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Vivere a debito

L’America d’oggi è la rappresentazione del capitale fittizio: il dollaro funziona come valuta di riferimento del sistema internazionale dei pagamenti finché mantiene la fiducia nei suoi confronti.
Tuttavia la fiducia si dà alle cose serie e col Trump di oggi si fa molta fatica, che un giorno dice una cosa e il giorno dopo l’opposto, come se non fosse lui in persona a parlare, ma gli interessi che lo affiancano.
C’eravamo già accorti dei bluff colossali degli Stati Uniti in altre occasioni. Dapprima collegarono la convertibilità del dollaro all’oro, costringendo gli altri Paesi a collegare le loro monete al dollaro. Poterono far questo poiché si era capito chiaramente che gli USA avrebbero vinto la seconda guerra mondiale, senza subire in patria alcun vero danno. Anzi, sarebbero stati loro a finanziare la ripresa economica degli Stati europei semidistrutti.
Poi, quando loro stessi si accorsero che per sostenere le guerre successive al secondo conflitto mondiale, occorrevano ingentissimi capitali (si pensi solo alle guerre di Corea e del Vietnam), ecco che ci ripensarono, e decisero che il dollaro era meglio collegarlo al petrolio, visto ch’era una materia prima molto più diffusa e usata dell’oro e visto che in Medioriente gli USA avevano saputo efficacemente sostituirsi a Francia e Gran Bretagna, considerati “imperialisti” dal mondo arabo.
A partire dal 1971 iniziarono praticamente a vivere di rendita, in quanto tutti i Paesi industrializzati del mondo avevano bisogno del petrolio per svilupparsi.
Di questi improvvisi voltafaccia, in base ai quali gli USA pensano solo ai loro interessi nazionali, in barba a tutti i rapporti di fiducia con altri Paesi, e a tutte le alleanze commerciali e militari, ne abbiamo visti parecchi.
Durante la crisi dei mutui subprime del 2008 venne alla luce un immenso “schema Ponzi”, che non fu pagato solo dagli americani, ma anche dall’intero pianeta (tutte le banche si riempirono di “titoli tossici”, che non valevano nulla).
Quando uno Stato permette alle banche di emettere prestiti superiori alla consistenza dei loro depositi, vuol dire che si sta creando capitale fittizio. Quando uno Stato o una Banca centrale salva le banche in procinto di fallire, emettendo banconote come se fosse una tipografia, vuol dire che la ricchezza è puramente illusoria e altre bolle potrebbero scoppiare negli anni a venire.
Creare denaro dal denaro, grazie alla sua semplice circolazione, senza passare per la produzione di merci, può essere fatto solo da un Paese arrogante, che pensa di continuare a vivere di rendita e di continuare a dominare il pianeta sul piano militare. Queste pretese oggi vengono messe in discussione dai Paesi del BRICS+ e da tutto il Sud Globale. Gli USA han tirato troppo la corda e ora un capitombolo è inevitabile. La politica daziaria è un atteggiamento da disperati. Stanno facendo la parte dell’agrario feudale, cui la nascente borghesia toglieva il potere da sotto i piedi.

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Il debito funziona finché c’è circolazione di merci. Fu inventato dai mesopotamici (una delle prime società schiavistiche) per rispondere alle esigenze del lavoro della società e del commercio di materie prime come argento o legno. I babilonesi scambiavano i prodotti stipulando promesse di pagamento, delle proto-cambiali che fungevano da sostituto del denaro che veniva accettato nella misura in cui qualcuno lo garantiva.
Oggi tutti i Paesi sono indebitati e ogni Paese cerca di correggere questo processo scaricando sugli altri contraddizioni che così diventano mondiali. L’economia globale si basa su un debito che non è ripagabile, sul fatto che gli USA, come tutti gli altri Paesi, possono contrarre nuovo debito solo se qualcuno gli fa credito. Il rapporto debito globale/PIL supera il 300%.
Praticamente noi viviamo solo di debiti. Già alla nascita in Italia abbiamo 50.000 euro di debiti. Non c’è più alcuna responsabilità nei confronti del denaro. Possiamo fare qualunque progetto basato sul debito. Ogni giorno ci si chiede perché risparmiare quando i debiti sono diventati generalizzati, cioè riferibili all’intera popolazione nazionale e persino internazionale. È così che muore la fiducia tra le generazioni, quella che per es. tiene in piedi lo Stato sociale (pensioni, sanità scuola…).
A questo punto è evidente che, andando avanti di questo passo, l’unica vera alternativa al denaro diverrà il baratto: un bene contro un altro bene, il cui valore verrà deciso dall’uso, non dal mercato. Là dove c’è baratto, c’è valore d’uso non di scambio, e dove c’è valore d’uso c’è autoconsumo, e il mercato si riduce appunto al baratto.
Ma perché miliardi di persone possano fare autoconsumo, bisogna prima espropriare la terra a chi la usa come capitalista agrario. Poi, siccome sarà piena di veleni e supersfruttata, bisognerà riconvertirla. Insomma non sarà facile.

Un occidente alla frutta

Secondo il “Washington Post”, sullo sfondo del calo degli aiuti americani e dell’esaurimento delle scorte causato da anni di forniture di armi a Kiev, in Europa sta prendendo piede un nuovo modello di sostegno: investimenti non in forniture dirette di armi finite, ma nello sviluppo dell’industria della stessa difesa ucraina.
A che pro? 1) rifornire più rapidamente il fronte, risparmiando anche su trasporti e logistica; 2) utilizzare l’Ucraina come banco di prova per nuove tecnologie militari, compresi i sistemi senza pilota, nei quali i Paesi europei non hanno ancora sufficiente esperienza.
Nel complesso l’UE prevede di stanziare più di 20 miliardi di euro per il settore della difesa dell’Ucraina nel prossimo anno.
L’Ucraina viene trattata come se facesse già parte della UE e della NATO. Oltre tre anni di guerra non sono serviti a niente. Si è ancora convinti di poter vincere. Tolgono soldi agli Stati sociali della UE per aiutare militarmente un Paese destinato alla resa incondizionata. Se non è psicopatologia questa, che cos’è?

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Se le tariffe daziarie previste da Trump non verranno ridotte significativamente alla scadenza della moratoria di 90 giorni, e se nel frattempo non si saranno trovati nuovi partner commerciali, la UE subirà dei contraccolpi di notevole entità, che in questo momento nessuno può quantificare con esattezza. Anche perché qui si ha a che fare con uno statista troppo imprevedibile per essere affidabile.
Purtroppo la gran parte degli statisti europei non è all’altezza della situazione. Non ci si sente uniti come continente. Nessuno è in grado di minacciare delle ritorsioni. Non capiscono neppure, a causa dei loro pregiudizi ideologici, che all’Europa, per trovare un’alternativa convincente agli USA, converrebbe interfacciarsi con Russia e Cina, ma aggiungiamo anche India, Canada e quella associazione commerciale sudamericana detta Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay), destinata ad ampliarsi.
Gli statisti europei non hanno capito che quando gli USA si trovano con l’acqua alla gola, agiscono in maniera istintiva, egoistica, senza curarsi di amici ed alleati. Sono abituati a dominare non a parlamentare. Chi non li segue, viene tagliato fuori.
La guerra tariffaria globale causerà all’UE perdite multimiliardarie. Il trasferimento delle imprese oltreoceano porterà al crollo del modello europeo di welfare universale.
Gli statisti europei dovrebbero dimettersi a catena e farsi sostituire da altri più pragmatici, ma finché non gli arriva una tegola in testa, non lo faranno.
Han compiuto errori catastrofici sin da quando compravano titoli tossici al tempo dei subprime americani. Han condotto politiche disastrose durante la pandemia. Han promosso un progetto ambientalistico troppo ambizioso per essere realizzabile. Han speso un’enormità di soldi per sostenere un Paese neonazista come l’Ucraina, destinato alla sconfitta. E soprattutto han posto assurde sanzioni alla Russia, privandosi di risorse energetiche a basso costo, di mercati di sbocco per le proprie merci, di contratti commerciali agevolati nell’immenso territorio della Federazione.
La nostra Unione Europea può anche sussistere come idea astratta, come progetto teorico, ma nella sostanza va rifatta completamente. Se resta così, è meglio uscirne.
Noi dovremmo avere un respiro che va “da Lisbona a Vladivostok”, diceva de Gaulle. Invece ci accontentiamo di guardare il nostro ombelico.

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Tutti sanno che il riavvicinamento tra Stati Uniti e Cina, iniziato nel 1971, passò alla storia come un modello di diplomazia visionaria in funzione antisovietica, ma anche per fare della Cina un mercato americano.
Per raggiungere questo obiettivo, Washington dovette anzitutto abbandonare la logica dell’opposizione ideologica al comunismo in tutto il mondo. In secondo luogo, dovette concedere alla Cina lo status di nazione più favorita; inoltre le truppe americane si ritirarono da Taiwan nel 1979 e Washington non garantì più ufficialmente la sicurezza dell’isola. Infine la Cina entrò come membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Gli americani smisero di supportare il Vietnam del Sud e ritirarono il loro contingente militare da lì. Non protestarono neppure contro l’occupazione cinese delle isole contese col Vietnam e la cessione definitiva di Hong Kong e Macao (ultimi avamposti coloniali europei in Estremo Oriente). Persino la repressione coi carri armati delle proteste di Piazza Tienanmen nel 1989 non invertì la tendenza al rafforzamento delle relazioni tra i due Paesi.
Con una politica così liberale Washington riuscì a sconfiggere l’URSS durante la Guerra Fredda. Un simile stratagemma, a parti invertite, può ripetersi oggi? Cioè Trump può diventare un altro Nixon, favorendo la Russia contro la Cina? Gli americani non sono come gli europei: mentre pensano ai loro interessi pratici, sanno non essere troppo ideologici.
Tuttavia oggi l’intesa tra Russia e Cina è troppo forte per essere messa in discussione, anche perché è alla base della compattezza e robustezza dei BRICS+. La cooperazione economica tra i due Paesi ha raggiunto proporzioni enormi. Gli analisti prevedono che, se si realizza lo scenario catastrofico delle guerre tariffarie, il volume d’affari tra Stati Uniti e Cina sarà inferiore a quello tra Russia e Cina: cosa che due anni fa sarebbe stata impensabile.

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Sarebbe svantaggioso per la Federazione Russa avere la Cina come avversaria. I due Paesi condividono un confine di 4.209 km. Nessuno dei due avrebbe voglia di tradire l’altro, anche perché entrambi sanno benissimo che sarebbe l’occidente ad approfittarne, e in questo momento di grave debolezza degli Stati Uniti, non avrebbe alcun senso. Gli USA non possono sostituirsi alla Cina nell’interesse economico russo. E la Cina ha già fatto capire di voler rompere i ponti con gli USA finché al potere resta il folle Trump coi suoi dazi.
C’è da dire che in questo momento l’interesse vitale degli USA è almeno la neutralità della Russia in caso di conflitto a Taiwan o in qualsiasi altra parte del Pacifico. La stessa neutralità che Pechino ha dichiarato durante la guerra in Ucraina.
L’Operazione Militare Speciale ha trasformato radicalmente le forze armate russe. Il minimo coinvolgimento di Mosca nei preparativi militari di Pechino potrebbe costare caro agli Stati Uniti. In caso di blocco navale delle coste cinesi, è la Russia a poter fornire alla Cina tutte le risorse naturali di cui ha bisogno, nonché un corridoio logistico per l’Europa. Porti, ferrovie, spazio aereo russi: tutto questo sarà reso disponibile ai cinesi senza alcun problema.
Tuttavia la neutralità della Russia non è una garanzia della vittoria degli Stati Uniti nel confronto con la Cina. Diciamo che è qualcosa senza la quale gli USA perderebbero inevitabilmente.
Ma sarebbe possibile comprare questa neutralità a qualsiasi prezzo? Come minimo si dovrebbero eliminare tutte le sanzioni anti-russe e il sostegno militare all’Ucraina. Lo stanno facendo? In questo momento non ci pensano proprio. Gli USA sono ancora vittime della propria arroganza. Dopo hai voglia a dire, come fa Trump, che se fosse dipeso da lui, la guerra in Ucraina non sarebbe mai scoppiata. Dipende però da lui concluderla, rinunciando a sostenere Kiev. Lo sta facendo? No. E per quale motivo? Perché fondamentalmente è un ipocrita.
Chi ha armato l’Ucraina dal 2014 al 2022? Obama, Trump e Biden. Sotto Trump, nel periodo 2017-20, l’armamento dell’Ucraina è continuato senza problemi, i negoziati Volker-Surkov sul Donbass furono di fatto sabotati, e Trump chiuse un occhio sullo sviluppo del nazismo in Ucraina, sebbene fosse evidente sotto Poroshenko.
Trump ha ignorato anche la mancata realizzazione degli accordi di Minsk da parte di Germania e Francia, che li hanno utilizzati per preparare l’Ucraina alla guerra contro la Russia.
Trump è un fanfarone, non è mai stato credibile.

Occidente al capolinea

Secondo il “Washington Post” lo scenario prioritario per la pianificazione dell’esercito americano è il tentativo della Cina di annettere Taiwan. Cioè se l’esercito americano dovesse impegnarsi in ostilità su larga scala, non avverrebbe in Iran o in Ucraina, ma nello Stretto di Taiwan.
Il Segretario alla Difesa Hegseth ha dichiarato senza mezzi termini nel febbraio scorso che gli USA si trovano al cospetto di un concorrente alla pari, la Cina comunista, e questa avrebbe capacità e intenzioni di minacciare non solo gli USA qua talis, ma soprattutto i loro interessi nazionali fondamentali nell’Indo-Pacifico (si pensi al rapporto con le Filippine e con altre isole contese nel Mar Cinese Meridionale). Ecco perché sono costretti a dare priorità alla guerra di deterrenza nel Pacifico.
Se questo non è un atteggiamento imperialistico, che cos’è? Che sta facendo l’occidente? Gli USA hanno intenzione di guerreggiare con la Cina, lasciando alla UE il compito di prendersela con la Russia e a Israele quello di spadroneggiare in Medioriente? Si stanno mettendo d’accordo nel ripartirsi le zone geo-strategiche d’influenza per un conflitto risolutivo entro i prossimi anni? Si stanno impegnando in maniera decisiva in un riarmo generalizzato contro i loro nemici storici? contro il cosiddetto “impero del male”? Ma che cos’è questo: uno scenario apocalittico neotestamentario?
Oppure queste sono tutte spacconate per porre delle basi chiaramente dittatoriali all’interno dei singoli Paesi occidentali, che non sanno più come fare a garantire i livelli tradizionali di benessere?
Sinceramente parlando, ritengo che gli USA non abbiano abbastanza potere per contenere da soli l’espansione cinese, poiché Pechino sta costruendo stretti legami con Mosca. La convergenza dei due grandi imperi – russo e cinese – rende impossibile la vittoria degli Stati Uniti. Se poi le nazioni dei BRICS+ decidessero di stipulare degli accordi di tipo militare che non siano bilaterali ma multilaterali, è l’intero occidente che non avrebbe alcuna possibilità di successo.

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La leadership cinese si sta imponendo nel mondo senza particolare clamore. Noi occidentali invece, nel passato, avevamo bisogno di fare delle crociate, di diffondere ai primitivi e ai pagani la teologia del “Verbo”, cattolica o protestante che fosse. Abbiamo cercato di cristianizzare il pianeta nel momento stesso in cui cercavamo di conquistarlo.
La Cina invece appare più laica, estranea a queste pretese ideologiche. Quando si rivolge all’Asia occidentale, al Sud-est asiatico, all’Africa, all’America Latina e al Pacifico, fa capire chiaramente che non ha intenti colonialistici, come gli europei o gli americani (ma mettiamoci dentro anche i nipponici).
L’intento dei cinesi è quello di fare affari reciprocamente vantaggiosi. Creano strutture e infrastrutture, favoriscono l’industrializzazione e i servizi sociali dei Paesi con cui vengono a contatto, s’impegnano in ingenti investimenti. Lavorano sottobanco, senza esporsi mediaticamente. Somigliano alla borghesia dei tempi feudali, quando comandava l’aristocrazia terriera, che amava vivere di rendita sulle spalle dei contadini. Anche a noi occidentali piace fare i rentier.
I cinesi invece stanno cominciando a dirci che il vero potere economico-produttivo ce l’hanno loro. A noi è rimasto quello politico-militare e, in aggiunta, quello finanziario, tipico del mondo moderno. Ma stiamo diventando per loro e per l’intero Sud Globale un freno allo sviluppo, un intralcio insopportabile. Stiamo diventando obsoleti.
Sotto questo aspetto quando senti declamare e osannare le conquiste culturali e scientifiche del nostro passato, hai la netta sensazione che ci stiano guardando con pietà e commiserazione, come quando si guarda un anziano che non sa più quel che dice.
Non ci rendiamo conto che il meglio di noi l’han già preso gli altri, buttando via tutto il resto; e il meglio lo stanno usando contro di noi, per sostituirci, proprio perché noi vogliamo conservarlo come se fossimo un aristocratico medievale che vive in un giardino fiorito, mentre il resto dell’umanità non è altro – secondo quel razzista di Borrell – che una jungla.
E che dire di Trump quando accusa gli europei d’essere dei parassiti nei confronti del suo Paese? Perché loro, con la loro moneta, cosa sono e cosa pretendono di continuare ad essere nei confronti dell’intero pianeta? Ma i cinesi ci stanno dicendo che la pacchia è finita per l’occidente collettivo nel suo insieme. Facciamocene una ragione e deponiamo le armi. Per colpa nostra il pianeta ha già versato fin troppo sangue.

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La facciamo tanto grande, ma le cose si ripetono. Il capitalismo, da quello commerciale dei veneziani a quello finanziario degli statunitensi, si è sempre comportato nella stessa maniera. Il Paese che s’accorgeva di non avere più le forze per competere con un altro Paese concorrente, finiva col finanziare quest’ultimo, limitandosi a vivere di rendita sulla base degli interessi riscossi.
L’ha fatto Venezia nei confronti dell’Olanda, l’Olanda nei confronti dell’Inghilterra e questa nei confronti degli Stati Uniti. Ora Trump si è accorto che il suo Paese, se non vuole scomparire dal novero dei Paesi più potenti del mondo, non può, anzi non deve permettere che la Cina abbia un’industria superiore alla sua. Solo che ormai è tardi. La politica dei dazi è disperata, anzi patetica.
L’occidente euroamericano ha investito molto in Cina (come anche in India, Russia ecc.), sia in termini industriali che finanziari. Sembrava che tutto funzionasse, poiché anche tanti altri Paesi, inclusa la Cina, acquistavano titoli pubblici americani, che offrivano buoni interessi. Erano questi Paesi che tenevano finanziariamente in piedi l’economia americana, che altrimenti sarebbe collassata da un pezzo a causa delle proprie storture interne, dei propri individualismi esasperati.
Oggi tutto questo non funziona più. Soprattutto perché, quando si ha un debito pubblico finanziato da Paesi stranieri, si è facilmente ricattabili. Non sono i cinesi in debito con gli americani, ma il contrario. Chi un tempo era il primo della classe in termini produttivi, oggi è quasi l’ultimo, e pensava di poter restare il primo grazie alle proprie rendite finanziarie o grazie al fatto di aver trasferito le proprie aziende là dove il costo del lavoro era irrisorio, come appunto in Cina.
Ora i cinesi hanno imparato a produrre come e anche meglio degli americani (e degli europei naturalmente), e vogliono essere loro a dettar le regole. E non hanno paura dei grandi oligarchi privati, che coi loro fondi finanziari sembrano avere un potere immenso. I cinesi mostrano di non avere paura di niente e di nessuno. Si sentono un collettivo molto forte, numeroso, organizzato. Saranno loro a gestire il capitalismo nel prossimo futuro. Non aspettiamoci che sarà meglio: sarà solo diverso.

Siamo a una svolta epocale

L’amministrazione Trump ha chiaramente spostato il baricentro della politica estera americana verso l’Indo-Pacifico, identificando nella Cina la vera minaccia alla supremazia globale degli Stati Uniti.
In quest’ottica il teatro europeo appare come marginale, un retaggio del XX sec. che può essere gestito attraverso accordi tra Russia e USA. Il conflitto ucraino rappresenta un dispendio di risorse che gli USA non possono più permettersi. Per loro è stato un cattivo investimento e vogliono persino i soldi indietro con gli interessi.
Naturalmente se in quest’ultimo triennio l’Ucraina avesse vinto, sarebbe stato diverso. Il Paese avrebbe potuto essere sfruttato in tutte le sue risorse e in tutta la sua estensione.
Se veramente Trump voleva fare un favore ai suoi alleati, li avrebbe trattati con più riguardo nella recente politica tariffaria, anche perché la NATO ha una fisionomia globale e potrebbe servire in uno scontro militare con la Cina. Invece per lui la battaglia è contro il mondo intero.
Il vero problema però si pone a un duplice livello: né la UE né la NATO potranno mai vincere militarmente contro la Russia; neppure gli USA potranno mai vincere economicamente contro la Cina. Occorrono compromessi, per i quali gli USA appaiono più attrezzati della UE.
Sembra che Trump e Putin vogliano far nascere una nuova Yalta, in cui la UE assume il ruolo di un continente da sistemare, esattamente come l’Ucraina. La UE si trova nella scomoda posizione di dover gestire le conseguenze di un conflitto che altri stanno decidendo come concludere.
I missili russi sono talmente potenti e veloci che non riusciremmo nemmeno a porci la classica domanda: “E adesso cosa facciamo?”
A noi europei non resta che riprendere i rapporti commerciali con loro. Non abbiamo alternative. Dobbiamo togliere le sanzioni, riacquistare il loro gas, e restituire i 300 miliardi di dollari confiscati.
Anche l’Ucraina dovrà subire una “pace” imposta dall’alto, che lascerà Kiev con un territorio mutilato e una sovranità limitata.
Prima però dobbiamo sostituire tutti gli statisti russofobi che ci governano. Non sarà facile.

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I recenti dazi commerciali imposti da Trump non sono semplicemente misure economiche protezionistiche, ma segnali del progressivo disimpegno americano non solo dall’Europa, ma potenzialmente anche dalla NATO.
Oggi, lontano dai riflettori, Trump e Putin sembrano impegnati a definire nuove sfere d’influenza, tracciare nuovi confini, stabilire nuove regole del gioco.
In questo scenario l’Ucraina diventerà il prezzo da pagare per un accordo più ampio. Gli Stati Uniti riconosceranno il controllo russo a est del Dnepr in cambio di garanzie da parte di Mosca su altre questioni strategiche, tra cui quella irrinunciabile per la Russia: la rinuncia dell’Ucraina alla NATO.
Putin a quel punto potrà anche dimettersi, poiché avrà ottenuto ciò che non avrebbe mai permesso a se stesso di perdere: appunto l’area russofona dell’Ucraina.
In questa maniera il mondo sarà più sicuro? Dipenderà dall’occidente, che in questo momento si sta comportando come un animale gravemente ferito, che ha bisogno di cure immediate.

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La Cina metterà molto presto gli americani con le spalle al muro sul piano commerciale, dimostrando che la produzione industriale è molto più importante della speculazione finanziaria. La guerra civile sembra essere alle porte e cosa faranno gli USA per evitarla non si sa. Probabilmente concederanno più poteri alle forze armate.
Ora vediamo le sicure ritorsioni cinesi.
1. Le fabbriche cinesi producono la stragrande maggioranza dei giocattoli, dei cellulari e di molti altri prodotti acquistati dagli americani. Dal fast fashion alle console per videogiochi, tutto diventerà più costoso.
2. Qualsiasi americano il cui sostentamento dipende dalle vendite sul mercato cinese è probabilmente in preda al panico in questo momento, che si tratti di petrolio, aerei o soia (le tre principali esportazioni americane).
Durante la guerra commerciale del suo primo mandato, quando i dazi erano molto più bassi, Trump dovette spendere 28 miliardi di dollari per sostenere gli agricoltori americani.
Pechino rimane il terzo mercato di esportazione per i prodotti americani.
3. La Cina ha aggiunto 12 aziende statunitensi a una lista di controllo dell’export, limitandone le spedizioni dalla Cina, e ha aggiunto sei aziende del settore difesa e aviazione a una “lista di entità inaffidabili”, vietando loro di fare affari in Cina.
Negli ultimi anni la Cina ha perfezionato questo insieme di strumenti (controlli sulle esportazioni, liste nere e indagini) per prendere di mira singole aziende americane.
Molte delle più grandi aziende americane dipendono fortemente dal mercato cinese.
4. In risposta ai dazi di Trump la Cina ha ulteriormente limitato le esportazioni di minerali di terre rare, un settore in cui domina incontrastata.
Gli USA dipendono fortemente dalla Cina per i componenti chiave con cui producono di tutto, dai semiconduttori ai razzi e alle turbine eoliche. Un divieto assoluto sull’esportazione di alcuni metalli delle terre rare potrebbe compromettere la produzione in settori chiave.
5. La Cina è pronta a svendere 761 miliardi di dollari in obbligazioni statunitensi in suo possesso.
6. La Cina può svalutare tranquillamente la propria moneta nazionale.
7. La Cina è un mercato chiave per i film, gli sport e altri prodotti d’intrattenimento americani, e Pechino non esiterà a usare questa leva per influenzare ciò che appare sugli schermi.
Trump sta per compiere nei confronti dei cinesi lo stesso errore che gli europei hanno compiuto nei confronti dei russi.
Nell’attuale capitalismo gli oligarchi dominano incontrastati e per loro, in un certo senso, è indifferente chi governa la politica. Chissà se faranno in tempo a ricredersi?

Strategie e prospettive

Mi fa abbastanza paura la prospettiva americana che vede nella Cina il suo principale avversario economico (e forse militare) e che lascia all’Unione Europea il compito di affrontare militarmente la Russia, facendole credere che questa potrebbe avere mire espansive nel mondo Baltico o in Moldavia o in Finlandia.
Il fatto che negli attuali negoziati tra USA e Russia siano completamente esclusi sia gli europei che il governo di Kiev è piuttosto preoccupante. Si sta decidendo qualcosa di importante sulle loro teste. D’altronde né gli europei (salvo eccezioni) né gli ucronazi sono disposti a trattative: si sono tagliati fuori da soli. Sconcertante è la loro mancanza di diplomazia e di senso della realtà.
A questo punto pare evidente che l’Ucraina verrà suddivisa in due parti: una a est del Dnepr, gestita dai russofoni, e una a ovest, gestita dagli americani, che rivogliono i soldi indietro, quelli prestati in oltre tre anni di conflitto e che il governo di Kiev pensava fossero a fondo perduto.
Tutta l’area ovest dovrà essere completamente smilitarizzata. Gli europei potranno partecipare al suo saccheggio se gli americani glielo permetteranno. Odessa passerà giuridicamente sotto i russi, per permettere di unire il Donbass alla Transnistria, anche se sul piano economico si permetterà alla suddetta area occidentale di usare i suoi porti, altrimenti l’Ucraina non potrà più riprendersi e forse addirittura cesserebbe di esistere come Stato politico.
È incredibile come i calcoli completamente sbagliati degli occidentali circa la capacità di resistenza dei russi sul piano economico, finanziario, sociale e militare, abbiano prodotto uno sconvolgimento così epocale sui destini dell’umanità, soprattutto sulla tradizionale egemonia globalista dell’anglosfera.
Sintomatico inoltre il fatto che gli americani, quando vedono la mala parata, facciano molto presto a mutare atteggiamento, confidando di poter far valere i loro interessi in altri modi, mentre gli europei preferiscano restare legati ai loro pregiudizi ideologici (quelli russofobici) che tanto male fanno ai loro interessi. La UE si vanta di avere la saggezza di un anziano e guarda con sufficienza la spregiudicatezza del proprio figlio americano. Ma che gli statisti europei siano più saggi di quelli americani solo uno stupido può crederlo. Almeno per adesso.

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Quando si vive in un villaggio globale, dove tutto è interconnesso, la cosa da temere di più sono i giochi sotto banco tra i capi tribù più influenti. Cioè quelle intese che non vengono dette esplicitamente o integralmente al popolo, ma che avranno un peso sulla sua vita per gli anni a venire. La mancanza di trasparenza è una caratteristica di questo mondo, dominato dall’interesse.
In tal senso non mi meraviglierei più di tanto che una delle condizioni per far finire la guerra in Ucraina sia quella di permettere agli USA di vendere alla UE il gas russo attraverso il gasdotto del Nordstream. Oppure che gli USA allentino la stretta dei dazi nei confronti della UE a condizione che la UE assicuri che comprerà il loro costoso gas liquido per il prossimo decennio. Oppure che gli USA alleggeriscano la pressione dei loro dazi sulla Cina, a condizione che questa, con le sue merci sottocosto, in grado di soddisfare qualunque esigenza, si rivolga soprattutto al mercato europeo, destabilizzando le imprese autoctone. Oppure che Russia e USA si mettano d’accordo nello spaventare militarmente la UE, inducendo quest’ultima a comprare più armi dagli stessi americani.
Nel mondo di oggi i popoli raramente possono esercitare la loro sovranità, e i poteri forti, se non obbedisci alla loro volontà, fanno presto a usare le maniere pesanti.
In questi rapporti basati sulla forza, dove il diritto è un semplice paravento, la democrazia non viene concessa da nessuno: o un popolo se la conquista usando la forza, oppure resta servo. Si tratta soltanto di capire fino a che punto siamo disposti a lottare. Questo perché con le armi oggi esistenti, i disastri umani, materiali e ambientali saranno apocalittici. Quanto, in questi ultimi tre anni, è successo in Ucraina o a Gaza, potremmo vederlo come una pallida anticipazione. Questo naturalmente a prescindere dalle considerazioni che soggettivamente si possono fare sulla bontà o cattiveria delle parti in causa, ma semplicemente limitandosi a guardare l’esito finale nell’uso delle armi distruttive. Togliere la vita a migliaia di persone o traumatizzarle per tutta la vita, o riportarle – come spesso si dice – all’età della pietra, son cose che si fanno in un tempo incredibilmente breve. Certo, già nella seconda guerra mondiale ci eravamo accorti di questa cosa, ma, a quanto pare, le promesse che ci eravamo fatti di non ripetere gli errori compiuti, erano solo da marinaio.
Ora però dobbiamo deciderci se guardare le cose dalla finestra o se uscire di casa.

Sembriamo un malato terminale impazzito

Sembra che siano gli USA il fattore principale dei cambiamenti che stanno avvenendo nel mondo. Sembra che la Russia si senta obbligata a scendere a patti con loro per porre fine alla guerra in Ucraina. Sembra che la UE si senta in dovere di reagire a quello che percepisce come un tradimento da parte degli USA, il cui presidente si mette a negoziare con Putin, cioè con quello statista che fino a qualche mese fa veniva considerato un autentico mostro.
Sembra che molti statisti cosiddetti “volenterosi” della NATO vogliano comportarsi nei confronti dell’Ucraina in maniera più giusta di quanto dimostri Trump. Nel senso che sarebbero disposti a inviare le loro truppe, direttamente, intenzionalmente, sul territorio ucraino, per difendere la “democrazia”. Vogliono dare un esempio a Trump di come lui dovrebbe comportarsi, anche se lui ha già detto che non invierà mai le proprie truppe in Ucraina. Lui ha fatto chiaramente capire di voler essere più concreto, più realista: vuole affrontare la questione della pace come un affarista, proponendo alla Russia accordi commerciali vantaggiosi.
Sembra che Trump e il suo staff detestino gli europei: infatti vogliono imporre dazi su molte delle loro merci, inducendoli a trasferire le loro imprese negli USA; vogliono obbligarli a spendere di più per le basi della NATO, minacciandoli che, se non lo faranno, loro se ne andranno, lasciandoli soli a combattere l’orso russo; e non li vogliono tra i piedi quando patteggiano coi delegati di Putin. Questo perché Trump si è reso conto che al mondo esistono poche vere potenze e che non ha alcun senso che queste potenze si ammazzino tra loro. E gli USA sanno che la UE sul piano militare conta assai poco.
Sembra anche che gli statisti europei non si rendano conto che il loro vero nemico non sono i russi ma gli americani. Anzi sono convinti che gli USA, pur volendo fare i loro esclusivi interessi, siano comunque da preferire alla Russia, vista sempre come un nemico che vuole arrivare a Lisbona.
Mi chiedo in quale mondo di matti si stia vivendo. Cosa vuol dire essere “occidentali”? Che senso ha autodistruggersi o semplicemente illudersi in questa maniera? Come può pensare Trump di arrivare alla pace sulla base di accordi puramente commerciali? E come possono pensare gli europei di vincere una guerra contro una potenza che potrebbe schiacciarli in pochi giorni, forse in poche ore?
Possibile che una guerra, che apparentemente per noi europei sembrava essere “regionale”, cioè qualcosa tra “slavi”, abbia avuto in sé un potenziale così altamente esplosivo, così enormemente destabilizzante da modificare in un triennio l’intera geopolitica mondiale? Che sta succedendo? Se scoppia un altro caso come questo, per es. a Taiwan o nell’Artico o nel Mar Baltico, chi riuscirà a salvarsi? Quante micce ci vogliono per far scoppiare un conflitto mondiale? Sembriamo un malato terminale che, dopo aver vissuto da egoista tutta la vita, piuttosto che cedere l’eredità ai figli, la sperpera al casinò.

Mi piace come scrive Gerry Nolan

Ciò che si sta svolgendo in Serbia non è una rivolta spontanea, è un’operazione di cambio di regime da manuale, eseguita dalle stesse reti di intelligence anglo-americane che hanno trasformato in un’arma la “democrazia” dall’Ucraina alla Georgia.
Secondo il vice premier serbo Aleksandar Vulin, le proteste di massa in corso guidate dagli studenti sono l’ultima puntata di una “rivoluzione colorata” sostenuta dallo stato profondo degli Stati Uniti e dai servizi segreti europei. Il loro obiettivo è quello di frantumare la sovranità della Serbia, rovesciare il suo governo e installare un regime fantoccio euro-atlantico compiacente che rispetterà la linea delle sanzioni anti-russe e dell’integrazione nella NATO. Anche senza impronte digitali palesi dell’USAID, i soldi del bilancio nero trovano sempre la loro strada.
La Serbia deve diventare un altro nodo obbediente dell’ordine neoliberista. L’accetterà la Russia? Dipende se gli statisti serbi vorranno realizzare un accordo strategico anche sul piano militare.
Intanto, mentre Trump lavora per negoziare la fine della guerra in Ucraina, gli stessi elementi del Deep State, che temono la pace, stanno accendendo incendi altrove per mantenere instabile l’Eurasia e circondare la Russia.
Se non verrà formato un nuovo governo entro i prossimi 30 giorni, seguiranno elezioni anticipate. E si può scommettere che tutto il peso dell’ingerenza occidentale sarà riversato su qualsiasi candidato prometta di recidere i legami storici della Serbia con la Russia e di sottomettersi completamente a Bruxelles e Washington.
Ciò a cui stiamo assistendo è un’operazione di guerra ibrida in pieno giorno, una fusione di lamentele organiche, guerra psicologica, agitazione della quinta colonna e coordinamento dell’intelligence transnazionale. Da Maidan a Kiev alle piazze di Belgrado, la sceneggiatura non è cambiata, solo il cast.
Tuttavia non siamo nel 1999. La gente si sta svegliando e l’era dell’impunità imperiale è finita.
A ciò possiamo aggiungere:
Ricordiamo tutti quando la decisione di bombardare l’allora Jugoslavia fu presa per la prima volta nella storia senza l’approvazione del Consiglio di sicurezza dell’ONU. L’ordine fu dato dal Segretario generale della NATO e dai criminali di guerra Javier Solan e Wesley Clark.
Ben 19 Paesi parteciparono a 2.300 attacchi aerei. Si utilizzarono missili da crociera, bombe a grappolo e munizioni vietate con uranio impoverito.
L’aggressione distrusse o danneggiò 25.000 edifici residenziali, 470 km di strade e 595 km di ferrovie, 14 aeroporti, 19 ospedali, 20 centri sanitari, 18 asili, 69 scuole, 176 monumenti culturali, 82 ponti, 1/3 della capacità elettrica del Paese, due raffinerie a Pančevo e Novi Sad. Tra feriti e morti, civili e militari, si superarono le 14.000 persone.

Libro bianco per la difesa europea

Il Libro bianco per la difesa europea (ReArm Europe Plan/Readiness 2030) è una follia all’ennesima potenza. Lo si vede sin dalla premessa: “L’Europa deve investire nella sicurezza e nella difesa del continente, continuando al contempo a sostenere l’Ucraina per difendersi dall’aggressione della Russia.”
A parte che UE ed Europa non coincidono, ma dove sta scritto che la Russia ha intenzione di attaccare l’Europa? Quale è il documento del Cremlino che lo dice? Quali sono le parole di Putin?
E poi tutta questa fretta che ha la von der Leyen di armare la UE, da dove viene? Forse da un sentimento di frustrazione per aver perso clamorosamente la guerra per procura in Ucraina? La UE è già molto armata con la NATO. In questo folle documento non viene detto che la NATO va chiusa o superata. Gli USA non hanno detto di voler uscire dalla NATO, né la UE ha intenzione di farlo.
È chiaro dunque che sotto ci sono altre intenzioni. Secondo Alessandro Volpi sono di tipo finanziario. La UE sta creando una bolla finanziaria attraverso lo strumento delle armi. L’Ucraina è solo un pretesto. Darle 2 milioni di proiettili di artiglieria all’anno non servirà a nulla. La guerra l’ha già persa e continuerà a perderla, con o senza NATO, con o senza Unione Europea, con o senza von der Leyen. Russia e Bielorussia sono nemici completamente inventati.
Questi scriteriati che han redatto il documento non si rendono conto che non ha alcun senso economico investire così tanto nella difesa per rilanciare l’industria. Ad un certo punto le armi andranno usate per forza. Non potranno essere vendute a nessuno se serviranno per difenderci dalla Russia.
Insomma gli statisti folli della UE hanno intenzione di dissanguarci come un vampiro, poiché le spese per la difesa andranno tolte dai bilanci pubblici.

Russia, Bielorussia e Ucraina

La Bielorussia sta diventando un partner strategico-militare della Russia sempre più importante. Lukashenko e Putin han finalizzato i piani per posizionare i missili ipersonici Oreshnik sul suolo bielorusso entro la fine dell’anno.
Mosca aveva già dimostrato la grande efficienza di questo sistema missilistico in un attacco a una fabbrica militare ucraina nello scorso novembre, aggirando completamente le difese aeree occidentali.
L’impiego di queste armi ipersoniche è una risposta diretta all’incoscienza della NATO, che ha autorizzato il governo di Kiev a compiere attacchi terroristici all’interno della Russia, dotandola di armi in grado di raggiungere Mosca e San Pietroburgo.
Ora è l’Europa a essere indifesa. Il sistema Oreshnik rende obsoleti gli scudi di difesa missilistica della NATO e può colpire in pochi minuti Berlino, Varsavia e Londra. Ormai non si tratta più solo dell’Ucraina, ma del nuovo equilibrio militare in Europa dettato da Mosca.
La stessa BBC ha ipotizzato un “endgame 2025” per l’Ucraina. A dir il vero la stessa macchina della propaganda occidentale, incapace di negare l’inevitabile, è arrivata alla fine dei giochi. Sta per crollare l’idea di una guerra per procura progettata sulle spalle degli ucraini, cui era stato detto che stavano combattendo per la democrazia, e che però stanno morendo per l’arroganza della NATO.
Ora nessuno si faccia illusioni: non sarà Trump a decidere la pace né Kiev in grado di fare pressioni su Mosca affinché faccia delle concessioni.
Persino Podolyak, consigliere di Zelensky, ha ammesso tacitamente che “non può aver luogo alcun processo di negoziazione”.
Per quanto tempo ancora il mainstream occidentale potrà impedire di credere che questa disfatta totale non sia un’umiliazione cosmica creata dallo stesso occidente? L’impero delle bugie sta crollando in tempo reale.

* * *

Nel centro di Odessa è stato ucciso a colpi di pistola l’attivista ultranazionalista Demyan Ganul, ex membro di Settore Destro, uno degli organizzatori dell’incendio doloso della Casa dei sindacati il 2 maggio 2014, dove morirono circa 50 persone.
Zelensky ha detto che l’assassino del neonazista è stato arrestato.
Ganul aveva già pubblicamente affermato di non considerare “persone” le vittime di Odessa ed era noto per aver picchiato i residenti quando parlavano russo; aveva anche distrutto diversi monumenti sovietici e russi in città.
Sarà bene ricordare che il principale organizzatore del massacro fu Andrej Parubij, ex presidente del parlamento ucraino.
Questo per dire che se il governo ucraino non si sbriga ad arrendersi, ora che ha l’esercito in rotta, le vendette private per i torti subiti dopo il 2014, saranno all’ordine del giorno, anche perché nessun neonazista è mai stato condannato per le atrocità commesse. Nel luglio 2024 a Leopoli è già stata uccisa Irina Farion, le cui attività avevano in gran parte portato all’emergere delle basi ideologiche dell’attuale regime di Kiev.
Va poi detto che, sullo sfondo di numerose leggi discriminatorie, frontiere chiuse e rapimenti di uomini da mandare al fronte, saranno in molti, tra gli ucronazisti, a rischiare la pelle. Queste vendette private le abbiamo già viste anche in Italia, quando crollò il fascismo.
Insomma, se a Kiev, città del golpe, va ripristinata la democrazia, a Odessa, città della prima strage degli ucraini filorussi, va ripristinata la giustizia.

* * *

A quanto pare non è affatto vero che le forze armate ucraine si stiano “ritirando” da Kursk come gesto di distensione in vista dei colloqui di pace. Quella in realtà è una specie di Caporetto. Migliaia di soldati sono rimasti intrappolati nella rocambolesca avanzata russa a Sudzha. Circa 67.000 erano già morti negli scontri precedenti.
Verrebbe quasi da ridere, se non ci fosse da piangere, al pensiero che l’impresa di Kursk doveva essere, nelle intenzioni di Zelensky (che poi in realtà erano quelle della NATO), una grande operazione di scambio di territori tra Mosca e Kiev e un’importante leva contrattuale per l’Ucraina nella fase dei negoziati.
Ora Trump, sapendo bene che tra gli ucraini molti fanno parte della NATO, sta chiedendo a Putin di risparmiare la vita ai sopravvissuti. Ma molti di loro si sono resi responsabili di crimini orrendi. Putin potrà evitare di fucilarli sul posto, ma non può certo esimersi dal sottoporli a giudizio, anche perché, secondo il Codice penale russo, vengono tutti considerati terroristi. Quindi l’unica alternativa che hanno è quella di arrendersi.
Insomma Zelensky se ne deve andare, poiché ha combinato in tre anni una serie incredibile di drammi e tragedie. Se si limitava a fare il comico, sarebbe stato molto meglio per lui. Ora se gli USA non lo fanno fuggire, col suo entourage neonazista, sa bene cosa l’attende: un nuovo processo di Norimberga. E in questo processo non potrà dire d’essere stato ingannato da chi gli prometteva una facile vittoria; dovrà anche ammettere d’essersi comportato come una persona cinica e crudele, falsa e ipocrita, e soprattutto ladra.

Una battaglia mondiale per un chip

Il commissario europeo Thierry Breton responsabile della politica industriale della UE, ha detto al quotidiano economico francese “Les Echos”: “Da diverse settimane si registra una penuria di semiconduttori [minuscoli prodotti di silicio che troviamo ormai ovunque] sul mercato mondiale, e questo ha costretto a interrompere l’attività di alcune fabbriche di automobili [dove i chip sono in media 800!] e perfino impianti per la produzione di tostapane. In questa industria l’Europa si è lasciata distanziare per mancanza d’investimenti. La produzione di semiconduttori di ultima generazione si effettua principalmente in Asia, e in particolare a Taiwan, che non può più venderli alla Cina. Soprattutto l’azienda TSMC detiene un quasi monopolio sui semiconduttori di alta gamma. L’azienda statunitense Intel, dominante fino a 10 anni fa, è stata soppiantata. Oggi TSMC produce l’80% dei semiconduttori più sofisticati e si prepara a commercializzare semiconduttori di 3 se non addirittura 2 nanometri [l’unità di misura del settore che corrisponde allo spessore di un capello]. A parte la Corea del Sud nessuno riesce a tenere il passo, neanche la Cina, che oggi è priva dell’accesso all’industria a causa delle sanzioni americane”.

A dir il vero per quanto riguarda la ricerca e progettazione (che non c’entra niente con la fase della fonderia, dell’assemblaggio e imballaggio) gli USA detengono ancora una leadership mondiale, in virtù della quale possono controllare circa la metà delle vendite globali di semiconduttori, contro il 10% della UE e il 5% della Cina. Ben 8 delle 15 più grandi aziende di semiconduttori nel mondo sono negli USA, con Intel prima per vendite annue.

Un quadro radicalmente opposto si delinea invece per quanto riguarda l’attività di fonderia, dominata effettivamente da Taiwan e dalla Corea del Sud, con rispettivamente il 23% e 26% della capacità produttiva del settore. Complessivamente in Asia orientale è concentrato circa l’80% della produzione mondiale di chip. All’interno di questa quota la Cina ricopre il 12%, con una crescita di 10 punti percentuali negli ultimi 20 anni.

La TSMC ha inoltre investito più di 20 miliardi di dollari per la costruzione, nell’area meridionale di Taiwan, di una nuova fabbrica delle dimensioni di 22 campi da calcio, capace di sviluppare le tecnologie a 3nm e 2nm, rispettivamente previste per il 2022 e il 2024.

Parallelamente, USA e UE hanno invece assistito al crollo, negli ultimi tre decenni, della loro quota nella capacità produttiva globale di semiconduttori, da quasi il 40% a rispettivamente il 12% e il 10% circa.

In particolare la UE ha perso la sfida tecnologica per almeno il prossimo decennio, poiché gli investimenti necessari sono colossali. La sola TSMC si prepara a investire 100 miliardi di dollari nel corso dei prossimi tre anni, mentre l’Europa può mettere sul piatto solo una decina di miliardi, più altrettanti di contributi da parte degli industriali. Troppo pochi.

Trump aveva indotto TSMC a costruire una fabbrica in Arizona, con un investimento di 12 miliardi di dollari, per colpire soprattutto il colosso Huawei, accusato dagli USA di collaborare con le autorità cinesi a fini spionistici. I lavori di costruzione (con 1.600 addetti e migliaia di altri nell’indotto) dovrebbe iniziare nel 2021 e la produzione di 20.000 chip al mese a 5 nanometri dovrebbe essere avviata nel 2024. L’impianto sarà la seconda fabbrica della TSMC negli USA. Nel 2017 un’altra big taiwanese, Foxconn, ha annunciato piani per costruire un impianto nel Wisconsin. Anche Intel ha già annunciato un investimento da 20 miliardi di dollari per la creazione di due nuove fabbriche di semiconduttori in Arizona, che dovrebbero iniziare la produzione nel 2024. L’Arizona dovrebbe inoltre accogliere l’impianto da 17 miliardi di dollari di Samsung Electronics. Tutte cose che nella UE ci sogniamo.

Ora Breton vorrebbe convincere i taiwanesi a investire anche in Europa, ma ha già ricevuto un rifiuto: TSMC vuole mantenere l’essenziale della produzione a Taiwan, che però è un’isola rivendicata da Pechino, e l’industria cinese, dopo l’embargo americano sui dazi, ha assolutamente bisogno di quei semiconduttori, anche perché in questo settore patisce diversi anni di ritardo. Infatti ne ha ammassato le scorte prima del blocco e sta investendo nella propria autosufficienza. Poi è venuta la pandemia che ha provocato un incremento nell’uso di materiale informatico.

Insomma ce n’è abbastanza per far scoppiare una guerra, anche perché questo settore tecnologico vale 440 miliardi di dollari di fatturato annuo, ed è in costante crescita (+7,7% previsto nel 2021). Infatti i semiconduttori sono una componente cruciale per smartphone e computer, che insieme costituiscono i 3/5 degli acquisti globali di chip, ma anche per l’industria automobilistica (10% del mercato). In campo militare, poi, sono assolutamente necessari per modellare le traiettorie di missili e droni da combattimento.

Washington mette in pericolo la sopravvivenza di Huawei, orgoglio dell’economia cinese, numero uno al mondo nei dispositivi telefonici e pioniere nella tecnologia 5G, con un giro d’affari globale di oltre 100 miliardi di euro e circa 200.000 dipendenti. E Huawei, già costretta a vendere il suo marchio di smartphone Honor per evitarne il fallimento, è solo la punta dell’iceberg di quella che è ormai una guerra aperta in campo tecnologico. Ricordiamo che un anno e mezzo fa gli USA han fatto arrestare a Vancouver la direttrice finanziaria di Huawei, nonché figlia del fondatore, con l’accusa d’aver violato le sanzioni contro l’Iran.

Pechino infatti sta già prendendo misure ritorsive: bloccherà o rallenterà le esportazioni di terre rare, la famiglia di 17 minerali usati in settori strategici, a cominciare da quello degli armamenti. Servono 435 grammi di questi minerali per fabbricare un aereo da combattimento statunitense F-35. E si può facilmente prevedere che Pechino troverà il modo per piegare Taiwan alle proprie esigenze, anche perché l’isola non può fare a meno del mercato cinese,

Ricordiamo che nel 2010, durante un periodo di tensioni, la Cina aveva già privato il Giappone delle terre rare. All’epoca ne controllava il 95% del mercato; oggi ne controlla ancora l’80%. Ma questa volta sono gli occidentali che stanno cercando di ridurre la loro dipendenza.

URGE UNA PROFONDA REVISIONE DELLE REGOLE ECONOMICHE DELL’UNIONE EUROPEA!

Di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

 Il messaggio del presidente Mattarella per il riesame delle regole del Patto di stabilità, allo scopo di rinnovare la coesione europea e indirizzarla verso la crescita e gli investimenti produttivi, può aprire una stagione di grandi cambiamenti e innovazioni in tutti i campi della politica e dell’economia. Il Presidente interpreta bene le esigenze del nostro popolo e, soprattutto, la delicatezza della situazione che potrebbe minare l’unità dell’Unione europea.  Infatti, il momento economico è difficile per tutti i paesi dell’Ue, colpiti dalla recessione, dalla deflazione e da ondate destabilizzanti di guerre doganali. Ciò, però, potrebbe augurabilmente consentire a dare la spallata definitiva all’assurda politica dell’“austerità a tutti i costi”.

 Negli anni scorsi anche noi abbiamo sovente rilevato le esigenze più stringenti che in Europa si dovrebbero affrontare. Anzitutto sottrarre gli “investimenti per la crescita”, quelli in infrastrutture, reti, innovazione, educazione e ricerca, alla logica delle spese correnti, alle restrizioni di bilancio e al calcolo del deficit. Il rigore non può essere fine a se stesso. E’ da prima dell’Accordo di Maastricht che la politica economica dell’Ue è stata improntata all’esclusiva bussola dell’austerità. Oggi, per fortuna, anche gli economisti monetaristi riconoscono l’errore e ne ammettono il fallimento.  Tra l’altro, occorrerebbe ridefinire, con responsabilità e coraggio, anche la cosiddetta politica del bail in, che, in caso di crisi bancaria, prevede il coinvolgimento di azionisti, obbligazionisti e correntisti della stessa banca. Fu introdotto nel 2016, quando era previsto soltanto il salvataggio con soldi pubblici.  

 Ora, a nostro avviso, sarebbe necessario introdurre la “separazione bancaria” tra le banche d’investimento e quelle commerciali. Le eventuali operazioni speculative dovrebbero essere consentite soltanto alle banche d’investimento. Alle altre, invece, dovrebbe essere vietato. Il risparmio delle famiglie andrebbe, quindi, maggiormente tutelato. Un bail in più duro dovrebbe essere applicato alle banche d’investimento che intendano usare i loro capitali per operazioni rischiose e speculative. 

 Per aiutare la ripresa economica si potrebbe, inoltre, come più volte in passato indicato, fare ricorso agli eurobond. Sebbene reputiamo ancora difficile e lontana la piena trasformazione dei debiti nazionali in debito europeo, gli eurobond di project financing, cioè obbligazioni europee mirate a specifici investimenti produttivi, potrebbero essere attivati da subito. Gli eurobond sarebbero emessi dalla Banca Europea degli Investimenti (Bei) e acquistati dalla Bce ed eventualmente anche dagli Stati membri.

Finora il Quantitative easing della Bce è stato usato per acquistare titoli di Stato dei paesi Ue, in proporzione al loro livello di Pil, e altri titoli in possesso delle banche europee. Purtroppo, troppo spesso la liquidità ottenuta dalle banche non è stata destinata ai crediti per l’economia reale ma è stata deposita presso la stessa Bce. Sarebbe, invece, opportuno vincolare le politiche monetarie della Bce, e quindi anche il Qe,  direttamente ai programmi di sviluppo economico dell’Ue.

Naturalmente l’Europa non può sottovalutare i gravi problemi della fiscalità e la necessità della lotta contro l’evasione e l’elusione. Si stima che l’evasione fiscale a livello europeo sia di circa 900 miliardi di euro. La cifra è enorme, in cui la quota italiana è, purtroppo, notevole. 

La tassazione delle grandi imprese multinazionali, che finora hanno cercato abilmente di sottrarsi ai controlli, non è rinviabile. La vera sfida è uniformare i sistemi fiscali dei vari paesi Ue. Del resto non si può ignorare che alcuni paesi – Belgio, Cipro, Ungheria, Irlanda, Lussemburgo, Malta e Olanda – “mostrano tratti da paradiso fiscale e facilitano l’approccio fiscale aggressivo”, come dice anche il rapporto preparato da una commissione del Parlamento europeo.

L’Europa deve sempre più essere la nostra casa comune. Perciò, a partire dall’Italia, è dovere di tutti mantenerla, cambiarla e migliorarla. 

 *già sottosegretario all’Economia

 **economista

 

 

 

 

 

 

BIGLIETTO VERDE E PERICOLI PER LA VOLATILITA’ MONETARIA INTERNAZIONALE

Ruolo del dollaro e volatilità monetaria internazionale

Paolo Raimondi* Mario Lettieri** 

Il 2015 potrebbe segnare l’inizio di profondi rivolgimenti monetari con effetti economici planetari. I segnali in tale direzione non sono stati pochi. Soprattutto nelle economie emergenti, dove flussi repentini di capitali in entrata ed poi in uscita, si sono verificate pesanti svalutazioni. E’ stato l’effetto della grande liquidità creata dalla Federal Reserve negli Stati Uniti. Adesso nel ciclone potrebbero entrarci direttamente il dollaro e l’euro.

Anche gli economisti della Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea hanno cercato di dare una spiegazione al fatto che, mentre l’economia americana rappresenta meno di un quarto del Pil mondiale, le riserve mondiali in dollari sono ancora più del 60% del totale. Questo livello si è mantenuto negli anni, nonostante che dal 1978 la quota del Pil americano sul totale mondiale si sia ridotta del 6% e nonostante che il dollaro sia diminuito in media del 24% rispetto alle maggiori valute.

Ciò, secondo gli analisti della Bri, dipenderebbe dalla dimensione non dell’economia statunitense bensì della “zona del dollaro”.

Quest’area rappresenterebbe ancora oltre la metà dell’economia mondiale. In essa rientra, ad esempio, tutta quella parte di economia e di commercio dei vari Paesi del mondo che viene contrattata in dollari. Per cui componenti significative delle riserve di molti Paesi sono tenute in dollari in quanto gli interventi nei mercati dei cambi vengono gestiti in dollari, cioè nella divisa con la quale si negozia maggiormente la moneta nazionale.

Confrontando l’attuale situazione anche con le tendenze storiche riguardanti il ruolo di moneta di riserva della sterlina tra le due passate guerre mondiali, la Bri conclude che le quote delle varie valute nei panieri delle riserve monetarie potrebbero in futuro modificarsi molto rapidamente.

Una delle principali ragioni di tale cambiamento potrebbe essere la decisione della Cina di negoziare una parte crescente del suo commercio in renminbi o in monete di altre nazioni. Se il renminbi evidenziasse un movimento sostanzialmente indipendente rispetto alle principali valute e se le monete dei Paesi vicini e dei partner commerciali della Cina condividessero un tale movimento, si potrebbe determinare una “zona del remninbi” simile a quella del dollaro. In tal caso, i gestori delle riserve ufficiali potrebbero scegliere di detenere una quota considerevole di renminbi, forse non troppo diversa dal peso delle rispettive monete all’interno della citata zona.

Dopo le sanzioni, anche la Russia sta pensando di rendersi, per quanto possibile, sempre meno dipendente dal dollaro e dalle riserve in dollari. Prima dell’inizio della crisi ucraina ne deteneva circa 90 miliardi. Il comportamento dell’Europa purtroppo non aiuta, per il momento, all’individuazione dell’euro come principale moneta di riserva alternativa da parte della Banca Centrale russa.

Anche la recente decisione della Banca Nazionale Svizzera di sganciarsi dal cambio fisso con l’euro e di lasciare fluttuare liberamente il franco sta creando dei terremoti all’interno del sistema monetario internazionale. In poche ore il franco si è rivalutato di circa il 20% nei confronti dell’euro e del 17% rispetto al dollaro.

La decisione della Bns è avvenuta il 15 gennaio scorso, esattamente il giorno dopo il parere espresso da un rappresentante del consiglio degli avvocati della Corte di Giustizia dell’Ue secondo cui le cosiddette operazioni monetarie sui titoli (omt) annunciate da Draghi nel 2012 non violerebbero le leggi europee. In altre parole ci si aspetta che il quantitative easing della Bce dovrebbe essere sbloccato. Ciò comporterà l’acquisto da parte della Bce di titoli europei e l’allargamento dei suo bilancio. Di conseguenza una maggiore circolazione di euro avrebbe portato ad una fortissima pressione per una rivalutazione del franco rispetto alla moneta europea.

Come è noto, dopo la decisione svizzera del 6 novembre 2011 di fissare il cambio a 1,20 franchi per 1 euro, la Bns ha dovuto costantemente comprare euro nel tentativo di mantenerne tale livello senza rivalutare. Così nel tempo ha accumulato 220-240 miliardi di euro di riserve. Con il QE di Draghi la Bns avrebbe dovuto accrescere e di molto gli acquisti di euro. Ha invece deciso di gettare la spugna prima anche se ciò ha fatto perdere decine e decine di miliardi sul valore delle sue riserve in euro e anche in dollari. A seguito della rivalutazione della sua moneta la Svizzera teme anche di perdere una grossa fetta delle sue esportazioni con effetti recessivi sulla sua economia. Adesso altre monete, a cominciare dalla corona danese, sono sotto simili enormi pressioni.

A questo punto le continue sortite della stampa ufficiale tedesca, anche se smentite in verità in modo poco convincente, secondo cui Berlino avrebbe cambiato opinione circa la volontà di tenere la Grecia nell’euro, non giovano alla stabilità della moneta europea e di quella dell’intero sistema monetario internazionale.

Tenuto conto della crescente e preoccupante instabilità geopolitica, la volatilità monetaria rischierebbe di portare il mondo verso una crisi inimmaginabile, di sicuro molto rischiosa per l’economia e per gli equilibri politici. Per questa ragione ancora una volta noi riteniamo urgente che i Paesi del G20 inizino a lavorare per la costruzione di un nuovo sistema monetario internazionale multipolare basato su un paniere di monete importanti.

* Economista **già Deputato e Sottosegretario all’Economia

1) – Le sanzioni contro la Russia: un autogol contro la ripresa europea. 2) – Argentina: non è default, ma resistenza contro la speculazione selvaggia. 3) – Fibrillazione nel sistema bancario: anche la Bri teme una nuova crisi. 4) – Agenzie rating: la “mano armata” della finanza speculativa.

OSPITIAMO QUATTRO INTERVENTI DEI NOSTRI COLLABORATORI SPECIALISTI IN ECONOMIA E FINANZA SU ALTRETTANTI TEMI DI GRANDE IMPORTANZA E ATTUALITÀ.

Mario Lettieri* Paolo Raimondi**
*Sottosegretario all’Economia del governo Prodi **Economista

1) – LE SANZIONI CONTRO LA RUSSIA: UN AUTOGOL CONTRO LA RIPRESA EUROPEA.

Le sanzioni contro la Russia per Washington hanno una valenza soprattutto geopolitica.
E’ il ritorno alla guerra fredda tra le due superpotenze. Per l’Unione europea, invece, esse rischiano di creare dei grandi disastri economici e politici per l’intera area euro-asiatica.
La mancanza di “personalità internazionale” dell’Europa è purtroppo nota. Con il suo indebolimento economico, l’Europa rischia anche di sottomettersi ad un nuovo atlantismo. Ciò farebbe piacere a Washington. Le sanzioni di fatto mortificano il ruolo indipendente dell’Ue e ogni sua autonoma visione strategica degli assetti geopolitici da realizzare.

Gli effetti negativi delle sanzioni in Europa, in particolare in Germania, per fortuna stanno però generando un dibattito profondo sul ruolo e sullo sviluppo dell’Ue.
Come è noto l’Ue ha deciso di estendere le sanzioni anche contro le imprese russe, così come già fatto dagli Usa. Washington ha sulla sua “black list” imprese quali il gigante petrolifero Rosneft, quello del gas Novatek, la Gasprombank e la fabbrica di armamenti Kalashnikov. Queste aziende non possono più chiedere prestiti alle banche americane, né vendere titoli di medio e lungo termine a investitori che hanno legami con gli Usa.

In breve si vuole strangolare finanziariamente le imprese e le banche russe che potranno avere sempre meno accesso ai mercati finanziari internazionali. Il rischio però è un boomerang. Gli effetti si sentiranno in tutta Europa, Germania compresa. In Italia si è già toccato l’export di prodotti agricoli e di vino.
La Confindustria tedesca parla di una perdita di 25.000 posti di lavoro. La Deutsche Bank calcola una diminuzione dello 0.5% del Pil tedesco causata dalle sanzioni incrociate. Continua a leggere

1) – La follia dell’uscita dall’euro e della “svalutazione competitiva”; 2) – Le “sviste” di “Chi l’ha visto?” per mandare avanti l’Emanuela Orlandi Show

1) – La follia dell’uscita dall’euro e della “svalutazione competitiva”

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Dopo i recenti exploit populisti in varie regioni europee, anche le elezioni tedesche di settembre potrebbero riservare qualche brutta sorpresa. Infatti in Germania è sorta una nuova formazione politica che mette al centro l’abbandono dell’euro.

Noi riteniamo che si debba dire con chiarezza e documentare con dovizia che l’uscita dall’euro non rappresenta una soluzione ai problemi ma l’inizio di un incubo i cui effetti potrebbero esser ben peggiori di qualsiasi altro scenario.

Non siamo i cantori delle bellezze del Trattato di Maastricht né della “perfezione geometrica” dell’euro. Sappiamo che è stato fatto male, che c’è molto da migliorare. Ma sarebbe pura follia politica ed economica far saltare il processo di unità europea.

Solitamente l’uscita dall’euro viene giustificata con la riacquisizione della sovranità monetaria nazionale e quindi con la possibilità di battere moneta, di emissione di nuovo debito e di svalutazioni competitive.

Queste ultime sono il cavallo di battaglia degli euroscettici, il che rivela una sostanziale ignoranza dei principi basilari dell’economia.

Essi sostengono che il ritorno alla moneta nazionale potrebbe permettere appunto la sua svalutazione, rendendo i prodotti nazionali più competitivi sui mercati internazionali. L’aumento delle esportazioni diventerebbe così il volano della ripresa delle produzioni, dell’occupazione  e dell’intera economia.

La verità è un’altra. Il ritorno alla moneta nazionale, per qualsiasi paese Eu, Italia inclusa, lascerebbe l’intero ammontare del debito pubblico e privato, in larga parte in mani estere, denominato in euro oppure in dollari. Soltanto i cittadini risparmiatori potrebbero convertire i loro risparmi, a cominciare dai bot, in titoli denominati nella nuova moneta nazionale, ma gli altri titoli di debito resterebbero come prima. Comunque la riconversione completa equivarrebbe ad una dichiarazione di default nazionale.

Sarebbe possibile finanziare il debito esistente e aumentarlo, come si propone, soltanto a tassi di interesse molto più alti di quelli attuali. Si ricordi che, dopo la crisi del 1992 e la svalutazione della lira, gli interessi dei bot a breve arrivarono fino al 17%!.

Tutte le importazioni, a cominciare dal petrolio e dal gas, sono calcolate in dollari o in euro. Per l’Italia sarebbe perciò lo sconquasso finale delle sue finanze. Gli aumenti dei costi di importazione e del finanziamento del debito si tradurrebbero inevitabilmente in una inflazione galoppante con una drammatica perdita di potere d’acquisto.

E’ difficile immaginare come si possano così ampliare le fette di mercato per le proprie esportazioni. In questa logica per diventare competitivi occorrerebbe abbattere i costi che ancora una volta colpirebbe il lavoro. Ciò vorrà dire innescare nuovamente quel vortice recessivo fatto di meno reddito, meno consumo, meno produzione, meno entrate fiscali, meno disponibilità di bilancio.

L’economia italiana, sulla scia di quella tedesca, non può competere nei settori legati alle vecchie tecnologie mentre le economie emergenti operano con salari bassissimi. Invece bisognerebbe puntare sulle nuove tecnologie e determinare il prezzo e il mercato sulla base della loro qualità e della loro innovazione.

L’uscita dall’euro anche del più piccolo Paese innesterebbe una reazione a catena che porterebbe progressivamente al collasso dell’Ue. Si metterebbe in moto un’inevitabile guerra commerciale protezionista. Ci rimetterebbero tutti. Anche la Germania.

Sarebbe una destabilizzazione globale! Purtroppo non è impossibile. La storia europea del secolo scorso ha fatto conoscere “cose” che i popoli non avrebbero mai ritenuto possibili.

Certo la situazione attuale non è tollerabile. Non si può permettere che i cittadini siano portati ad una tale disperazione e povertà da voler preferire l’inferno.

A nostro modesto avviso serve più Europa. L’impegno prioritario del costituendo governo dovrebbe mostrare maggiore decisione nel consesso europeo per rendere più efficaci e solidali le scelte politiche ed economiche dell’Unione.

*Sottosegretario all’Economia del governo Prodi **Economista

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2) – Per chi vuole tenersi aggiornato sul modo col quale si continua a mentire sul caso di Emanuela Orlandi in modo da suggestionare il pubblico come fossero tutti beoti e favorire l’audience, ecco un altro bell’esempio:

http://www.blitzquotidiano.it/opinioni/nicotri-opinioni/emanuela-orlandi-chi-lha-visto-flauto-mistero-1538698/