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La critica di Marx ed Engels a Mazzini

Gran parte dei giudizi di Marx su Mazzini si trovano nel “New York Daily Tribune”, ove Marx scriveva come giornalista, e ovviamente nell’epistolario con Engels. In genere sono giudizi negativi, come quando dice, in riferimento ai vari manifesti del leader repubblicano, che usava “roboanti proclami”.

Quello che Marx proprio non sopportava era il bisogno di una continua cospirazione, come se le rivoluzioni potessero essere fatte “su ordinazione”, a prescindere dalle “possibilità favorevoli che offrono le complicazioni europee”. Per di più – diceva con un certo fastidio – venivano promosse da un leader molto lontano dalla sua patria, che pretendeva “azioni individuali da parte di cospiratori che dovevano agire di sorpresa”.

Secondo lui Mazzini ebbe modo di capire, dal fallimento delle Cinque giornate di Milano del 1848, che nei moti rivoluzionari “non è alle classi superiori che si deve guardare, bensì alle differenze di classe”. Tuttavia gli rimproverò sempre di non tenere in alcun conto le “condizioni materiali della popolazione italiana delle campagne”, quelle che l’avevano resa “indifferente alla lotta nazionale”. Lo dice anche nella lettera a Joseph Weydemeyer (11-09-1851): “la politica di Mazzini è fondamentalmente sbagliata, in quanto trascura di rivolgersi a quella parte dell’Italia che è oppressa da secoli, ai contadini, e in tal modo prepara nuove riserve alla controrivoluzione. Il signor Mazzini conosce soltanto le città con la loro nobiltà liberale e i loro cittadini illuminati. I bisogni materiali delle popolazioni agricole italiane – dissanguate e sistematicamente snervate e incretinite come quelle irlandesi – sono troppo al di sotto del firmamento retorico dei suoi manifesti cosmopolitici, neocattolici e ideologici. Certo ci vorrebbe del coraggio per dichiarare ai borghesi e alla nobiltà che il primo passo, per fare l’indipendenza dell’Italia, è la completa emancipazione dei contadini e la trasformazione del loro sistema di mezzadria in libera proprietà borghese. A quanto pare per Mazzini un prestito di 10 milioni di franchi [quello che da Londra aveva chiesto per finanziare i moti insurrezionali] è più rivoluzionario che conquistare 10 milioni di uomini”.

Marx era altresì convinto che se non si fossero coinvolti i contadini promettendo loro la fine del latifondo e la loro trasformazione da mezzadri a liberi proprietari 1, il governo austriaco avrebbe fatto ricorso ai metodi cosiddetti “galiziani”, quelli cioè che usò per rivolgere i contadini insorti della Galizia contro i nobili rivoltosi polacchi, che chiedevano la liberazione della Polonia; dopo di che, repressa la rivolta di Cracovia, il governo austriaco fece altrettanto con quella galiziana. Questo nel 1846. Ma due anni dopo fece lo stesso, quando dichiarò in Galizia l’abolizione delle corvées obbligatorie e gratuite, senza però intaccare la proprietà fondiaria, anzi scaricando sui contadini un enorme riscatto che si protrasse per decine di anni.

Questo per dire che Marx vide molto positivamente il fatto che il comitato degli esuli italiani guidato da Mazzini a Londra, dopo il fallimento della Repubblica romana nel 1849, si spaccasse in due, con una minoranza che gli rimproverava di parlare troppo di dio e di predicare continuamente l’insurrezione senza cercare di coinvolgere le masse contadine, ovvero di non voler intaccare minimamente gli interessi materiali dei borghesi e della nobiltà liberale, che rappresentavano “la grande falange mazziniana”.

Sotto questo aspetto Marx era convinto che sarebbe stato piuttosto il generale Radetzky, saccheggiando enormemente il nord Italia, a fare della penisola quel “cratere rivoluzionario” che Mazzini non era riuscito a evocare con le sue declamazioni.

Marx però deve ammettere che “la rivoluzione italiana è stata legata per quasi trent’anni al nome di Mazzini e durante questo periodo l’Europa ha visto in lui il miglior esponente delle aspirazioni nazionali dei suoi compatrioti”. Fu lui infatti che denunciò i piani segreti concordati tra Francia, Russia e Regno Sabaudo per cacciare gli austriaci senza fare alcuna rivoluzione. Evidentemente – sostiene Marx – Mazzini “disponeva dei mezzi più ampi per penetrare nei foschi segreti delle potenze dominanti”. Infatti la Francia voleva in qualche modo amministrare il Mezzogiorno e parte del centro della penisola, senza eliminare lo Stato della chiesa. Quanto ai Savoia, si sarebbero accontentati di gestire il nord Italia.

In una lettera a Engels (8-10-1858), Marx sostiene che finalmente Mazzini, in uno dei suoi ultimi proclami, si era degnato “di non considerare più il sistema del salario come la forma ultima e assoluta del lavoro”. Tuttavia l’ultimo Mazzini scrisse cose del tutto calunniose, in quanto non provate, o addirittura palesemente false contro l’Internazionale socialista e la Comune di Parigi. Lo fece alla vigilia del Congresso delle Società operaie italiane (novembre 1871), allo scopo d’impedire la creazione di un’organizzazione proletaria in Italia.

In quell’occasione sarà Engels a farsi sentire. In particolare dirà, in una lettera a Carlo Cafiero, che non era vero che Mazzini non avesse mai partecipato all’Internazionale socialista; semmai aveva cercato di strumentalizzarla per i propri fini, servendosi di un garibaldino, il maggiore Luigi Wolff (principe Thurn und Taxis), ch’era una spia della polizia francese, smascherata da Paolo Tibaldi, un comunardo parigino.

I mazziniani – disse Engels – uscirono dall’Internazionale nel 1865, quando si resero conto che la loro strategia politica, secondo cui “la democrazia borghese offriva diritti politici agli operai, onde poter conservare i privilegi sociali delle classi medie e superiori”, non aveva avuto alcun successo.

D’altra parte Mazzini attaccava sempre i proletari quando si sollevavano: non l’aveva fatto solo in occasione della Comune di Parigi, ma anche prima, con l’insurrezione parigina del giugno 1848, tant’è che Louis Blanc scrisse un opuscolo contro di lui.

Engels usa, nelle sue lettere a Marx o in articoli pubblicati su varie riviste, parole severe contro di lui. Gli rimprovera di manifestare una “mal dissimulata libidine di autorità”, “un’astratta furia insurrezionale”; lo definisce uno “scaltrito fanatico” e, proprio per questo, ritiene che “la rivoluzione italiana superi di gran lunga quella tedesca per la povertà delle idee e l’abbondanza delle parole”. Lo prende poi in giro con questa eloquente frase: “Mazzini non ha per gli operai altro consiglio che: Educatevi, istruitevi come meglio potete (come se ciò potesse essere fatto senza mezzi!)… Adoperatevi a creare più frequenti le società cooperative di consumo (nemmeno di produzione!) e fidate nell’avvenire!”.

Nota

1 Da notare che nelle sue lettere e negli articoli di giornale neppure Marx prevede per i contadini un’alternativa alla mezzadria che non sia di tipo “borghese”.

Il Marx di Diego Fusaro

Indubbiamente Diego Fusaro, astro nascente dell’attuale filosofia marxista italiana, ha avuto e tuttora ha il merito di aver aiutato a riscoprire la portata eversiva delle teorie anti-capitalistiche di quel grande economista chiamato Karl Marx.

Vogliamo sottolineare la qualifica di “economista” perché è in questo ruolo che Marx ha dato il meglio di sé, checché ne pensi Fusaro, che invece lo preferisce di più nei panni del “filosofo” o in quelli del “filosofo dell’economia”, rischiando così pericolosamente di darne un’interpretazione influenzata dall’hegelismo, come d’altra parte fece uno dei suoi principali maestri, Costanzo Preve.

La vera grandezza di Marx sta invece proprio in questo, nell’aver distrutto il primato della filosofia, facendo dell’economia politica una vera scienza, e non una semplice ideologia al servizio della borghesia, com’era, in particolar modo, quella elaborata in Inghilterra, in cui dominava l’idea di considerare il capitalismo un fenomeno di tipo “naturale” e non “storico”, ovvero come un evento destinato a durare in eterno e non a essere superato da una società di tipo comunista. Per l’ultimo Marx, quello interessato all’antropologia, il comunismo altro non sarebbe stato che un ritorno al comunismo primitivo in forme e modi infinitamente più evoluti, in quanto scienza e tecnica avrebbero giocato un ruolo di rilievo, assolutamente più democratico di quello che svolgono in un contesto dominato dall’antagonismo tra capitale e lavoro.

A dir il vero il giovane Marx non aveva affatto intenzione di superare la filosofia con l’economia, bensì con la politica. Solo dopo aver conosciuto Engels si mise a studiare questa disciplina. Fu la sua sconfitta come politico della Lega comunista, nel corso delle rivoluzioni europee del 1848, che lo portò, una volta emigrato a Londra, a dare più peso agli studi teorici dell’economia capitalistica, di cui quelli dedicati al pre-capitalismo risultavano, agli occhi esigenti di Marx, non meritevoli d’essere pubblicati.

Tutti i testi di economia – ad eccezione dei Manoscritti economico-filosofici del 1844, che maturarono a Parigi a contatto con gli ambienti socialisti – sono stati elaborati sotto il peso di un’amara sconfitta politica: di questo, leggendoli, non bisogna mai dimenticarsi, se si vuole tentare di esaminarli nella maniera più obiettiva possibile, cioè se non si vuole soprassedere al fatto che in tutti quegli scritti risulta alquanto forte l’uso dialettico della categoria hegeliana della necessità e quindi un certo determinismo economico, che tanto peso avrà nella storia della seconda Internazionale e in quasi tutto il marxismo europeo, sempre molto influenzato da correnti borghesi di pensiero, come ad es. il positivismo e lo strutturalismo, mentre, per quanto riguarda la Russia, ci si deve riferire allo sviluppo del cosiddetto “marxismo legale” ed “economicismo”, contro cui il giovane Lenin muoverà le sue forti proteste.

Marx è stato un genio assoluto in campo economico, ma per averne uno in campo politico abbiamo dovuto attendere Lenin, di cui però Fusaro non s’interessa minimamente. Eppure egli, pur scrivendo testi dichiaratamente filosofici, vuole darsi un obiettivo politico generale: quello del superamento del capitalismo. Perché dunque non fare mai alcun riferimento organico, propositivo, a Lenin? Il quale indubbiamente fu non solo il Marx dell’epoca imperialistica sul piano economico (il suo testo sull’Imperialismo è ancora oggi assolutamente fondamentale per capire le premesse dell’epoca in cui viviamo), ma anche il politico marxista più coerente, l’unico che seppe realizzare con successo gli insegnamenti del suo maestro, dimostrando una creatività di pensiero fuori del comune. Se Marx avesse potuto conoscerlo, non l’avrebbe certamente considerato di livello inferiore ai tanti suoi seguaci, più o meno ortodossi (Kautsky, Liebknecht, Bebel, Lassalle, Lafargue, Guesde…), che in Germania e in Francia si accingevano a costruire un partito socialista rivoluzionario e una seconda Internazionale.

Rivalutare Marx, senza fare alcun riferimento a Lenin, può portare a due inevitabili conseguenze: ripetere cose già dette o fraintendere il suo pensiero. Marx e Lenin sono due soggetti molto particolari: non possono essere semplicemente “studiati” o, peggio ancora, “letti” come due autori qualunque. Entrambi chiedono d’impegnarsi per trasformare le cose, proprio perché avvertono con drammaticità la gravità della crisi e con urgenza il compito di risolverla, senza sfociare in alcuna forma d’irrazionalismo. Tuttavia, se si dà più peso a Marx che non a Lenin, si finisce col fare i “teorici dell’alternativa”, senza lasciarsi coinvolgere in alcun partito o movimento politico e senza neppure essere capaci di fondarne uno nuovo. È appunto questa la posizione che ha l’attuale Diego Fusaro, che quando parla di filosofia fa politica e quando parla di politica fa filosofia.

Se ci si ferma a Marx, tralasciando Lenin, si sarà indotti ad attendere, in virtù delle proprie critiche eversive, che le masse spontaneamente insorgano. Cioè si finirà col compiere il medesimo errore di Marx, di cui lui stesso si rese conto (dicendolo nella Prefazione a Per la critica dell’economia politica), senza però riuscire a porvi rimedio, tant’è, anzi, ch’egli si trovò come costretto ad accentuare il lato deterministico della transizione al socialismo, appellandosi alla necessità, per chiunque voglia compiere la rivoluzione, di vedere preventivamente esaurite le forze propulsive del capitale. Un errore che Lenin evitò accuratamente di ripetere, anche perché precisò subito, in Che fare?, che la coscienza rivoluzionaria di un superamento complessivo del sistema bisogna portarla, al proletariato, dall’esterno, in quanto, se lo si lascia a se stesso, al massimo matura una coscienza sindacale.

Lenin aveva capito queste cose oltre un secolo fa; trascurarle, pensando sia sufficiente riscoprire Marx per fare di nuovo un discorso anti-capitalistico, rischia di portare fuori strada, anche perché il revival di Marx è già avvenuto, soprattutto in Europa occidentale, negli anni della contestazione operaio-studentesca: ripetere oggi quella scoperta, senza fare un passo avanti, in direzione del leninismo, non servirà a nulla. Anzi, su taluni aspetti è lo stesso leninismo che va rivisto: si pensi ad es. ai primati concessi all’industrializzazione, all’urbanizzazione, allo sviluppo tecnico-scientifico, che oggi una qualunque coscienza ambientalista guarderebbe con molto sospetto; ma si pensi anche alla necessità di non trascurare i rapporti tra coscienza umana e coscienza politica, onde evitare di veder assorbita la prima alla seconda.

Fusaro è convinto d’essere titolato pienamente a parlare di “riscoperta di Marx”, in quanto, secondo lui, quella avvenuta nella stagione del Sessantotto (che si protrasse almeno sino al delitto di Aldo Moro) fu tutta all’interno del sistema borghese, cioè fu una riscoperta che servì alla piccola borghesia per modernizzare il sistema. In realtà se questo fu l’esito della contestazione, bisogna dire che fu del tutto involontario o comunque non intenzionale. In gran parte dipese appunto dal fatto che si volle riscoprire solo Marx, senza fare i conti con Lenin, cioè ci si affidò più allo spontaneismo delle masse che non all’organizzazione di un partito di professionisti, capace di creare un consenso popolare e di gestirlo in chiave rivoluzionaria. Quando parlavano di rivoluzione, generalmente i partiti finivano nel terrorismo, ripetendo così gli errori di un certo anarchismo estremo e individualistico. E quando si parlava di Lenin, al massimo lo si faceva – come Althusser – sul piano meramente filosofico.

In Italia si ebbe addirittura l’impressione, negli anni Settanta, che il parlare così tanto di Gramsci, soprattutto di quello dei Quaderni, pubblicati per la prima volta dal 1948 al 1951, servisse proprio per non parlare di Lenin. L’importanza attribuita alla cultura appariva cioè strumentale all’esigenza di non toccare i tasti dell’impegno rivoluzionario vero e proprio, al fine di accettare acriticamente la politica di “larghe intese” (il famoso “compromesso storico”) realizzata tra comunisti e democristiani.

Un movimento come quello del Sessantotto non può essere guardato con gli occhi del filosofo: ci vogliono quelli del politico. E Fusaro ancora non li ha, e se non si emancipa dalla lezione di Preve, ch’egli peraltro ha assorbito quando Preve era già nella sua fase involutiva, rischierà di spegnersi in questa sua forte carica contestativa. Questo per dire che al giorno d’oggi, se davvero si vuol fare i “marxisti”, non è sufficiente fare dei “discorsi eversivi”; non si può evitare d’essere meramente “filosofi” limitandosi a usare quella che Lenin chiamava la “fraseologia rivoluzionaria”. Occorre l’appartenenza a un partito, una militanza personale.

Marx aveva ucciso la filosofia con l’economia, ma Lenin aveva detto che “la politica è una sintesi dell’economia”. Questo perché non c’è bisogno di conoscere il sistema capitalistico in tutte le sue sfumature prima di potersi organizzare praticamente per abbatterlo. Non abbiamo bisogno di riscrivere il Capitale per capire la nostra epoca globalizzata. È già sufficientemente chiaro che l’unica alternativa è quella di fuoriuscire dal sistema, abbattendo i suoi due pilastri fondamentali: lo Stato e il mercato, cioè il principale strumento oppressivo della borghesia e il primato assoluto che il valore di scambio ha su quello d’uso. Le differenze fra una strategia e l’altra possono riguardare soltanto le modalità e i mezzi da impiegare, anche perché il capitalismo si evolve di continuo e l’analisi economica viene sempre dopo, come ai tempi di Hegel la filosofia, civetta di Minerva. Con questa differenza, che la filosofia non riusciva mai a comprendere l’essenza degli antagonismi sociali.

Il primo a farlo, in maniera scientifica, dal punto di vista economico, con le sue teorie sul plusvalore, è stato appunto Marx. Fusaro glielo riconosce, anzi, lo esalta proprio per questo motivo, senza però accorgersi di un limite di fondo di tutta l’analisi del Capitale, e cioè la sottovalutazione dell’importanza dei fattori sovrastrutturali. Se Fusaro avesse studiato Lenin, o se almeno l’avesse fatto senza usare le lenti deformanti del suo maestro Costanzo Preve, che rifiutava il leninismo non solo sul piano politico, ma anche, e ancor più, su quello filosofico, forse avrebbe potuto dare di Marx una valutazione più obiettiva.

Dopo l’interpretazione che Lenin ha dato del “marxismo classico”, mediante cui ha valorizzato enormemente l’aspetto sovrastrutturale della politica, non è più possibile fare una semplice “riscoperta” di Marx. Ci vuole ben altro. Persino il giorno in cui riscopriremo Lenin, ci vorrà ben altro. Non potremo infatti considerare sufficiente una “politica rivoluzionaria”, trascurando, colpevolmente, quelli che oggi vengono chiamati i “diritti (o valori) umani universali”, i quali, per quanto formulati astrattamente, cioè senza riferimenti specifici a condizioni di spazio e tempo, fanno parte comunque del patrimonio dell’umanità, la cui formalizzazione è stata avvertita come inderogabile dopo due devastanti guerre mondiali, e che sono stati sinteticamente riprecisati dopo la fine di quella che Fusaro, sulla scia di Preve, chiama la “terza guerra mondiale” (cioè la “guerra fredda”), in quel documento significativo (la cosiddetta “Carta della nonviolenza” o “Dichiarazione di Delhi”) che Gorbaciov firmò nel 1986 insieme a Rajiv Gandhi.

Il tempo non passa invano, e per non ripetere gli errori del passato, occorre approfondire la riflessione critica, rendendo la prassi ad essa conseguente. I limiti sovrastrutturali nell’analisi economica di Marx non riguardano soltanto la scarsa importanza attribuita ai nessi con la politica. Per tutto il periodo londinese Marx si è sentito un teorico dell’economia e, fatto salvo l’impegno per costituire la prima Internazionale, che però nel 1876 si era già sciolta, egli non arrivo mai a impegnarsi per la costruzione di un partito autenticamente rivoluzionario. Qui la differenza da Lenin è netta.

Ma il limite di fondo riguarda anche la scarsa importanza attribuita ai fenomeni culturali, relativamente alla capacità che hanno di condizionare i processi economici. Per tutta la sua vita Marx ha visto la cultura, l’ideologia, le idee etiche, religiose, filosofiche, giuridiche, artistiche… come semplici riflessi o rispecchiamenti di determinate strutture economiche. Al massimo – aveva detto nella Prefazione alla prima edizione del Capitale – ci si poteva elevare soggettivamente nella comprensione delle contraddizioni sociali.

Lenin non era affatto così schematico, proprio perché attribuiva un’importanza decisiva, ai fini della rivoluzione, agli strumenti e ai metodi della tattica e della strategia. In Italia abbiamo dovuto attendere Gramsci – lettore di Lenin, anche se totalmente a digiuno di economia – prima che, nell’ambito del socialismo, si capisse l’importanza della cultura, per quanto già l’ultimo Engels non avesse mancato di sottolineare, coi suoi testi sullo Stato, la proprietà privata e la famiglia, sulla riforma protestante e la guerra contadina, che qualcosa del “marxismo” del suo geniale collega andava emendato, tant’è che proprio lui fu indotto a sostenere che il primato della struttura sulla sovrastruttura andava considerato tale solo in ultima istanza.

D’altra parte lo stesso Marx, alla fine della sua vita, cominciò a capire l’importanza delle formazioni sociali precapitalistiche (in modo particolare l’esperienza della comune agricola russa) e a rivalutare quel periodo storico che poi fu definito col termine di “comunismo primitivo”. Ma ormai gli mancavano le forze per approfondire questi temi. La stesura del Capitale lo aveva completamente distrutto; più volte Engels l’aveva messo sull’avviso, nelle lettere che gli scriveva, che quell’opera avrebbe minato irreparabilmente la sua salute.

Anche Lenin si rese conto solo alla fine della sua vita di non aver dato sufficiente spazio al lato umano della politica rivoluzionaria. Ma non ebbe il tempo sufficiente per porvi rimedio (anche a causa del grave attentato che subì) e la svolta autoritaria s’impose appena dopo pochi anni dalla sua morte. Per poter leggere il suo Testamento i comunisti russi han dovuto attendere il 1956: sotto lo stalinismo lo si considerava addirittura inesistente.

Che anche Fusaro non abbia capito l’importanza della cultura, come fattore particolarmente condizionante della struttura economica, lo si evince dalla mancata comprensione della motivazione per cui, nel tempo, si è passati dalla schiavitù diretta (quella tipica p.es. del periodo greco-romano) a quella salariata, che si è imposta proprio sotto il capitalismo. Il passaggio fu determinato non solo da fattori storici e contingenti, ma anche dallo sviluppo del cristianesimo. Cosa di cui Fusaro si disinteressa completamente, rischiando di fare un passo indietro persino rispetto a Marx, il quale, pur senza mai approfondirlo, aveva intravisto nel Capitale un nesso significativo tra capitalismo e protestantesimo. Argomento, questo, che verrà particolarmente sviluppato, ma dal punto di vista borghese, da Max Weber. Il quale, se ben comprese che il calvinismo era la confessione religiosa che meglio si confaceva allo sviluppo del capitalismo, non riuscì però a capire che le prime tracce di capitalismo s’erano sviluppate nell’Italia comunale e signorile, dove la religione dominante era quella cattolico-romana.

D’altra parte Fusaro, tralasciando, nei libri dedicati a Marx, di fare un’analisi sulla dittatura politica e ideologica affermatasi nel cosiddetto “socialismo reale”, non arriva neppure a comprendere che una schiavitù salariata non è una prerogativa del solo capitalismo privato, ma anche dello Stato totalitario di marca socialista, in cui il partito-guida, che è un padre e padrone, usa mistificanti motivazioni di tipo ideologico con cui estorcere plusvalore alla massa dei lavoratori.

È importante essere convinti di questo, poiché quando si contesta l’Europa delle banche e della finanza – come fa Fusaro con insistenza – e si vuole tornare alla sovranità degli Stati nazionali (che per lui ovviamente dovrebbero diventare di tipo socialista), si rischia di ripetere errori già compiuti. Tutti i giorni, infatti, vediamo che l’idea di Stato nazionale viene progressivamente erosa dalle esigenze del grande capitale, che sempre più ha bisogno di governi e istituti sovranazionali. Sono le esigenze del mercato che lo impongono, proprio per mantenere alti i profitti dei grandi monopoli, industriali e finanziari. Una battaglia contro questi monopoli, i quali per espandersi hanno continuamente bisogno di provocare tensioni e conflitti d’ogni tipo, non può riportarci alla fase dello “Stato nazionale”, sia questo di tipo capitalista o socialista.

È dal “sistema” che bisogna uscire, coi suoi meccanismi di mercato e di oppressione istituzionale. E, sotto questo aspetto, bisogna stare attenti a non ripetere gli errori della rivoluzione d’Ottobre e di tutte le rivoluzioni comuniste, dove, pur parlando, teoricamente, di progressiva estinzione dello Stato, si è finiti, temendo continui attacchi militari da parte dei nemici storici, col rafforzare all’inverosimile proprio le istituzioni statali, facendole, ad un certo punto, implodere. È stata una grande illusione pensare di eliminare le leggi del mercato usando la forza di uno Stato autoritario. Questo è un compito che va lasciato alla popolazione civile, messa in grado di usare liberamente la propria volontà. Anche se, ovviamente, non può essere considerata sbagliata l’idea di usare le leve dello Stato per affrontare l’eventuale controrivoluzione.

Nota

I due testi di Diego Fusaro cui qui si fa riferimento sono Karl Marx e la schiavitù salariata, ed. Il prato, Saonara 2007 e Bentornato Marx! Rinasci­ta di un pensiero rivoluzionario, ed. Bompiani, Milano 2012. Il presente articolo è già stato pubblicato nel libro curato da I. Pozzoni, Frammenti di filosofia contemporanea VI, ed. Limina Mentis, 2015

I dieci peccati capitali di Marx

  1. Marx ha sottovalutato l’importanza del colonialismo nella formazione del capitalismo, lasciando credere ch’esso fosse una sua logica conseguenza, quando, in realtà, tra capitalismo e colonialismo vi è un’influenza reciproca. Il colonialismo infatti s’impone sin dai tempi delle crociate, cioè a partire dal Mille. Certamente non possiamo sostenere ch’esso sia stato la principale causa per la nascita del capitalismo, in quanto a ciò hanno contribuito anche fattori ideologici e tecnologici; e tuttavia l’influenza del colonialismo va considerata decisiva, come risulta ancora oggi per la sopravvivenza del capitalismo.
    Questo errore non fu compiuto da Lenin, il quale, anzi, si rese conto, ad un certo punto, che proprio il colonialismo permetteva al capitalismo di condizionare pesantemente il movimento operaio metropolitano e, ancor più, i suoi dirigenti politici e sindacali, mantenendo alti i salari e gli stipendi, pagati, sostanzialmente, con l’enorme sfruttamento delle colonie.
  2. Ritenendo che il proletariato industriale fosse l’unica classe che, priva di tutto, non avrebbe avuto nulla da perdere a scatenare una rivoluzione politica, ne ha sopravvalutata la capacità eversiva. Cioè si è affidato eccessivamente a quello che viene definito “lo spontaneismo delle masse”, rinunciando così a costruire un partito politico vero e proprio.
    Errore, questo, che Lenin non fece, essendo persuaso che la classe operaia, lasciata a se stessa, senza una guida politica, al massimo si limitava a fare delle rivendicazioni salariali, non riuscendo ad avere una visione d’insieme relativa all’intero sistema da abbattere. Lenin in sostanza aveva capito che non basta la “sofferenza”, dovuta alla miseria e alla privazione dei diritti, per compiere una rivoluzione: ci vuole l’organizzazione determinata e consapevole di un partito politico, che può essere anche composto di operai, ma questi devono dedicarsi completamente alla tattica e alla strategia eversiva, cioè devono diventare dei “professionisti” della politica rivoluzionaria.
  3. Marx ha del tutto trascurato l’alleanza degli operai con la piccola-borghesia e soprattutto coi contadini. Non è stato capace di creare un consenso su temi comuni. Ha sempre considerato i contadini troppo ignoranti, troppo bigotti, troppo isolati tra loro per poter compiere una rivoluzione comunista.
    Lenin non farà questo errore, anche perché, in un paese come il suo, all’80% contadino, non avrebbe avuto alcuna possibilità di fare una rivoluzione autenticamente popolare; senza l’appoggio delle masse contadine avrebbe soltanto potuto fare un colpo di stato.
  4. Marx ha sottovalutato l’importanza della sovrastruttura ai fini del cambiamento qualitativo della struttura socio-economica. Questo lo ha portato, altresì, a inglobare il sociale nell’economico, cadendo nello stesso limite della borghesia.
    Tra struttura e sovrastruttura oggi si ammette un’influenza reciproca, sempre e in ogni caso, come ben compresero Lenin (che ritenne la politica più importante dell’economia ai fini della rivoluzione) e Gramsci (che ritenne la cultura più importante addirittura della politica ai fini dell’egemonia del partito nell’ambito della società civile).
  5. Marx non solo ha trascurato la realizzazione di un partito politico rivoluzionario, guidato da professionisti della politica, ma non ha mai valorizzato neppure il socialismo utopistico e il mondo della cooperazione, insistendo invece nel fare un’analisi economica in cui la transizione dal capitalismo al socialismo apparisse come un qualcosa di necessario, dipendente dalle stesse irrisolvibili contraddizioni del capitale, la prima delle quali è sempre stata considerata quella della crescente sfasatura tra forze e rapporti produttivi.
    Conseguenza di ciò è stato che, insieme ad Engels, ha allestito un’Internazionale comunista che di eversivo non aveva nulla. Il soggiorno londinese è servito a poco sul piano politico e, su quello dell’analisi economica, è servito soltanto ad approfondire le tesi già espresse durante il soggiorno parigino. Marx si è lasciato determinare troppo dalla categoria hegeliana della necessità.
  6. Egli inoltre non ha capito che lo sviluppo tecnico-scientifico non può essere utilizzato così com’è. Una società socialista non può fondarsi sull’idea che sia sufficiente socializzare i mezzi produttivi per poter utilizzare al meglio la tecnologia prodotta dalla borghesia. Questa tecnologia non può essere considerata come qualcosa di neutrale, dipendente dall’uso che se ne può fare. Essa stessa, essendo il prodotto di precisi conflitti di classe, va rimessa continuamente in discussione. Sotto il socialismo ci si dovrà ogni volta chiedere, di fronte all’esigenza di dover risolvere un problema, se i mezzi ereditati dalla società capitalistica siano davvero quelli idonei.
  7. Marx non ha capito che tutta l’industrializzazione e tutta la scienza e la tecnologia che si sono sviluppate sotto il capitalismo e, prima ancora, nelle società e civiltà basate sugli antagonismi sociali, hanno sempre una ricaduta negativa sull’ambiente. Egli ha sempre contrapposto l’uomo alla natura e ha sempre considerato la natura un bene da consumare, un oggetto da dominare grazie appunto alla scienza e alla tecnica, seppur ciò andasse fatto in maniera razionale, diversamente da quanto accade sotto il capitalismo. Oggi questo modo di vedere le cose viene considerato profondamente anti-ecologico.
  8. Marx ha ritenuto assolutamente necessaria la transizione dal feudalesimo al capitalismo, senza mai prospettare l’idea di una riforma agraria che spezzasse il latifondo ed evitasse quindi quella transizione. Ma, quel che è peggio, ha sempre ritenuto necessario il passaggio dal comunismo primordiale (che non soffriva di conflitti di classe o di casta) allo schiavismo. Di qui la necessità di credere, secondo i principi del determinismo economico, che sarebbe stata necessaria anche la transizione dal capitalismo al socialismo.
  9. Marx non ha capito i motivi per cui, a parità di traffici commerciali, o comunque in presenza di mercati, di valori di scambio e di monete, il capitalismo nasce in un luogo invece che in un altro, anche se ha intuito due aspetti fondamentali dell’economia borghese: la prima è che non può nascere il capitalismo se non esiste la libertà giuridica pienamente affermata a favore del lavoratore, la seconda è che il protestantesimo rappresenta la religione che meglio si presta a garantire l’affermarsi di tale libertà giuridica formale o astratta, in cui la libertà viene fatta coincidere con la pura libertà di scelta, mentre per il resto ci si affida alla legge economica del più forte.
  10. Nel suo soggiorno londinese Marx è sempre stato convinto che fino a quando una società non esaurisce tutta la sua forza propulsiva, è impossibile una transizione al socialismo. D’altra parte non ha mai spiegato come avrebbe dovuto svolgersi l’ultima transizione della storia. Diceva, p. es., che lo Stato va occupato e persino gestito in maniera dittatoriale in presenza di una controrivoluzione, ma poi sia lui che Engels hanno detto che doveva “estinguersi”, seppure in maniera progressiva. Neppure è stata chiarita la fase relativa alla socializzazione dei mezzi produttivi: lo Stato ha un proprio ruolo in tale socializzazione o non ne ha alcuno? È più importante la società o lo Stato? Come può la società organizzarsi fino al punto da non aver bisogno di alcuno Stato?

Davvero le previsioni di Marx erano sbagliate?

È diventata ormai un refrain l’accusa, rivolta a Marx, di aver fallito completamente le sue previsioni scientifiche, tanto che lo si può constatare anche nelle pubblicazioni cosiddette di “sinistra”, come p.es. quelle di Costanzo Preve, recentemente scomparso.

Ma in che senso le previsioni di Marx possono essere considerate “fallite”? Una è la più evidente. Il socialismo non si afferma più facilmente là dove è più sviluppato il capitalismo. Questo già Lenin l’aveva capito e se ne servì per fare la rivoluzione nell’anello più debole del capitalismo mondiale. Viceversa, gli intellettuali marxisti del suo tempo (ma anche quelli di oggi) se ne servirono per dire che in Occidente i tempi non erano ancora maturi per una vera e propria rivoluzione e che quindi bisognava limitarsi a compiere progressive riforme. Una bella differenza tra i due atteggiamenti!

Ma perché Marx era arrivato a sostenere una tesi del genere, che i suoi detrattori, peraltro, definiscono ancora oggi di tipo para-teologico o messianico? I motivi sostanzialmente erano due, tra loro intrecciati. Marx è vissuto in un periodo in cui le contraddizioni del capitalismo erano, in Europa, molto più acute di oggi; egli era convinto che la competizione tra gli Stati non le avrebbe affatto risolte e che la divisione imperialistica del pianeta, che allora iniziava a imporsi, le avrebbe ancor più accentuate. Sia lui che Engels avevano già potuto constatare la regolare frequenza di crisi produttive, la cui intensità – secondo loro – andava aggravandosi.

In effetti, dopo un intenso sviluppo dell’economia europea negli anni 1850-73, vi era stata una grande depressione economica nel periodo successivo, dal 1873 al 1896, cui i paesi capitalisti europei tentarono di porre rimedio con la pratica dell’investimento all’estero (a Londra iniziò verso il 1870). Solo verso il periodo 1896-1914 si può parlare di trionfo dell’economia capitalistica mondiale, pur interrotta da altre due crisi cicliche, nel 1900-1903 e 1907-10. È in questo periodo che avviene la trasformazione del capitalismo in imperialismo, con tanto di trust, cartelli e monopoli internazionali.

Marx quindi si era trovato a vivere, sostanzialmente, nella fase concorrenziale del capitalismo, che in Europa aveva raggiunto il suo apogeo nel 1860-70 e stava iniziando a verificare quella di tipo monopolistico, che avrebbe dovuto peggiorare la situazione. Sia lui che Engels si aspettavano una catastrofe imminente, come p. es. un crollo di borsa, dei fallimenti aziendali e bancari, persino una guerra mondiale. In una situazione del genere – e qui veniamo al secondo motivo – era per loro del tutto naturale pensare che il soggetto più esposto ai colpi della crisi, quello meglio organizzato sindacalmente e più consapevole delle contraddizioni del sistema, e cioè il proletariato industriale, avrebbe reagito in maniera rivoluzionaria, non avendo assolutamente nulla da perdere.

Anche Lenin era convinto di questo, ma si stupiva che gli intellettuali marxisti della II Internazionale non facessero nulla per preparare la classe operaia per il momento decisivo della rivoluzione. Attribuiva questa incapacità organizzativa di tipo strategico (la lotta, secondo lui, si limitava alle rivendicazioni sindacali) a una sorta di “corruzione morale”, dovuta al fatto che gli intellettuali stavano beneficiando – grazie ai frutti dell’imperialismo – di uno stile di vita borghese, che inevitabilmente li portava a cercare dei compromessi col sistema.

Lenin non riteneva la classe operaia occidentale in grado di opporsi a questo progressivo “imborghesimento”, poiché la vedeva accontentarsi troppo facilmente di avere dei salari decenti. Ecco perché nel suo primo importante libro, Che fare?, ipotizzò l’idea che la coscienza rivoluzionaria gli operai dovessero riceverla dall’esterno, cioè da un partito politico di rivoluzionari di professione, che lottano quotidianamente per porre le condizioni di una insurrezione popolare contro il sistema.

Ora, per quale motivo Marx ed Engels non avrebbero dovuto approvare una cosa del genere? Non erano due docenti universitari o due parlamentari lautamente retribuiti: non erano neppure così schematici da sentirsi obbligati a credere in maniera cieca a qualcosa di particolare.

Certo, né Marx né Engels erano dei politici rivoluzionari di professione; semmai erano due teorici, due studiosi, due giornalisti, due organizzatori della I Internazionale, un’associazione pacifica che aveva il compito di coordinare l’attività dei vari movimenti socialcomunisti di tutta Europa e persino degli Usa.

Facevano questo lavoro in condizioni molto precarie e disagiate, soprattutto Marx, continuamente alle prese con una gravissima situazione familiare. Se fossero stati due politici di professione, Lenin non avrebbe dato un contributo teorico decisivo al marxismo, ma si sarebbe limitato a mettere in pratica le loro idee. Invece la diversità fu proprio in questo, che Lenin attribuì alla politica rivoluzionaria un primato decisivo rispetto all’analisi economica delle contraddizioni del capitale.

Lenin fece il critico teorico nella sua lotta contro il populismo e contro la II Internazionale, ma appena poté, volle mettere in piedi un movimento avente il preciso obiettivo di abbattere lo zarismo e di realizzare la transizione dal feudalesimo al socialismo, sfruttando, del capitalismo, soltanto le conquiste tecnico-scientifiche.

Chi non capisce questa sostanziale differenza tra Marx ed Engels, da un lato, e Lenin dall’altro, non è in grado di capire la storia del marxismo, che è anche storia del leninismo (tradite, entrambe, dalla storia dello stalinismo). Non è certamente un caso che chi accusa Marx d’essere stato un visionario utopista, si senta poi in dovere di accusare Lenin d’aver creato un partito “monolitico”, dittatoriale.

I classici del marxismo e la Russia

Alla luce del fallimento del cosiddetto “socialismo reale” oggi ci si chiede se non avessero ragione quanti sostenevano che in Russia doveva svilupparsi il sistema capitalistico prima che si potesse pensare a una rivoluzione socialista. Aver voluto fare una rivoluzione socialista in un paese fondamentalmente agrario sembra essere stato un grave errore.

Marx ed Engels avevano sempre detto che se in Russia si fosse passati dal feudalesimo al socialismo agrario, evitando una transizione capitalistica, il tentativo avrebbe potuto avere successo solo a condizione che in Europa occidentale si fosse, nel contempo, compiuta la rivoluzione socialista, in modo che le due rivoluzioni avrebbero potuto sostenersi a vicenda. Non era importante che partisse prima l’una o l’altra; era importante, per i russi, l’appoggio decisivo del proletariato occidentale, altrimenti i governi borghesi avrebbero affossato il loro tentativo.

Come noto, le cose, almeno sotto il leninismo, andarono diversamente; nel senso che Lenin, quando vide il tradimento della II Internazionale durante la guerra mondiale e l’interventismo straniero in Russia dopo la rivoluzione, non particolarmente ostacolato dal proletariato occidentale, si convinse che la Russia avrebbe dovuto farcela da sola e che semmai sarebbe stata l’Europa occidentale a trovare, in virtù di questo esempio, la forza per muoversi per conto proprio.

Morto Lenin, Trotzky pensò che se non si fosse esportata la rivoluzione in Europa, essa col tempo avrebbe avuto il fiato corto, proprio perché la Russia era troppo “contadina” per competere coi paesi europei. Stalin invece era del parere che utilizzando la tecnologia occidentale, imponendo la collettivizzazione forzata di qualunque strumento produttivo e un terrorismo di stato, si poteva costruire il socialismo anche in un solo paese. Vinse la sua linea e il prezzo che la Russia pagò fu enorme, sotto qualunque punto di vista: questo non per dire che se avesse vinto il trotzkismo il prezzo sarebbe stato minore.

Quanto alle idee di Marx ed Engels, esse furono totalmente smentite dallo sviluppo del capitalismo occidentale, proprio in quanto non si comprese che un eccessivo sviluppo di questo sistema economico non avvicina ma allontana il momento della rivoluzione politica, tanto che oggi una transizione al socialismo non è all’ordine del giorno di alcun partito parlamentare occidentale. Il massimo che i partiti di sinistra arrivano a prospettare è un “miglioramento” del sistema attuale, un’attenuazione delle sue contraddizioni attraverso lo strumento dello Stato sociale.

Ciò è tanto più vero quanto più si pensa che all’Europa occidentale non è affatto servito, ai fini di una rivoluzione socialista, che nell’Europa dell’est si fosse sviluppata un’esperienza di “socialismo reale”, per quanto dittatoriale sia stata sotto lo stalinismo e la stagnazione. Semplicemente l’Europa si è lasciata condizionare dal fatto che lo sfruttamento del Terzo mondo le permetteva un tenore di vita relativamente elevato, tale per cui si era in grado di attutire parecchio l’acutezza degli antagonismi sociali e quindi la percezione che se ne poteva avere.

Ora, qual è stato l’errore di fondo dei classici del marxismo che ha indotto a fare previsioni del tutto sbagliate? L’errore di fondo sta nel fatto che Marx, Engels e Lenin (ma anche Trotzky e Stalin) non ritenevano i contadini sufficientemente maturi per fare una rivoluzione socialista. I comunisti non avevano alcun rapporto coi contadini, non solo perché questi erano credenti, ma anche perché non erano urbanizzati. Anzi, il fatto stesso che i contadini fossero convinti di vivere una sorta di “socialismo agrario”, attraverso l’obščina, il mir e l’artel, non li avvicinava affatto – secondo i marxisti – al socialismo scientifico, ma anzi li allontanava.

La polemica di Marx contro Bakunin, di Engels contro Tkačëv e di Lenin contro i populisti lo dimostra eloquentemente. Marx cominciò a nutrire qualche ripensamento solo alla fine della sua vita, quando intrattenne una corrispondenza con Vera Zasulič, e Lenin adottò, per realizzare la rivoluzione, il programma agrario dei socialisti-rivoluzionari, che loro stessi non riuscivano a realizzare essendosi compromessi con le forze borghesi.

Tutti i classici del marxismo han sempre ritenuto indispensabile uno sviluppo della borghesia, non foss’altro che per una ragione: con esso le differenze di classe sarebbero state ridotte al minimo (borghesia e proletariato), sicché l’esigenza di una trasformazione radicale del sistema sarebbe stata inevitabilmente più forte. Volevano l’acuirsi delle contraddizioni perché consideravano questo una premessa indispensabile alla transizione.

Anche Lenin ne era convinto, con la differenza, rispetto agli altri marxisti (p.es. Plechanov), che quello sviluppo in Russia andava considerato già sufficiente per compiere la rivoluzione, nel senso che bastava avere a che fare con un proletariato industriale presente nelle grandi città, in grado di guidare la rivoluzione in tutto il paese. Naturalmente all’interno della categoria di “proletariato” si mettevano gli stessi intellettuali, che avrebbero dato alla classe operaia la vera coscienza rivoluzionaria, altrimenti questa sarebbe rimasta ferma a una coscienza sindacale.

I fatti, in un certo senso, diedero ragione a Lenin, ma solo perché egli riuscì a capire che se non avesse cercato il consenso dei contadini, promettendo la proprietà della terra senza alcuna forma di riscatto o di indennizzo, la rivoluzione sarebbe fallita subito. Lenin era una persona intelligente, flessibile. Non apprezzava i coltivatori diretti perché li equiparava alla piccola-borghesia, ma con la Nep venne incontro alle loro esigenze, anche perché erano stati i contadini che, durante il periodo del comunismo di guerra, avevano permesso al governo sovietico di resistere alla controrivoluzione bianca e straniera.

Ma come si sarebbe comportato Lenin se non fosse morto nel 1924? Certamente non avrebbe avuto nei confronti dei contadini l’odio che ebbe Stalin, e che avrebbe avuto anche Trotzky, se avesse vinto la partita col suo principale rivale. Il terrore staliniano fu così duro che se in Russia non ci fosse stata l’invasione nazista, la rivoluzione sarebbe caduta prima.

Praticamente è stato proprio lo stalinismo a preparare non solo la fine del socialismo, ma anche la ripresa di quel capitalismo che era stato interrotto dai bolscevichi. E questo proprio perché all’interno dello stalinismo non vi è mai stata alcuna possibilità di realizzare una transizione progressiva verso il socialismo democratico. Dalla morte di Stalin all’ascesa di Gorbaciov la Russia ha vissuto complessivamente 30 anni di stagnazione, che è parsa ai comunisti di tutto il mondo non così grave, in quanto si riteneva che, in ogni caso, l’Urss rappresentasse il baluardo più forte contro i tre poli dell’imperialismo mondiale (Usa, Europa occidentale e Giappone), contro la guerra fredda e la minaccia nucleare e contro il neocolonialismo occidentale nel Terzo mondo.

Dall’esterno non si riusciva a percepire l’effettiva gravità di quella stagnazione. L’implosione del 1991 apparve del tutto inaspettata. Eppure, strumentalizzando le riforme di Gorbaciov per eliminare qualunque forma di socialismo, essa, ad un certo punto, fu del tutto inevitabile. L’Occidente non solo non comprese la natura democratica di quelle riforme, ma iniziò a illudersi che la propria democrazia avrebbe definitivamente smesso di credere che, per realizzarsi in maniera adeguata, avesse bisogno delle idee del socialismo.

Qualche lettura e rimembranza per una buona pausa dal blablablà generalizzato, camuffato perfino da politica

UNA BOCCATA D’OSSIGENO CON L’ULTIMA NEWSLETTER

DI HOMOLAICUS DEL MIO AMICO ENRICO GALAVOTTI.

Un Marx ingenuo?

Il fatto che Hegel, pur dentro un guscio mistico, abbia potuto scoprire le leggi della dialettica, avrebbe dovuto portare a credere che la tesi marxiana secondo cui “l’elemento ideale non è altro che l’elemento materiale trasferito e tradotto nel cervello degli uomini” – come viene detto nella prefazione al Capitale del 1873 -, è una tesi vera solo parzialmente.

Infatti vien da chiedersi come abbia potuto Hegel scoprire le fondamentali leggi della dialettica in una Germania economicamente molto più arretrata di Francia e Inghilterra. Evidentemente egli seppe trasformare una limitatezza materiale in una ricchezza culturale. Ma da dove gli veniva questa capacità intellettuale? Gli poteva venire solo da una cosa, dalla stessa che influenzerà le grandi filosofie di Kant, Fichte, Schelling e dello stesso Marx: il protestantesimo. E’ stata questa religione laicizzata che in Germania aveva liberato il pensiero dalle catene della Scolastica.

In Germania i filosofi potevano permettersi il lusso di fare una rivoluzione del pensiero, senza aver bisogno di passare espressamente al sistema di vita borghese. Non c’è altra spiegazione storica. Anzi, rebus sic stantibus, risulta alquanto limitato sostenere che il capitalismo va visto come “un processo di storia naturale, che non può rendere il singolo responsabile di rapporti dei quali esso rimane socialmente il prodotto, per quanto soggettivamente possa elevarsi al di sopra di essi”, come viene detto da Marx nella prefazione al Capitale del 1867.

Se ci si può “elevare” al di sopra dei rapporti capitalistici, sottoponendoli addirittura a critica, come ha fatto magistralmente lo stesso Marx, allora non c’è un mero “processo di storia naturale“, ovvero il capitalismo appare come un processo naturale solo fintantoché non emergono forme di consapevolezza che ne chiedono il definitivo superamento, anche in assenza di un suo forte sviluppo, come appunto avverrà nella Russia di Lenin, il quale diceva che il proletariato industriale al massimo arrivava a una coscienza sindacale e che, per questa ragione, se davvero voleva cambiare il sistema, diventando rivoluzionario, doveva accettare una consapevolezza “dall’esterno”, quella degli intellettuali.

L’idea di Marx secondo cui il capitalismo è destinato ad essere superato dal socialismo, è un’idea che induce alla rassegnazione o, al contrario, a un ottimismo ingiustificato, basato su una concezione provvidenzialistica della storia, che nel Capitale ha le sue basi nell’economia (cioè nel nesso tra rapporti e forze produttive), è un’idea che indebolisce la capacità di resistenza della classe operaia. Se ci si può “elevare”, bisogna combattere subito i sistemi disumani e alienanti in cui si è costretti a vivere, usando tutti i mezzi a disposizione, senza aspettare che la loro forza riduca a un nulla le nostre istanze. Le vere differenze stanno semmai nelle forme organizzative della lotta, cioè nella tattica e nella strategia.

Evidentemente a Marx, subito dopo la pubblicazione del primo volume del Capitale, dovevano essere giunte delle critiche sul metodo usato, che somigliava troppo da vicino a quello hegeliano, basato su una dialettica intesa come successione necessaria di fasi, ognuna delle quali va considerata anticipatrice della futura sintesi.

A differenza di Hegel, Marx poteva anche dire di essere esplicitamente ateo, poteva anche dire d’essere partito dall’economia politica e non da una filosofia astratta, poteva anche voler trasformare e non soltanto interpretare il mondo, ma la categoria della necessità veniva usata nella stessa identica maniera. Lo dimostra anche il fatto che nelle sue prefazioni al Capitale egli prevede un futuro capitalistico per tutte le nazioni europee, anzi per il mondo intero. Non ritiene possibile giungere al socialismo saltando la fase del capitalismo. Questo voleva dire usare la categoria della necessità in maniera giustificazionista.

A questo punto l’unica vera differenza tra lui e il suo maestro Hegel stava unicamente nel fatto che questi, in veste di accademico, l’aveva usata per legittimare uno Stato reazionario come quello prussiano, mentre lui, da ebreo errante e apolide, non poteva pensare che a una società utopica.

Forse più che “maestro del sospetto” avrebbe dovuto essere definito “campione di ingenuità”, nel senso che se c’è una cosa che non avviene in maniera necessaria è proprio una transizione progressiva da una formazione sociale all’altra. Non solo perché gli uomini arrivano ad un certo punto ad abituarsi così tanto alle contraddizioni antagonistiche che quasi più non le riconoscono, accettandole come una loro “seconda natura”, cioè un semplice dato di fatto, sperando, nel migliore dei casi, in un decisivo “aiuto esterno”, un aiuto anche “barbaro” contro una presunta civiltà, come appunto avvenne alla fine dell’impero romano.

Ma anche quando avvengono queste tragiche transizioni, in genere non si conserva nulla della precedente civiltà, in quanto si vuole ricominciare tutto da capo, proprio perché ci si accorge abbastanza facilmente che, in presenza di una nuova concezione di vita, determinate strutture economiche e materiali non servono a nulla e devono essere abbandonate o riciclate per usi del tutto diversi.

Metà della sua vita Marx la spese per studiare un sistema che non è destinato a crollare automaticamente e che quando verrà distrutto da qualche forza, interna o esterna, non conserverà nulla di utile per creare una vera alternativa.

Hosea Jaffe e il colonialismo

I

Giustamente Hosea Jaffe sostiene, in Davanti al colonialismo: Engels, Marx e il marxismo (ed. Jaca Book, Milano 2007), che l’idea engelsiana di favorire il colonialismo europeo per accelerare il processo di industrializzazione nelle periferie coloniali, al fine di porre le basi per una transizione al socialismo, era un’idea non “socialista” ma “imperialista”, frutto di un’interpretazione meccanicistica o deterministica del materialismo storico-dialettico.

E ha altresì ragione quando afferma che la contraddizione principale, nell’ambito del capitalismo, è diventata, a partire dalla nascita del colonialismo, non tanto quella tra capitalista e operaio delle aziende metropolitane, quanto quella tra Nord e Sud, dove con la parola “Nord” non si deve intendere solo l’imprenditore ma anche lo stesso operaio che nell’impresa capitalista si trova a sfruttare, seppure in maniera indiretta, le risorse del Terzo Mondo.

Detto questo però Jaffe non è in grado di porre le basi culturali per comprendere la nascita del capitalismo (che non può essere considerato una mera conseguenza del colonialismo, in quanto quest’ultimo s’impose già nel Medioevo con le crociate ed esisteva già al tempo della Roma e della Grecia classica e non per questo è possibile parlare di capitalismo, che storicamente nasce solo nel XVI sec.). Jaffe non è neppure in grado di porre le basi politiche di un accordo tra il proletariato del Nord e quello del Sud.

Alla fine del suo percorso egli si ritrova su posizioni speculari a quelle engelsiane: laddove infatti si considerano interi continenti (Asia, Africa, America latina) incapaci di avviare l’industrializzazione borghese in maniera autonoma e quindi di favorire una transizione al socialismo, qui invece si considera l’occidente, en bloc, del tutto inadatto a comprendere i meccanismi mondiali dello sfruttamento economico; il che fa diventare assolutamente inutile il tentativo, da parte del proletariato coloniale, di cercare, nelle aree metropolitane dell’occidente, quei soggetti che possono condividere i suoi processi di democratizzazione sociale.

Hosea Jaffe assume una posizione deterministica rovesciata, al punto che gli diventa impossibile esprimere dei giudizi obiettivi sui limiti delle esperienze socialiste dei paesi coloniali (come quelle avvenute a Cuba, in Cina, nella Corea del Nord ecc.).

Pur di poter manifestare una posizione contraria all’occidente in sé, considerato quasi come una categoria metafisica, Jaffe è disposto a transigere su molti difetti dei regimi socialisti. Anche perché continuamente ribadisce la tesi trotskista secondo cui una transizione al socialismo è più facile in un paese economicamente arretrato che non nell’occidente avanzato.

Alla fine non gli resta che auspicare una terza guerra mondiale in cui lo scontro non avvenga più tra potenze imperialistiche ma tra Nord e Sud. Col che lascia del tutto irrisolto il nodo relativo al modello di sviluppo. A lui interessa soltanto che il Sud si liberi del Nord, non che si liberi anche della sua assurda industrializzazione.

II

In realtà non è di nessuna importanza che un paese sia industrialmente “avanzato” o “arretrato” ai fini della transizione al socialismo. Quello che più importa è la capacità di saper organizzare una rivoluzione che porti effettivamente a vivere una transizione verso il socialismo democratico.

In astratto infatti si può dire che un paese arretrato, sul piano industriale, è più vicino alle idee del socialismo in quanto è più vicino al pre-capitalismo, cioè alla cultura pre-borghese. Ma si può anche dire il contrario, e cioè che quanto più un paese è industrialmente avanzato, tanto più avverte il problema di uscire dalle contraddizioni del sistema, che rendono la vita invivibile, specie per le conseguenze ambientali che ha.

Nei paesi avanzati non sono avvenute rivoluzioni socialiste non perché è più facile che queste avvengano nei paesi arretrati – come diceva Trotski -, ma perché i paesi avanzati industrialmente sono anche quelli che praticano il colonialismo, oggi a livello internazionale, seppur, rispetto a ieri, in forme più economico-finanziarie che politico-militari.

Nel mondo non esistono paesi avanzati o arretrati autonomi, in grado di sperimentare percorsi indipendenti gli uni dagli altri. Nel mondo esistono paesi avanzati sul piano tecnologico che dominano politicamente o anche solo economicamente altri paesi arretrati sul piano industriale.

Tale dipendenza impedisce di servirsi liberamente delle tradizioni pre-borghesi per realizzare una transizione al socialismo. Questo peraltro il motivo per cui Lenin non credeva che il populismo russo, con la sua idea di “comune agricola”, sarebbe riuscito a impedire la diffusione del capitalismo in Russia.

Se i paesi avanzati non avessero colonie da sfruttare, le loro contraddizioni interne, a causa dei rapporti fortemente antagonistici, diverrebbero esplosive in poco tempo. Invece, grazie allo sfruttamento coloniale, il peso di queste contraddizioni può essere scaricato sui paesi arretrati.

L’Europa occidentale ha iniziato a comportarsi così già con la civiltà cretese, ereditata poi da quella ellenica; ha continuato a farlo, in grande stile, coi Romani; ha proseguito nel Medioevo col fenomeno delle crociate; e in epoca moderna ha inaugurato con la scoperta dell’America il colonialismo su scala mondiale.

Sono almeno tremila anni che l’Europa ha una pretesa di dominio verso le realtà più deboli. Ogniqualvolta i conflitti sociali diventano troppo acuti per poterli risolvere pacificamente, in politica interna si usano i sistemi autoritari, i metodi repressivi, e in politica estera si adottano programmi di conquista coloniale, di sfruttamento delle risorse altrui, umane o naturali che siano.

Ai problemi di natura sociale ed economica si risponde con soluzioni poliziesche (all’interno) e militari (all’esterno). Dopo aver represso il dissenso interno, si cerca di contenere il malcontento generale, facendo pagare a popolazioni estranee il prezzo delle proprie contraddizioni.

Ecco perché il dissenso interno riesce a trovare, temporaneamente o in territori circoscritti, uno sfogo alle proprie frustrazioni. I dissidenti si trovano a vivere nelle colonie quegli stessi rapporti antagonistici che subivano in patria, con la differenza che ora, nelle colonie, sono loro che li fanno subire alle popolazioni e ai loro territori conquistati.

Anche ammettendo che nella loro terra d’origine i dissidenti volevano realizzare una qualche transizione al socialismo, bisogna dire che questa esigenza non s’è mai realizzata nelle colonie ch’essi hanno conquistato o semplicemente abitato. E non solo perché la loro stessa madrepatria non gliel’avrebbe mai permesso.

I coloni hanno sì potuto riscattarsi dal peso delle contraddizioni subìte in patria, ma solo perché sono diventati i nuovi padroni in casa altrui. Non hanno mai cercato un rapporto di collaborazione con le popolazioni incontrate, onde potersi opporre al dominio della madrepatria. E se l’hanno fatto, è stato in maniera strumentale, per necessità di circostanza, per aumentare il loro potere di colonizzatori. Il dissenso frustrato nella madrepatria s’è trasformato nelle colonie in dominio nei confronti dei territori conquistati e delle popolazioni sottomesse.

Questa cosa è potuta andare avanti finché ci sono state terre da conquistare e popolazioni da sfruttare. Ma oggi tutto il pianeta è stato colonizzato. Se le popolazioni sottomesse cominciassero a ribellarsi, non ci sarebbe più modo, da parte dei paesi tecnologicamente avanzati, di trovarne di nuove da sottoporre a nuovi sfruttamenti.

L’antagonismo non può più espandersi geograficamente, può solo acutizzarsi a livello sociale, là dove riesce a dominare. Se non riusciamo a realizzare una transizione al socialismo, le barbarie è assicurata.

III

Detto questo, resta sempre da chiarire che cosa s’intenda per “socialismo democratico” e, su questo, Jaffe è incredibilmente lacunoso. Non avendo posto alcuna premessa per un discorso di tipo culturale, si trova a ripetere sempre le stesse cose, senza riuscire ad offrire suggerimenti significativi per uscire non solo dalla dipendenza coloniale, ma neppure dai meccanismi sociali e culturali che creano il bisogno di avere un dominio coloniale.

Qui il discorso si fa davvero ampio e tutto da costruire. Se Jaffe si fosse concentrato sulle origini socio-culturali del capitalismo, non avrebbe dato così grande peso al colonialismo, che pur di quelle origini è parte organica, ma sarebbe stato costretto a darne alla religione, alla teologia, alla filosofia, al diritto, all’arte, alla scienza, all’etica e alla morale, cioè a tutte quelle discipline che il marxismo ha sempre definito come “sovrastrutture” dell’economia e che, per questa ragione, sono sempre state considerate dagli studiosi di sinistra come una sorta di mero rispecchiamento della realtà concreta dell’economia. In realtà tra struttura e sovrastruttura esiste un reciproco condizionamento, che impone allo studioso un’analisi di tipo olistico, obbligata a tener conto di tutti gli aspetti nel loro insieme.

Lo stesso colonialismo dipende da una determinata cultura, esattamente come il capitalismo. Se gli uomini di una civiltà, di una religione, di una nazione ecc. si sentono, ad un certo punto, in diritto di dover conquistare territori altrui, significa che già al loro interno esiste questa deformazione, esiste già il senso del dominio da parte del più forte nei confronti del più debole. Questo senso o sentimento o atteggiamento sociale non dipende dalla psicologia dei popoli, ma da una cultura, da una concezione della realtà. E questa concezione, nell’antichità, si esprimeva soprattutto in chiave religiosa (mitologica o metafisica o razionale che fosse).

Le cause del colonialismo possono anche essere state sociali, politiche, economiche, ma noi dobbiamo cercare le cause culturali, quelle precedenti a tutto. Bisogna scoprirle e combatterle, proprio perché di fronte a una determinata situazione sociale non si debba nuovamente rispondere con la scelta dell’antagonismo e quindi inevitabilmente del colonialismo. Il problema principale infatti è quello di non ripetere, in forme diverse, gli errori del passato.

In occidente le forze progressiste non possono aspettare la fine del colonialismo prima di cercare un’alternativa al capitalismo. Se il problema sta anzitutto “fuori” (nelle colonie), alla fine soltanto quelli di “fuori” potranno risolverlo. Ma se la borghesia avesse aspettato la fine spontanea della rendita feudale, non sarebbe mai riuscita a far trionfare l’idea di profitto.

Tutti i libri di Hosea Jaffe

Contestualizzare sempre

E’ impossibile capire la teoria di un qualunque pensatore se prima non si stabiliscono le coordinate di spazio e tempo che lo caratterizzano. Questa è anche una forma di rispetto, non solo di oggettività interpretativa.

Le coordinate non si riferiscono solo alle vicende storico-politiche (e quindi ai mutamenti socioeconomici), ma anche all’evoluzione della cultura (che può essere favorevole al laicismo o alla religione). A livello culturale, se si esclude la parentesi feudale, tende a prevalere, in occidente, il tentativo di liberarsi della religione usando gli strumenti della filosofia, prima, e della scienza, dopo.

La religione nasce col sorgere degli imperi schiavistici, come strumento per giustificare l’oppressione. La filosofia (non solo quella greca ma anche quella borghese) tende indubbiamente a emanciparsi dalla religione sul piano gnoseologico, ma assai raramente arriva a metterla in discussione su quello politico (forse il primo vero tentativo è stato quello della rivoluzione francese).

Nelle civiltà antagonistiche la religione costituisce una forma di potere politico, di cui le istituzioni si servono per dominare le masse, le quali, nell’ignoranza e superstizione in cui vengono tenute, raramente mettono in discussione il fatto che la religione debba avere una valenza politica. Le masse si difendono dall’oscurantismo e dal clericalismo con l’indifferenza o con l’opportunismo di un’adesione meramente formale; nel migliore dei casi sostituendo delle convinzioni religione con altre, com’è avvenuto, p.es., con la riforma protestante.

Per capire ciò che un pensatore ha voluto dire, bisogna chiarire il contesto in cui egli è vissuto e il tipo di esperienza che ha vissuto. In tal senso anche la sua biografia acquista una certa importanza.

In ogni società esistono contraddizioni che attendono d’essere risolte. Nei confronti di tali contraddizioni si possono formulare delle ipotesi risolutive sulla base di proprie istanze emancipative o di liberazione. I soggetti possono avere desideri o interessi a che le cose mutino nella sostanza e non solo nella forma.

Sotto questo aspetto è molto importante non soffermarsi sulle opere principali di un teorico, ma, se lo si vuole veramente capire, è necessario analizzare tutto quello che ha prodotto. Infatti, non è raro il caso che istanze nutrite nel periodo giovanile, siano poi state abbandonate nel periodo della maturità, a causa delle difficoltà insorte nel tentativo di trovare delle soluzioni. Alle sconfitte ci si adatta, trovando dei compromessi che permettono di continuare a vivere. Basta leggersi la vita di Kant o di Hegel.

Bisogna quindi verificare se nei confronti di quelle istanze originarie esiste un tradimento vero e proprio, un’involuzione nel pensiero, o semplicemente un provvisorio ridimensionamento, in attesa di tempi migliori. I soggetti si confrontano sempre con una realtà che li precede, indipendente dalla loro volontà, e ad un certo punto si pongono il problema se hanno forze sufficienti per modificare in toto o in parte quella realtà. Di qui la trasformazione, p.es., di una concezione religiosa o filosofica in concezione “politica”, rivolta concretamente all’organizzazione delle masse.

Chi esamina questi soggetti non può essere così schematico da focalizzare la sua attenzione solo sui tradimenti delle istanze originarie. Un intellettuale può porsi dieci come obiettivo finale e poi ottenere solo tre: ebbene, per il critico che ne esamina le opere, questo tre deve diventare più importante del fallimento del restante sette. Un intellettuale cioè può aver fallito sul piano politico, ma può aver dato un contributo molto importante in altri settori della conoscenza: filosofia, economia politica ecc., come p.es. nel caso di Marx.

Generalmente sono due i processi che un critico deve esaminare: l’emancipazione della filosofia dalla religione, ovvero i progressi dell’umanesimo laico, e la trasformazione della filosofia in politica rivoluzionaria, cioè tutti quei tentativi pratici di liberarsi degli antagonismi sociali, per riportare l’umanità a quel periodo storico in cui non esistevano conflitti di classe o appropriazioni private di mezzi produttivi e che storicamente è durato un tempo infinitamente più lungo di quello che fino ad oggi ha caratterizzato le cosiddette “civiltà”.

I due processi non marciano in parallelo, essendo relativamente autonomi, anche se quello pratico-politico, volto a realizzare il socialismo, si avvale delle conquiste culturali del laicismo. Semmai non è vero il contrario, nel senso che queste conquiste culturali non necessariamente sono finalizzate ad affermare il socialismo democratico.

La ragione di ciò è molto semplice: i poteri dominanti sono più disposti a tollerare degli sviluppi culturali contrari alle loro tradizioni ideali che non dei rivolgimenti politici, che rischierebbero di far perdere loro i poteri acquisiti. Da tempo l’ateismo è diventato culpa levis, diceva Marx. Ecco perché la lotta contro le istituzioni oppressive può essere condotta su due binari paralleli, non necessariamente destinati a incrociarsi: quello della cultura e quello della politica.

Se si compie una rivoluzione politica prima di quella culturale, come p.es. nella rivoluzione russa, poi bisogna avere grandi accortezze a non imporre alle masse l’ideologia che ha trionfato. Se invece si preferisce la soluzione gramsciana dell’egemonia culturale, non ci si può poi illudere che questo sia sufficiente per realizzare una transizione a favore del socialismo.

Per operare un cambiamento effettivo della realtà, bisogna saper trasformare le contraddizioni del sistema e i bisogni delle masse in armi rivoluzionarie. E questo non è mai un processo facile né indolore.