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Risorgerà il socialismo dalle sue ceneri?

In fondo Eduard Bernstein aveva visto giusto: con l’imperialismo la classe operaia non aveva bisogno di compiere la rivoluzione; la ricchezza aumentava per tutti e, con essa, la democrazia; si poteva arrivare al socialismo anche per via parlamentare, senza alcuna rivoluzione violenta. L’acutizzazione dei rapporti sociali, cioè la radicale polarizzazione delle classi antagonistiche, prefigurata nel Manifesto del 1848, non era avvenuta: dunque occorreva un mutamento significativo di strategia politica. La sinistra doveva diventare riformista. E in Europa occidentale lo divenne, prima con Bernstein, poi con Kautsky, infine con tutti gli altri.

Solo i bolscevichi non li seguirono. E loro fecero una rivoluzione radicale, così come l’avrebbero voluta Marx ed Engels, che però, col tempo, si rivelò fallimentare. Non meno drammatico fu il destino dei socialisti riformisti, che finirono col perdere completamente la loro natura socialista.

In che cosa il socialismo ha sbagliato?

Anzitutto non ha capito che il miglioramento delle condizioni di vita, in Europa occidentale, non dipendeva affatto dall’industrializzazione capitalistica, bensì dall’imperialismo, cioè dallo sfruttamento delle colonie. Era in virtù di questo sfruttamento che si poteva corrompere la classe operaia, aumentandole i salari o comunque offrendole migliori condizioni di lavoro, in cambio di un proprio silenzio sul sistema in generale.

Se la classe operaia preferisce le rivendicazioni sindacali alla lotta politica rivoluzionaria, i suoi dirigenti, ad un certo punto, l’asseconderanno. La lotta rivoluzionaria richiede infatti molti rischi e sacrifici, senza i quali non è possibile perseguire ideali elevati. Se poi sono gli stessi dirigenti a non credere più nella lotta rivoluzionaria, la classe operaia, che non ha lo stesso livello culturale e non è capace di avere una veduta d’insieme delle cose, se ne farà una ragione ancor prima.

Qui infatti era Lenin a brillare per intelligenza: la classe operaia, lasciata a se stessa, matura soltanto una coscienza sindacale; per averne una di tipo rivoluzionario, bisogna infondergliela dall’esterno, e questo è un compito che può fare solo l’intellettuale, poiché solo lui può vedere che la contraddizione tra capitale e lavoro è sempre assoluta e mai relativa a circostanze di tempo e luogo. Può essere variegata la strategia con cui la si affronta, ma l’obiettivo finale deve restare integro: quello della conquista del potere politico per il ribaltamento del sistema.

Ma come si può pensare di ribaltare il sistema in presenza dell’imperialismo? A questa domanda Lenin rispose dicendo che bisogna saper approfittare del momento favorevole, quello più critico, quello che produce infinite sofferenze, assolutamente insopportabili, che, ai suoi tempi, erano determinate dalla guerra mondiale. Egli lanciò una parola d’ordine molto chiara, anche se per realizzarla ci voleva molto coraggio e non poca organizzazione: trasformare la guerra mondiale contro un nemico esterno in una guerra civile contro il nemico interno. La classe operaia russa doveva abbattere il capitalismo interno attraverso una rivoluzione, dopodiché si sarebbe tirata fuori dalla guerra mondiale. E così fece.

Riuscirono i socialisti euro-occidentali a fare altrettanto? Nessuno. La guerra mondiale fu vista come guerra tra nazioni, quando invece doveva essere vista come guerra tra capitalisti di nazioni imperialistiche, che mandavano a morire, per i loro sporchi interessi, i rispettivi lavoratori (operai o contadini che fossero). Non ci furono ribellioni di massa a questa carneficina. E alla fine il socialismo non si realizzò da nessuna parte, a testimonianza che un affronto meramente parlamentare, cioè riformistico, delle contraddizioni strutturali del capitalismo, conduce soltanto a una forma di opportunismo e di tradimento degli ideali originari. Per un piatto di lenticchie, concesso dai loro rispettivi governi, i socialisti persero la primogenitura degli ideali rivoluzionari.

Tuttavia il socialismo mostrò ovunque un altro grave difetto, a fronte del quale persino la Russia si trovò del tutto impreparata. Fu un difetto così grande che nel 1991 la Russia decise di chiudere l’esperienza del socialismo statale, quello gestito in maniera burocratica. E, con questa realizzazione piena di manchevolezze, si buttò via anche la necessità di un socialismo democratico. Si finì col far tornare in auge il capitalismo, più o meno corretto da esigenze di tipo statale.

Quale fu il macroscopico difetto del cosiddetto “socialismo reale”? Fu il fatto di non aver capito che la classe operaia era totalmente priva di cultura e socialmente sradicata, mentre quella rurale aveva per tradizione un senso storico della collettività e si trasmetteva la propria cultura ancestrale oralmente di generazione in generazione. Fu il fatto di non aver capito che la produzione industriale in serie è una pura e semplice mostruosità, che può andar bene per esigenze specifiche in un lasso di tempo determinato, ma che non ha alcun senso in una condizione di vita normale. Non è da una produzione del genere che può dipendere il benessere di un paese, anche perché con essa vengono messe in subordine tutte le preoccupazioni di tipo ambientalistico.

Fu anche il fatto di non aver capito che il contadino non diviene per forza un piccolo-borghese quando possiede un pezzo di terra. Certo, il contadino vuol essere padrone in casa propria – com’è naturale che sia -, ma è disposto spontaneamente alla cooperazione, a convivere pacificamente col proprio vicino, a risolvere qualunque controversia, pur di far sopravvivere alla propria famiglia.

È piuttosto l’operaio, il quale spesso non è che un ex contadino o un ex bracciante rurale, ad aver bisogno d’essere integrato in maniera organica nella società. Anche l’intellettuale di sinistra che lo rappresenta è uno sradicato come lui, uno che non ha riferimenti culturali o sociali al mondo rurale e che si deve creare un’identità dal nulla.

Lenin era convinto, influenzato in questo dalle idee di Marx ed Engels, che la classe operaia, non avendo nulla da perdere, fosse più rivoluzionaria dei contadini, che avevano appunto la terra da difendere oppure da ottenere come obiettivo finale della loro lotta. La storia ha dimostrato che la classe operaia, non avendo una propria cultura ancestrale, è più facilmente manipolabile dei contadini, pur essendo questi tradizionalmente religiosi, mentre quella è di idee ateistiche. Infatti il socialismo staliniano, dopo averli fatti passare per dei piccolo-borghesi, sterminò milioni di contadini e non toccò gli operai, i quali, non a caso, credevano ciecamente nel socialismo amministrato dall’alto.

Certo, ci si può chiedere se i contadini russi, lasciati da soli (in mano ai populisti prima, e poi ai socialisti-rivoluzionari), avrebbero compiuto lo stesso la rivoluzione. Probabilmente non l’avrebbero fatta, ma solo per colpa dei propri dirigenti, che s’illudevano di poter ovviare pacificamente alla penetrazione del capitalismo nelle campagne.

I dirigenti russi dei contadini sono sempre stati degli ingenui, prima nei confronti dello zarismo, poi nei confronti del capitalismo. Ci volle Lenin per far capire ai contadini che se si fossero alleati con gli operai, avrebbero ottenuto subito la terra in proprietà e gratuitamente, senza dover pagare i forti indennizzi previsti dalla passata abolizione del servaggio. I contadini credettero in Lenin e si allearono con gli operai non solo per fare la rivoluzione, ma anche per uscire dalla guerra mondiale e per combattere la controrivoluzione bianca e l’interventismo straniero. Fecero enormi sacrifici (soprattutto a causa del comunismo di guerra, poi superato dalla Nep leniniana), e alla fine vinsero.

Chi distrusse il loro entusiasmo? la loro tenacia? Lo stalinismo, un’ideologia irrazionale che puntò tutto sulla industrializzazione pesante e accelerata, che doveva essere integralmente pagata dalla classe rurale, costretta peraltro a una collettivizzazione forzata. Idea, questa, che Stalin mutuò proprio dal suo irriducibile nemico, Trotsky, il quale vedeva i limiti dello stalinismo solo nella gestione burocratica e autoritaria del potere.

Questi errori molto gravi sono stati pagati in maniera drammatica. I contadini non erano contrari all’industrializzazione, ma a un primato inaccettabile, che ne faceva pagare a loro tutti i costi. Un primato che non poteva neppure essere giustificato dicendo che il socialismo russo minacciava d’essere distrutto dalle potenze occidentali. Se ci fosse stato un nuovo interventismo straniero, come quello del 1918-20, sarebbero stati nuovamente i contadini a scongiurarne il pericolo, le conseguenze. Questo perché decine di milioni di contadini, disposti a difendere la loro terra a qualsiasi prezzo, sono una forza spaventosa, di cui tutti devono aver paura.

Stalin ne eliminò una quantità sterminata, convinto che solo con l’industrializzazione si poteva tener testa ai paesi capitalistici avanzati. Ottenne esattamente l’effetto contrario: il capitalismo, infatti, non ha bisogno di usare le armi convenzionali, quelle da fuoco, per abbattere i propri nemici, e neppure quelle non convenzionali, come le armi atomiche. Per vincere gli basta la propaganda ideologica, la pubblicità commerciale, l’esibizione del benessere a oltranza, degli agi e delle comodità a tutti i livelli, del lusso sfrenato, della democrazia parlamentare, delle borse per qualunque valore e titolo, dei giganteschi mercati internazionali, degli istituti di credito finanziari, dello spionaggio e controspionaggio, della corsa alla conquista dello spazio cosmico, del peso della propria moneta negli scambi mondiali, della manipolazione degli istituti o enti internazionali, come p.es. l’Onu, l’Unesco, l’Ocse, la Fao, ecc.

E così oggi si sono tutti “imborghesiti”: gli operai rivoluzionari, i contadini attaccati alla loro terra, gli intellettuali socialcomunisti, i partiti di sinistra… Oggi, di fronte a un capitalismo che si muove molto facilmente su un piano globale (che è insieme materiale e immateriale), non si è neppure capaci di darsi degli strumenti altrettanto “globali” per difendersi.

Davvero le previsioni di Marx erano sbagliate?

È diventata ormai un refrain l’accusa, rivolta a Marx, di aver fallito completamente le sue previsioni scientifiche, tanto che lo si può constatare anche nelle pubblicazioni cosiddette di “sinistra”, come p.es. quelle di Costanzo Preve, recentemente scomparso.

Ma in che senso le previsioni di Marx possono essere considerate “fallite”? Una è la più evidente. Il socialismo non si afferma più facilmente là dove è più sviluppato il capitalismo. Questo già Lenin l’aveva capito e se ne servì per fare la rivoluzione nell’anello più debole del capitalismo mondiale. Viceversa, gli intellettuali marxisti del suo tempo (ma anche quelli di oggi) se ne servirono per dire che in Occidente i tempi non erano ancora maturi per una vera e propria rivoluzione e che quindi bisognava limitarsi a compiere progressive riforme. Una bella differenza tra i due atteggiamenti!

Ma perché Marx era arrivato a sostenere una tesi del genere, che i suoi detrattori, peraltro, definiscono ancora oggi di tipo para-teologico o messianico? I motivi sostanzialmente erano due, tra loro intrecciati. Marx è vissuto in un periodo in cui le contraddizioni del capitalismo erano, in Europa, molto più acute di oggi; egli era convinto che la competizione tra gli Stati non le avrebbe affatto risolte e che la divisione imperialistica del pianeta, che allora iniziava a imporsi, le avrebbe ancor più accentuate. Sia lui che Engels avevano già potuto constatare la regolare frequenza di crisi produttive, la cui intensità – secondo loro – andava aggravandosi.

In effetti, dopo un intenso sviluppo dell’economia europea negli anni 1850-73, vi era stata una grande depressione economica nel periodo successivo, dal 1873 al 1896, cui i paesi capitalisti europei tentarono di porre rimedio con la pratica dell’investimento all’estero (a Londra iniziò verso il 1870). Solo verso il periodo 1896-1914 si può parlare di trionfo dell’economia capitalistica mondiale, pur interrotta da altre due crisi cicliche, nel 1900-1903 e 1907-10. È in questo periodo che avviene la trasformazione del capitalismo in imperialismo, con tanto di trust, cartelli e monopoli internazionali.

Marx quindi si era trovato a vivere, sostanzialmente, nella fase concorrenziale del capitalismo, che in Europa aveva raggiunto il suo apogeo nel 1860-70 e stava iniziando a verificare quella di tipo monopolistico, che avrebbe dovuto peggiorare la situazione. Sia lui che Engels si aspettavano una catastrofe imminente, come p. es. un crollo di borsa, dei fallimenti aziendali e bancari, persino una guerra mondiale. In una situazione del genere – e qui veniamo al secondo motivo – era per loro del tutto naturale pensare che il soggetto più esposto ai colpi della crisi, quello meglio organizzato sindacalmente e più consapevole delle contraddizioni del sistema, e cioè il proletariato industriale, avrebbe reagito in maniera rivoluzionaria, non avendo assolutamente nulla da perdere.

Anche Lenin era convinto di questo, ma si stupiva che gli intellettuali marxisti della II Internazionale non facessero nulla per preparare la classe operaia per il momento decisivo della rivoluzione. Attribuiva questa incapacità organizzativa di tipo strategico (la lotta, secondo lui, si limitava alle rivendicazioni sindacali) a una sorta di “corruzione morale”, dovuta al fatto che gli intellettuali stavano beneficiando – grazie ai frutti dell’imperialismo – di uno stile di vita borghese, che inevitabilmente li portava a cercare dei compromessi col sistema.

Lenin non riteneva la classe operaia occidentale in grado di opporsi a questo progressivo “imborghesimento”, poiché la vedeva accontentarsi troppo facilmente di avere dei salari decenti. Ecco perché nel suo primo importante libro, Che fare?, ipotizzò l’idea che la coscienza rivoluzionaria gli operai dovessero riceverla dall’esterno, cioè da un partito politico di rivoluzionari di professione, che lottano quotidianamente per porre le condizioni di una insurrezione popolare contro il sistema.

Ora, per quale motivo Marx ed Engels non avrebbero dovuto approvare una cosa del genere? Non erano due docenti universitari o due parlamentari lautamente retribuiti: non erano neppure così schematici da sentirsi obbligati a credere in maniera cieca a qualcosa di particolare.

Certo, né Marx né Engels erano dei politici rivoluzionari di professione; semmai erano due teorici, due studiosi, due giornalisti, due organizzatori della I Internazionale, un’associazione pacifica che aveva il compito di coordinare l’attività dei vari movimenti socialcomunisti di tutta Europa e persino degli Usa.

Facevano questo lavoro in condizioni molto precarie e disagiate, soprattutto Marx, continuamente alle prese con una gravissima situazione familiare. Se fossero stati due politici di professione, Lenin non avrebbe dato un contributo teorico decisivo al marxismo, ma si sarebbe limitato a mettere in pratica le loro idee. Invece la diversità fu proprio in questo, che Lenin attribuì alla politica rivoluzionaria un primato decisivo rispetto all’analisi economica delle contraddizioni del capitale.

Lenin fece il critico teorico nella sua lotta contro il populismo e contro la II Internazionale, ma appena poté, volle mettere in piedi un movimento avente il preciso obiettivo di abbattere lo zarismo e di realizzare la transizione dal feudalesimo al socialismo, sfruttando, del capitalismo, soltanto le conquiste tecnico-scientifiche.

Chi non capisce questa sostanziale differenza tra Marx ed Engels, da un lato, e Lenin dall’altro, non è in grado di capire la storia del marxismo, che è anche storia del leninismo (tradite, entrambe, dalla storia dello stalinismo). Non è certamente un caso che chi accusa Marx d’essere stato un visionario utopista, si senta poi in dovere di accusare Lenin d’aver creato un partito “monolitico”, dittatoriale.

I classici del marxismo e la Russia

Alla luce del fallimento del cosiddetto “socialismo reale” oggi ci si chiede se non avessero ragione quanti sostenevano che in Russia doveva svilupparsi il sistema capitalistico prima che si potesse pensare a una rivoluzione socialista. Aver voluto fare una rivoluzione socialista in un paese fondamentalmente agrario sembra essere stato un grave errore.

Marx ed Engels avevano sempre detto che se in Russia si fosse passati dal feudalesimo al socialismo agrario, evitando una transizione capitalistica, il tentativo avrebbe potuto avere successo solo a condizione che in Europa occidentale si fosse, nel contempo, compiuta la rivoluzione socialista, in modo che le due rivoluzioni avrebbero potuto sostenersi a vicenda. Non era importante che partisse prima l’una o l’altra; era importante, per i russi, l’appoggio decisivo del proletariato occidentale, altrimenti i governi borghesi avrebbero affossato il loro tentativo.

Come noto, le cose, almeno sotto il leninismo, andarono diversamente; nel senso che Lenin, quando vide il tradimento della II Internazionale durante la guerra mondiale e l’interventismo straniero in Russia dopo la rivoluzione, non particolarmente ostacolato dal proletariato occidentale, si convinse che la Russia avrebbe dovuto farcela da sola e che semmai sarebbe stata l’Europa occidentale a trovare, in virtù di questo esempio, la forza per muoversi per conto proprio.

Morto Lenin, Trotzky pensò che se non si fosse esportata la rivoluzione in Europa, essa col tempo avrebbe avuto il fiato corto, proprio perché la Russia era troppo “contadina” per competere coi paesi europei. Stalin invece era del parere che utilizzando la tecnologia occidentale, imponendo la collettivizzazione forzata di qualunque strumento produttivo e un terrorismo di stato, si poteva costruire il socialismo anche in un solo paese. Vinse la sua linea e il prezzo che la Russia pagò fu enorme, sotto qualunque punto di vista: questo non per dire che se avesse vinto il trotzkismo il prezzo sarebbe stato minore.

Quanto alle idee di Marx ed Engels, esse furono totalmente smentite dallo sviluppo del capitalismo occidentale, proprio in quanto non si comprese che un eccessivo sviluppo di questo sistema economico non avvicina ma allontana il momento della rivoluzione politica, tanto che oggi una transizione al socialismo non è all’ordine del giorno di alcun partito parlamentare occidentale. Il massimo che i partiti di sinistra arrivano a prospettare è un “miglioramento” del sistema attuale, un’attenuazione delle sue contraddizioni attraverso lo strumento dello Stato sociale.

Ciò è tanto più vero quanto più si pensa che all’Europa occidentale non è affatto servito, ai fini di una rivoluzione socialista, che nell’Europa dell’est si fosse sviluppata un’esperienza di “socialismo reale”, per quanto dittatoriale sia stata sotto lo stalinismo e la stagnazione. Semplicemente l’Europa si è lasciata condizionare dal fatto che lo sfruttamento del Terzo mondo le permetteva un tenore di vita relativamente elevato, tale per cui si era in grado di attutire parecchio l’acutezza degli antagonismi sociali e quindi la percezione che se ne poteva avere.

Ora, qual è stato l’errore di fondo dei classici del marxismo che ha indotto a fare previsioni del tutto sbagliate? L’errore di fondo sta nel fatto che Marx, Engels e Lenin (ma anche Trotzky e Stalin) non ritenevano i contadini sufficientemente maturi per fare una rivoluzione socialista. I comunisti non avevano alcun rapporto coi contadini, non solo perché questi erano credenti, ma anche perché non erano urbanizzati. Anzi, il fatto stesso che i contadini fossero convinti di vivere una sorta di “socialismo agrario”, attraverso l’obščina, il mir e l’artel, non li avvicinava affatto – secondo i marxisti – al socialismo scientifico, ma anzi li allontanava.

La polemica di Marx contro Bakunin, di Engels contro Tkačëv e di Lenin contro i populisti lo dimostra eloquentemente. Marx cominciò a nutrire qualche ripensamento solo alla fine della sua vita, quando intrattenne una corrispondenza con Vera Zasulič, e Lenin adottò, per realizzare la rivoluzione, il programma agrario dei socialisti-rivoluzionari, che loro stessi non riuscivano a realizzare essendosi compromessi con le forze borghesi.

Tutti i classici del marxismo han sempre ritenuto indispensabile uno sviluppo della borghesia, non foss’altro che per una ragione: con esso le differenze di classe sarebbero state ridotte al minimo (borghesia e proletariato), sicché l’esigenza di una trasformazione radicale del sistema sarebbe stata inevitabilmente più forte. Volevano l’acuirsi delle contraddizioni perché consideravano questo una premessa indispensabile alla transizione.

Anche Lenin ne era convinto, con la differenza, rispetto agli altri marxisti (p.es. Plechanov), che quello sviluppo in Russia andava considerato già sufficiente per compiere la rivoluzione, nel senso che bastava avere a che fare con un proletariato industriale presente nelle grandi città, in grado di guidare la rivoluzione in tutto il paese. Naturalmente all’interno della categoria di “proletariato” si mettevano gli stessi intellettuali, che avrebbero dato alla classe operaia la vera coscienza rivoluzionaria, altrimenti questa sarebbe rimasta ferma a una coscienza sindacale.

I fatti, in un certo senso, diedero ragione a Lenin, ma solo perché egli riuscì a capire che se non avesse cercato il consenso dei contadini, promettendo la proprietà della terra senza alcuna forma di riscatto o di indennizzo, la rivoluzione sarebbe fallita subito. Lenin era una persona intelligente, flessibile. Non apprezzava i coltivatori diretti perché li equiparava alla piccola-borghesia, ma con la Nep venne incontro alle loro esigenze, anche perché erano stati i contadini che, durante il periodo del comunismo di guerra, avevano permesso al governo sovietico di resistere alla controrivoluzione bianca e straniera.

Ma come si sarebbe comportato Lenin se non fosse morto nel 1924? Certamente non avrebbe avuto nei confronti dei contadini l’odio che ebbe Stalin, e che avrebbe avuto anche Trotzky, se avesse vinto la partita col suo principale rivale. Il terrore staliniano fu così duro che se in Russia non ci fosse stata l’invasione nazista, la rivoluzione sarebbe caduta prima.

Praticamente è stato proprio lo stalinismo a preparare non solo la fine del socialismo, ma anche la ripresa di quel capitalismo che era stato interrotto dai bolscevichi. E questo proprio perché all’interno dello stalinismo non vi è mai stata alcuna possibilità di realizzare una transizione progressiva verso il socialismo democratico. Dalla morte di Stalin all’ascesa di Gorbaciov la Russia ha vissuto complessivamente 30 anni di stagnazione, che è parsa ai comunisti di tutto il mondo non così grave, in quanto si riteneva che, in ogni caso, l’Urss rappresentasse il baluardo più forte contro i tre poli dell’imperialismo mondiale (Usa, Europa occidentale e Giappone), contro la guerra fredda e la minaccia nucleare e contro il neocolonialismo occidentale nel Terzo mondo.

Dall’esterno non si riusciva a percepire l’effettiva gravità di quella stagnazione. L’implosione del 1991 apparve del tutto inaspettata. Eppure, strumentalizzando le riforme di Gorbaciov per eliminare qualunque forma di socialismo, essa, ad un certo punto, fu del tutto inevitabile. L’Occidente non solo non comprese la natura democratica di quelle riforme, ma iniziò a illudersi che la propria democrazia avrebbe definitivamente smesso di credere che, per realizzarsi in maniera adeguata, avesse bisogno delle idee del socialismo.

Qualche lettura e rimembranza per una buona pausa dal blablablà generalizzato, camuffato perfino da politica

UNA BOCCATA D’OSSIGENO CON L’ULTIMA NEWSLETTER

DI HOMOLAICUS DEL MIO AMICO ENRICO GALAVOTTI.

E Renzi ha fatto plof

La notizia è che Matteo Renzi ha perso e perso male. Però ha dalla sua il merito di avere suscitato l’interesse alla politica di una buona fetta dei giovani che di tutto si interessano fuorché di politica. Speriamo solo che non restino talmente delusi da questa sconfitta da ripiombare nel loro ghetto giovanile avulso da partiti, elezioni, politica, istituzioni, parlamento, ecc. Sarebbe un danno grave, molto grave. Che si aggiunge a danni già notevoli che i giovani subiscono con il degrado della scuola, dell’Università, dell’educazione civica e personale provocata da decenni di blablablà e scosciamenti televisivi oltre che di iperboli modaiole, e infine  dalla grande difficoltà a trovare un lavoro degno di questo nome e di una vita tutta da vivere.

In tv, e non solo nel confronto con Pierluigi Bersani, Renzi è parso un po’ troppo enfatico, troppo verboso, pronto più alla battuta a effetto che all’esposizione di programmi e strategie per risolvere i problemi dell’Italia. In politica estera la sua tirata contro l’Iran, che pareva quasi l’anticamera di una dichiarazione di guerra se fosse diventato premier, è apparsa di una rozzezza sorprendente come pure il molto riduttivo accenno a Gaza. In  vista del ballottaggio Renzi è diventato anche un po’ troppo polemico, lamentoso, in affanno, con quel suo  innescare il vicolo cieco del sospetto su trucchi vari per impedire ai suoi supposti fans il voto al ballottaggio: il tipico comportamento di chi sente sul collo il fiato della sconfitta e comincia perciò a straparlare di complotti. Non ho capito perché al ballottaggio non poteva partecipare chi non aveva votato al primo turno, e non l’ho capito anche perché nei Paesi dove vige il ballottaggio – Italia compresa per sindaci, presidenti di provincie,  senato e corte costituzionale – vota chiunque voglia di votare anche se non lo ha fatto al primo turno. Continua a leggere

Materialismo democratico o autoritario?

Che anche il materialismo storico-dialettico sia affetto – al pari di ogni forma di idealismo – da intellettualismo di tipo illuministico, lo dimostra il fatto ch’esso ha la percezione della materia come di un’entità che va conosciuta esclusivamente con l’attività scientifica (quella da laboratorio). In tale maniera una qualunque consapevolezza diversa da quella scientifica, viene svalutata, considerata ai limiti della superstizione. Come se il concetto di “scienza” non potesse riferirsi anche a quelle popolazioni che si trasmettevano conoscenze ancestrali unicamente per via orale!

I classici del marxismo sono in questo molto espliciti: la conoscenza scientifica della natura (che per gli scienziati naturali è istintiva, mentre per i materialisti dialettici è consapevole) autorizza l’uomo a “dominarla”. Lenin lo dice chiaramente nel suo Materialismo ed empiriocriticismo: “dal momento che conosciamo questa legge [si riferisce alla natura], la quale agisce (come ha ripetuto Marx migliaia di volte) indipendentemente dalla nostra volontà e dalla nostra coscienza, noi siamo i dominatori della natura. Il dominio della natura, che si manifesta nella pratica del genere umano, è il risultato del riflesso, obiettivamente esatto, dei fenomeni e dei processi della natura nella mente dell’uomo, e dimostra che questo riflesso (nei limiti di ciò che ci indica la pratica) è una verità obiettiva, assoluta, eterna” (ed. Lotta comunista, Milano 2004, p. 207).

Il passaggio, per Lenin, appare molto logico, invece andrebbe dimostrato. Una conoscenza scientifica comporta davvero la necessità di un “dominio” della natura? Anche quando di questa natura conosciamo, seppur scientificamente, solo una parte? in ogni caso, anche se di essa conoscessimo tutto quanto, qui e ora, ciò dovremmo forse considerarlo sufficiente per esercitare su di essa un controllo assoluto delle sue risorse? Come se la natura fosse un semplice oggetto da manipolare? Che diritto avremmo di farlo, visto e considerato che qui si ha a che fare con un oggetto del tutto indipendente dal genere umano, da cui proviene la nostra stessa esistenza e persino la nostra coscienza?

Se la natura fosse stata creata dall’uomo, allora la questione del “dominio” sarebbe scontata; al massimo avrebbe potuto porsi nel caso in cui il passar dei secoli avesse determinato una dimenticanza o un offuscamento della conoscenza scientifica. Ma con le idee del materialismo dialettico noi dovremmo pensare a una natura che, pur potendo farne a meno, avrebbe creato un essere umano al quale dare piena facoltà di dominarla.

Che senso ha questo spirito di arrendevolezza da parte della materia? indubbiamente oggi abbiamo capito che i termini epocali dello scontro ideologico non sono più tra idealismo e materialismo, in quanto gli scienziati, con i loro strumenti tecnologici non vedono dio da nessuna parte, ma una concezione della natura così perentoria ci porta a credere che in futuro lo scontro verterà tra un materialismo autoritario e uno democratico, e lo spartiacque sarà proprio nella concezione che si avrà del rapporto tra uomo e natura.

Anzitutto infatti dovremmo chiederci: se l’uomo usasse questa facoltà di dominio in maniera contraria alle esigenze riproduttive della stessa natura, come farebbe questa a sopravvivere? Non ha infatti alcun senso pensare che, siccome la natura è infinita nello spazio e nel tempo, il suo sfruttamento può essere considerato illimitato. Tra natura e uomo dovrebbe esistere soltanto un rapporto paritetico e non anche un rapporto di dominanza e di subordinazione.

Non avrebbe alcun senso accettare l’idea che la natura abbia dato all’uomo una facoltà così invasiva neanche nel caso in cui ammettessimo una coesistenza eterna di entrambi gli elementi. A ben guardare infatti noi siamo sì un composto di materia, ma, poiché siamo caratterizzati da ciò che in natura si trova solo in noi, cioè la coscienza, allora forse è possibile pensare a una materia eternamente pensante, che ha trasmesso solo a noi questa sua facoltà, proprio perché esiste una contemporaneità nello spazio e nel tempo, o comunque una certa, profonda, familiarità.

Noi siamo materia pensante esattamente come la materia in generale. E, proprio come l’universo, che è infinito nello spazio e nel tempo, anche la nostra essenza o coscienza in qualche maniera lo è. Possiamo addirittura pensare – senza rischiare di cadere in alcun misticismo – che l’essenza umana in realtà non sia mai nata, proprio perché dell’universo noi siamo la sua coscienza, o comunque un prodotto necessario nell’ambito dell’evoluzione della natura, un prodotto che da virtuale è diventato reale.

Ma se anche questa ipotesi fosse vera, le leggi della materia non le abbiamo inventate noi; anzi esse ci costituiscono in maniera organica, strutturale, e quando non le rispettiamo, le conseguenze non ricadono solo sulla natura, ma anche su di noi. Questo per dire che sul nostro pianeta noi dovremmo limitarci a sperimentare con la natura un rapporto equilibrato e non di sfruttamento. Il fatto di essere la “coscienza della natura” non ci autorizza a fare alcunché di “innaturale”.

Umano e Politico, tra Camus e Sartre

La famosa querelle tra Camus e Sartre (1), di quasi sessant’anni fa, riproposta in circa 40 pagine dalla rivista “Il piede e l’orma”, alla fine del 2010, in un numero monografico quasi interamente dedicato a Camus, ridiventa incredibilmente attuale ogni volta che qualche area del pianeta vuole liberarsi dal fardello dell’imperialismo borghese. Quella volta era l’Algeria a volerlo fare nei confronti della Francia.

Ora, siccome la tentazione è quella di mettersi dalla parte di una posizione come quella di Camus, vivendo noi oggi un periodo in cui si tende a far prevalere l’umano sul politico, condizionati, in questo, dalla sconfitta del socialismo reale, che, come noto, faceva il contrario, cerchiamo di capire se davvero una posizione opposta, che quella volta s’incarnò nella figura di Sartre, sia destinata ad avere tutti i torti o se invece possa offrire ancora oggi un valido contributo per affrontare al meglio le contraddizioni del nostro tempo.

Perché qui, in fondo, si tratta di fare una scelta di campo, cioè si tratta di capire se è necessario azzerare tutti i tentativi rivoluzionari che nel passato hanno posto la politica al di sopra della morale, oppure se conservarli, previo debito filtraggio, nella convinzione che in essi vi sia un fondo di verità, utile ancora per il presente. In soldoni si tratta di capire se nei confronti delle contraddizioni del sistema borghese sia più efficace, nel lungo periodo, un atteggiamento di resistenza non-violenta, ispirato a Gandhi e fatto proprio da Camus, o se sia ancora da preferire, nonostante gli esiti catastrofici dello stalinismo, l’idea leninista di organizzare una strategia rivoluzionaria (che ad un certo punto dovrebbe diventare armata) per la conquista del potere.

Parteggiare per Camus, considerando che la posizione di Sartre è stata sconfitta dalla storia, è un’operazione troppo semplice per essere vera. D’altra parte è impossibile parteggiare per Sartre senza tener conto degli enormi progressi che, proprio intorno alla sconfitta “politica” del socialismo reale, si sono fatti in direzione dell’approfondimento dei valori umani.

Tuttavia si può qui far notare una cosa, che forse può servire per cercare una terza soluzione tra le due in campo. Tutti gli approfondimenti più significativi in direzione dell’umanesimo etico (si pensi solo ai documenti di Charta 77) non sono venuti fuori dalla cultura borghese, ma proprio da parte di chi, vivendo nel socialismo reale, lo contestava democraticamente. Un regime, quest’ultimo, che da quando è crollato sembra aver tolto alla cultura borghese il desiderio di approfondire proprio i valori della democrazia e dell’umanesimo laico, sembra aver indotto questa cultura a illudersi di possedere la quintessenza dei valori umani. Il che lascia pensare che l’uso da parte della borghesia di teorie etiche e democratiche, con cui s’appoggiava la resistenza al regime comunista, sia stata soltanto una forma strumentale all’apologia del proprio potere.

Fino a quando l’opposizione umanistica al socialismo reale non s’è imposta con l’evidenza delle sue argomentazioni, era comunque difficile contestare il valore delle accuse politiche che quel regime rivolgeva alle democrazie borghesi, secondo cui l’affermazione teorica della democrazia era del tutto contraddetta dalla dittatura del capitale. Non dimentichiamo infatti che se oggi in occidente esistono gli “Stati sociali” e, nelle nostre Costituzioni, le sezioni riguardanti i “diritti sociali ed economici”, lo si deve proprio all’ideologia socialista e non certo a quella liberale, che portò invece alle due guerre mondiali.

Ora però ci chiediamo: possiamo con sicurezza dire che dai tempi di Gandhi ad oggi l’India abbia fatto dei progressi significativi in direzione dell’acquisizione dei diritti sociali ed economici? O li abbia fatti il Sudafrica grazie a uno dei discepoli gandhiani, Nelson Mandela? Fino a che punto, in nome della sola etica, si può arrivare a trasformare una società nei suoi livelli concreti dell’economia?

La politica di Gandhi e di Mandela è sempre stata subordinata al principio della non-violenza, ma possiamo dire con certezza ch’essa abbia risolto il problema fondamentale dell’antagonismo tra capitale e lavoro? La resistenza umana contro lo stalinismo, che ha portato al crollo del socialismo reale nel 1991, ha forse fatto nascere un socialismo davvero democratico?

Queste semplici domande sono sufficienti per capire che l’etica da sola non basta, ci vuole anche la politica rivoluzionaria. Gli uomini e le donne che soffrono ingiustizie sono inevitabilmente tentati dal pensare che il loro sacrificio sia sufficiente per cambiare radicalmente le cose, ma non è così. Quando la resistenza umana è di massa, si può anche arrivare ad abbattere una dittatura (lo vediamo anche oggi in Egitto, Tunisia ecc.), ma se non si risolve la questione fondamentale della proprietà dei mezzi produttivi (vero nodo cruciale di qualunque democrazia), la situazione, presto o tardi, tornerà come prima, inevitabilmente; anzi, potrà anche peggiorare, in quanto i poteri forti sapranno prendere contromisure per non farsi abbattere come i precedenti, e useranno proprio le idee dei “riformatori morali” per sostenere che la “rivoluzione” è già stata fatta.

Chi lavora solo sul piano etico o umanistico, senza pensare a darsi delle strategie politiche rivoluzionarie, che intervengano direttamente sull’economia, s’illude che sia sufficiente il proprio esempio perché le cose s’aggiustino da sole, grazie a nuovi politici illuminati, che si pensa non avranno il coraggio di tradire chi, col proprio sacrificio e perfino col proprio martirio, li ha mandati al potere per rinnovare le cose. Ma questi politici, immancabilmente, tradiranno, perché sarà il sistema stesso, con le sue contraddizioni irrisolte di fondo, che li spingerà a farlo.

Ecco perché mettersi dalla parte della sola etica o della sola politica oggi non ha più senso. Camus avrà sempre una ragione in più contro Sartre, ma anche Sartre ne avrà una in più contro Camus. Bisogna uscire da questo circolo vizioso, chiedendosi cos’è che c’impedisce di non ripetere gli errori del passato, di non ricadere in quelle situazioni in cui si ha l’impressione, ad un certo punto, che tutti i sacrifici siano stati vani.

Per poter uscire da questo meccanismo perverso della storia, che ci induce periodicamente, a prezzo di grandi spargimenti di sangue, a ricominciare tutto da capo, occorre solo una cosa, che gli esseri umani siano davvero in grado di gestire autonomamente le risorse del territorio in cui vivono. Solo in questa maniera potranno addebitare a se stessi il fallimento della loro etica e della loro politica.

Finché non si affermerà l’autogestione delle proprie risorse territoriali all’interno di comunità in cui sia possibile la democrazia diretta, saremo continuamente indotti ad attribuire alle istituzioni statali la causa dei tradimenti dei nostri valori e dei nostri sacrifici.

Ma per affermare questa autogestione occorre non solo eliminare la proprietà privata di quei fondamentali mezzi produttivi che possono far sussistere una comunità locale; occorre anche eliminare qualunque forma di dipendenza organica dai mercati e dalle borse finanziarie: occorre affermare l’autoconsumo. Ci vogliono comunità locali che siano padrone dei loro mezzi produttivi, in grado di autogestire le risorse dei loro propri territori, capaci di democrazia diretta (e non solo delegata), in cui valori come uguaglianza sociale e libertà di coscienza non possano essere concepiti in alternativa tra loro.

Quando si vogliono realizzare cose del genere e si è disposti a difenderle, anche con le armi, diventa inutile porsi il problema se sono più importanti i valori etici o quelli politici: gli uni senza gli altri, separatamente, non resisteranno alla controffensiva del nemico.

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(1) La querelle scoppiò nel 1952, quando la rivista “Les Temps modernes”, fondata da Sartre, pubblicò una recensione molto critica, firmata da F. Jeanson, sul libro di Camus, L’uomo in rivolta. Camus rispose, con non meno durezza, direttamente a Sartre, che ovviamente replicò sulla stessa rivista. I rapporti tra i due cessarono improvvisamente.
Nel suo romanzo, dell’anno prima, Camus aveva infatti sanzionato definitivamente il suo distacco dalle teorie del comunismo politico, inaugurato coi romanzi Lo straniero e Mito di Sisifo, entrambi del 1942.
Il suo ideale di vita erano diventati i paesi scandinavi, che avevano raggiunto una certa democraticità senza alcuna violenza rivoluzionaria. E, per quanto riguardava l’Algeria colonizzata (sua patria d’origine), egli aveva in mente una soluzione collaborativa con la Francia, antitetica quindi a quella del Fronte di Liberazione Nazionale, che lottava per la piena indipendenza.
L’uomo doveva essere sì in “rivolta” – secondo Camus -, ma senza centralismi di sorta, senza intruppamenti partitici, che sempre fagocitano le libertà individuali. Ed egli prendeva come esempio Gandhi, ch’era riuscito a vincere il più grande impero coloniale del mondo con la sola non-violenza.
Camus aveva aderito al Partito comunista d’Algeria nel 1934, ma già nel 1937 ne era uscito, con la convinzione che i metodi della lotta di classe non servissero a risolvere i problemi ma ad acuirli. Politicamente preferiva gli anarchici, anche se ideologicamente si mantenne sempre vicino alle posizioni del materialismo ateo.
La rottura del 1937 non ebbe però particolari ripercussioni sulla sua vita e sui suoi rapporti con la sinistra semplicemente perché, con l’inizio della guerra mondiale, egli s’era trovato comunque coinvolto attivamente nella Resistenza francese (collaborava come partigiano col gruppo “Combat”). Sarà solo dopo la fine della guerra e in riferimento soprattutto alla situazione algerina che il suo interesse per i conflitti interiori, esistenziali, assumerà chiaramente un risvolto anticomunista.
Camus in sostanza s’era persuaso, osservando anche la degenerazione dello stalinismo, che, senza umanesimo, il comunismo rivoluzionario era destinato a trasformarsi in una dittatura: la giustezza degli ideali politici non era di per sé sufficiente a garantire la democrazia. Anche Sartre arriverà alle stesse conclusioni, ma vent’anni dopo.

Assassini Terroristi e Rivoluzionari (omaggio a Lenin)

Noi non sappiamo perché la natura ci fa così, con queste nostre caratteristiche psico-somatiche, da viversi in una limitata condizione spazio-temporale. Noi le ereditiamo da chi ci ha preceduto e dobbiamo cercare di gestirle in modo da non dover negare la nostra umanità.

Il compito che abbiamo è quello di essere noi stessi anche se vorremmo essere diversi (più forti, più sani, più belli, più ricchi ecc.). Chi non accetta la propria condizione è un alienato, nel senso che si è “diviso” dalla propria umanità.

Naturalmente questo discorso potrebbe far comodo a quegli alienati che governano gli individui, cioè a quelle persone che sono più alienate di altre e che vogliono far di tutto per sentirsi e apparire diverse, e che soprattutto non sopportano chi li ostacola in questo loro cammino di successo.

E’ proprio così che scoppiano le rivoluzioni. Quando gli individui non riescono più a gestire le loro caratteristiche psico-somatiche in determinati ambienti spazio-temporali, in maniera tale da non dover contraddire la loro propria umanità, cioè quando ci si trova costretti a far cose che non si vorrebbero e non si ha alcuna voglia di addebitare alle proprie caratteristiche la fonte delle proprie disgrazie, in quanto si ritiene vi siano cause molto più gravi, assolutamente insopportabili, indipendenti dalla propria volontà e anzi chiaramente dipendenti dalla volontà dei cosiddetti “poteri forti”, ecco che scatta l’esigenza di farla pagare a qualcuno e forse all’intero sistema.

La diversità tra un assassino, un terrorista e un rivoluzionario sta proprio in questo, che il primo elimina chi, secondo lui, ha caratteristiche migliori delle proprie e sembra sopportare meglio il peso delle contraddizioni sociali (si pensi p.es. a quando nella storia le comunità cercano un capro espiatorio, ma anche agli assassini a titolo individuale e che magari erano partiti semplicemente coll’intenzione di rubare, ma anche a quelli che per sentirsi “diversi” entrano nella criminalità organizzata). Ci si vuol fare giustizia da sé, a spese altrui (cioè di chiunque appaia stare meglio), nella speranza di poter migliorare la propria condizione personale, facendo leva solo sulle proprie capacità o su quelle del proprio clan.

Il terrorista invece fa di tutto per eliminare fisicamente i centri dei poteri dominanti (istituzionali, personali, economico-produttivi), e qui è impossibile che non vengano in mente i regicidi, le Brigate Rosse, Al Qaeda ecc. Il terrorista vuol compiere un gesto estremo, individualistico o di un piccolo gruppo isolato, che abbia rilevanza simbolica, possibilmente a livello mondiale; un gesto che si vuole far apparire come dettato da ideali di giustizia per l’intera collettività di oppressi.

Il terrorista s’illude sempre che il potere s’intimorisca, che scenda a trattative particolari con lui, quando invece di regola si fortifica, accentuando i suoi lati autoritari.

Nel mondo religioso il terrorista si serve spesso del tentativo di far coincidere martirio con suicidio. Oggi lo vediamo in alcune frange islamiche fondamentaliste, ma nel passato lo si poteva constatare anche tra i cristiani, i quali, con molta più astuzia degli odierni estremisti, facevano in modo che il loro martirio passasse per un assassinio di stato. Per far questo bastava dire di voler rispettare tutte le leggi dello Stato, ad eccezione di quella che impediva di credere nella divinità del solo Gesù Cristo (e non anche in quella dell’imperatore).

Si facevano ammazzare per un diritto giusto (quello di credere nelle proprie convinzioni), e trascuravano tutti gli altri diritti (sociali, economici, politici…), e per sembrare migliori degli altri credenti, in quanto appunto martiri dello Stato, amavano esasperare le situazioni, portarle a un punto di rottura insanabile, amavano anche infiltrarsi negli ambienti più prestigiosi del potere; infatti appena poterono, pretesero che la loro religione fosse l’unica ammessa e cominciarono a perseguitare tutti gli altri credenti.

I rivoluzionari invece sanno bene che se non insorge il popolo o comunque la sua maggioranza, o comunque quelli che non hanno più nulla da perdere e che non faranno marcia indietro, una volta presa la decisione di insorgere, quelli che non “giocheranno a fare i rivoluzionari”, proprio perché temono che in caso di sconfitta la reazione di chi comanda sarà spietata e crudele, ebbene costoro sanno con certezza che senza il popolo non esiste alcuna possibilità di successo. Tra questi rivoluzionari il più grande che la storia abbia mai avuto è stato Lenin.

Chi vuol fare il rivoluzionario e non cerca di capire come sia stato possibile che un uomo abbia potuto preparare nel proprio paese, stando all’estero, in neppure vent’anni, la più grande rivoluzione della storia, una delle pochissime ad avere avuto successo, per quanto successivamente tradita dallo stalinismo, non ha speranze di sorta.

Contestualizzare sempre

E’ impossibile capire la teoria di un qualunque pensatore se prima non si stabiliscono le coordinate di spazio e tempo che lo caratterizzano. Questa è anche una forma di rispetto, non solo di oggettività interpretativa.

Le coordinate non si riferiscono solo alle vicende storico-politiche (e quindi ai mutamenti socioeconomici), ma anche all’evoluzione della cultura (che può essere favorevole al laicismo o alla religione). A livello culturale, se si esclude la parentesi feudale, tende a prevalere, in occidente, il tentativo di liberarsi della religione usando gli strumenti della filosofia, prima, e della scienza, dopo.

La religione nasce col sorgere degli imperi schiavistici, come strumento per giustificare l’oppressione. La filosofia (non solo quella greca ma anche quella borghese) tende indubbiamente a emanciparsi dalla religione sul piano gnoseologico, ma assai raramente arriva a metterla in discussione su quello politico (forse il primo vero tentativo è stato quello della rivoluzione francese).

Nelle civiltà antagonistiche la religione costituisce una forma di potere politico, di cui le istituzioni si servono per dominare le masse, le quali, nell’ignoranza e superstizione in cui vengono tenute, raramente mettono in discussione il fatto che la religione debba avere una valenza politica. Le masse si difendono dall’oscurantismo e dal clericalismo con l’indifferenza o con l’opportunismo di un’adesione meramente formale; nel migliore dei casi sostituendo delle convinzioni religione con altre, com’è avvenuto, p.es., con la riforma protestante.

Per capire ciò che un pensatore ha voluto dire, bisogna chiarire il contesto in cui egli è vissuto e il tipo di esperienza che ha vissuto. In tal senso anche la sua biografia acquista una certa importanza.

In ogni società esistono contraddizioni che attendono d’essere risolte. Nei confronti di tali contraddizioni si possono formulare delle ipotesi risolutive sulla base di proprie istanze emancipative o di liberazione. I soggetti possono avere desideri o interessi a che le cose mutino nella sostanza e non solo nella forma.

Sotto questo aspetto è molto importante non soffermarsi sulle opere principali di un teorico, ma, se lo si vuole veramente capire, è necessario analizzare tutto quello che ha prodotto. Infatti, non è raro il caso che istanze nutrite nel periodo giovanile, siano poi state abbandonate nel periodo della maturità, a causa delle difficoltà insorte nel tentativo di trovare delle soluzioni. Alle sconfitte ci si adatta, trovando dei compromessi che permettono di continuare a vivere. Basta leggersi la vita di Kant o di Hegel.

Bisogna quindi verificare se nei confronti di quelle istanze originarie esiste un tradimento vero e proprio, un’involuzione nel pensiero, o semplicemente un provvisorio ridimensionamento, in attesa di tempi migliori. I soggetti si confrontano sempre con una realtà che li precede, indipendente dalla loro volontà, e ad un certo punto si pongono il problema se hanno forze sufficienti per modificare in toto o in parte quella realtà. Di qui la trasformazione, p.es., di una concezione religiosa o filosofica in concezione “politica”, rivolta concretamente all’organizzazione delle masse.

Chi esamina questi soggetti non può essere così schematico da focalizzare la sua attenzione solo sui tradimenti delle istanze originarie. Un intellettuale può porsi dieci come obiettivo finale e poi ottenere solo tre: ebbene, per il critico che ne esamina le opere, questo tre deve diventare più importante del fallimento del restante sette. Un intellettuale cioè può aver fallito sul piano politico, ma può aver dato un contributo molto importante in altri settori della conoscenza: filosofia, economia politica ecc., come p.es. nel caso di Marx.

Generalmente sono due i processi che un critico deve esaminare: l’emancipazione della filosofia dalla religione, ovvero i progressi dell’umanesimo laico, e la trasformazione della filosofia in politica rivoluzionaria, cioè tutti quei tentativi pratici di liberarsi degli antagonismi sociali, per riportare l’umanità a quel periodo storico in cui non esistevano conflitti di classe o appropriazioni private di mezzi produttivi e che storicamente è durato un tempo infinitamente più lungo di quello che fino ad oggi ha caratterizzato le cosiddette “civiltà”.

I due processi non marciano in parallelo, essendo relativamente autonomi, anche se quello pratico-politico, volto a realizzare il socialismo, si avvale delle conquiste culturali del laicismo. Semmai non è vero il contrario, nel senso che queste conquiste culturali non necessariamente sono finalizzate ad affermare il socialismo democratico.

La ragione di ciò è molto semplice: i poteri dominanti sono più disposti a tollerare degli sviluppi culturali contrari alle loro tradizioni ideali che non dei rivolgimenti politici, che rischierebbero di far perdere loro i poteri acquisiti. Da tempo l’ateismo è diventato culpa levis, diceva Marx. Ecco perché la lotta contro le istituzioni oppressive può essere condotta su due binari paralleli, non necessariamente destinati a incrociarsi: quello della cultura e quello della politica.

Se si compie una rivoluzione politica prima di quella culturale, come p.es. nella rivoluzione russa, poi bisogna avere grandi accortezze a non imporre alle masse l’ideologia che ha trionfato. Se invece si preferisce la soluzione gramsciana dell’egemonia culturale, non ci si può poi illudere che questo sia sufficiente per realizzare una transizione a favore del socialismo.

Per operare un cambiamento effettivo della realtà, bisogna saper trasformare le contraddizioni del sistema e i bisogni delle masse in armi rivoluzionarie. E questo non è mai un processo facile né indolore.