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India e Pakistan ai ferri corti

L’India ha approvato una norma che consente ai cittadini indiani di acquistare terreni nei territori del Jammu-Kashmir, unico stato indiano a maggioranza musulmana (66%), da 70 anni rivendicato dal Pakistan, cioè da quando nell’agosto 1947 i britannici rinunciarono all’India come loro colonia e accettarono di dividere il territorio in due nuovi paesi indipendenti: l’India, a maggioranza induista, e il Pakistan, a maggioranza musulmana (da un pezzo del territorio pakistano nacque poi il Bangladesh, nel 1971). Milioni di persone migrarono da un paese all’altro e ci fu moltissima violenza: i morti furono centinaia di migliaia. Nell’accordo che aveva stabilito la divisione dell’ex colonia britannica non era stata inserita alcuna soluzione per lo stato principesco del Jammu-Kashmir, uno dei 565 domini semi-indipendenti attraverso i quali la corona britannica aveva amministrato i territori indiani non direttamente sottoposti al suo controllo.

A quel tempo il Kashmir era un’area a maggioranza musulmana (contadini poveri) con un sovrano e molti agrari induisti. Nel 1947 sia l’India sia il Pakistan rivendicarono il piccolo stato principesco come proprio sulla base di ragioni religiose e culturali. I pakistani inviarono sul posto un esercito di volontari, mentre il principe locale chiese aiuto all’esercito indiano. Alla fine l’India riuscì a occupare due terzi della regione, mentre il Pakistan si prese il restante terzo.

L’ONU stabilì che la decisione finale doveva spettare alla popolazione locale, ma le elezioni non si tennero mai e la regione del Kashmir rimase divisa in due: da una parte lo stato indiano del Jammu-Kashmir, dall’altra quello pakistano del Gilgit-Baltistan. In mezzo, quella che anni dopo sarebbe diventata la cosiddetta “linea di controllo“.

Ora il nuovo provvedimento cancella il diritto esclusivo per chi è residente permanente nello stato del Kashmir all’acquisto di terreni nello stato stesso.

I politici locali denunciano una costante riduzione dei diritti del popolo del Kashmir da quando, lo scorso anno, è stato abolito lo statuto speciale garantito dalla Costituzione indiana fin dagli anni Cinquanta e che ne faceva una regione autonoma con proprie regole su residenza e proprietà. L’articolo 370 concede allo stato indiano una propria costituzione, una bandiera separata e la libertà di fare leggi, sebbene gli affari esteri, la difesa e le comunicazioni restino appannaggio del governo centrale.

Nell’ottobre del 2019 infatti il parlamento indiano ha diviso lo stato di Jammu-Kashmir in due diversi territori: uno che continua ad avere lo stesso nome e un parlamento statale, mentre l’altro, al confine con la Cina, tra Tibet e Pakistan, chiamato Ladakh, privo di parlamento. Da allora sono entrambi Territori dell’Unione ma governati direttamente dal governo centrale.

Il primo ministro indiano Narendra Modi vuole uniformare le regole in vigore nel Kashmir col resto del paese.

Dagli anni Ottanta il Pakistan ha cominciato a incoraggiare movimenti di guerriglia nel Jammu-Kashmir, che insieme alla brutale repressione dell’esercito indiano hanno provocato la morte di più di 40mila persone.

In questa area i due paesi hanno combattuto altre tre guerre (nel 1965, 1971 e 1999), nelle quali sono morte decine di migliaia di persone: l’ultima si concluse nel 2003.

Nel 2019 Modi ha ordinato un attacco aereo contro il Pakistan, dopo che un miliziano del Kashmir legato a un gruppo pakistano aveva fatto esplodere un’autobomba contro un convoglio militare indiano, uccidendo almeno quaranta soldati.

Durante il primo mandato di Modi il governo indiano aveva iniziato a riscrivere i libri di storia, eliminando molte parti che parlavano dei governanti musulmani, e aveva adottato politiche sempre più favorevoli agli induisti conservatori. Il progetto del premier è quello di cambiare il carattere fondamentale dell’India: da stato laico, voluto dai padri fondatori (tra cui Nehru, il primo capo del governo indiano) a nazione induista. Infatti negli ultimi cinque anni l’India di Modi si è spostata sempre più su posizioni nazionaliste e i gruppi e le organizzazioni indù di destra hanno acquisito sempre più potere.

Molti temono che ora il partito Bharatiya Janata (BJP) di Modi possa adottare nuovi provvedimenti per colpire l’Islam in India, per es. eliminando alcune particolari leggi relative ai matrimoni e alle eredità nelle famiglie musulmane e costruendo un tempio indù ad Ayodhya, sulle rovine di una moschea.

Intanto il governo indiano ha imposto un coprifuoco per evitare manifestazioni, ha interrotto tutte le comunicazioni verso l’esterno, ha arrestato diversi politici locali, anche i più moderati, e ha vietato qualsiasi forma di riunione e protesta.

Il primo ministro pakistano, Imran Khan, che vorrebbe tutto il Kashmir per sé, ha detto che si batterà contro la revoca dello “status speciale” rivolgendosi al Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Teme una pulizia etnica da parte dell’India.

Insomma ci sono tutte le premesse per una nuova guerra tra queste due potenze nucleari. E quella è una delle zone più militarizzate del mondo.

Anche la vicina Cina, che si è presa una parte del territorio nel 1962, ha espresso opposizione alla mossa indiana, schierandosi coi pakistani.

Da notare che il premier nazionalista Modi si sta preparando per le elezioni del prossimo maggio. Probabilmente ha voluto alzare i toni dello scontro con il Pakistan per aumentare i consensi del proprio partito. Ma la situazione potrebbe facilmente degenerare.

In gioco non ci sono solo cospicui giacimenti di rubini, oro, argento, rame, carbone, ferro e manganese, ma anche lo sfruttamento delle foreste e soprattutto delle risorse idriche del bacino dell’Indo (la zona è ricca di ghiacciai e nevi perenni), anche se l’80% della popolazione lavora in campo agricolo e nell’allevamento.

L’India è interessata soprattutto all’acqua, poiché orienta da sempre la propria politica energetica sull’idroelettrico, di cui è settimo produttore mondiale e quarto potenziale, dopo Cina, Brasile e Canada. Le dighe — potenzialmente — sono in grado di bloccare l’80% dell’approvvigionamento idrico dell’agricoltura pakistana.

FINE DELL’EGEMONIA DEL DOLLARO E RUOLO DELL’ORO

L’alternativa al sistema del dollaro. Il ruolo dell’oro

Mario Lettieri* Paolo Raimondi** 

I maldestri tentativi da parte americana di salvare a tutti i costi il ruolo egemone del dollaro stanno spingendo molti Paesi a lavorare più alacremente per costruire un’alternativa monetaria multipolare. Oggettivamente il dollaro, come unica valuta degli scambi e delle riserve internazionali, ha concluso il suo ciclo storico. Bisogna prenderne atto.

Le destabilizzazioni finanziarie e le svalutazioni monetarie nei Paesi emergenti, provocate dalle politiche di liquidità “yo-yo” della Federal Reserve, hanno indotto alcuni governi a denunciare una “guerra monetaria” in corso. Le “cadute pilotate” dei prezzi del petrolio e dell’oro mirano a mettere in difficoltà soprattutto i Brics, la Russia e l’Iran. Contemporaneamente i prezzi di alcune materie prime vengono manipolati al rialzo con l’effetto di “gambizzare” le politiche industriali e di sviluppo dei Paesi emergenti e anche dell’Unione europea.    

Anche se non lo volessero, da tempo molti Paesi sono quindi stati costretti a immaginare e a proporre un nuovo sistema monetario. Alcune recenti decisioni lo confermano.

Infatti la creazione a Fortaleza della Banca di Sviluppo dei Brics ha in sé le potenzialità per diventare un organismo monetario internazionale alternativo al Fmi e alla Banca Mondiale del defunto sistema di Bretton Woods.

La stessa Cina fa grandi accordi con il Brasile, con la Russia, con il Giappone, con la Corea del Sud regolati in yuan o in altre monete nazionali.

Sono contratti nella forma di swap monetari che permettono di saldare gli scambi nelle valute stabilite. Recentemente li avrebbe proposti anche all’Ue. Una parte del grande accordo di forniture di gas tra la Russia e la Cina per l’equivalente di 400 miliardi di dollari del resto verrà regolata in rubli o in yuan.

Si ricordi inoltre che lo scorso aprile il governo di Mosca ha annunciato che una parte dei contratti internazionali stipulati dalle grandi corporation russe dovrà avvenire in rubli. Al recente summit dell’Asia-Pacific Economic Cooperation (APEC) di Pechino, il presidente Putin ha affermato che”faremo un uso sempre maggiore di accordi e compensazioni in monete nazionali nel nostro commercio con la Cina. Siamo pronti a fare i primi accordi in rubli e in yuan, anche nel settore dell’energia”. Una Commissione intergovernativa russo-cinese è già al lavoro per studiare simili opzioni. La stessa Banca Centrale russa ha annunciato la volontà di creare con i partner dei Brics un “sistema di swap multilaterali”.

Naturalmente i riverberi politici non mancano. Infatti la conferenza per la sicurezza del Shanghai Cooperation Organization (SCO), che già coinvolge Cina, Russia, Kazakhstan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan, vedrà a breve la partecipazione anche di India, Pakistan, Iran, Afghanistan e Mongolia. Anche la Turchia, che è un membro della Nato, sembra volervi aderire. Formerebbero così un blocco che in campo energetico controllerebbe il 20% delle riserve mondiali di petrolio ed il 50% di quelle di gas.

In tale contesto, come prevedibile, anche il ruolo dell’oro è ritornato al centro delle discussioni . Con la volatilità del suo prezzo registratasi nei mesi recenti si mira a renderlo instabile e quindi poco utilizzabile in eventuali accordi monetari internazionali. Però si ha notizia che a Mosca sarebbe in discussione proprio l’aggancio del rublo all’oro. E’ facilmente intuibile che l’attuale svalutazione del 30% della moneta russa sia frutto di speculazioni e manipolazioni internazionali. Di sicuro non riflette la reale capacità economica e l’immensa ricchezza della Russia. Agganciare il valore della valuta alle riserve auree avrebbe un effetto stabilizzante sui cambi della moneta.

Come è noto, a parte il debito sovrano al 15% del Pil, la Russia vanta riserve auree pari al 27% della quantità di rubli in circolazione. Gli Usa invece hanno un debito pubblico al 105% del Pil, mentre le loro riserve auree coprono appena il 2,3% dell’offerta monetaria.

Non si comprende il perché esperti occidentali tentano a minimizzare un possibile ruolo futuro dell’oro nel sistema monetario. Si ignora che da tempo tutti i governi europei importanti, a cominciare dalla Germania, dall’Olanda, dalla Gran Bretagna, dalla Svizzera stanno effettuando forti campagne pubbliche per riportare a casa il loro oro, attualmente detenuto nei caveau di Fort Knox negli Usa.

Su questo terreno assai movimentato e complesso riteniamo che il ruolo dell’Unione europea possa diventare più centrale e più incisivo. Una politica dell’Europa, veramente indipendente, potrebbe agevolare una soluzione non conflittuale verso un nuovo sistema politico e monetario internazionale. Una nuova architettura monetaria, come anche noi da tempo sosteniamo, dovrebbe portare alla costituzione di un paniere di monete dove ovviamente dovrebbe esserci anche il dollaro insieme all’euro e ad altre importanti monete.

Occorre prendere atto che con la caduta del Muro di Berlino il mondo necessita di un assetto multipolare, anche monetario.

*Sottosegretario all’Economia del governo Prodi **Economista

Siria, primo atto dell’assedio geopolitico all’Iran. I documenti Usa però parlano chiaro: NON si tratta di difendere la democrazia, ma solo “gli interessi americani in Medio Oriente”.

Il salto di qualità dell’appoggio dell’Occidente ai ribelli siriani è avvenuto non solo e non tanto con la recente decisione europea, Italia compresa, di un più deciso appoggio militare quanto con la decisione Usa di fornire loro missili terra aria, in grado cioè di colpire qualunque velivolo. Si tratta della stessa decisione che a suo tempo presero gli Usa di fornire i micidiali Stinger terra aria per mettere in grado i ribelli afgani di colpire gli aerei e gli elicotteri sovietici, segnando così il punto di svolta che permise la vittoria dei talebani appoggiati da tempo i tutti i modi da Washington. Per fare un paragone dei nostri tempi: se qualcuno  fornisse gli Stinger o i loro equivalenti non made in Usa ai palestinesi, Israele non potrebbe più bombardare Gaza con l’aeronautica. Continua a leggere

AUGURI e una riflessione per Pasqua: i costi pazzeschi ma incompleti della guerra in Afganistan e Iraq.

Pasqua, festa di resurrezione di Cristo per i credenti e di resurrezione interiore anche per i non credenti. Pasqua in pieno periodo di crisi finanziaria mondiale pericolosa e non ancora superata, tanto meno nel Belpaese. Assieme agli auguri, forse è utile riflettere su qualche cifra. Anche per capire meglio la realtà in cui viviamo e quella che ci aspetta se non si reagisce. E cosa ci aspetta se davvero l’indecente governo israeliano attaccherà militarmente l’Iran come Netanyahu pare proprio sia deciso a fare, stando anche la sua intervista odierna su Repubblica, infarcita delle solite frottole. Come sempre mai rilevate dagli intervistatori.

http://znetitaly.altervista.org/art/4104

Il costo reale della guerra

6 APRILE 2012

Di Bill Moyers – 6 aprile 2012

Molte discussioni inerenti il “costo della guerra” si concentrano su due tipi di cifre: i dollari spesi e i soldati americani che hanno dato la propria vita. Dopo un immersione di un decennio nella guerra al terrore questi sono i costi ufficiali: oltre mille miliardi di dollari e più di 6000 morti.

Ma, per quanto sconcertanti, questi numeri non ci raccontano tutta la storia. Continua a leggere

Il matrimonio “del secolo”, la beatificazione di Wojtyla e l’uccisione di Bin Laden. Tre goal a conferma della supremazia dell’Occidente o della drammaticità dei suoi problemi? Obama non ha dubbi: “La Cina è vicina” non è solo un vecchio film

L’uccisione di Bin Laden è la ciliegina sulla torta dei due eventi che hanno tenuto banco per vari giorni in quasi tutto il mondo, sicuramente in tutto il mondo occidentale: il matrimonio “del secolo” del principe ereditario inglese e la beatificazione di papa Wojtyla. L’accoppiata di questi ultimi due eventi è apparsa – o è stata fatta apparire – come la conferma che l’Occidente e il suo cuore, l’Europa, sono in buona salute, anzi ottima. Quasi tutti gli addetti ai lavori l’hanno magnificata come il fulgore di una nuova alba o di un sole ancora ben alto, smentendo così che il Vecchio Continente sia sul viale del tramonto. E il “botto” dell’uccisione di Bin Laden ha fatto da moltiplicatore a tanto ottimismo, confermando come baricentro del vasto mondo la superpotenza Usa, nume protettore dell’Europa e del mondo civile – il famoso “mondo libero” – in generale.
Tanto entusiasmo forse è fuori luogo. I matrimoni “del secolo” ormai non si contano più, da quelli di Montecarlo a quelli di Londra, Madrid, ecc., e il parlare e straparlare di principesse “del popolo” non ha mai cambiato e non cambia la sostanza dei fatti: il popolo resta al suo posto, anche se una ricca privilegiata priva di titoli nobiliari si trasferisce a corte e forse un giorno diventerà moglie del re. Molti vedono in ciò una cosa meravigliosa, “le favole si avverano” gridava il cartello di una anziana signora davanti all’abbazia di Westminster, ci vedono una democratizzazione delle monarchie quando forse si tratta invece di prolungamenti della  monarchizzazione delle democrazie. Insomma, il bicchiere può essere mezzo pieno o mezzo vuoto. Dipende dai punti di vista. O dal pessimismo e dall’ottimismo, si usa dire. In realtà dipende solo da un’altra cosa, e conviene capirlo: dipende solo da quanto vino c’è ancora, e se c’è, nella botte o nella bottiglia… Continua a leggere