Rivoluzione e Democrazia

Fino ad oggi è sempre successo, probabilmente a motivo del fatto che i rapporti sociali basati sulla proprietà privata condizionano pesantemente gli uomini, che ogni rivoluzione politica favorevole alla democrazia si sia trasformata in un dispotismo più o meno forte.

Tuttavia, ognuno si rende conto che non può essere la consapevolezza del fatto che la proprietà privata condiziona gli uomini, ad impedire che si facciano delle rivoluzioni. Lenin diceva chiaramente che le rivoluzioni si fanno con i proletari condizionati dal sistema borghese. Cioè le rivoluzioni si fanno quando il livello di sopportazione delle contraddizioni antagonistiche ha raggiunto la massima intensità possibile.

La soglia di sopportazione naturalmente varia di Paese in Paese, ed è anche relativa al periodo di tempo in cui, sopportando lo sfruttamento capitalistico, i lavoratori si sono lasciati condizionare dalla mentalità borghese.

Piuttosto può essere un’altra la ragione per cui, all’ultimo momento, si può anche rinunciare alla rivoluzione politica, quando cioè i mezzi che si dovrebbero usare per realizzare i suoi obiettivi contrastano in modo stridente con le esigenze di umanità di cui si ha consapevolezza.

Si può rinunciare alla rivoluzione nella speranza che gli uomini capiscano ancora di più che la necessità di un cambiamento è inevitabile, è troppo forte per essere elusa, e che proprio per questa ragione bisogna attenersi ancor più scrupolosamente al rispetto dei valori umani universali. Non è singolare che nel momento in cui scoppiò la rivoluzione d’Ottobre comportò pochissimi morti?

Non si deve affatto disprezzare la rinuncia alla rivoluzione politica per motivi umanistici, poiché ciò non implica che il soggetto rivoluzionario non possa continuare a lottare per la transizione. Né implica che l’occasione della rivoluzione non possa ripetersi. Peraltro, nessun rivoluzionario dovrebbe mai dimenticare che la rivoluzione è sempre l’esito di un lavoro costante, faticoso, sotterraneo, quotidiano, condotto a tutti i livelli.

* * *

I teorici del liberalismo e del socialismo riformista hanno sempre rimproverato a Lenin il carattere elitario del suo partito. Addirittura c’è chi vede, ancora oggi, in questa caratteristica la causa primordiale della successiva caduta del cosiddetto “socialismo reale” (meglio sarebbe dire “socialismo statale o amministrato”).

Qui tuttavia bisogna chiedersi: quando si vuole operare un rivolgimento rivoluzionario di un governo al potere, che non sia un semplice “colpo di stato”, ma appunto una rivoluzione che coinvolga le masse oppresse, le quali devono mirare a una ristrutturazione radicale dell’intera società, è forse possibile limitarsi a una lotta “parlamentare” o comunque nei limiti della “legalità”?

Chi avverte con forza l’esigenza di “ribaltare il sistema”, poiché lo ritiene assolutamente irrecuperabile (e questa era la consapevolezza che Lenin aveva sin da giovane), fino a che punto può essere disposto a circoscrivere legalmente la propria azione rivoluzionaria? E’ mai esistito un governo oppressore che abbia accettato una transizione democratica verso l’uguaglianza e la giustizia sociale? Se la Russia zarista non fosse diventata “socialista”, con la rivoluzione bolscevica, non sarebbe stata forse destinata al capitalismo?

Lenin potrebbe aver avuto torto se, oltre alla soluzione “bolscevica”, il Paese avesse potuto beneficiare di un’alternativa, quale ad es. poteva essere il populismo. Ma la storia ha dimostrato che il populismo non aveva in sé la forza sufficiente per rovesciare il regime zarista. Il populismo fu in grado di farlo quando si associò al bolscevismo. La sciagura del socialismo post-rivoluzionario dipese dall’incapacità del bolscevismo di valorizzare al meglio l’apporto dei movimenti di origine non leninista.

Una forza rivoluzionaria può accettare i metodi legali solo fino a quando essi vengono tollerati dal potere, il quale, utilizzandoli, spera appunto di riassorbire nella maniera più indolore (che non è quella più facile né quella più sbrigativa, ma certamente quella più sicura) ciò che con la dittatura gli riuscirebbe con maggiore difficoltà. Normalmente le dittature funzionano quando nell’ambito della società esiste un forte livello di povertà e di ignoranza. Le moderne dittature hanno bisogno della parvenza della democrazia per poter governare.

Ora, quando un potere è oppressivo, perché riflesso di una società basata sull’antagonismo di classe, la democrazia viene usata, in politica, solo fino a un certo punto. Quando non si ottengono i risultati sperati, il ricorso alla dittatura è inevitabile, senza particolari riserve da parte della borghesia e delle masse che si lasciano incantare dalle sue promesse.

Ecco, quando giunge quel momento, ha forse senso credere che un partito democratico-rivoluzionario possa continuare a sussistere nella “legalità”? L’esigenza di circoscrivere la propria azione a un’élite di rivoluzionari di professione non diventa forse una necessità?

Se nella fase in cui la democrazia formale, apparente (quella usata per ingannare i lavoratori), si trasforma in aperta dittatura, il popolo non reagisce immediatamente opponendo un netto rifiuto, come si può salvaguardare l’istanza rivoluzionaria se non si entra nella “clandestinità”? Se non si opta per la “illegalità”? Chi può dire con sicurezza che sotto il capitalismo la Russia zarista avrebbe incontrato meno problemi di quanti ne ha incontrati sotto il comunismo?

Lenin dunque non decise di dare un carattere elitario al proprio partito perché egli intrinsecamente era antidemocratico, ma perché, in quel frangente storico, era quello l’unico modo per lottare efficacemente contro il governo zarista, divenuto sempre più reazionario. Non dobbiamo dimenticare che Lenin passò vari anni in prigione, prima di decidersi di entrare nella “illegalità”.

E quando decise di farlo, non si comportò come un anarchico o un terrorista (vedi suo fratello), ma come uno che aveva a cuore il protagonismo delle masse. L’Iskra non avrebbe avuto alcun successo senza tale protagonismo, né si sarebbe realizzata alcuna rivoluzione.

La rivoluzione bolscevica è stata tradita da coloro che non hanno voluto allargare alle masse popolari la gestione del potere politico e dell’amministrazione della società.

Vinti gli interventisti stranieri e i “bianchi” interni, i bolscevichi avrebbero dovuto affermare la piena democrazia sociale, la cooperazione, l’autogestione, il primato dell’agricoltura… La NEP fu una semplice concessione obtorto collo.

Purtroppo non si rinunciò neppure sotto Lenin alla centralizzazione. Fu infatti sotto il leninismo che vennero poste le basi dell’accentramento amministrativo da parte dello Stato, del monopartitismo, dell’unificazione ideologica, della subordinazione dell’agricoltura alle necessità dell’industria e delle città, ecc. Lenin, soggettivamente, si rendeva conto della fase transitoria di questa situazione, ma non ebbe mai la lungimiranza di porre le basi per un sicuro superamento.

Quando riuscì a far accettare l’idea della NEP e della cooperazione, era già troppo tardi, anche perché l’attentato contro la sua vita gli impediva di controllare da vicino la coerenza democratica delle scelte compiute. Lenin doveva educare prima e meglio il suo staff dirigenziale all’uso della democrazia nei momenti più critici, quando col centralismo si è convinti di poter gestire più facilmente o con più sicurezza le cose.

Alla rivoluzione russa sono mancati i leaders democratici, capaci di sensibilità umana, non disposti cioè a sacrificare sull’altare della politica ogni esigenza democratica e umanistica. Se non si pongono le basi oggettive di questa necessità – che sono quelle dell’uso personale e collettivo della libertà -, finiscono col rimetterci anche i leaders che soggettivamente possono sembrare più democratici di altri. Lo stalinismo infatti non ebbe scrupoli nel togliere di mezzo gli esponenti più significativi della rivoluzione d’Ottobre.

La rivoluzione russa ha dimostrato che anche quando si è mossi dalle istanze rivoluzionarie più giuste, se non si è capaci di autentica democrazia, di autentico umanesimo, le conquiste politiche vengono facilmente strumentalizzate da chi vuole affermare solo un’esigenza di potere.

Il torto di Lenin fu quello di aver valorizzato i suoi seguaci più per le capacità politiche che non per la sensibilità umana. Quando si accorse dell’errore (e il Testamento lo dimostra), era troppo tardi. La prima illustre vittima della rivoluzione fu lui stesso.