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Dal Mille ad oggi

I
Potremmo chiederci il motivo per cui lo sviluppo di una borghesia di tipo industriale-capitalistico (e non semplicemente di tipo mercantile-commerciale) abbia richiesto così tanto tempo in Europa occidentale e non abbia trovato un proprio equivalente nel resto del mondo, se non dopo la nascita del colonialismo europeo.
La nascita della borghesia commerciale, in Europa, viene fatta risalire intorno al Mille. Ma in quel periodo esisteva una borghesia commerciale anche in altre parti del pianeta: p.es. nell’impero bizantino, in Cina, in India, nel Medio oriente islamico, per non parlare del fatto che quando nacquero le prime civiltà commerciali in Mesopotamia, noi in Europa eravamo ancora all’età della pietra.
Dunque perché solo la borghesia commerciale del Medioevo europeo è riuscita a diventare industriale, condizionando il mondo intero? Cioè per quale ragione è riuscita a compiere un passaggio del genere una borghesia che sul piano commerciale non era più evoluta di altre borghesie del pianeta?
La risposta non sta ovviamente in qualcosa di genotipico e neppure in alcuna condizione ambientale o materiale, ma sta soltanto nella cultura di riferimento, che nel caso della borghesia euroccidentale è stata prima cattolica e poi protestantica.
Che particolarità aveva la cultura cattolico-romana per permettere lo sviluppo di una borghesia diversa da tutte le altre? Essa aveva la particolarità di permettere alla persona di sdoppiarsi in credente davanti alla chiesa e in mercante davanti alla società.
Per quale motivo la chiesa permetteva al borghese di scindersi in due persone così diverse? La risposta è semplice: essa stessa, al suo interno, era divisa tra una base contadina credente e un vertice ecclesiastico corrotto.
Quando all’interno di un’organizzazione collettiva di potere (quale appunto era la chiesa romana feudale), il vertice ecclesiastico afferma determinati valori (etico-religiosi) e ne pratica altri di natura opposta, riuscendo a ingannare la propria base, se anche tra quest’ultima emerge qualcuno che s’accorge dell’abuso e vuol cercare di approfittarne per ritagliarsi uno spazio di manovra in cui poter esercitare la medesima doppiezza, i vertici di quella organizzazione avranno pochi motivi per impedirglielo, soprattutto se questa imitazione della corruzione non ha come fine immediato quello di rovesciare il potere costituito.
La borghesia non va considerata come un figlio bastardo della chiesa romana, ma come un figlio legittimo, benché cadetto, in quanto il primogenito restava il contadino ubbidiente, disposto ad accettare il servaggio senza reagire. Nei confronti della borghesia la chiesa romana sperava di poter esercitare una funzione di controllo, approfittando nel contempo di tutti i benefici economici che poteva ricavare da un rapporto particolare con tale classe; la quale sicuramente, coi propri traffici, era in grado di far diventare la chiesa ancora più ricca e potente.
La chiesa infatti poté politicamente opporsi agli imperatori e ai grandi feudatari grazie all’appoggio economico della borghesia (comunale e signorile). Nessun’altra ideologia del mondo riuscì a compiere lo stesso percorso di quella cattolico-romana, proprio perché in quest’ultima, nei suoi ranghi di livello elevato, l’ipocrisia non era l’eccezione ma la regola. In ogni altra parte del mondo l’attività borghese restava strettamente controllata dallo Stato, oppure era disprezzata in quanto contraria alla pratica dei valori religiosi.
Certo, la borghesia – come già detto – è esistita anche prima del cristianesimo, ma non poteva avere la stessa falsità. Quando una persona viene considerata schiava dalla nascita o può finire in una condizione schiavile semplicemente per una sconfitta militare o per un debito non pagato, non è indispensabile sforzarsi di cercare mille ragioni per dimostrare a questa persona che le cose non stanno così.
La retorica del cristianesimo primitivo sotto questo aspetto fu incredibile: il Cristo s’era fatto “servo di dio” ed era morto per i peccati di tutto il genere umano, rendendo irrilevante essere liberi o schiavi di fronte a dio, chi si abbassa sarà esaltato, gli ultimi saranno i primi, se uno ti percuote porgi l’altra guancia, e così via.
La cultura pagana non era mai arrivata a principi del genere, che, come minimo, sarebbero stati equiparati a una forma di pusillanimità: una sofferenza ingiusta andava sempre punita e la vendetta era una forma di giustizia. L’ipocrisia del paganesimo raggiunse il vertice quando si volle dimostrare che il passaggio alla civiltà commerciale era giustificato dal fatto (puramente inventato) che in quella agricolo-pastorale gli uomini erano simili agli animali (l’esempio eclatante era Polifemo).
E’ ben noto tuttavia che lo schiavismo si ripropose anche dopo lo sviluppo del cristianesimo, nei confronti di chi non era mai stato “cristiano”, verso cui quindi non era necessario usare l’arma della doppiezza. Ma, anche a prescindere dal fatto che a questa pratica schiavile si opposero alcuni esponenti di rilievo dello stesso cattolicesimo, ciò che più conta dire è che il capitalismo non si sviluppò affatto all’interno di questo rapporto schiavile. Il capitalismo si sviluppa soltanto – Marx lo disse migliaia di volte – quando sul mercato si trovano, l’una di fronte all’altra, due persone giuridicamente libere, di cui una può vendere soltanto la propria forza-lavoro.
II
La nascita dell’individualismo borghese post-schiavistico è strettamente correlata allo sviluppo dell’individualismo dei vertici ecclesiastici nell’ambito del collettivismo cattolico. Quest’ultimo infatti riguardava più che altro il mondo contadino, ma le sue leggi erano in contraddizione con quelle del potere autoritario, assolutistico, che s’andavano affermando attorno alla figura del pontefice e dei suoi vescovi.
Dunque la prima borghesia commerciale e imprenditoriale nasce, in epoca feudale, sotto il patrocinio delle autorità ecclesiastiche, le quali però, quando videro che la borghesia era intenzionata a compiere rivendicazioni anche sul terreno politico, si spaventarono e fecero marcia indietro. Permettendo alla borghesia di svilupparsi economicamente, in funzione antifeudale, la chiesa pensava di farsela alleata, invece ad un certo punto dovette prendere atto ch’essa non sopportava più i condizionamenti di nessun potere politico e che anzi aveva intenzione di diventare “protestante”.
Di fronte al rifiuto che la chiesa romana diminuisse il proprio potere, la borghesia prese a usare la forza: dapprima quella intenzionata a modificare l’ideologia stessa della chiesa, affinché l’attività del borghese avesse più facilità etica di manovra; in seguito si usarono le pressioni di tipo politico-militare, al fine di rovesciare lo stesso temporalismo ecclesiastico. In Italia, prima ancora della riforma protestante, s’imposero, per un certo tempo, le signorie e i principati, che non misero in discussione i principi religiosi della fede, ma solo il loro uso politico. Poi s’affermarono culture umanistiche che, invece di mettere in discussione i principi della fede (come invece fecero i movimenti pauperistici ereticali), si limitarono a porre le basi del moderno agnosticismo ed ateismo.
La riforma protestante e le rivoluzioni borghesi servirono appunto per togliere alla chiesa romana i poteri ideologico e politico. Col calvinismo la borghesia poteva avere finalmente ampie giustificazioni per agire senza alcuno scrupolo religioso, e nel contempo poteva riconoscersi in uno Stato che, sebbene religioso, agiva in maniera indipendente dalla chiesa.
Questo processo fu lunghissimo: partito intorno al Mille, dovette superare la Controriforma per affermarsi in maniera definitiva. Fu la sicura autonomia dal potere ecclesiastico che determinò il passaggio dalla fase commerciale a quella industriale della borghesia. Non ci sarebbe stata nessuna rivoluzione industriale se la borghesia non avesse appreso perfettamente come rendere schiavo un operaio dicendogli che giuridicamente era libero di non esserlo. Che l’aria di città rendesse liberi, i Comuni italiani iniziarono a dirlo almeno cinque secoli prima degli altri paesi europei.
Dopodiché tutto il mondo dovette subire le conseguenze di questo sviluppo anomalo dell’economia, profondamente ambiguo e, alla resa dei conti, disumano. La cosa stupefacente è stata che questo sviluppo, pur essendo partito da un’infima propaggine del continente asiatico (perché in fondo per gli asiatici l’Europa occidentale altro non è che questo), non solo non è riuscito a incontrare una valida resistenza da parte delle altre culture mondiali, ma da queste è stato addirittura adottato. Volente o nolente oggi tutto il mondo è dominato dal capitale.
Una certa resistenza la si è vista con la rivoluzione d’ottobre in Russia, con la nascita del cosiddetto “socialismo reale” nell’Europa orientale e in Cina, e con la decolonizzazione dopo la fine della seconda guerra mondiale, ma dopo il crollo di quello che si rivelò essere un “socialismo da caserma”, il capitalismo ha assunto proporzioni gigantesche, senza ostacoli di sorta sul suo cammino.
La contraddizione principale non è più quella tra due sistemi sociali che dicevano d’essere opposti, ma è tutta interna a un unico sistema, dove la gran massa dei lavoratori si trova schiacciata da un crescente monopolio produttivo e potere finanziario che sfuggono a ogni controllo. La concentrazione delle ricchezze è in mano a pochissime strutture economiche: le multinazionali e gli istituti di credito (che tendono, a loro volta, a trasformarsi in imprese). Una crescente globalizzazione dell’economia, priva di regole efficaci, soggetta a speculazioni finanziarie di ogni tipo, che minacciano continuamente paurosi crolli borsistici, sta caratterizzando il nostro tempo, in cui non si vedono elementi in controtendenza.
Nel passato, quando una civiltà voleva imporre i propri valori commerciali oltre misura, si scontrava con altre di tipo nomade, che con ferocia la spazzavano via. Ma oggi, se la resistenza non si formerà dall’interno, difficilmente verrà qualcuno a “salvarci”.

Il rapporto tra follia e religione

La religione cristiana può costituire un motivo di follia perché non è una semplice credenza mitologica. Per gli antichi i riti dedicati alle divinità erano più che altro formali, un modo per mostrare che si rispettavano le leggi e si apparteneva a una comunità divisa in classi sociali tra loro opposte.

Il vero culto era semmai rivolto ai propri parenti defunti, in mezzo a tante superstizioni. E poi naturalmente vi erano quei culti eversivi (il primo dei quali era a Dioniso) in cui si concentravano le insofferenze degli strati popolari nei confronti dello schiavismo. In tali culti la trasgressione si riduceva all’uso di sostanze inebrianti e a una sessualità senza freni.

Difficilmente però si diventava “folli” per motivi religiosi; semmai si appariva folli in occasione di qualche rito o particolare festività, dopodiché si tornava alla normalità. Nell’antichità si aveva un rapporto più docile nei confronti della natura e ci si rassegnava abbastanza facilmente alla condizione sociale che il destino riservava. Soltanto quando le condizioni dello schiavismo risultavano insopportabili, ci potevano essere sommosse o tentativi di non resistenza al nemico che attaccava la comunità dall’esterno.

Nelle grandi tragedie greche la follia è più che altro connessa a una rappresentazione intellettualistica del fato, che sembra divertirsi a creare situazioni a dir poco incredibili o inspiegabili. L’eroe è indotto a compiere qualcosa che non avrebbe voluto fare. Alcune volte la cosa appare soltanto come una prova da superare (tipico in Ulisse), altre volte invece si soccombe (come in Edipo re).

Con la religione cristiana invece il credente sembra aver acquisito più padronanza di sé, maggiore disincanto, minore ingenuità. Egli infatti ha sempre davanti a sé un modello ben preciso da imitare: Gesù Cristo, che la chiesa impone di considerare come “vero uomo e vero dio”.

L’identificazione con questo soggetto, abilmente costruito da redattori cristiani di origine ebraica, può portare alla follia, proprio perché qui viene richiesta una partecipazione attiva, con tanto di spirito missionario: il cristiano è il credente che deve dimostrare qualcosa all’umanità. Il cristiano non può essere un buddista rassegnato o un induista che relativa la propria fede in mezzo a mille fedi.

Il cristianesimo ha voluto dare all’umanità la coscienza personale del peccato, nel senso che, a partire da esso, la responsabilità della propria condizione umana (schiavile o servile) non può più essere attribuita al caso, al destino, ma deve essere attribuita a se stessi. Gli uomini sono la causa della loro stessa infelicità. Questa infelicità, che impedisce di compiere il bene pur volendolo, ha origini remote, che la Bibbia fa risalire alla creazione di Adamo ed Eva.

Per i cristiani non c’è modo di uscire da questa condanna che affidandosi alla chiesa. Ma è proprio a questo punto che le strade si divergono. Infatti nell’ambito della chiesa ortodossa si è preferito assumere una posizione di rassegnazione buddista, confidando in una liberazione esclusivamente ultraterrena.

Nell’ambito della chiesa romana si è invece pensato di risolvere già su questa terra una parte della propria sofferenza, semplicemente facendola scontare ai più deboli: detta chiesa è infatti, per eccellenza, la chiesa del potere politico, quella che vuole dominare su tutti.

Viceversa, nell’ambito della chiesa protestante, persa la dimensione comunitaria (feudale) della fede (e quindi il rispetto della gerarchia, della tradizione ecc.), il credente si affida alla violenza dello Stato, che impone se stesso su quella parte di mondo meno attrezzata. Il protestantesimo non è che un cattolicesimo laicizzato dalla borghesia.

La follia, a sfondo mistico, di famosi artisti e intellettuali della storia, come Nietzsche, Kierkegaard, Van Gogh, E. A. Poe ecc., è tutta interna al protestantesimo. E’ una follia individualistica, mentre quella cattolica non potrebbe essere che collettivistica (ben visibile p.es. nell’idea di “crociata”).

Nella nostra epoca, quando un paese come gli Stati Uniti, lancia l’idea di “crociata” (nascosta sotto l’idea di democrazia o di diritti umani), contro taluni paesi islamici, lo fa appunto in quanto “Stato protestante”. Lo stesso fecero i nazisti quando attaccarono il mondo slavo (da civilizzare). Le varie congreghe protestanti in genere si adeguano supinamente a questa volontà. Nei paesi cattolici invece accade il contrario: è lo Stato che si deve adeguare alla chiesa, poiché questa pretende di porsi politicamente come l’espressione più adeguata del valore umano. In tal senso il fascismo fu, per l’Italia, un’esperienza a sfondo più protestantico che cattolico.

Ma perché la follia mistica, individualistica, è un fenomeno tipico dei paesi protestanti? Il motivo sta appunto nel fatto che qui il cristianesimo è rimasto come un contenitore vuoto. Tutti vedono questa enorme scatola nera, mostrandole ancora un certo rispetto formale, ma chi vuole entrarci, per verificarne il contenuto, non sa come aprire la porta, anzi, ha addirittura il timore che, se anche riuscisse ad entrarvi, la troverebbe completamente vuota.

La follia subentra proprio in questa discrepanza tra angoscia della colpa e incapacità di liberarsene. L’individuo singolo si sente impotente e preferisce ridurre al minimo i propri sensi di colpa (sotto il nazismo Hitler non appariva forse come una sorta di Gesù Cristo cui prestare assoluta obbedienza?).

L’obbedienza cieca nel compiere i delitti più orrendi (che troviamo non solo nei lager ma anche nelle due bombe su Hiroshima e Nagasaki) viene percepita come rimedio alla propria impotenza. Si scaricano su altri le proprie tensioni irrisolte.

Chi rifiuta questa obbedienza ai propri superiori e vuole conservare la propria coscienza di colpa, inevitabilmente diventa folle, poiché antepone a una necessità ritenuta ineluttabile, indipendente da qualunque volontà, le proprie lacerazioni interiori. Preferisce diventare folle accusando il sistema d’essere il suo carnefice, piuttosto che diventarlo come cittadino organico a questo sistema.

Il folle ritrova il proprio appagamento attribuendo ad altri le cause della propria sconfitta, la quale però viene trasformata in vittoria proprio nel momento magico e insieme tragico della morte, che generalmente si pone come suicidio. Sotto questo aspetto non fa alcuna differenza che il folle si dichiari ateo come Nietzsche o credente come Kierkegaard. Fa invece differenza il diverso modo di vivere la follia: tra i propri incubi o come pedina di una superiore volontà.

Per una filosofia della storia (II)

Differenze tra ortodossia, cattolicesimo e protestantesimo

Si potrebbe, in un certo senso, collegare, sul piano socio-economico, l’ortodossia (che è la prima manifestazione della religione cristiana) allo schiavismo e al colonato, che segue immediatamente la dissoluzione della schiavitù dell’epoca imperiale, durante la quale tra cattolicesimo e ortodossia non vi erano ancora sostanziali differenze. La religione cattolica andrebbe invece collegata alla servitù della gleba del periodo feudale, mentre il protestantesimo all’operaio salariato della manifattura. Tutte le religioni euroccidentali sono cominciate ad entrare in una crisi irreversibile a partire dalla rivoluzione industriale vera e propria, iniziata in Inghilterra verso la metà del XVIII secolo.

L’ortodossia rappresenta non solo la prima manifestazione della religione cristiana, ma anche il primo tradimento degli ideali originari del Cristo (i fondatori del cristianesimo ortodosso vanno ricercati negli autori dei documenti neotestamentari: in particolare Paolo, Giovanni, Marco ecc.).

In che cosa è consistito il tradimento della chiesa ortodossa? Nel predicare l’ideologia dell’amore universale rinunciando a lottare per la giustizia sociale, terrena, degli uomini. L’amore – secondo questa religione – doveva servire per sopportare stoicamente le ingiustizie. Durante tutto il corso dell’impero romano, l’ortodossia, per poter giustificare lo schiavismo, fece dell’amore un concetto di altissimo significato spirituale, riuscendo a coinvolgere decine di migliaia di persone.

Non dimentichiamo che le più grandi persecuzioni i cristiani le hanno subìte in questo periodo. Essi erano convinti di rappresentare un’alternativa alla mentalità dominante, anche se sostenevano che i migliori frutti del loro amore li avrebbero colti nel “regno dei cieli”. Da questo suo principio basilare, l’ortodossia non si è mai distaccata, almeno sul piano teorico, anche a costo di apparire come una religione conservatrice, legata unicamente al proprio passato.

Il cattolicesimo-romano emerge dalla constatazione che il principio ortodosso dell’amore universale non è in grado di reggere o di sopportare la contraddizione dei rapporti schiavistici o di colonato. Questa chiesa rinuncia al principio dell’amore universale – che giudica astratto – per affermare una nuova modalità esistenziale, quella del potere politico, che è sempre, a ben guardare, una forma di “idealismo”, anche se viene espressa, generalmente, in una maniera più rozza e incivile (si pensi alle crociate, all’inquisizione, alla lotta feroce contro le eresie, alle guerre di religione, ecc.).

In effetti, la chiesa cattolica appare, con la svolta costantiniana, molto più disposta al compromesso sui princìpi di quanto non lo sia la chiesa ortodossa o greco-bizantina. Tale predisposizione essa l’aveva ereditata dalla cultura latina dell’impero romano, che era prevalentemente giuridica, sul piano formale, e basata sul concetto di “forza” sul piano sostanziale. La cultura greca invece era di tipo filosofico, cioè metafisico, idealistico, estetico, artistico…

Le differenze maggiori tra le due chiese sono emerse quando l’imperatore Costantino, dopo aver fatto del cristianesimo la religione di stato, trasferì la capitale dell’impero a Bisanzio (intorno a questo fatto la chiesa latina deciderà poi di elaborare il famoso falso della Donazione di Costantino, a titolo per così dire di “risarcimento”: falso in cui si credette sino all’Umanesimo).

Ma forse il momento in cui le differenze si sono maggiormente accentuate è stato quando l’imperatore Teodosio decise di fare del cristianesimo l’unica legittima religione di stato. Questa decisione, nella parte occidentale dell’impero, priva com’era della presenza “fisica” dell’imperatore, ebbe un’importanza decisiva ai fini dell’organizzazione del potere politico da parte della chiesa romana, che si servì immediatamente di varie tribù barbariche per affermare il proprio dominio universale.

E’ stato proprio l’uso del potere politico, finalizzato a un obiettivo egemonico, che ha indotto la chiesa latina ad allontanarsi progressivamente da quella greca (la rottura definitiva, mai più sanata sul piano teologico, è avvenuta nel 1054). Viceversa, la chiesa bizantina non è quasi mai stata caratterizzata dalla volontà di usare un potere politico contro l’autorità imperiale: spesso, anzi, nella storia dell’impero bizantino, la si è vista contestare le pretese imperiali di dominio o d’ingerenza negli affari ecclesiastici, non tanto per rivendicare un proprio potere politico (concorrenziale a quello dell’impero), quanto per affermare determinate posizioni di principio (come ad es. nella questione iconoclastica o durante le dispute teologiche sulla natura del Cristo).

Naturalmente, con questo non si vuol dire che la rivendicazione del potere politico, da parte della chiesa latina, sia stata di per sé un fattore negativo (poiché la politica può anche essere usata per un fine di liberazione, come dimostra la recente teologia sudamericana); ma, senza dubbio, tale rivendicazione è diventata un fattore negativo nel momento stesso in cui si voleva imporre una determinata ideologia ed affermare un potere egemonico di classe o di casta.

Ponendo in essere l’esigenza della politica, il cattolicesimo, se vogliamo, ebbe anche la possibilità di riavvicinarsi maggiormente al modello originario del Cristo, che sicuramente non disprezzava la politica quale mezzo di trasformazione sociale; solo che l’intellighenzia cattolica medievale si è servita della politica per giustificare non l’esigenza di rapporti sociali umani, ma la realtà di quelli servili (cui la chiesa era particolarmente interessata perché essa stessa forza produttiva ed economica), al punto che ha fatto del servaggio feudale (questo nell’Aquinate è assai evidente) la “ragion d’essere” dell’esistenza del contadino-credente, e non soltanto -come per lo schiavismo- una condizione “infelice” da sopportare stoicamente in attesa della “retribuzione ultraterrena”.

Quale istituzione eminentemente politica, la chiesa romana ha valorizzato maggiormente i princìpi dell’obbedienza, dell’autorità, della gerarchia… rispetto a quelli ortodossi della comunione e della collegialità: alla “forza dell’esempio” ha preferito l’”esempio della forza”. I princìpi cattolici, che minarono l’idea della fratellanza e dell’uguaglianza, elaborata dal cristianesimo primitivo, hanno aperto la strada all’individualismo, che è il terreno propizio all’affermazione della mentalità borghese. In questo senso, la differenza che si pone tra l’individualismo cattolico e quello protestante sta unicamente nel fatto che il primo riguarda solo gli individui di potere (ovvero la gerarchia, che per garantirlo, si serve di un forte apparato burocratico-amministrativo e di controllo), mentre il secondo riguarda tutti i credenti, i quali possono così sperimentare – nell’ambito dell’individualismo – una maggiore uguaglianza (non a caso il protestantesimo ha affermato i princìpi del “sacerdozio universale” e del “libero esame”, mentre i cattolici hanno preferito quelli dell’infallibilità pontificia o dell’immacolata concezione).

E’ dunque nei limiti del cattolicesimo medievale che va ricercata la causa sovrastrutturale che ha generato (indirettamente) lo sviluppo della mentalità borghese dell’epoca moderna. Nonostante che in Europa orientale (area bizantina) la politica imperiale fosse più autonoma dall’influenza della religione ortodossa (si pensi ai concetti di “diarchia” o di “sinfonia”, che la storiografia occidentale ha sempre voluto qualificare col termine di “cesaropapismo”), la rivoluzione borghese è invece avvenuta in Occidente.

Questo significa che il cittadino ortodosso si sentiva, in coscienza, più legato alla propria religione di quanto non lo fosse il cittadino cattolico nei confronti della propria. Come spiegare altrimenti il fatto che l’Europa orientale, pur avendo anch’essa avuto un sistema feudale, non è mai stata caratterizzata (almeno sino alla fine del secolo scorso) dalle profonde contraddizioni che tale sistema ha comportato in Europa occidentale? Come spiegare il fatto che nell’Europa orientale si sono conservate molte più esperienze agricolo-comunitarie che nell’area occidentale, al punto che agli inizi del secolo vi erano ancora correnti politiche convinte di poterle riformare per opporsi efficacemente alla penetrazione di elementi capitalistici?

La mentalità borghese è appunto nata perché una religione imposta colla forza ha meno presa di una che per affermarsi si serve (anche) di esempi di santità personale, di coerenza etico-religiosa, di valori fondamentali… E’ forse un caso strano che gli ortodossi abbiano sempre preferito sopportare l’occupazione turca piuttosto che l’invasione latina? O che non abbiano mai sperimentato, all’interno della loro confessione, le terribili guerre di religione che sconvolsero l’Occidente per interi secoli?

Certo, qui non si vuole idealizzare la confessione ortodossa, si vuol soltanto mettere in evidenza che il “tradimento” ortodosso dei princìpi del Cristo ha determinato conseguenze meno drammatiche di quello del cattolicesimo. Per gli ortodossi -già lo si è detto- gli ideali del Cristo non potevano realizzarsi in sede politica, ma solo nel rapporto comunitario, cioè nell’ambito della chiesa locale, a livello rituale, sacramentale, interpersonale… Il cattolicesimo seppe sì riscoprire l’importanza dello strumento della politica, ma finì col servirsene per scopi tutt’altro che umanitari.