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La Coca Cola in Messico

“Il Post” del 2 novembre scrive che il Messico è il paese in cui si bevono più bevande zuccherate al mondo e 3/4 dei suoi abitanti sono in sovrappeso, per non parlare del fatto che circa 1/6 dei casi di diabete può essere collegato al consumo di queste bevande. In valori assoluti ogni anno i morti per cause legate al consumo di bibite sono circa 30-40mila.

Un’indagine ha dimostrato che tra il 1999 e il 2006 il consumo tra gli adolescenti è più che raddoppiato e tra le donne è addirittura triplicato. Nello stesso arco di tempo c’è stato un aumento del 40% dell’obesità nei bambini dai 5 agli 11 anni. Rispetto al 2000 l’incidenza del diabete era raddoppiata.

Solo di recente è entrata in vigore una legge sulle etichette degli alimenti che impone di segnalare più chiaramente le bevande e i prodotti che hanno un alto contenuto di zuccheri, grassi, sodio e calorie.

La principale responsabile di questo disastro alimentare è la Coca Cola.

Nel 2012 ciascun messicano beveva in media il doppio della Coca Cola consumata dalle persone degli altri paesi.

Secondo il “Guardian” in alcune zone remote del Chiapas – dove si registrano alcuni dei consumi più alti di Coca Cola – vi sono persino dei neonati che bevono la bibita dai biberon; delle volte la Coca Cola viene utilizzata anche durante i riti religiosi, perché secondo chi li pratica aiuterebbe ad allontanare gli spiriti maligni.

Negli ultimi decenni la dieta dei messicani è cambiata parecchio: il consumo di fagioli, un alimento tipico del paese, si è dimezzato. Si mangia il 30% di frutta e verdura in meno rispetto a 20 anni fa.

La cosa è dovuta al North American Free Trade Agreement (NAFTA), un grosso accordo commerciale tra paesi americani, che entrò in vigore nel 1994 per agevolare il libero scambio di merci con Stati Uniti e Canada senza pesanti dazi. Da quel momento in tutto il Messico iniziarono a diffondersi moltissimo prodotti alimentari raffinati e confezionati, oltre appunto alle bibite zuccherate.

I vari impianti di imbottigliamento e distribuzione della Coca Cola impiegano direttamente 100mila persone nel paese, e indirettamente questa multinazionale dà lavoro a 1 milione di persone e contribuisce all’1,4% del PIL del Messico.

Neanche la tassa del 2014 sulle bevande zuccherate e sul cosiddetto “cibo spazzatura”, che ha fatto aumentare il costo di questi prodotti più o meno del 10%, è servita a qualcosa di significativo.

Nel 2018 la Coca Cola ha tagliato di 1/3 la quantità di zuccheri nella ricetta della bevanda distribuita in Messico e per non perdere una grossa fetta di mercato, ha promesso di comprare più materie prime dal paese, si è impegnata a prestare più attenzione all’impatto ecologico dell’azienda, ha sviluppato un programma per il microcredito e ha distribuito disinfettante e dispositivi di protezione individuale in diversi punti vendita per vincere il Covid-19.

Quali lezioni trarre da questo post?

Mai fare business con le multinazionali quando se ne può fare a meno.

Mai aprirsi al libero scambio quando rispetto al concorrente si è debolissimi.

Mai credere alla pubblicità commerciale.

Mai drogarsi di “Coca”.

Con Trump non solo rischi di guerre militari, ma anche di guerre commerciali: a danno soprattutto dell’Europa, Italia compresa

Ritorna lo spettro del protezionismo e della guerra commerciale?

Mario Lettieri*  Paolo Raimondi**

Mentre si aspetta ancora di conoscere come intende realizzare il suo annunciato piano di investimenti di mille miliardi di dollari per le infrastrutture, Trump ha dato inizio alla sua politica protezionista dell’ “America First “che rischia di sconvolgere l’intero sistema commerciale mondiale.

Ha già firmato due decreti esecutivi per rivedere la politica commerciale finora attuata e osteggiare i partner responsabili degli enormi deficit. Come è noto, nel 2016 il deficit è stato di 500 miliardi di dollari.

Preoccupante, in verità, è la parte relativa ai settori manifatturieri che ammonta a oltre 750 miliardi, di cui 347 nei confronti della Cina! E’ stato un trend decennale. Ovviamente ciò ha inciso non poco sui livelli occupazionali. Secondo l’Ufficio di statistica dal 2001 si sarebbero persi ben sei milioni di posti di lavoro nelle sole attività manifatturiere. 

 Secondo Trump il deficit con Cina, Giappone, Messico ed Europa  è provocato dal fatto che questi Paesi hanno approfittato della disponibilità  degli Stati Uniti. Perciò propone nuovi dazi e tariffe.

Le misure protezionistiche, combinate con la promozione delle produzioni nazionali e del consumo del “made in Usa”, sono una questione estremamente complessa. Una cosa è operare attraverso il  sostegno agli investimenti, un’altra è l’imposizione di dazi verso il resto del mondo.

Probabilmente una certa forma di protezionismo potrebbe temporaneamente essere accettabile per l’economia di un Paese in via di sviluppo. Ma gli Stati Uniti d’America e il dollaro, invece, a livello mondiale rappresentano l’economia e la moneta dominanti in grado di determinare ogni rapporto commerciale e monetario. Perciò i dazi potrebbero scatenare una guerra commerciale.

Secondo Wilbur Ross, il nuovo segretario per il Commercio, saremmo “già in una guerra commerciale” e con un’immagine militaristica ha aggiunto: “Lo siamo stati per decenni. La sola differenza è che i nostri soldati stanno finalmente arrivando al bastione. Non abbiamo un deficit commerciale per caso”.

Intanto Trump ha stracciato i due trattati commerciali, quello con il Pacifico e quello con l’Unione europea, anziché cercare un condiviso modus operandi.

E’ il caso di ricordare che il deficit commerciale americano ha origini lontane. Comincia nel 1975, quando la Cina era ancora un Paese agricolo del terzo mondo, con poche manifatture e senza export. Negli Usa allora c’era la spinta verso la progressiva finanziarizzazione dell’economia nel contesto del processo di globalizzazione. Invece di sviluppare le attività manifatturiere e le nuove tecnologie, nei settori dell’energia, ad esempio, si preferì importare petrolio dai grandi produttori, quali l’Arabia Saudita. 

L’accordo di libero scambio del Nafta con il Messico e il Canada del 1994 fu promosso dalle grandi industrie e dalle banche americane che preferivano de localizzare le loro produzioni industriali nelle terribili maquilladoras messicane, città di confine dove si produceva a prezzi stracciati, sfruttando al massimo il lavoro quasi schiavistico e per niente sindacalizzato. Successivamente un processo simile è stato avviato anche con la Cina, che si è assunta l’impegno di acquistare i titoli di stato americani emessi per sostenere i deficit commerciali di Washington. Ancora oggi Pechino detiene oltre mille miliardi di dollari di Treasury bond.

La storia insegna che, in un mondo globalizzato, la politica protezionistica provoca effetti negativi anche per il Paese che la inizia.

Così avvenne dopo il crac borsistico del’29, quando gli Usa approvarono la legge Smoot-Hawley Tariff  che impose misure e dazi protezionistici alle importazioni di prodotti esteri, accelerando la Grande Depressione.

Di conseguenza dal 1929 al 1933 il commercio mondiale si ridusse di due terzi, da 5,3 a 1,8 miliardi di dollari.

Le prospettive, quindi, sono piuttosto preoccupanti, per l’Europa e per l’Italia. L’Amministrazione di Washington sembra voglia già imporre dazi su alcuni prodotti europei, dagli scooter Vespa all’acqua minerale San Pellegrino e Perrier, fino ai formaggi più noti, ecc. 

La Cina, essendo un colosso economico e politico, è in grado di trovare i necessari accomodamenti commerciali con gli Usa. Ma l’Europa, divisa e senza una vera politica economica unitaria, è purtroppo assai debole rispetto alle scelte e alle imposizioni americane. E rischia di pagare il conto più salato.

*già sottosegretario all’Economia  **economista