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I rischi del credere

Qualunque credenza religiosa comporta sempre il rischio che, al cospetto di un’esigenza di liberazione nei confronti di contraddizioni insostenibili, il soggetto assuma atteggiamenti nocivi o controproducenti al raggiungimento di uno scopo comune.

Il credente, infatti, oscilla sempre tra due atteggiamenti opposti: l’ingenuità e il fanatismo, che spesso portano a medesime conseguenze, anche del tutto involontarie.

L’ingenuità sta nel fatto che il soggetto crede in entità astratte, ritenute onnipotenti sotto ogni aspetto, per cui può essere facilmente raggirato o tratto in inganno. Può infatti diventare fanatico quando gli si chiede di compiere determinate azioni, in virtù delle quali gli viene fatto credere d’essere molto più in linea con la volontà divina.

In genere è abbastanza facile riconoscere credenti del genere, poiché sono quelli che antepongono le idee ai fatti, che privilegiano l’ideologia alla politica, che subordinano la soddisfazione dei bisogni al rispetto dei precetti religiosi, che praticano discriminazioni di vario tipo: fede religiosa, genere sessuale, provenienza geografica, lingua parlata e cose analoghe.

Con questo ovviamente non si vuole sostenere che per realizzare una liberazione nazionale o una qualche forma d’insurrezione non debbano esserci dei martiri. Semplicemente non dovrebbero esserci dei martiri influenzati dalle idee estremistiche di qualche intellettuale.

Si può morire per una giusta causa, ma a condizione che questa sia “popolare”, cioè condivisa da ampi strati della popolazione. Quando si lotta per una giusta causa, non si può venir meno ai princìpi della democrazia o ai valori umani universali.

Una minoranza non può imporre le sue regole di vita, i suoi punti di vista alla maggioranza. Non si possono fare rivoluzioni o insurrezioni o moti popolari senza il consenso di ampi strati di cittadini e di lavoratori, senza dibattiti pubblici, senza confronto alla pari con chiunque voglia impegnarsi in progetti del genere.

La persuasione ragionata è la prima arma della democrazia. La seconda è l’autodifesa. Sarebbe assurdo, infatti, rinunciare a difendere le conquiste di un moto eversivo o di una qualche rivendicazione popolare solo perché l’avversario ha scatenato una controffensiva.

Dunque, ci si può fidare dei credenti? Diciamo fino a un certo punto. Quando sono in gioco interessi collettivi, che coinvolgono credenti di varie religioni e anche non credenti, sarebbe bene non affidare ad alcun credente delle responsabilità direttive o strategiche, proprio perché qualunque credente è una persona potenzialmente inaffidabile.

Non è infatti possibile sapere fino a che punto egli s’impegni, come cittadino, a favore della democrazia in sé o non piuttosto per ottenere dei privilegi proprio in quanto credente. D’altra parte non si può indurlo a compiere determinate azioni facendo leva sulla sua fede religiosa, poiché ciò implicherebbe una strumentalizzazione delle sue convinzioni. Neppure è possibile farlo agire come se tali convinzioni non le avesse (chi avrebbe il coraggio d’imporre a un ebreo o a un islamico di mangiare carne di maiale?), e tanto meno è possibile rinunciare alla sua disponibilità a lottare per il bene comune solo perché ha determinate convinzioni.

Bisogna sapere trovare un punto d’incontro che soddisfi l’obiettivo comune della liberazione dagli antagonismi sociali. Di regola, al cospetto di obiettivi del genere, si chiede ai partecipanti d’impegnarsi a prescindere dall’atteggiamento che si può avere in campo religioso, ma è evidente che i credenti, proprio perché tali, non mancheranno di far valere, quando lo riterranno opportuno, la loro diversità. Ecco perché non ci si può fidare ciecamente di loro.

Tuttavia bisogna fare attenzione a non ostacolarli per motivi di opinione e a non offenderli nei loro sentimenti, cioè a non creare, da parte degli organi di potere, degli inutili martiri. Se c’è una cosa, infatti, che induce a credere ancora di più nella verità delle proprie idee, è vedere che per queste stesse idee qualcuno è disposto ad accettare qualunque persecuzione.

Le regole generali, democratiche, da far valere nell’atteggiamento da tenere nei confronti delle religioni dovrebbero essere le seguenti: 1) la religione dev’essere dichiarata un affare privato (della coscienza), senza ch’essa possa aspirare a pretese di tipo politico o nazionalistico; 2) ognuno dev’essere lasciato libero di professare qualsiasi religione o di non riconoscerne alcuna, cioè di essere ateo o agnostico; 3) è inammissibile tollerare delle differenze sostanziali nei diritti dei cittadini motivate da credenze religiose, ovvero ci si può opporre a determinati comportamenti o leggi degli organi di potere se viene violata la libertà di coscienza, che è un diritto riguardante chiunque, credente o non credente che sia; 4) un partito politico può anche fare propaganda a favore dell’ateismo senza per questo violare la libertà di coscienza di nessuno; anche le chiese o le associazioni religiose possono fare propaganda delle loro idee; 5) sono possibili alleanze fra credenti e atei sulla base di piattaforme politico-programmatiche che nulla hanno a che vedere né con l’ateismo né con la religione; 6) se un credente accetta la linea politi­ca di un partito aconfessionale, deve poi preoccuparsi da solo di risolvere le sue in­coerenze sul piano ideologico: dal partito avrà soltanto l’assicurazione che non verrà discriminato per la sua diversa ideologia; 7) si può ammettere all’interno di un partito la libertà di opinione, ma entro i limiti fissati dalla libertà di associazione: non possono essere ammessi predicatori attivi di concezioni respinte dalla maggioranza del parti­to.

 

Separare ragione e fede

Ragione e fede devono per forza restare separate, così come la chiesa, anzi le chiese dallo Stato, poiché la fede non può obbligare la ragione a credere in cose indimostrabili. Certo, anche la ragione può credere in cose indimostrabili, ma non deve farlo perché glielo chiede la fede. Semplicemente fa parte della natura umana credervi: che si sia amati dal proprio partner o che l’universo sia eterno e infinito, non può certo essere dimostrato razionalmente, eppure, non per questo, pensiamo d’essere affetti da misticismo.

Il campo della fede dovrebbe essere tutto quello che non si può dimostrare razionalmente e in cui ci si può credere senza alcun obbligo di farlo. E, in tal senso, non dovrebbe essere di pertinenza della sola religione, ma anche dell’etica e della morale laica. Ecco perché una fede politicizzata o una chiesa che voglia svolgere una funzione di supplenza nei confronti dello Stato, sono aspetti del tutto estranei alla democrazia e quindi alla libertà di coscienza.

Con questo non si vuole affatto dire che una società in cui esistesse solo lo Stato e nessuna religione, sarebbe, solo per questo motivo, più democratica. E non si vuol neppur dire che una società deve esistesse solo una fede, sarebbe più antidemocratica di quella in cui esistesse solo la ragione. La democraticità di una società è questione pratica, non teorica, cioè va dimostrata di volta in volta, anche se resta fuor di dubbio che non c’è democrazia là dove manca la libertà di coscienza, che è quella di credere o non credere nel valore di determinate cose, o – se si preferisce – in ciò che si vuol far passare come “vero”.

Ritenere che la verità sia un’evidenza in cui si “deve” (per forza) credere, o per fede o secondo ragione, è una pretesa insensata, poiché non c’è nulla che sia evidente di per sé. Persino il fatto di esistere è relativo, in quanto la morte potrebbe essere solo una trasformazione da una condizione di vita a un’altra.

L’ideale sarebbe che non esistessero affatto le istituzioni, poiché è il concetto stesso di “istituzione” (laica o ecclesiastica che sia) che induce a credere che la verità sia un’evidenza.

Facciamo un esempio molto banale: quello degli incroci stradali, così frequenti nelle città. Un tempo erano i vigili che decidevano quando un automobilista doveva passare. Esercitavano un potere secondo coscienza. Ci si doveva affidare al loro buon senso e alla loro intelligenza. Poi vennero i semafori, per risparmiare sul personale e per non obbligarlo ad ammalarsi d’inquinamento. Ma i semafori sono schematici: hanno una regolamentazione predeterminata una volta per tutte, e non possono tener conto delle reali esigenze del momento. Invece di agevolare il traffico, i semafori lo intasavano, portando lo stress a livelli insostenibili, tanto che, ad un certo punto, furono sostituiti dalle rotonde. Era il trionfo dell’autonomia decisionale. L’automobilista diventava prudente per libera scelta, dovendo rispettare soltanto la regola che chi è già dentro la rotonda ha la precedenza.

Ma perché c’è voluto così tanto tempo prima di capire che bastava un piccolo accorgimento per potersi autogestire? Il motivo sta nel fatto che noi viviamo in società dominate da istituzioni, le quali vogliono far credere che le cose funzionano solo quando le decisioni vengono prese dall’alto. Le istituzioni non si fidano dei cittadini, né della democrazia e tanto meno della libertà di coscienza, per quanto ci si voglia far credere ch’esse siano preposte proprio a questo.

Le istituzioni sono nate quando una piccola minoranza le ha volute per imporsi sulla grande maggioranza. Le loro regole cambiano soltanto quando la grande maggioranza non ne può più, cioè non quando iniziano ad apparire sbagliate determinate decisioni di vertice, ma proprio quando la loro assurdità ha raggiunto livelli assolutamente insopportabili. Ecco perché il progresso a favore della democrazia e della libertà di coscienza è così incredibilmente lento. Le istituzioni devono prima convincersi che i cambiamenti di forma non pregiudicheranno la sostanza del privilegio. I mutamenti sono veloci solo quando scoppiano le rivoluzioni, che però, purtroppo, vengono facilmente tradite.

Ora però torniamo al punto di partenza. Perché oggi diamo per scontato che ragione e fede debbano marciare separate? Qui la motivazione non può che essere di natura storica. Se nel passato l’esperienza della fede avesse soddisfatto le esigenze umane (di giustizia, di libertà, di sicurezza, di autenticità, ecc.), è evidente che la ragione non avrebbe chiesto di agire autonomamente. Ciò però non toglie che, storicamente, non sia accaduto anche il contrario, e cioè che la fede sia sorta in seguito a un cattivo uso della ragione. La fede nel non-razionale, in altre parole, può essere emersa quando un uso arbitrario della ragione ha reso la vita molto difficile, facendo apparire irrisolvibili le sue contraddizioni.

In un certo senso la fede appare come una ragione rassegnata al male, che spera di poterlo risolvere solo in una dimensione ultraterrena. Tuttavia gli uomini “ragionevoli” possono anche stancarsi di questa rassegnazione e prendersi la loro rivincita sugli uomini di chiesa.

Ecco, a questo punto vien d’obbligo chiedersi: perché ancora oggi la fede sussiste? La risposta va cercata unicamente nelle modalità in cui la ragione ha cercato di vivere la propria emancipazione. Se queste modalità non erano davvero democratiche e quindi rispettose della libertà di coscienza di ogni essere umano, appare del tutto naturale che si continui ad avere un atteggiamento di fede. Non è dunque la fede che impedisce alla ragione di svilupparsi, ma è la stessa ragione che non riesce a trovare in sé motivi sufficienti, anzi, modalità adeguate per diventare sempre più democratica.

La fede è come un sadico che gode quando vede fallire i tentativi che la ragione compie per essere libera. Assomiglia a quegli animali opportunisti che si avventano sulle loro prede quando le vedono in gravi difficoltà. In realtà la vera fede è quella che vive la ragione senza concedere nulla alla religione. È inammissibile che, a causa della naturale fede o fiducia umana, si possa formare una casta privilegiata chiamata “clero”, sia esso laico o ecclesiastico. E tanto più lo è il fatto che, in presenza di tali caste, ci si chieda di credere nelle istituzioni per risolvere i problemi che quelle stesse caste hanno creato o che impediscono, solo per la loro presenza, di risolvere.

Sperare contro ogni speranza

Quando si finisce sulle Ande, perché l’aereo vi si è schiantato contro, e i soccorsi non arrivano e i viveri sono molto scarsi e non c’è alcun modo di comunicare con l’esterno, perché la radio non funziona, e i passeggeri, chi per le ferite riportate, chi per inedia, finiscono, uno dopo l’altro, per morire, e la disperazione comincia a farsi strada nei sopravvissuti, che, guardandosi attorno, avevano per un momento pensato d’essere stati “fortunati” – si vede subito la differenza tra l’ateo e il credente.

Uno prega, l’altro no; uno è passivo, rassegnato, l’altro no; uno dice di aspettare i soccorsi, l’altro invece li vuole andare a cercare tra quelle montagne impervie e innevate. Uno si affida a dio, l’altro al proprio io e cerca di convincere altri io a rischiare il tutto per tutto. Preso dalla terribile fame l’ateo propone di mangiare i cadaveri degli altri passeggeri; il credente, invece, si oppone per motivi di coscienza: ne fa una questione ideologica.

Dov’è dunque la vera differenza tra i due atteggiamenti? Dobbiamo forse pensare che l’ateo faccia di tutto per sopravvivere perché ritiene che non esista alcun aldilà? E che il credente faccia bene ad essere indifferente nei confronti della morte, perché sa che comunque tornerà a vivere? Dei due quindi dobbiamo ritenere più immaturo, più sprovveduto l’ateo, che non sa come stanno davvero le cose nell’universo?

No, la differenza non può stare in queste cose, poiché anche l’ateo può pensare che la vita continui dopo la morte. Se ritiene che l’universo sia infinito e che tutto quanto vi è contenuto si trasforma perennemente, niente gli impedisce di crederlo.

In fondo il credente non può avere alcuna certezza del suo “paradiso”: è solo una sua convinzione personale, in cui chiunque può credere, senza per questo dover scomodare l’esistenza di un fantomatico dio. La differenza, tra i due, non può essere così banale: deve per forza essere un’altra.

Il credente pensa di poter esibire ciò che lo distingue dall’ateo, per far vedere che è migliore, che il suo atteggiamento rassegnato e autoconsolatorio è quello giusto. Lui attende fiducioso un intervento miracoloso e si sente autorizzato a pensare che, se questo non arriva, la loro o la sua sia soltanto una prova da superare, magari per misurare la fede o per punire, lui o qualcun altro, di qualche peccato compiuto. Lui è lì, tutto pronto a fare delle supposizioni metafisiche.

No, l’ateo non farebbe mai ragionamenti del genere, così paralizzanti: tanto meno accetterebbe l’idea che quella tragica avventura deve servirgli per mutare opinione sulle questioni della fede. Anzi, troverebbe il modo di organizzarsi per cercare di salvare tutti, perché per lui la vita va vissuta sino in fondo, è tutto quello che è in suo potere di fare, deve farlo.

In questo sta la sua diversità: se deve morire, vuol farlo camminando, non stando a sedere, chiuso in quel rottame abbandonato da dio. Cercherà un modo per comunicare, anche a costo di attraversare a piedi quell’enorme catena montuosa. Si attrezzerà, pensando di dover sopravvivere a 40 gradi sotto zero e in un sacchetto metterà una scorta di carne umana. Non darà per scontato, senza prima provarci, che non ci sia più nulla da fare.

E una volta che avrà trovato i soccorsi, farà capire al credente cosa vuol dire l’espressione “sperare contro ogni speranza”. Sì, farà capire proprio a lui cosa vuol dire “aver fede”.

Il voto dei referendum deve seppellire il Chiavalier Protesi Pompetta, troppo uso a offendere gli elettori oltre che a voler sentirsi dire “mi hai rovinato” (!) dalle donne con cui scopa. E deve travolgere il miserabile mondo che gli tiene bordone

Di offendere gli elettori, e quindi gli italiani, Silvio Berlusconi ce l’ha di vizio. E’ la terza volta che lo fa, pubblicamente e un modo plateale. Un vizio che si affianca a quello di diffamare la magistratura e di criminalizzare i comunisti o quelli che lui ritiene tali. Alle elezioni del 2006 disse che chi vota a sinistra “è un coglione”, anche se in un’intervista a “Radio anch’io” del marzo 2007 arrampicandosi sugli specchi negò di avere usato quel termine per gli elettori, ma di averlo usato solo in una riunione del direttivo dei commercianti per esortarli a non votare a favore del centro sinistra di Romano Prod. Berlusconi ammise di avere detto “non credo che tra di noi ci possano essere dei colleghi così coglioni da votare contro il proprio interesse”. Insomma, se non era zuppa, era pan bagnato… In realtà però Berlusconi a “Radio anch’io” aveva mentito, perché le sue parole esatte alla assise dei commercianti erano state queste: “Ho troppa stima degli italiani per pensare che ci siano in giro così tanti coglioni da votare contro i propri interessi”. Lo dimostra il video di quella sua illuminante dichiarazione: http://www.youtube.com/watch?v=Shre4CMbigI
Nella recente campagna elettorale per le votazioni amministrative, quelle che a Milano hanno promosso sindaco “il comunista ladro di auto e amico dei terroristi” Giuliano Pisapia e a Napoli la “toga rossa” Luigi De Magistris, Berlusconi dal salottone televisivo di “Porta a porta” ha lanciato un’altra fatwa: “Chi vota a sinistra è privo di cervello”, come ha immortalato il video  http://www.youtube.com/watch?v=Q2i9GQf0NDo . Una arzilla signora non più giovanissima ha deciso di querelarlo per diffamazione, iniziativa che varrebbe la pena seguire in molti. Magari con una bella class action…
Ora, in vista della votazione sui referendum, apprendiamo sempre dall’ineffabile cavalier Berlusconi che si tratta di “un voto inutile” (  http://www.youtube.com/watch?v=yV_eJBl7NuQ ). Il che è come dire che chi andrà a votare – specie se voterà sì – farà una cosa inutile.  Un altro modo per dare del coglione e del senza cervello a chi non la pensa come lui e i suoi fans.
Bene. Direi che può bastare. Un primo ministro che dà del coglione a quasi metà degli elettori, che oltretutto sono svariati milioni di cittadini, e dichiara che la maggioranza dei milanesi e dei napoletani sono senza cervello, visto che hanno eletto proprio Pisapia e De Magistris contrariamente alle sue convinzioni e alla annessa fatwa, è un primo ministro che non può continuare ad essere tale. Non lo dico io o un “kommunista” o qualche altro coglione senza cervello, lo dice invece proprio lui, il diretto interessato. Stando così le cose, andare a votare per i referendum, contro le convinzioni di Berlusconi, e far vincere il sì, ancor più contro le convinzioni dello stesso Berlusconi, dimostrerà invece che si tratta di un voto utile. Utile per dargli un’altra spinta verso l’uscita da palazzo Chigi. Perciò un voto utilissimo. Specie visto che il quorum è in vista, alle 22 di domenica ha già votato il 41,1% degli aventi diritto, una delle percentuali più altre nella storia della prima giornata di voto di tutti i referendum della repubblica italiana.
Intanto è bene che resti a perenne ludibrio per il Chiavalier Bunga Bunga il testo della conversazione telefonica tra due che lo consoocn bene e se ne intendono, Daniela Santanché e Flavio Briatore, campioni di un mondo che prefersico non aggettivare, ma che certo non ho in stima. Catastrofica e da pessimo film porno maniacale la figura di Berlusconi che ha bisogno di scopare per sentirsi dire dalle poveracce di turno che a furia di scoparle le ha distrutte…. Per farlo contento e accarezzare il suo orgoglio maniacal macho, del tutto degno dell’aggettivo “malato” affibbiatogli dalla ex moglie Veronica, le sue molto gentili ospiti hanno imparato a genere che non ce la fanno più già dopo “due botte”. Mi chiedo se l’Italia è un Paese civile o un postribolo, per avere un simile capo del governo. Mah.
Per cercare di arginare gli effetti devastanti di ciò che si sono confidati, Santanché e Briatore hanno rilasciato interviste per dire minchiate spaziali, dando alla loro conversazione telefonica un significato riduttivo buono tuttalpiù per cercopitechi, o – usando un termine berluscone – per coglioni del loro giro o, a scelta, per i vari Minzolini, Feltri, Sallusti, Belpietro e lo scelto circo Barnum dei “liberi servi del Cav” messo in piedi al teatro Capranica di Roma dal solito incontinente Giuliano Ferrara. Una pochade per la quale vale solo la pena chiedesri se Cav sta per “Liberi servi del Cavaliere” o del Cavolo.
Dal testo della telefonata ho tolto tutto ciò che non si riferisce al “trombage” del Chiavalier Protesi Pompetta. Continua a leggere

Sette giorni, una vita. Il Lingotto-Marchionne sancisce la fine delle conquiste civili e dello sviluppo dell’Italia iniziate col dopoguerra? E’ ormai più che assodato che siamo governati nell’interesse di una banda di malfattori. Per giunta benedetti da un Vaticano protettore dei bunga bunga dei preti pedofili

Qual è la notizia peggiore tra quelle dell’ultima settimana? Difficile dirlo, perché è stata una grandinata. Sono reduce dalla quattro giorni di congresso nazionale tenuto a Bergamo dalla Federazione nazionale della stampa italiana (Fnsi), cioè del sindacato nazionale federale dei giornalisti italiani, la cui prima giornata è stata occupata dai discorsi dei tre editori ospiti, Carlo De Benedetti del Gruppo L’Espresso, Fedele Confalonieri di Mediaset e Piergaetano Marchetti della RCS, cioè della Rizzoli-Corriere della Sera. Stendiamo un pietoso velo. Per ora. Armiamoci di coraggio e procediamo.

1) – Il caso Fiat-Marchionne. Che in realtà è il più importante di tutti dal punto di vista strutturale e dell’economia. Beh, sappiamo già di che si tratta, lo abbiamo detto alcune volte. In Italia sono in atto due cose: lo smantellamento di molti diritti conquistati con la lotta contro il fascismo e nel dopoguerra; la riduzione progressiva del cittadino in consumatore. In questo quadro c’è la tentazione di demolire anche la dignità professionale, riducendo il più possibile a forza lavoro un tanto al chilo, cioè all’ora o alla giornata, qualunque tipo di figura professionale subordinata. Quanto accade al Lingotto della Fiat non è che la conseguenza di tutto ciò, nonché la spallata definitiva. C’è la tendenza a rendere il lavoratore subordinato italiano sempre meno lavoratore professionale e cittadino e sempre più forza lavoro un tanto al chilo e consumatore. A pensarci bene non si tratta di ridurre i lavoratori italiani come fossero extracomunitari, ma come fossero palestinesi in Israele. L’extracomunitario infatti dopo alcuni gironi infernali può diventare cittadino italiano come gli altri, ma il palestinse d’Israele non potrà mai diventare un cittadino come gli altri alla stessa stregua dei lavoratori italiani che sempre meno potranno essere cittadini come quelli che campano del lavoro altrui anziché solo del proprio. Con l’aggravante che ai vari Elkan, che disgraziatamente hanno preso il posto degli Agnelli prematuramente scomparsi, Giovannino ed Edoardo, della Fiat “italiana” non gliene può fregare meno, se non per altri miliardi di euro regalati dallo Stato italiano ufficialmente “a favore dell’occupazione” (!), per il semplice motivo che hanno una mentalità quanto meno “internescional”, come dimostra l’incapacità di Lapo Elkan a parlare in italiano decente che è pari alla sua capacità di spendere – qualcuno forse direbbe scialacquare – quattrini in malo modo. Quattrini, non dimentichiamolo mai, che provengono in parte dalle nostre tasche, cioè dalle nostre tasse, e in massima parte dal sudore dei lavoratori. Continua a leggere