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Come e perché NON hanno voluto salvare Aldo Moro

Domenica 16 marzo ricorre l’anniversario del rapimento dell’onorevole democristiano Aldo Moro, ex ministro ed ex capo del governo, e del massacro della sua scorta, avvenuti per opera delle Brigate Rosse nel 1978. Moro come è noto è stato ucciso dopo 55 giorni di prigionia, il 9 luglio,  in un angusto “carcere del popolo” ricavato dietro una parete di un appartamento in via Camillo Montalcini n. 8 a Roma.  Desidero raccontare quanto ho appreso casualmente nell’agosto 1993 riguardo la mancata possibilità che lo Stato italiano liberasse Moro. E come è stata sprecata la possibilità di fare piena luce sui perché e per ordine di chi il manipolo di “baschi neri” del ministero dell’Interno venne bloccato pochi minuti prima di assaltare la prigione brigatista. Prima però è bene inquadrare la vicenda nel suo contesto storico non sufficientemente noto. Vado quindi per ordine.

Un primo tentativo di assassinare moralmente Moro è del 1976 e porta già la firma di Kissinger. Negli Usa la commissione Frank Church del senato USA comincia quell’anno le sue indagini sulle attività delle multinazionali tese a organizzare in tutto il mondo scandali contro le frazioni pro-sviluppo dei propri Paesi e scopre, tra l’altro, che la potente industria aeronautica militare Lockheed usava corrompere con ricche bustarelle i politici di più parti del globo per convincerli ad acquistare i propri aerei. A prendere le mazzette in Italia era un misterioso personaggio soprannominato in codice Antelope Cobbler. Per farne naufragare la politica di apertura ai comunisti e ai palestinesi, è un assistente del Dipartimento di Stato, cioè di Kissinger, tale Loewenstein, filosionista e antiarabo come il suo famoso principale, a proporre di dare in pasto alla stampa Moro indicandolo come l’Antelope Cobbler. La proposta è resa operativa da Luca Dainelli, ambasciatore italiano negli Usa e membro dell’International Institute for Strategic Studies. Continua a leggere

Il Lupo 007 deve avermi scambiato per Cappuccetto Rosso. Mi è stata fatta a suo nome una bella proposta truffa: “Trovami 4 milioni di euro che facciamo liberare Emanuela Orlandi”. Cifra poi scesa, come in un suk di peracottari, ad appena 100 mila euro….

“250 mila euro per leggere il suo memoriale. Altri 250 mila per portartene via una copia. E 3 milioni e mezzo di euro per far liberare Emanuela Orlandi. Così tu diventi il giornalista più famoso del mondo”. La proposta mi lascia a bocca aperta. A farmela non è uno sconosciuto o un cialtrone, ma uno stimato professionista che conosco da 30 anni e che in passato ha avuto l’avventura di difendere in una causa civile un parente di un carabiniere di Bergamo che si chiama Luigi Gastrini. Sì, proprio il sedicente ex 007 dei nostri servizi segreti militari Sismi, asserito nome in codice Lupo, attuale proprietario di una fattoria in Brasile, che la sera del 16 giugno ha telefonato in diretta al programma Metropolis della tv privata capitolina RomaUno per dire che “Emanuela Orlandi è viva e si trova in un manicomio a Londra”. Scatenando così l’ennesima pista farsa sulla pelle della povera Emanuela. Che anche questo Lupo a Metropolis raccontasse fregnacce lo si capiva non solo per il fatto che è ormai fin troppo evidente che purtroppo Emanuela è morta, ma anche da altri due particolari. Il primo è che in Inghilterra i manicomi non esistono. Il secondo è che Lupo Gastrini in quella telefonata ha detto a Pietro Orlandi, fratello di Emanuela e presente in studio con Fabrizio Peronaci del Corriere della Sera, che suo padre, Ercole, aveva scoperto e forse coperto un brutto “giro di quattrini della banca Antonveneta”: il problema è che l’Antoneveneta è nata solo 16 anni DOPO i fatti descritti dal nuovo fantasista sedicente Lupo del Sismi. Continua a leggere

Anche Marrazzo si nasconde dietro un dito, anzi più d’uno, e minaccia la stampa. Ma dopo un pessimo inizio ha cambiato atteggiamento: errare humanum. Mentre invece Berlusconi continua col suo “perseverare diabolicum”. Volando in Russia forse per far sesso in santa pace dall’amico Putin. Annusandone oltre alle amiche dal fascino slavo anche i miliardi dal fascino molto tentatore

Mi aveva molto infastidito che anche Piero Marrazzo, presidente della Regione Lazio, alle prese con lo scandalo emerso dall’arresto di quattro carabinieri si nascondesse dietro un dito, anzi due, o meglio tre, anzi quattro: il solito complotto per elettorale, il bene supremo dei cittadini da lui amministrati e, esattamente come un Mastella qualunque, la “famigghia”, che a Roma diventa la “famija”, più il ringhio degli avvocati. Queste le tre dichiarazioni che sono ognuna un dito dietro il quale usano nascondersi i berlusconi, i mastelli, le mastelle e le facce di bronzo tutte:

1) Mi vogliono colpire alla vigilia delle elezioni. Sono amareggiato e sconcertato per il tentativo di infangare l’uomo per colpire il Presidente. Quel filmato, se davvero esiste, è un falso. E’ stato sventato un tentativo di estorsione basato su una bufala. Non ho mai pagato, nego di aver mai versato soldi. Bisogna vedere se l’assegno che dimostrerebbe il pagamento l’ho firmato io. Occorrerà attendere l’esito delle perizie calligrafiche”

2) “Devo annunciare che, pur con grande  amarezza, continuero’ con serieta’ e determinazione il mio lavoro fino  all’ultimo giorno della legislatura. Ci  sono provvedimenti troppo importanti per i cittadini del Lazio a cui dobbiamo dare esecuzione”.

3) “Ho una famiglia alla quale tengo  piu’ di ogni altra cosa e che voglio preservare con tutte le mie  forze. Da questo momento, quindi, di questa vicenda parleranno  esclusivamente i miei legali”.

Questa è per l’appunto la dichiarazione del suo legale, avvocato Luca Pietrucci:: “A  fronte di qualunque notizia che dovesse ledere la reputazione del  Presidente Marrazzo si procedera’ senza indugio a promuovere tutte le  iniziative giudiziarie a tutela del proprio assistito per i reati di  diffamazione, di violazione del segreto istruttorio e della evidente e  gravissima violazione del diritto della privacy”. Continua a leggere

“Muoia Sansone con tutti i filistei!”: è ormai il grido del Silvio Sansone della Fininvest e di Mediaset deciso a scassare anche la Costituzione pur di farla franca con la giustizia

Anche un cretino capisce che le minacce “brigatiste” a Silvio  Berlusconi, Umberto Bossi e Gianfranco Fini sono o il delirio di un cretino, come ha giustamente detto lo stesso Fini, o un servizio reso a Berlusconi da una qualche manina o manona, ingaggiata a bella posta da amici o amici degli amici. Il nostro amatissimo Chiavaliere a Dondolo Berluscon de’ Berlusconi, più alto che onesto, è infatti stretto nell’angolo da varie botte in testa ricevute di recente e da altre che lui sa o teme che stiano per arrivare. Cosa di meglio dunque di una bella patacca utile a farlo passare per vittima dei “brigatisti? Bush è riuscito a ingannare alla grande anche i suoi stessi concittadini facendo inventare su misura le “bombe atomiche irachene” utili per fare accettare ai gonzi la guerra all’Iraq. Nel suo piccolo, il disinvolto circo Barnum di Berluscon de’ Berlusconi deve accontentarsi di una qualche “minaccia brigatista”…. Continua a leggere

Il collega Enzo Magosso ha scritto una verità scomoda, e cioè che i carabinieri di Milano sapevano con sei mesi di anticipo che Walter Tobagi, ucciso il 28 maggio 1980, era nel mirino dei terroristi. E per averla scritta lo hanno condannato. Una sentenza che il processo d’appello deve cancellare, se la libertà di stampa non è diventata un’auto priva di benzina e con i freni in azione

In vista del processo di appello che inizia domani, 13 ottobre, a Milano, questa mattina ho assistito alla conferenza stampa del collega Enzo Magosso, condannato in primo grado dal tribunale di Monza a pagare 240 mila euro di risarcimento per “danni morali e all’immagine” al generale dei carabinieri Alessandro Ruffino e alla sorella del defunto generale Umberto Bonaventura a causa di una intervista a un sottufficiale dei carabinieri in pensione, Dario Covolo, pubblicata sul settimanale Gente del 17 giugno 2004. Covolo aveva raccontato come i carabinieri dell’antiterrorismo di Milano non avessero mosso un dito pur avendo saputo con sei mesi di anticipo da un loro confidente militante della sinistra armata – il postino Rocco Ricciardi, di Varese – che il giornalista Walter Tobagi era nel mirino dei terroristi della Brigata XXVIII Marzo che in seguito, il 28 maggio 1980, lo uccisero davvero.
Al processo a Monza non solo Covolo ha ribadito tutto, ma il generale dei carabinieri in pensione Nicolò Bozzo ha consegnato vari elementi che smentivano la tranquillizzante versione ufficiale dei suoi ex colleghi milanesi.
Nei giorni scorsi ho avuto modo di vedere un altro documento, che per fortuna Magosso è riuscito a procurarsi, che inchioda alle loro responsabilità alcuni carabinieri ex responsabili dell’antiterrorismo di quell’epoca. Non solo è incomprensibile, contro la logica, se non vergognoso che Magosso sia stato condannato, ma sarebbe ancor più grave se in appello la condanna venisse confermata, pur se magari ridimensionata. Sarebbe  grave perché si tratterebbe di un altro colpo alla libertà di stampa.
E’ certamente non vero che in Italia non esiste la libertà di stampa o che sia minacciata da un “regime”. E’ però certamente vero che la libertà di stampa somiglia sempre di più a un’auto che c’è, sì, ma alla quale si centellina la benzina e si preme sul freno per ridurne drasticamente la velocità e i movimenti. Da qualche tempo si aziona anche il freno a mano…
Non è solo un problema di Magosso o dei giornalisti in blocco. E’ anche un problema dei cittadini tutti, perché la libertà se priva di una informazione non condizionata e non intimidita, è una libertà manovrabile e manovrata, perciò tendenzialmente in pericolo.

POST SCRIPTUM

Ho assistito all’intera udienza tenuta nella mattinata di oggi, 14 ottobre. La prossima udienza, conclusiva e forse seguita dalla sentenza, è stata fissata per le ore 9 del 3 novembre. La prima cosa che mi ha colpito è stata la mancanza di qualunque giornalista del Corriere della Sera, che pure è il giornale per il quale Tobagi lavorava e per il quale ci ha rimesso lavita. Non mi par poco. Come giornalisti, c’eravamo solo Franco Abruzzo, ex presidente dell’Ordine dei Giornalisti di Milano, Davide Moro, della Fininvest, Ilaria Cavo e io. Pochi, direi. Troppo pochi. Grave anche la mancanza di qualsiasi dirigente della Federazione nazionale della Stampa.

L’altra cosa che mi ha molto colpito è stato il divieto, chiesto dal rappresentante della pubblica accusa e dai querelanti, di riprese televisive e di registrazione del sonoro per Radio Radicale. Si tratta di un divieto molto grave. E’ stato infatti detto no a Giovanni Minoli intenzionato a inviare una troupe per il suo programma “La storia siamo noi”, ed è fuori dubbio che la vicenda Tobagi sia ormai un pezzo di storia. e al programma Matrix di Canale 5, che aveva inviato una troupe e la giornalista, Ilaria Cavo. E’ la prima volta che Radio Radicale si vede chiudere le porte in faccia in quello che è un pubblico servizio, che come tale avrebbe dovuto essere coperto dalla Rai, che non s’è neppure fatta vedere da lontano. Mi viene in mente inoltre una ben precisa considerazione: solo persone che hanno la coda di paglia di solito impediscono che benga fatta circolare l’informazione al pubblico di fatti che le riguardano, ma che sicuramente non riguardano solo loro.

Ritengo quindi molto strano, e non commendevole, che si sia opposto alle riprese video e audio anche il generale dei carabinieri Alessandro Ruffino, presente in aula. Un carabiniere, per giunta di grado così elevato, dovrebbe invece avere a cuore l’informazione al pubblico, perché il giornalismo è un bene prezioso per l’intera collettività. Il mio sgomento diventa indignazione quando a parlare è uno degli avvocati dei querelanti, che era presente ieri mattina alla conferenza stampa di Magosso e che letto in aula stralci, a mio avviso non del tutto esatti, di quanto detto ieri da Magosso ed altri. Ma come? Si oppone alla presenza dei giornalisti radiofonici e televisivi proprio chi ieri ha usufruito a mani basse di una conferenza stampa convocata in particolare per loro?

Mi hanno detto che in aula era presente anche il responsabile dei servizi segreti a Milano, non ho capito se dei servizi civili o militari. Trovo strana una tale presenza. Se dovessi parlarne come giornalista investigativo, quale in effetti sono, mi verrebbe da dire che una tale presenza denota un desiderio più di controllo della situazione che di semplice informazione, desiderio più consono a chi ha qualcosa da temere che a chi ha la coscienza a posto e quindi gli può bastare la lettura dei giornali o un giro di telefonate ad avvocati e querelanti.

Non capisco il tono duro e accusatorio contro Magosso da parte del rappresentante della Procura generale. In una querela privata cosa c’entra un pubblico ministero sbilanciato solo verso l’accusa? La sua presenza credo sia legata al reato di omesso controllo contestata all’allora direttore di Gente, ma il tono e le argomentazioni a senso unico mal si addicono, a mio parere, a un processo di questo tipo. In ogni caso il tono dell’accusa e degli avvocati dei querelanti questa volta non è stato offensivo e aggressivo come invece al processo di primo grado a Monza.

Le considerazioni svolte dai due avvocati della difesa e la nuova documentazione da loro prodotta dimostrano che Magosso ha solo fatto il suo dovere di giornalista, anche verificando le notizie presso le fonti a lui accessibili. Motivo per cui anche ammesso, ma non concesso, che abbia davvero in qualche modo danneggiato i generale  Ruffino e Bonaventura, tra persone civili non rancorose dovrebbe bastare una lettera in cui, appunto, ci si scusa di eventuali e involontari danni morali e all’immagine. Ruffino è senza dubbio un gentiluomo, così come l’erede di Bonaventura è una signora perbene.

Stando anche il tono non troppo aggressivo dei loro avvocati, così diverso da quello di Monza, propongo di chiedere noi giornalisti al generale Ruffino e alla Bonaventura di chiudere la vicenda ritirando la querela in cambio di una  lettera del nostro collega Enzo Magosso in cui, appunto, potrebbe scusarsi per eventuali offese perché, se ci sono state, sono state fatte sicuramente senza volerlo e in assoluta buona fede.