande borghesia comunale e signorile) non è detto che arrivi al traguardo. Anche perché una volta fatto scattare il meccanismo del nuovo rapporto di lavoro, bisogna fare continua manutenzione, perfezionando le tecniche e pretendendo che al potere economico segua quello politico. Questo la borghesia italiana seppe farlo sono nella seconda metà dell’Ottocento.
    Il ritardo era dovuto al fatto culturale che la nostra borghesia era troppo abituata a un rapporto di compromesso con la chiesa per poter scatenare una rivoluzione come quella protestante o francese. La grande borghesia non approfittò mai del fermento rivoluzionario di quella piccola per realizzare un’alleanza in funzione antipapista.
    Quando scoppiò la riforma protestante l’Italia era molto più avanzata della Germania, sul piano sia materiale che culturale, aveva una borghesia molto più produttiva e affaristica e anche molto più laica, eppure dovette soccombere alla controriforma, rinunciando all’idea di fare del nostro paese il più importante d’Europa.
    E qui finisce il commento all’ultima parte del tuo primo punto. Restano gli altri.
    ciaooo

  12. Enrico Galavotti
    Enrico Galavotti says:

    Qualunque forma di capitalismo presente in aree non europee può essere considerata di importazione (inclusa quella della Russia europea, che ha cominciato a occidentalizzarsi nel Settecento, ostacolando in tutti i modi la cultura slavofila).
    Il colonialismo europeo, nato con le crociate scatenate dalle istituzioni clerico-feudali del mondo cattolico, ai danni del mondo arabo-turco e soprattutto bizantino e slavo, al nord e al sud dell’Europa orientale, ha imposto il feudalesimo e la religione cattolica in molti di questi territori (Polonia, Paesi Baltici, Impero austro-ungarico…), i quali però non sono mai riusciti a diventare capitalisti in proprio, senza importare dall’esterno questo modo di produzione.
    Lo stesso è accaduto nel corso del colonialismo europeo (ancora di marca feudale), sorto con la conquista dell’America: Spagna e Portogallo non sono mai state capace di fare decollare il capitalismo sostituendo il concetto di rendita con quello di profitto. Nell’America centro-sud si è dovuto attendere il crollo dell’impero ispanico e lusitano, verso la metà dell’Ottocento, prima che il capitalismo (prevalentemente statunitense) potesse svilupparsi in tutta tranquillità.
    Il vero capitalismo industriale s’è sviluppato nell’America del nord grazie a quei paesi europei che già lo stavano vivendo in Europa (Olanda, Francia e Inghilterra) e di questi paesi ebbe la meglio l’Inghilterra proprio perché il proprio sviluppo economico era molto più borghese (calvinista) di quello francese (ove gli ugonotti erano stati massacrati) e molto più industriale di quello olandese (che pensava fosse sufficiente avere il primato mondiale dominando i commerci marittimi).
    Calvinismo e industrializzazione sono andati di pari passo, soprattutto là dove non esistevano condizionamenti di tipo cattolico-feudale, come appunto negli Stati Uniti. E questo connubio, risultato vincente, s’è ad un certo punto imposto anche ai paesi di religione cattolica (più abituati, negli strati sociali bassi, a risparmiare che a investire, e, negli strati alti, a consumare che a produrre). Spagna e Portogallo, pur ricchissimi con le conquiste coloniali, andarono presto in rovina non perché avevano gli inglesi come concorrenti, ma perché preferivano vivere nel lusso o, al massimo, investire nelle banche dei paesi capitalisti.
    Questo forse vuol dire che il capitalismo puro può essere solo quello statunitense? Sbagliato. Il capitalismo può essere importato da qualunque Stato abbia subìto il colonialismo europeo o americano, si sia liberato di questo colonialismo (altrimenti il suo capitalismo verrà vissuto come un’imposizione esterna e questo non può permettere il suo sviluppo regolare), non abbia saputo creare un’alternativa praticabile (il socialismo democratico) e possieda una cultura in grado di assimilare le caratteristiche fondamentali della nostra cultura, che è quella di permettere praticamente la più alta forma di sfruttamento del lavoro altrui, affermando diritti altamente democratici in sede teorica.
    Per quale motivo paesi come Giappone, Cina, India, Russia, Brasile… non potranno mai diventare un vero concorrente dell’occidente euro-americano? Perché fino a quando non trasformeranno le loro culture autoritarie in culture formalmente democratiche, correranno sempre il rischio che il mondo occidentale euro-americano si coalizzi contro di loro in nome dei diritti umani.
    Oggi è la cultura dei diritti umani che tiene in piedi il nostro capitalismo. Ecco perché l’unico nostro vero concorrente può essere soltanto un paese che pratichi un’opposizione reale al capitalismo e teorica contro la falsa democrazia borghese.
    Ma un paese del genere deve uscire dal concetto di “civiltà”, cioè deve rinunciare a tutti i miti del progresso indefinito, della scienza e della tecnica ad oltranza, del primato dell’uomo sulla natura, della superiorità dell’uomo sulla donna, della scrittura sull’oralità, della città sulla campagna e così via.
    Ecco ora ho risposto al tuo punto 2.
    ciaooo

  13. Enrico Galavotti
    Enrico Galavotti says:

    Come puoi pensare che uno schiavo costi più di un servo o di un operaio salariato? Se uno schiavo rende meno di quel che dovrebbe, posso punirlo e se si ribella posso ucciderlo, e lui lo sa. Un servo lo posso sfruttare solo fino a un certo punto e un operaio al massimo posso licenziarlo.
    Considera inoltre che là dove sono esistiti schiavi, esisteva anche un mercato, esattamente come per l’operaio salariato, che infatti Marx chiamava anche “moderno schiavo”.
    Lo schiavo produceva per il mercato, il servo per l’autoconsumo, che tale era anche per il suo padrone, per il quale non aveva senso obbligarlo a lavorare oltre il proprio fabbisogno naturale e la garanzia di un’eccedenza che si conservasse nel tempo, soprattutto nei momenti di carestia, siccità ecc.
    Il servaggio andò peggiorando d’intensità in maniera proporzionale alla formazione del capitalismo commerciale, il quale richiedeva moneta sonante per la compravendita. Se in Europa occidentale non si fosse sviluppato (grazie alla chiesa romana) il mercantilismo comunale e signorile, noi avremmo avuto il feudalesimo per un tempo infinitamente più lungo, a meno che non fossero stati gli stessi contadini a ribellarsi per avere una riforma agraria favorevole alla suddivisione della terra per gruppi di famiglie, ponendo così fine al feudo padronale.
    Che gli schiavi fossero sempre altamente redditizi lo dimostrò la guerra civile americana, dove i piantatori, abituatisi alle leggi ciniche del calvinismo, non si fecero scrupoli nel rendere schiavi chi proveniva da civiltà lontanissime da quella euro-americana. D’altra parte neppure gli ispano-lusitani ebbero mai scrupoli nello schiavizzare gli indios pagani, di cui si pensava non avessero neppure un’anima.
    Nella Roma classica gli schiavi divennero un problema quando erano tanti, a causa delle insurrezioni, e lo ridivennero quando erano troppo pochi per mandare avanti un’azienda, a causa della penetrazione barbarica entro i confini dell’impero.
    Tuttavia quando lo schiavista romano trasformò lo schiavo in colono per motivi economici, lo avrebbe potuto ritrasformare in schiavo in qualunque momento se nel frattempo non fosse sorta una cultura (quella barbarica, unitamente a quella cristiana) che permettesse di considerare il servo della gleba una “persona”, esattamente cristiana come il proprio padrone.
    Ho così risposto al tuo punto 3.
    ciaoooo

  14. Enrico Galavotti
    Enrico Galavotti says:

    Dubito che il marxismo occidentale abbia mai capito l’effettiva portata dell’influenza reciproca di struttura e sovrastruttura.
    Se guardi i movimenti di sinistra non parlamentari continua a prevalere un discorso di tipo strutturale, che è sostanzialmente economico-sindacale, mentre se guardi quelli parlamentari prevale il discorso sovrastrutturale, che è prevalentemente politico.
    Tu stesso, quando fai obiezioni, appartieni al gruppo che privilegia la struttura.
    Chi privilegia la struttura non ritiene che la sovrastruttura possa cambiare le cose, vede i cambiamenti troppo lenti, impercettibili e quindi li giudica inutili, irrilevanti.
    Come se il cristianesimo, prima di poter pretendere da Costantino la fine del paganesimo come religione di stato, non ci avesse messo tre secoli!
    Per me l’unico che ha capito il forte dinamismo tra i due elementi è stato Lenin, che però ha visto la sovrastruttura prevalentemente in maniera politica, trascurando gli aspetti culturali. Cosa di cui lui stesso era consapevole.
    Gramsci capì l’importanza degli aspetti culturali quando uscì sconfitto dalla sua battaglia antifascista, cioè quando si trovò in carcere a rinnegare la valenza della lotta rivoluzionaria e dell’inevitabile violenza che le è connessa, in quanto chi detiene il potere non lo cede spontaneamente.
    E Gramsci non piacque mai alla cosiddetta “sinistra rivoluzionaria”, anche perché di lui s’impadronì il Pc, che in Italia è stato rivoluzionario solo in rari momenti (1918-20, 1943-45, 1968-69) e senza mai avere l’intenzione di compiere una rivoluzione popolare e armata, e che usò Gramsci proprio per negare la necessità di una rivoluzione del genere.
    Non solo, ma la cultura sviluppata dal comunismo italiano, essendo viziata politicamente in senso riformistico e quindi disposta a cercare continui compromessi coi cattolici, non è mai stata capace di compiere un’operazione di vera critica nei confronti della cultura cattolico-romana. Ancora oggi il discorso sovrastrutturale inerente ai valori umani, quello che nessun partito metterà mai in discussione, in Italia non viene fatto da una forza di sinistra ma dal Vaticano.
    Ed ecco risposto al punto 4.
    ciaooo

  15. Enrico Galavotti
    Enrico Galavotti says:

    Il momento in cui si fanno le rivoluzioni è quello in cui la maggioranza della popolazione ne avverte la necessità, a prescindere dalla forza che può manifestare chi governa. Se le rivoluzioni potessero essere fatte solo quando i governi appaiono deboli, non si farebbero mai.
    Questa maggioranza vincente avrebbe potuto esserci negli anni Venti, Quaranta e Sessanta, se solo fosse esistita una forza dirigente in grado di convogliarla verso un obiettivo preciso.
    I dirigenti socialisti e comunisti che abbiamo avuto hanno commesso degli errori imperdonabili per qualunque rivoluzionario:
    1. confidare più nel parlamentarismo che nell’attività extraparlamentare
    2. sottovalutare la capacità di resistenza del nemico
    3. trascurare l’importanza del mondo contadino
    4. anteporre le questioni ideologiche a quelle politiche
    5. non cercare consensi tra le forze armate
    Guardando i comportamenti tenuti dai dirigenti socialisti e comunisti in Italia, io ho sempre avuto l’impressione che di Lenin non si sapesse quasi nulla.
    Ed ecco la risposta al tuo ultimo punto.
    ciaooo

  16. Uroburo
    Uroburo says:

    Caro Galavotti,
    è difficile rispondere all’enorme quantità del suo scritto. Risponderò quindi solo ad alcuni punti.
    1) Certo che le ragioni economiche non sono mai nettamente separabili da quelle culturali: Marx ha detto che la struttura economica, alla lunga, determina il modo di pensare ed io sono d’accordo con lui; ma permangono sempre residui di antiche culture o diversità più o meno determinanti. Tuttavia è il modo di produzione economico, l’organizzazione economica, a determinare il modo di pensare caratteristico di un certo periodo storico. Vale anche per chi è all’opposizione del capitalismo pur appartenendo ad un ceto borghese: il modo di pensare rimane quello una società capitalistica anche se siamo all’opposizione.
    2) Il passaggio nell’impero romano dall’antica religione al cristianesimo è un fenomeno estremamente interessate.
    Poche volte nella storia è accaduto che una classe dirigente cambiasse il proprio credo religioso nel giro di un paio di generazioni. Con Teodosio la classe dirigente romana è ormai quasi del tutto cristianizzata. Come mai? Lo stato romano del IV secolo è in piena crisi demografica, economica e quindi militare. Le legioni non riescono più a mantenere l’arruolamento nonostante il sempre più crescente ingresso dei barbari, la pressione alle frontiere è sempre più forte ed occupa ormai a tempo pieno l’esercito che non è più in grado di adempiere alla tradizionale funzione di mantenimento dell’ordine interno. E’ necessario trovare nuovi sistemi che non usino più di tanto la forza per evitare una rivoluzione sociale ormai imminente e non più controllabile.
    La classe dirigente romana sceglie di abbandonare in massa la vecchia religione, nel complesso molto libertaria e tollerante, a favore di una nuova religione molto centralizzata, molto dirigista, molto gerarchizzata: il cristianesimo paolino. Mette i propri membri a capo della nuova religione che viene imposta agli altri usando non tanto le legioni ma piccoli gruppi di fanatici assatanati che distruggono gli antichi templi, ne assassinano i sacerdoti e si impadroniscono dei loro (cospicui) beni. Una rivoluzione al cui confronto quella cesariana è stata una passeggiata di salute.
    Il cristianesimo non è altro che l’organizzazione politica attraverso la quale la gerarchia imperiale romana del basso impero ha mantenuto il proprio potere (e la propria roba) per duemila anni. L’obiettivo è stato ottenuto non tanto attraverso la repressione militare ma attraverso la minaccia dell’inferno, per di più gettando tra le caviglie del popppolo (e solo del popppolo: l’aristocrazia ha continuato con i suoi soliti usi con la benedizione papale) la richiesta di un’impossibile castità alla quale la classe digerente romana non è mai stata tenuta.
    Sul piano sociale gli schiavi, costosissimi e con una resa economica minima, vennero sostituiti dai servi che non costavano nulla e che se anche morivano di fame venivano rimpiazzati da altri. Era una soluzione che molti proprietari romani sapevano e praticavano da tempoi, ed in effetti la schiavitù era in diminuzione ormai da secoli. Già da tempo molti proprietari avevano liberato i loro schiavi dando loro la terra in affitto. Non furono i barbari a liberare gli schiavi (cosa mai poteva importare a loro?) ma furono le mutate condizioni economiche: di uomini ce n’erano pochi e quelli bisognava farli lavorare duramente: cosa impossibile con gli schiavi. Francamente vedo assai poco i motivi religiosi nella fine della schiavitù: una classe dirigente di ferro come quella romana non aveva scrupoli, tant’è che la schiavitù continuò ancora per secoli e secoli e che lo Stato della Chiesa fu l’ultimo ad abrogare la schiavitù alla fine dell’Ottocento. Il cristianesimo sarà anche stato politicamente fallimentare, ma solo per i contadini (del cui parere non importava nulla a nessuno), ai signori andava benissimo.
    La guerra civile americana con la liberazione degli schiavi non c’entra proprio per nulla: il vero obiettivo era la costituzione di un forte potere centrale, soprattutto sul piano finanziario: serviva per fare delle ferrovie che prescindessero dai bisogni degli stati. I veri democratici erano i sudisti ma purtroppo la loro economia, schiavile, era debolissima. Guadagnavano poco, in verità.
    3) Il capitalismo nasce con e nelle fabbriche, quando vengono inventate le macchine e quando questo sistema di produzione diventa quello economicamente dominante: quindi nella seconda metà del Settecento ed in Inghilterra. Né prima né altrove. Da qui passa in Olanda e Belgio, Francia, in Germania (dove realtà industriali, come le porcellane e le manifatture di armi, c’erano da sempre ma non erano economicamente dominanti). Poi dovunque in Europa. In Russia c’è stato un vero capitalismo, sorto nella seconda metà dell’Ottocento (all’inizio molti industriali erano di ceto servile). A me pare che lei confonda capitalismo con economia monetaria, quella degli stati italiani a cavallo tra medioevo ed età moderna.
    Quanto poi al colonialismo, la sua definizione delle crociate come manifestazione di colonialismo va bene per il primo colonialismo dell’età moderna, quello spagnolo e portoghese o al più per quello inglese ed olandese del Seicento ambedue basati sullo sfruttamento (minerario e) commerciale. Ma il vero colonialismo moderno nasce con la conquista dell’India nel Settecento, che permette all’Inghilterra la conquista di un enorme mercato in cui vendere il prodotto delle proprie tessiture di cotonine. Fu un fenomeno quasi solo inglese, non a caso.
    E’ ovvio che diverse condizioni economiche hanno messo in crisi il feudalesimo, che infatti rimase nell’Europa Orientale, dove non c’era borghesia. Ma almeno in Russia il capitalismo si sviluppò ugualmente anche se con caratteri particolari: Un po’ come nella Francia di Colbert.
    4) L’Italia attuale (per non parlare di quella precedente) tutto è fuorché uno stato borghese. La classe dominante in Italia non è MAI stata la borghesia ma sempre e solo l’aristocrazia, che comprende, ovviamente, anche la Chiesa. La nostra borghesia, debolissima si numero, di capitali e di competenze, non è mai stata in grado di fare la sua rivoluzione.
    Il nerbo del capitale monetario italiano è finanziario e non industriale, la finanza è di proprietà delle banche e le banche sono in gran parte di capitale aristocratico. La borghesia italiana non ha mai avuto né la forza né la competenza di diventare classe egemone del paese. Sono cose notorie.
    5) Condivido anch’io che la relazione struttura-sovrastruttura sia dialettica e che sia più faciel averne una visione meccanica. Certo sui lunghi tempi la struttura economica imposta semrpe le sue regole ma sono, appunto, processi lunghissimi. Direi secolari.
    Il PCI ha capito molto bene e rapidamente che la classe dirigente italiana aveva capacità dio autodifesa che in Europa Orientale non c’erano. E’ diventato un partito riformista per non essere spazzato via e per poter praticare una politica democratica e che limitasse lo strapotere reazionario: Fino ad una decina di anni fa con un certo successo, poi sono arrivati i baffetti……
    Sono d’accordo anch’io che una vera analisi critica della cultura cattolico-romana non è mai stata fatta e men che meno vien fatta ora. Ci toccherà di morire democristiani, anzi bananieri, che è quanto di peggio.
    Tuttavia le rivoluzioni si possono fare SOLO quando i governi sono deboli ed insipienti, altrimenti si difendono, e solitamente con successo. Da noi queste condizioni non ci sono MAI state, proprio come in Germania. Ma noi abbiamo impaurito la borghesia che si è difesa con i totalitarismo nazi-fascisti. E’ meglio essere prudenti e non spaventare nessuno.
    Quanto agli errori dei dirigenti socialcomunisti, condivido soprattutto il punto 3: trascurare il mondo contadino. C’è anche da dire che quando il PCI ci provò, subito dopo la II GM, venne letteralmente spazzato via.
    Avevano capito bene anche gli altri. Ed in generale io ho l’impressione che lei decisamente sottovaluti le loro capacità.
    Un saluto Uroburo

  17. Enrico Galavotti
    Enrico Galavotti says:

    Ti rendi conto che se Lenin avesse preso alla lettera Marx non avrebbe mai fatto la rivoluzione? Infatti i cd. “marxisti legali” e gli “economisti” del suo paese gli dicevano continuamente che per poter fare una riforma proletaria prima doveva esserci il proletariato e quindi la rivoluzione industriale e quindi il capitalismo.
    Lui invece disse proprio il contrario: per passare al socialismo non abbiamo bisogno che la maggioranza dei lavoratori siano proletari; è sufficiente che lo siano nelle grandi città, che costituiscono la punta avanzata del progresso sociale; dopodiché basterà fare un’alleanza strategica coi contadini garantendo loro tutta la terra che vogliono. E la rivoluzione riuscì perfettamente, proprio “contro il Capitale”, come disse Gramsci.
    Questo per dirti che non ci sarà alcuna transizione dal capitalismo al socialismo neppure quando sarà evidente la sua necessità, e se anche dovesse affermarsi in questa maniera, vi sarà sicuramente di che dubitare del suo carattere democratico.
    Le transizioni vengono fatte dalle masse guidate da leader consapevoli. Lenin aveva capito perfettamente questa cosa e rifiutava il determinismo alla Kautsky o lo spontaneismo della Lega spartachista. Diceva soltanto di “non giocare alla rivoluzione” e di individuare bene i momenti giusti per poter operare, avendo cura di ottenere il massimo consenso possibile, persino tra le forze armate.
    Considera p.es. questa cosa: i latifondisti romani avevano capito già nel III secolo che la pacchia dello schiavismo era finita e che bisognava trasformare gli schiavi in coloni, in quanto l’impero non era più in fase di espansione. Eppure i coloni non riuscirono mai a pretendere di diventare contadini liberi. Ci vollero le invasioni barbariche per ottenere questo risultato. Solo quando i barbari divennero feudatari, con l’appoggio della chiesa romana, iniziò il servaggio vero e proprio.
    Questo per dirti che per realizzare una transizione non bastano le condizioni oggettive dell’economia, ci vogliono anche quelle soggettive della mentalità (o se preferisci della cultura) e ovviamente dell’organizzazione politica.
    Se la struttura determina la sovrastruttura, inevitabilmente la determinerà sino al punto da farle ritenere impossibile o inutile una qualunque vera transizione. A quel punto varrà il principio “cambiare tutto per non cambiare niente”.
    ciaooo

  18. Enrico Galavotti
    Enrico Galavotti says:

    Gli imperatori romani, a partire da Costantino, passarono improvvisamente dal paganesimo al cristianesimo, come ideologia di stato, semplicemente perché il cristianesimo aveva lavorato per tre secoli sul piano culturale o, se preferisci, pre-politico. E lo fecero anche contro le stesse classi dirigenti, tant’è che Costantino fu costretto a trasferire la capitale a Bisanzio (cioè il più possibile lontano da Roma) e i politici di Roma affidarono la loro sorte a Giuliano detto l’apostata, pur di non permettere la libertà di coscienza in materia di religione. Si rendevano evidentemente conto che non avrebbero più potuto sfruttare gli schiavi, divenuti “cristiani”, nella stessa maniera. La chiesa avrebbe sempre potuto difendere questi schiavi, magari anche solo in maniera strumentale, per togliere credibilità ai loro padroni.
    Quei primi tre secoli furono il periodo migliore della chiesa sul piano etico, poi, a partire dalla legislazione teodosiana che vietava i culti non cristiani, iniziò il declino morale, anche se sul piano politico la chiesa romana cominciò a diventare una potenza statale.
    Quello che manca all’odierna sinistra (specie a quella più ideologizzata) è proprio il lavoro sul pre-politico, cioè sul sociale, sul volontariato, sull’assistenzialismo, che è poi quello che fa aumentare il consenso e che lo rende duraturo. Persino l’analisi culturale oggi, rispetto agli anni Settanta, è scarsa.
    Quando nei libri di storia vedi la chiesa muoversi politicamente, quella non è già più chiesa, ma potere statale. La vera chiesa si muoveva in maniera tale che le fonti storiche che ci sono pervenute (quelle degli storici romani) non se ne accorsero neppure.
    ciaoooo

  19. Enrico Galavotti
    Enrico Galavotti says:

    Marx non può essere preso così com’è: non lo fece Lenin, non si capisce perché lo si debba fare noi. Non si può pensare che per timore di fare la fine di tanti riformisti, modificando il suo pensiero, sia meglio trattarlo come un dogma.
    Marx non ha mai affrontato in maniera sistematica i nessi tra cultura ed economia semplicemente perché faceva l’economista da intellettuale isolato, rinchiuso nella biblioteca londinese.
    Aveva capito di più l’importanza della cultura quand’era giovane, da giornalista, solo che per lui “cultura” voleva anzitutto dire “filosofia” o nel migliore dei casi critica politica del sistema dominante.
    In realtà la cultura che passa tra le masse è stata fino ad oggi quella religiosa. L’economia o la materialità della vita ha sicuramente le sue leggi, anche più oggettive della cultura, in quanto determinate da bisogni molto concreti. Ma la cultura immateriale ha leggi che riguardano la coscienza e che non si trovano espresse nei libri. P.es. la cultura è stata e ancora oggi viene sicuramente più veicolata attraverso le donne che non gli uomini, più attraverso l’oralità che la scrittura.
    Nel mondo romano il vero passaggio dal paganesimo al cristianesimo non è tanto avvenuto da parte del potere politico ed economico, quanto da parte delle popolazioni barbariche, che erano già state cristianizzate, seppur nella forma ariana.
    Quello che manca ancora oggi alla sinistra è una cultura popolare. La sinistra sa fare analisi economiche, progetti politici, sa fare anche storiografia, ma l’unica vera cultura popolare che ha saputo fare, quella che le ha permesso di governare per 60 anni nell’Italia centrale, è stata ed è ancora oggi quella della gestione dei servizi sociali.
    Ma la vera cultura, cioè i valori popolari, i riti, i costumi, le abitudini, alternativi a quelli borghesi dominanti, non li ha.
    La cultura di sinistra è rimasta di élite: è filosofica, politologica, economicistica, oppure ha vissuto di rendita col fatto che gli operai erano tutti di origine contadina, ma di questa origine i vertici dei partiti di sinistra non hanno mai apprezzato nulla, in quanto vedevano i contadini come un nemico, servo della chiesa.
    La cultura, quella vera, quella espressione di un popolo, è un’altra cosa: è simbologia, è libertà di coscienza, è umanizzazione nel sociale, è condivisione del bisogno, è partecipazione a tradizioni comuni, è senso della democrazia nel locale. Chi pratica questi valori non sa neppure di essere di “sinistra”, non gli importa neppure di esserlo (come non gli importava ai contadini meridionali che facevano i briganti o che emigravano dalla disperazione) e la sinistra ancora non capisce che questi sono i veri valori da anteporre alla borghesia, proprio perché hanno radici storiche molto più antiche di qualunque operaismo, che nel migliore dei casi è solo un’istanza a rivivere quei valori perduti.
    Oggi l’uomo di sinistra è semplicemente un piccolo-borghese o, se fa carriera politica, può anche diventare un borghese medio e grande, i cui valori sono nella sostanza quelli della borghesia.
    I valori alternativi a quelli della borghesia erano quelli contadini, prima che la borghesia trasformasse quest’ultimi in operai.
    Marx in Germania è sempre stato un estraniato, e anche in Francia, in Belgio, dove non partecipò mai attivamente a moti insurrezionali, e tanto meno in Inghilterra, dove non sarebbe nemmeno sopravvissuto se non l’avesse aiutato Engels.
    Era un uomo straordinariamente intelligente, ma non fu mai in grado né di guidare politicamente le masse, come fece magistralmente Lenin, né di porre le basi per una nuova cultura popolare alternativa al sistema, anche perché detestava i contadini, non meno di Engels.
    L’affermarsi progressivo di una cultura è un processo lento, molto lento, plurisecolare.
    ciaooo

  20. Uroburo
    Uroburo says:

    Caro Galavotti,
    ho risposto ai suoi messaggi ma la piattaforma si è mangiato la risposta.
    La mando a Nicotri per e-mail perchè la mandi a lei. Se vuole che la mandi direttamente a lei autorizzi Nicotri a farmi avere il suo indirizzo.
    Un saluto Uroburo

  21. Pino Nicotri
    Pino Nicotri says:

    DA PARTE DI UROBURO
    —————————————
    Caro Galavotti,
    rispondo alla sua ultima replica, con il solito ritardo ma, ahimè, il tempo è tiranno.
    Sono naturalmente d’accordo con la sua ultima affermazione: “L’affermarsi progressivo di una cultura è un processo lento, molto lento, plurisecolare”.

    Trovo anche affascinante la tesi da lei espressa nella seconda parte del messaggio n. 19 { 26.04.10 alle 20:28 } da “Quello che manca ancora oggi alla sinistra è una cultura popolare… ” fino alla fine. Non sono in grado di dire se condivido la sua tesi fino in fondo perchè conosco poco la cultura popolare e per nulla quella dell’Italia meridionale. Tuttavia se la sua tesi è giusta, e per quanto mi riguarda potrebbe anche esserlo, ciò significa che si deve fare un enorme sforzo intellettuale, specificatamente filosofico, per integrare la cultura popolare nella cultura marxista. Finora non ci è neppur lontanamente riuscita nessuna delle rivoluzioni che abbiamo visto nello scorso secolo. Il che vuole anche dire che porsi come obiettivo politico, e non filosofico, quello di fare la o le rivoluzioni è un’operazione del tutto utopistica.
    Possiamo quindi ripendere la sua esposizione dall’inizio.

    1) Ma Lenin – certamente un grande capo di masse popolari, uno dei più grandi con Mao ed Ho Chi Min – ha poi fatto bene a fare la rivoluzione d’ottobre? E se la rivoluzione è sostanzialmente fallita valeva la pena di farla? Si potrebbe dire che la degenerazione della rivoluzione è stata opera di Stalin e non di Lenin ma tutte le caratteristiche presenti nello stalinismo c’erano già nel leninismo. Quella di Lenin è stata una dittatura cosiddetta proletaria che è diventata rapidamente una dittatura burocratica esercitata su una parte consistente dei ceti popolari (sui contadini, in particolare). Come avevano detto i socialisti democratici, da noi Turati. Non è il caso qui di metterci a parlare dello stalinismo, ma forse nessun altro regime nella storia dell’umanità ha inferto tanti lutti al proprio paese come il comunismo sovietico di Stalin. Il costo umano della rivoluzione è valso la pena?
    Certo lo stalinismo ha permesso all’Urss di vincere la guerra contro la Germania, praticamente da sola (a parte i camion americani), anche qui però con modalità da macellai, frutto avvelenato della mentalità teleologica (e fondamentalmente machiavellica: la rivoluzione giustifica tutto) della cultura rivoluzionaria bolscevica. Certo i crucchi avrebbero fatto ai russi anche peggio dei comunisti. Però il regime sovietico, erede dello stalinismo, è crollato, e per di più in malo modo, il che vuol dire che il sistema funzionava male.
    La domanda quindi rimane ed è legittima: valeva la pena di fare la rivoluzione bolscevica?
    2) In effetti le rivoluzioni hanno quasi sempre un carattere non democratico. Ma in quelle che valevano la pena – le rivoluzioni olandese ed inglese – la fase non democratica è durata poco. La rivoluzione francese è sfociata in una dittatura personale sostanzialmente simile a quelle dell’Ancien Régime: Le rivoluzioni comuniste hanno avuto quasi dovunque un costo umano esorbitante. Sono d’accordo con lei che mancava una cultura popolare, cosa addirittura eclatante per certe rivoluzioni ormai dimenticate come quella in Etiopia o quella in Afghanistan che ha poi portato all’intervento sovietico ed al crollo dell’Urss, a dimostrazione di una classe dirigente ormai del tutto incapace.
    Il fatto è che noi – il mondo intero, dico – non siamo minimamente in situazione pre-rivoluzionaria, e fare la rivoluzione prima del tempo è un grave errore. Il sistema capitalistico è ben saldo dovunque, la forza militare ed economica degli Stati Uniti non è minimamente scalfita anche se hanno dovuto rendersi conto che le velleità imperiali di quello scemo di Giorgetto, e di coloro che lo muovevano, erano eccessive. Hanno un sistema di controllo mondiale sulle opinioni dei dissidenti precisissimo ed onnipervasivo e comunque non hanno contro nessuno. Quindi il lavoro da fare per ora è solo quello di non farsi spazzare via e di mantenere la possibilità di una visione delle cose diversa. Poi, un domani, con il mutare delle condizioni, si vedrà. Forse il tanto criticato Kautski non aveva poi torto.
    Per tornare alla querelle struttura-sovrastruttura io penso, con Marx, che alla lunga la struttura determini la sovrastruttura ma ci vuole in effetti un periodo di secoli. Comunque in un tempo dato sia la struttura sia la sovrastruttura agiscono contemporaneamente ed è ben importante farle lavorare ambedue.
    3) La classe dirigente romana era sostanzialmente alle spalle degli imperatori quando c’è stato il cambio di religione, e probabilmente Costantino aveva già in mente di usare il cristianesimo come religione di stato. Le resistenze, soprattutto senatorie, sono state poca cosa sul piano politico, più forti e lunghe sul piano culturale. Personalmente non vedo differenze tra la Chiesa e la classe dirigente romana del basso impero: io li considero esattamente la stessa cosa e la stessa cosa erano sul piano fisico perchè i vescovi erano tutti membri delle classi dirigenti; comunque avevano lo stesso obiettivo: conservare la roba. I romani hanno sostituito gli schiavi coni servi perchè costavano meno e rendevano di più. Andava bene a tutti con l’eccezione dei soliti reazionari che non avevano capito nulla. Non so bene se il cristianesimo abbia un contenuto etico ma la Chiesa è diventata stato subito dopo Costantino. Non sarà un caso?
    Secondo me lei sopravvaluta le conseguenze dell’afflusso delle popolazioni barbariche. Io penso che si sono adattati senza modificare molto di quel che trovavano. Tant’è che per secoli rimase in vigore un diritto romano ed uno variamente barbarico.
    4) Le visioni del mondo, o se si preferisce la cultura, sono in effetti molto stabili (ci sono ancora riti di origine pre-cristiana!) e passano con l’educazione e soprattutto con la convivenza, con l’appartenenza ad un gruppo. Tuttavia integrare una visione religiosa ad una atea è piuttosto difficile. Forse della politica dovrebbe far parte anche l’antropologia culturale.
    Un saluto Uroburo

  22. Enrico Galavotti
    Enrico Galavotti says:

    Perché le esperienze di socialismo sono tutte fallite in Europa? Sono fallite perché erano esigenze di intellettuali che avevano capito i limiti dell’individualismo borghese; ma, essendo essi stessi un prodotto alienato della società borghese, le loro esigenze non seppero mai venire incontro a quelle dei contadini, che di tutte le classi sociali sono stati quelli che hanno pagato il prezzo più alto dello sviluppo prima commerciale poi industriale del capitalismo (sin dai tempi del Mille), e quelli, in fondo, che hanno resistito di più all’individualismo borghese (come mentalità, valori, comportamenti).
    Gli intellettuali rivoluzionari seppero venire incontro alle esigenze degli operai, che in fondo erano sradicati come loro, provenendo tutti dalla campagna. I contadini erano visti come piccolo-borghesi, di mentalità religiosa. Questo fu un errore gravissimo da parte del cosiddetto “socialismo scientifico”.
    L’unico esempio significativo, perché vincente, di intesa tra socialismo e mondo rurale è stato quello del leninismo, che venne però subito sconfessato dallo stalinismo (e lo sarebbe stato anche dal trotskismo, viste le sue premesse ideologiche, se avesse prevalso).
    Oggi la distruzione progressiva del collettivismo rurale (in nome della privatizzazione della terra, da noi, o della sua statalizzazione nell’ex “socialismo reale”) ha reso del tutto impossibile una fuoriuscita pacifica dal capitalismo. D’altra parte già il leninismo ebbe bisogno del disastro della prima guerra mondiale, prima di sferrare l’attacco demolitore allo zarismo e insieme all’emergente capitalismo russo.
    Da tempo anche tutto il mondo rurale, in occidente, è diventato borghese, per cui una transizione al socialismo potrebbe avvenire solo in maniera particolarmente cruenta. Oggi tutti i lavoratori dell’occidente, persino i lavoratori della terra, persino gli operai delle fabbriche, partecipano allo sfruttamento del Terzo Mondo, anche quando si lamentano che in questa area del pianeta il costo del lavoro induce alla delocalizzazione delle aziende, anche quando si lamentano che i prezzi delle derrate alimentari sono per loro troppo competitivi. Infatti è sufficiente depositare i propri risparmi in una qualunque banca, per avere un interesse basato sul suddetto sfruttamento.
    L’Europa non è più in grado di ritrovare se stessa, anzi, quanto più s’allarga, tanto più pare diventare un problema per le sorti di quell’umanità il cui sviluppo è frenato dal nostro sviluppo. Come gli Usa non permettono al Sudamerica di svilupparsi, così noi non lo permettiamo all’Africa.
    Due guerre mondiali catastrofiche non ci sono servite per realizzare il socialismo. Vi sono stati tentativi durante la prima e durante la seconda, ma sono tutti falliti, a dimostrazione che per realizzare il socialismo non basta un impegno politico o culturale: ci vuole anche un impegno sociale. È il popolo che deve realizzare il socialismo.
    L’unica speranza che ha l’Europa è l’Africa, ma solo dopo che questa si sarà liberata del nostro colonialismo. Il che non vuol semplicemente dire ch’essa dovrà riappropriarsi delle risorse che in questo momento le stiamo saccheggiando con le nostre multinazionali, ma vuol piuttosto dire che dovrà uscire dal meccanismo perverso secondo cui il valore d’uso deve restare subordinato a quello di scambio.
    ciaooo

  23. Enrico Galavotti
    Enrico Galavotti says:

    Nei nostri manuali di filosofia o di storia delle dottrine politiche chi viene considerato fondatore della scienza della politica? Machiavelli, senza discussioni.
    Il motivo è ch’egli è stato il primo a separare l’etica dalla politica. Per noi occidentali (borghesi) questa separazione è un titolo di merito, ancora oggi, e a nulla possono valere le obiezioni dei cattolici, in quanto, se c’è stata nella storia delle istituzioni, una cosa che di “umano” non ha avuto assolutamente nulla, è stata proprio la politica teocratica della chiesa romana.
    Ma per quale ragione i manuali non considerano Lenin il fondatore della politica rivoluzionaria, visto e considerato che in lui non esiste affatto o esiste comunque molto meno la separazione dell’etica dalla politica?
    Semplicemente per il fatto che la politica di Lenin è opposta a quella di Machiavelli: questi infatti voleva la dittatura del principe, quello la dittatura del proletariato; l’uno voleva una dittatura perenne, l’altro transitoria. Il principe doveva stare al di sopra delle classi, il proletariato doveva eliminare il concetto stesso di “classe”.
    Questo per dire che chiunque, da sinistra, critichi Lenin, non è in grado di capire cosa significhi “politica antimachiavellica”.
    Machiavelli era un antirivoluzionario per eccellenza, in quanto per lui il principe avrebbe dovuto prendere il potere grazie alla forza o all’astuzia e non certo grazie alla ragione (alle ragioni del popolo).
    Machiavelli era profondamente pessimista nei confronti del popolo; Lenin invece per il suo popolo sacrificò tutta la sua vita.
    Io non credo che se Lenin fosse vissuto altri vent’anni avrebbe permesso la deriva autoritaria, centralistica e burocratica che si verificò sotto Stalin. Anzi, sono convinto che i soviet non sarebbero scomparsi e che il partito avrebbe progressivamente decentrato i luoghi della democrazia politica, e non avrebbe forzato l’industrializzazione del paese e neppure la collettivizzazione nelle campagne, non avrebbe trasformato i contadini in operai rurali alle dipendenze dello Stato. E tanto meno avrebbe fatto una devastante politica etnico-nazionale come fece Stalin, i cui risultati pesano sul destino della Russia ancora oggi.
    Semmai dovremmo dire che è stato Stalin a realizzare compiutamente gli ideali del principe.
    Lenin aveva questo grandissimo merito: sapeva trarre insegnamento dai propri errori. Dava sempre per scontato che la rivoluzione ne avrebbe compiuti tanti, essendo i rivoluzionari i figli dell’alienazione borghese (e in Russia anche di quella feudale e religiosa). Ma era anche convinto che con un’onesta autocritica si sarebbero superati. In tal senso detestava quelli che volevano restare coerenti.

  24. Enrico Galavotti
    Enrico Galavotti says:

    La cultura marxista ci è sembrata grande, perché Marx era assolutamente un genio, uno di quelli che non s’incontrano tanto spesso nella storia del pensiero umano.
    Chi l’ha criticato sul piano economico, pensando di poter procrastinare la fine del capitalismo, ha fatto male i suoi conti.
    Ormai non dovrebbe più essere in discussione che il capitalismo è una formazione storica destinata a morire, semmai dovremmo iniziare a chiederci come sostituirla in maniera tale che non si ripetano gli errori del “socialismo reale”. E su questo purtroppo siamo ancora all’età della pietra.
    Infatti se avessimo cominciato a ragionarci seriamente, saremmo dovuti arrivare alla conclusione che è proprio il comunismo primitivo, quello appunto dell’età della pietra, l’unica vera alternativa al capitalismo e a ogni forma di socialismo che non affronti seriamente, sino in fondo, il significato di questa parola (la soluzione cinese, p.es., cercando continui patteggiamenti col capitalismo, è dal punto di vista del socialismo semplicemente ridicola).
    Il vero problema da risolvere è, secondo me, il fatto che al momento il socialismo non ha alcun modello, alcun punto di riferimento cui ispirarsi per tornare al comunismo primitivo.
    Tutto quanto di “primitivo” ha resistito alle civiltà antagonistiche, oggi sopravvivere negli angoli più sperduti del pianeta, continuamente oppresso dalla nostra identità selvaggia.

    ciaooo

  25. Bank online with Chase
    Bank online with Chase says:

    @Markus I get your drift on where you were going there. I often think of my past and use it as a means to analyze where I am and where I want to get to. Where I struggel is balancing it all out. How do you guys balance things out?

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