Articoli

1) – TraspaRenzia, coeRenzia, ecc. 2) – Al G20 di Sidney scontro tra interessi divergenti

Un  collega – Pasqualino Cuccurullo – mi invia una serie di video, che ritengo interessante guardare. E ricordare.

tiggiTrenzi

della bianca berlinguèr

https://www.youtube.com/watch?v=04H_dy7nXDI

“silicon balley”

della rossa lilligrubèr

https://www.youtube.com/watch?v=NIqLBmybSQw

la ruota della fortuna

https://www.youtube.com/watch?v=kudzrdGiv0g

governo delle menzogna

http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-governo-della-menzogna/

TraspaRenzia e CoeRenzia

https://www.youtube.com/watch?v=99wPcEasMv8

+++++++++++++++++++++++++++++

G20 di Sydney: scontro con i Paesi emergenti

Mario Lettieri* Paolo Raimondi **

Il recente summit di Sydney tra i ministri delle Finanze ed i governatori delle banche centrali del G20 è stato, più che un incontro di coordinamento, un vero e proprio scontro tra poteri e interessi differenti. E’ avvenuto in un momento assai delicato, all’apice della destabilizzazione valutaria e della spinta inflazionistica in tutti i Paesi emergenti. Ma sembra che sull’argomento sia stato imposto il silenzio. Nel comunicato finale, infatti, si ignora quasi completamente questo aspetto. Ci si limita a parlare genericamente di “volatilità sui mercati finanziari” che potrebbe danneggiare la crescita economica. Si riconosce che in molte economie avanzate la politica monetaria dovrà restare “accomodante” e che il suo superamento richiederà tempi non definibili e condizionati dalla stabilità dei prezzi e dalla ripresa. Addirittura si afferma che “dato che i mercati reagiscono a varie politiche di transizione e a differenti circostanze nazionali, i prezzi delle attività e i tassi di interesse si aggiustano di conseguenza”. Continua a leggere

Qualche lettura e rimembranza per una buona pausa dal blablablà generalizzato, camuffato perfino da politica

UNA BOCCATA D’OSSIGENO CON L’ULTIMA NEWSLETTER

DI HOMOLAICUS DEL MIO AMICO ENRICO GALAVOTTI.

Aldo Moro secondo Giulio Andreotti

M’è capitato casualmente sotto mano un libro di Giulio Andreotti, A ogni morte di papa, edito dalla Rizzoli nel 1980. Guardando la data, non ho potuto fare a meno di cercare le pagine in cui doveva per forza parlare del delitto Moro. E infatti le ho trovate: sono le pp. 132-37, corredate da una lettera autografa dello stesso Aldo Moro. In esse sono ben chiare le motivazioni per cui i vertici della Dc rifiutarono di scendere a trattative con le Brigate Rosse.

Vediamo però anzitutto il testo di Moro, poiché le pagine di Andreotti vogliono essere una replica a quello. Moro aveva spedito la lettera, attraverso i suoi familiari, al papa Paolo VI, chiedendo sostanzialmente d’intercedere presso il governo “per un’equa soluzione del problema dello scambio dei prigionieri politici” (tra lui e qualche brigatista, anche uno solo). Rivolgendosi al papa, Moro cercava di giustificare lo scambio sulla base di motivazioni non politiche, bensì etiche: il ricongiungimento familiare. Scrive testualmente che la sua famiglia ha “necessità assai gravi”.

Politicamente sostiene un’altra cosa, e cioè la convinzione che il pontefice, facendo leva su questioni etiche, poteva influenzare notevolmente gli organi di governo: “solo la Santità Vostra può porre di fronte alle esigenze dello Stato, comprensibili nel loro ordine, le ragioni morali e il diritto alla vita”. Quest’ultima frase è abbastanza singolare. Al momento del rapimento, Moro era Presidente del Consiglio, un illuminato statista democristiano, il primo democristiano a dichiararsi disponibile a un compromesso politico-strategico col partito comunista, il cui segretario era Enrico Berlinguer. In quanto statista, prigioniero politico, stava chiedendo al papa d’intercedere per favorire una trattativa coi terroristi: era autorizzato a farlo in quanto statista, o stava chiedendo un indebito favore personale, in quanto cattolico e amico del papa? Stava forse supplicando di trasgredire, in via del tutto eccezionale, una regola ferrea dello Stato nei confronti del terrorismo in generale? Oppure stava semplicemente chiedendo una cosa che, quando si è in guerra con un nemico qualunque, generalmente si fa?

Leggendo la replica di Andreotti, vien da pensare che se fosse stato quest’ultimo a essere catturato dalle B.R., una richiesta del genere – stando a quanto scrive – non l’avrebbe mai fatta. Dunque che senso aveva quella lettera? Moro era favorevole alla trattativa perché era parte in causa del rapimento (in quanto prigioniero politico) o per ragioni di principio, che sarebbero potute valere per chiunque si fosse trovato nelle sue stesse condizioni?

Altre lettere, dal contenuto analogo, le aveva già spedite ai colleghi di partito e nessuno aveva accettato l’idea di patteggiare: sarebbe stata – si diceva – una forma di debolezza da parte dello Stato. Non si voleva riconoscere alcuna legittimità alle B.R. La Dc era riuscita persino a convincere i comunisti ad essere assolutamente intransigenti.

Ad un certo punto la pubblica opinione cominciò persino a pensare che l’ala più conservatrice della Dc non volesse far nulla per liberare un collega così scomodo, che si era permesso di accettare l’abbraccio “mortale” proposto dai comunisti (il famoso “compromesso storico”). Gli stessi comunisti si presentavano come il partito della fermezza, in quanto, per tutto il periodo della segreteria berlingueriana avevano cercato a più riprese di dimostrare che il loro poteva essere un partito di governo e i loro dirigenti degli statisti in piena regola, non inferiori, per legittimità e capacità, ai democristiani. Tuttavia una posizione del genere, di fronte a un caso così drammatico ed eccezionale, appariva poco giustificata.

Solo i socialisti sembravano essere parzialmente favorevoli a una trattativa. Cioè avevano capito che la richiesta di Moro aveva un suo senso. Non è da escludere che i socialisti si fossero comportati così anche per distinguersi dai comunisti, che al tempo di Craxi venivano considerati nemici peggiori degli stessi democristiani.

Ma ora vediamo come sono andati i fatti secondo la ricostruzione di Andreotti. Sarà da questa che capiremo, indirettamente, la differenza fra trattativa e fermezza. Qui intanto si può anticipare che, dopo il delitto Moro, al governo andarono i socialisti di Craxi, che gestirono lo Stato insieme alla destra democristiana di Andreotti, Forlani, Cossiga, Piccoli ecc., sino al tempo degli scandali affaristici venuti alla luce con l’inchiesta giudiziaria chiamata “Mani pulite”, che fece, in sostanza, crollare la prima Repubblica e, con essa, i tradizionali partiti parlamentari. Il crollo del craxismo non portò alla democratizzazione del sistema, ma alla nascita del suo prodotto peggiore: il berlusconismo, che elevò la corruzione a sistema.

Dovendo contattare un esponente della Dc, una volta ottenuta la lettera di Moro, a chi pensò Paolo VI di mostrarla? Proprio ad Andreotti. Lo fece incontrare con mons. Casaroli, segretario dello Stato Vaticano (la più alta personalità dopo il papa), che gli portò appunto la lettera dello statista. Le date sono importanti: Andreotti e Casaroli si erano incontrati il 20 aprile 1978, chiarendosi le idee su che cosa il papa non avrebbe dovuto dire nel suo pubblico intervento, affinché non ci fossero incompatibilità con le direttive del governo. Cinque giorni dopo Andreotti riceverà la fotocopia della lettera di Moro, cui risponderà per iscritto allo stesso papa, perché così gli era stato chiesto. Il 22 aprile Paolo VI aveva fatto l’appello per liberare Moro e aveva precisato alle B.R. di farlo “senza porre condizioni”: indirettamente era come condannarlo a morte.

Sino all’ultimo Moro era convinto di potersi salvare, altrimenti non avrebbe scritto tutte quelle lettere, chiedendo uno scambio di prigionieri, come le B.R., peraltro, gli suggerivano di fare. Ma perché l’avevano rapito, visto ch’erano disposte a liberarlo? Solo per ottenere la libertà di alcuni loro detenuti? O per avere un riconoscimento nazionale? O per impedire la realizzazione dell’intesa di governo tra Dc e Pc? Le risposte a queste domande possono solo essere ipotetiche.

È stato detto che tra le B.R. vi erano infiltrati al soldo degli americani, che volevano la fine dell’idea di “compromesso storico”, in virtù della quale i comunisti sarebbero andati al governo insieme ai democristiani, come al tempo del governo di unità nazionale, durato pochissimo, tra De Gasperi e Togliatti. Si è detto che la stessa avversione al “compromesso”, per motivi diversi, potevano averla anche i brigatisti, i quali, eliminando Moro, facevano capire che i comunisti non potevano governare insieme ai loro nemici storici, ma solo attraverso una rivoluzione politica.

Non è da escludere che Moro, vedendo il rifiuto alla trattativa da parte dei propri colleghi di partito, sarebbe uscito dalla Dc e forse avrebbe rinunciato anche all’attività politica, se avesse ottenuto la libertà. Detestava il segretario Zaccagnini per averlo indotto ad accettare delle responsabilità di governo che non avrebbe voluto. Gli scriverà inoltre di non accettare “l’iniqua e ingrata sentenza della Dc. Ripeto: non assolverò e non giustificherò nessuno. (…) Chiedo che ai miei funerali non partecipino né autorità dello Stato né uomini di partito”.

Ma quale risposta diede Andreotti a Paolo VI? Egli scrive nel libro che, facendo un appello così drammatico a favore di Moro, il papa non solo si era “umiliato”, ma, nello stesso tempo, si era “esaltato” (p. 134). Cosa voleva dire è difficile capirlo. Probabilmente si riferiva al fatto che il papa, in quel momento, s’era sentito al centro dell’attenzione, rivestito d’un ruolo eccezionale in previsione della liberazione di Moro. Se l’appello avesse avuto effetto, l’importanza del suo pontificato sarebbe stata enorme. La condizione però era che doveva continuare a perorare la linea della fermezza adottata dal partito. Andreotti infatti fa capire chiaramente che il Vaticano non avrebbe mai dovuto intraprendere un’iniziativa che avrebbe potuto danneggiare il partito “cattolico” al governo (egli, in realtà, si riferisce agli “interessi dello Stato”, ma il significato resta uguale, in quanto la Dc, sin dalla fine del dopoguerra, s’era sempre concepita come un “partito-stato”).

Paolo VI esegue, probabile non senza travagli interiori, quello che Andreotti, uno dei principali avversari politici di Moro, gli aveva chiesto, senza neppure pensare di rivolgersi a Zaccagnini, segretario del partito, o a qualche altro democristiano, per avere conferme o smentite su quel che doveva dire. Moro non mancherà di scrivere alla moglie che il papa aveva fatto “pochino” e forse ne avrebbe avuto “scrupolo”.

Andreotti gli rispose per iscritto il 25 aprile e anche questa lettera è acclusa nel libro come documento. Anzitutto gli fa capire che la Dc aveva apprezzato enormemente il tipo d’appello che aveva fatto, in cui era stato chiesto di liberarlo senza porre condizioni. Strano questo atteggiamento da parte di un collega di partito: in pratica è come se Andreotti avesse voluto far capire che se le B.R. l’avessero liberato senza porre condizioni, la Dc avrebbe considerato ciò non tanto come un gesto umanitario, quanto piuttosto come l’ammissione di una decisiva sconfitta politica del terrorismo italiano.

In secondo luogo suggerisce al papa di credere che Moro non poteva scrivere quelle lettere in piena “libertà intellettuale e morale”, per cui non erano da prendere con la dovuta considerazione politica. Erano lettere di un disperato, che aveva accettato le condizioni delle B.R. relative a uno scambio di prigionieri solo per salvarsi la vita. Da notare, su questo aspetto, che vari appartenenti al “Comitato degli esperti” voluto da Cossiga, per esaminare la fondatezza o l’attendibilità di quelle lettere, in un primo tempo affermarono che Moro era stato sottoposto a tecniche di lavaggio del cervello da parte delle B.R. Guarda caso però i nomi di molti dei membri di quel Comitato furono poi ritrovati tra quelli degli iscritti alla loggia massonica P2, compreso quello dell’importante criminologo Franco Ferracuti, ch’era anche un agente della CIA. Cossiga ammetterà tuttavia, anni dopo, d’essere stato lui a scrivere parte del discorso tenuto da Andreotti in cui s’affermava che le lettere di Moro erano da considerarsi non “moralmente autentiche”.

In terzo luogo Andreotti ritiene chiaramente un’assurdità equiparare uno “statista rapito” (sottinteso: democraticamente eletto) con un “gruppo criminale”, per cui lo “scambio dei prigionieri” andava considerato assolutamente “inaccettabile”, né si poteva accettare l’idea che lo Stato stesse vivendo una sorta di “guerra civile” con le B.R., le quali – a suo giudizio – altro non erano che un manipolo di disperati, destinati alla sconfitta. Come in effetti avverrà subito dopo quel delitto, grazie soprattutto all’iniziativa del generale Dalla Chiesa. Tuttavia, proprio per queste ragioni, vien qui da chiedersi il motivo per cui sarebbe stato così impossibile trattare. Portando alle logiche conseguenze il discorso di Andreotti, il governo avrebbe potuto subito trarre in salvo uno statista di spicco, un politico cattolico di razza come Moro, e in più avrebbe sicuramente sconfitto, in un momento successivo, un gruppo terroristico, con scarsi agganci sociali, come le B.R. Non ci sarebbe stato motivo d’aver paura di cedere.

Andreotti usa anche l’esempio del “caso Sossi” (1) per giustificare l’atteggiamento irreconciliabile della Dc alla trattativa coi sequestratori (che, in quell’occasione, non ebbe però Moro, il quale, in una delle sue lettere dalla prigionia, ricorda d’aver fatto pressioni su Taviani per realizzare uno scambio di prigionieri). La “clemenza per forza maggiore”, nel nostro ordinamento – scrive testualmente Andreotti, non senza riferimenti al passato fascista – è “giuridicamente inesistente”. Strano un atteggiamento del genere, poiché proprio durante il “caso Sossi” lo Stato aveva fatto la promessa di liberare i detenuti richiesti dai terroristi, anche se poi se la rimangiò. Lo stesso Sossi, che, quand’era prigioniero delle B.R., s’era dichiarato favorevole a uno scambio di prigionieri, sostenne che dal punto di vista tecnico-giuridico c’erano le possibilità per risolvere il sequestro Moro in maniera diversa.

Sicuramente Andreotti una dichiarazione “supplicante” come quella del papa non l’avrebbe mai fatta, pur essendo cattolico come lui, semplicemente perché, nella sua concezione della politica, gli interessi dello Stato dovevano prevalere su quelli dell’individuo, benché, nella fattispecie, sarebbe meglio dire che gli interessi ideologici dell’anticomunismo dovevano sempre prevalere su qualunque altro interesse. Ecco perché, con una punta di malignità, sostiene che proprio nel momento in cui il papa si umiliò, finì con l’esaltarsi.

Moro non poteva essere liberato perché – scrive Andreotti – le esigenze della famiglia, degli amici e dei parenti dello statista andavano nettamente considerate inferiori a quelle che avevano gli “agenti dell’ordine”, le “guardie carcerarie”, di non vedere aprirsi le porte delle carceri, ove erano custoditi i terroristi, per uno scambio di prigionieri. Le conseguenze di un gesto del genere sarebbero state “gravissime”, in quanto non si possono fare mai eccezioni alla regola. Curioso che questo venga detto da un democristiano che fece del compromesso politico il suo cavallo di battaglia, anche se resta vero che ogni compromesso trovava in lui la sua ragion d’essere solo entro i parametri dell’anticomunismo. In tal senso le ragioni umanitarie, se avessero prevalso, avrebbero finito col negare l’obiettivo politico di fondo, quello appunto dell’anticomunismo, essendo Moro favorevole al “compromesso storico”. Per Andreotti Moro era semplicemente un irresponsabile, la cui famosa stretta di mano con Berlinguer sarebbe stata fatta pagare dagli americani.

Non a caso quando scrive che lo scambio dei prigionieri sarebbe stata una condizione che avrebbe comportato “una lacerazione non rimarginabile dei fondamenti di giustizia su cui si articola la convivenza civile”, stava dicendo le stesse cose dell’amministrazione americana, per quanto proprio gli americani siano sempre stati favorevoli, durante il periodo della guerra fredda, allo scambio delle spie e degli agenti segreti coi paesi comunisti, e le spie potevano anche essere dei killer: non si faceva alcuna differenza.

Peraltro, continuando a guardare le cose sul piano umano, Andreotti non ha dubbi di sorta nel considerare del tutto superiori alle esigenze dei familiari di Moro quelle delle vedove e degli orfani delle vittime del terrorismo. Un ragionamento davvero curioso questo, in quanto, al fine di tutelare il senso di umanità delle vittime del terrorismo, accetta che se ne sacrifichi un’altra, pur potendolo benissimo evitare.

Nella sua concezione della politica o l’umano viene subordinato ideologicamente al politico, oppure viene valorizzato astrattamente e quindi in maniera strumentale, per realizzare obiettivi non umani, ma soltanto politici e ideologici, quelli appunto dell’anticomunismo. Moro invece aveva scritto a Cossiga in una delle sue lettere: “Il sacrificio degli innocenti in nome di un astratto principio di legalità, mentre un indiscutibile stato di necessità dovrebbe indurre a salvarli, è inammissibile”.

Per Andreotti non aveva alcun senso lo scambio di prigionieri, in quanto, secondo lui, non esisteva alcuna “guerra”, nell’accezione classica del termine, contro i terroristi, che non potevano essere riconosciuti come “veri nemici”, al pari di una “nazione”, e che, per tale motivo, sarebbero stati, prima o poi, sicuramente sconfitti, avendo un consenso nazionale irrisorio.

Secondo lui l’unico istituto giuridico che, in quell’occasione, si poteva usare era la grazia presidenziale, ma proprio la sofferenza delle vittime del terrorismo lo impediva, e infatti Giovanni Leone non la concesse, anche se all’ultimo momento pare fosse stato disposto a firmare un provvedimento di clemenza nei confronti di un estremista di sinistra. La grazia, peraltro, doveva presupporre – secondo Andreotti – il “perdono” degli offesi, cioè dei parenti delle vittime del terrorismo: cosa che in realtà non era mai stato concesso. (2)

Per giustificare il suo atteggiamento, Andreotti si avvale anche del fatto che “l’intero Parlamento” era sulla “linea della fermezza”. Qui in realtà sta mentendo, in quanto esisteva anche un “fronte possibilista”, nel quale spiccava Bettino Craxi e che comprendeva anche il Presidente del Senato Amintore Fanfani, l’ex Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat e il leader radicale Marco Pannella, incline a ritenere che un eventuale avvicinamento, allo scopo d’intavolare una trattativa per salvare la vita dello statista, non avrebbe svilito la dignità dello Stato.

Trattare coi terroristi avrebbe, secondo Andreotti, aperto la strada a una “infrenabile spirale di violenza”. Quindi, così dicendo, egli faceva capire, contraddicendosi sul piano logico, che il terrorismo andava considerato come un fenomeno gravissimo, che avrebbe potuto portare a una guerra civile o addirittura a una rivoluzione comunista. Appena poco prima aveva invece fatto vedere d’essere convinto che lo Stato fosse troppo forte per considerare le B.R. un nemico convincente. In altre parole, proprio mentre affermava che “lo scambio di detenuti rappresenta una soluzione non praticabile”, finiva con lo sopravvalutare appositamente l’effettiva pericolosità dei terroristi solo per poter eliminare uno scomodo avversario politico, ch’egli, in fondo, non aveva mai sopportato.

A ciò aggiungeva considerazioni umanitarie abbastanza pretestuose, in quanto, affermando di non potersi concedere la grazia istituzionale neppur a un solo terrorista, perché i parenti delle vittime, rifiutando di perdonare gli assassini, non l’avrebbero capita, finiva col subordinare gli interessi politici di un intero Stato ai sentimenti privati di alcuni suoi singoli cittadini. Moro, in una lettera alla moglie, qualificherà il comportamento del suo partito come “assurdo e incredibile”. Da notare che Andreotti non prevede neppure la possibilità di salvare Moro pagando un riscatto in denaro, come poi avverrà nel caso di Ciro Cirillo, componente della direzione nazionale della Dc, ostaggio delle B.R. nel 1981. Lo stesso Vaticano pare avesse intenzione di versare una forte somma di denaro.

Ci vollero altre due settimane, dopo l’appello del papa, prima che le B.R. ammazzassero Moro. Il governo confidava unicamente nel fatto che l’avrebbero dovuto liberare senza condizioni; col che i terroristi avrebbero dovuto ammettere la loro sconfitta politica nei confronti dello Stato. All’ultimo momento, in verità, la direzione della Dc incaricò il presidente del Senato, Amintore Fanfani, di fare un discorso aperto alla trattativa, ma tutti sapevano che ormai era troppo tardi.

Le B.R., abituate a ragionare in termini esclusivamente politici, non l’avrebbero mai liberato sulla base di semplici considerazioni umanitarie. Quindi, in un certo senso, la Dc e il Pc (ma anche molti partiti minori) le spingevano a restare coerenti sino in fondo, affinché dimostrassero, con la loro brutalità, di non meritare alcun consenso politico. Moro andava sacrificato sull’altare dell’anticomunismo. Gli stessi comunisti lo volevano, preoccupati di dimostrare che la loro ideologia era completamente diversa da quella delle B.R.

L’ultima punta di malignità perversa, in questa vicenda riportata nel suo libro, Andreotti la riserba allo stesso Moro, dicendo che “da quando ci sono i terroristi in azione non mi è consentito di andare nei cinema pubblici come Moro faceva con tanta soddisfazione e disinvoltura” (p. 137). Qui vuol far passare Moro per un “amico” dei terroristi, o per una persona che i terroristi ritenevano meno pericolosa di lui sul piano politico. E’ come se gli volesse togliere il diritto a considerarsi “martire” o “eroe”. Il suo coraggio ad accettare il “compromesso storico” coi comunisti andava soltanto considerato come un avventurismo irresponsabile, che avrebbe portato il paese alla catastrofe.

Vengono qui in mente le parole di Caifa, quando disse: “E’ meglio sacrificare uno solo piuttosto che perdere la nazione intera”. E fu così che Israele perse sia il suo leader politico più prestigioso che la stessa nazione.

Note

(1) Il rapimento del sostituto procuratore della Repubblica Mario Sossi, nel 1974, fu considerato la prima azione eclatante delle B.R. e la “prova generale” per il sequestro Moro. Sossi era un magistrato di destra e aveva processato il gruppo politico di estrema sinistra “XXII Ottobre” per alcune azioni terroristiche. Quando le B.R. lo rapirono, chiesero, in cambio della sua liberazione, la scarcerazione di otto detenuti del gruppo suddetto. Cosa che in effetti fu lì lì per avvenire tramite la Corte d’Assise di Genova, che concesse d’ufficio la libertà provvisoria agli otto detenuti e il nulla osta per il loro passaporto. Senonché il procuratore della Repubblica Francesco Coco ritenne di dover pretendere, per la concessione delle condizioni dei brigatisti, la liberazione preventiva di Sossi. In quel caso le B.R. decisero di accettare. Ma siccome Coco si rifiutò poi di liberare i detenuti, le B.R. lo assassinarono a Genova l’8 giugno 1976, insieme a due uomini della scorta.

(2) Nell’agosto 1991, Francesco Cossiga, Presidente della Repubblica, ch’era stato, al tempo del delitto Moro, sulle medesime posizioni di Andreotti, propose di concedere la grazia a Renato Curcio, brigatista condannato come mandante dell’omicidio di Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci. In quell’occasione anche Andreotti concordò con Cossiga, anche se poi della proposta non se ne fece nulla.

L’odissea del Novecento nei manuali di storia

Sulla questione del Novecento, così tanto dibattuta negli anni passati, bisogna necessariamente spendere qualche parola.

Considerando che per uno studente di scuola media, in genere, la storia coincide con la sua propria storia, in forza di uno schiacciamento quasi assoluto sul presente, finì col diventare patetica l’introduzione berlingueriana del Novecento nell’ultimo anno delle scuole medie e superiori (decreto n. 682 del 1996). Non poteva certo essere questo il modo con cui invogliare lo studente ad affrontare con maggiore interesse e convinzione lo studio della storia in generale. Infatti la persistenza di un’impostazione storiografica di tipo lineare-cronologico ha vanificato ogni serio tentativo di riforma.

Se si vuole partire dal presente, occorre farlo non dall’astrazione delle date bensì dalla concretezza dei suoi problemi. E quelli fondamentali della nostra epoca sono causati da un sistema di vita sociale fortemente antagonistico, basato sui conflitti sociali.

Questo sistema ha avuto una genesi storica che oggi quasi tutti gli storici fanno risalire al XVI secolo, fatte salve le anticipazioni commerciali e finanziarie delle Fiandre e soprattutto dell’Italia, che istituì i primi Comuni borghesi agli albori del Mille.

I famosi “saggi” della commissione istituita da Berlinguer dovevano sapere che non si può sapere in che “epoca” si vive semplicemente focalizzando per un anno intero l’attenzione sul cosiddetto “secolo corto”, quello che pur nella propria brevità ha prodotto gli sconvolgimenti epocali più tragici di tutta la storia del genere umano.

A tale proposito Antonio Brusa osserva, con l’acume che solitamente lo caratterizza, che mentre noi adulti, avendo una visione unitaria del Novecento, sentiamo come “contemporanei” i temi delle guerre mondiali, della Costituzione, della nascita della Repubblica ecc.; viceversa, uno studente di scuola media e persino di scuola superiore “registra nella sua mente i suddetti temi allo stesso titolo del paleolitico superiore” (cfr Il nuovo curricolo di storia, in riferimento al Decreto Berlinguer).

Sotto questo aspetto, se si vuole affrontare il Novecento con gli stessi criteri con cui si affronta un qualunque altro periodo storico, si rischierà di fare un’operazione didattica e culturale del tutto inutile. Sarebbe quasi meglio abolire la storia come disciplina, sostituendola con una che tratti estesamente l’attualità, che sicuramente coinvolgerebbe di più gli studenti, nei cui confronti i media radiotelevisivi e cartacei non hanno certo preoccupazioni didattiche, cioè di mediazione dei contenuti di attualità a quel livello di problematizzazione che può avere una fascia d’età che va dai 12 ai 19 anni.

Nonostante che un affronto sistematico dell’attualità tornerebbe comodo a quanti non hanno intenzione di proseguire gli studi, purtroppo ancora oggi la scuola supplisce assai poco al fatto che l’informazione extrascolastica (mediatica) sui grandi temi dell’attualità non è tarata per un target non adulto. P.es. la lettura di un qualunque quotidiano nazionale rischia di essere proibitiva, per tutta una serie di ragioni tecniche e formali, anche per uno studente liceale.

Se diamo per assodato che ciò che maggiormente può interessare un giovane sono i problemi del suo tempo, declinati nelle linee essenziali, come solo un docente è in grado di fare, quale volume migliore di quello di educazione civica poteva soddisfare queste esigenze? Non a caso molti manuali di religione cattolica delle superiori rispecchiano in gran parte la medesima impostazione didattica di quei testi, diversificandosi ovviamente nell’interpretazione.

Ma allora – ci si può chiedere – davvero la storia non serve a nulla? In realtà è proprio dai testi di educazione civica che emerge il bisogno di fare “memoria” delle cose, di predisporsi a un’indagine di approfondimento. Ogni problema contemporaneo ha una propria radice storica, che nel nostro caso risale per l’appunto alla nascita di fenomeni ben determinati, come l’Umanesimo, il Rinascimento, la Riforma protestante, il sistema capitalistico, il colonialismo, la rivoluzione tecnico-scientifica, la rivoluzione francese, la nascita degli Stati e delle Nazioni, lo sviluppo della rappresentanza parlamentare, la separazione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, la nascita della giurisprudenza civile, commerciale, penale e via dicendo.

La storia, come disciplina, serve non solo a capire l’origine remota dei fenomeni del presente, ma anche a individuare le possibili soluzioni generali ai loro problemi, senza per questo che il docente si debba addentrare in questioni troppo tecniche o di natura politica, che certamente non gli competono. Compito essenziale della scuola infatti deve essere quello di far capire il presente nelle sue linee di fondo, dando del passato un quadro sufficientemente chiaro e sintetico.

Il presente può essere meglio compreso se si vanno a ricercare nel passato le motivazioni storiche del suo esistere, ma questo non significa che il passato possa offrire le soluzioni ai nostri problemi. La libertà dell’uomo deve giocarsi nelle contraddizioni del presente e la scuola può soltanto educare alla “cittadinanza” come forma responsabile dell’agire. La storia dunque andrebbe fatta a partire dal presente, che è l’unica realtà veramente esistente, volgendo il proprio sguardo al passato per cercare insegnamenti o ispirazioni.

Purtroppo nella scuola la storia viene spesso studiata come una cosa che appartiene unicamente al passato: noi rendiamo morto un tempo vivo come il presente e ci meravigliamo che lo studente non consideri vivo un tempo morto come il passato.

La stessa scuola appare più viva quando fa “progetti” col territorio che non quando si caratterizza come “lezione frontale”, la quale lezione infatti si autoregolamenta per far studiare non tanto sui “problemi” quanto semplicemente sul “manuale”, che contiene già le risposte a tutte le domande. Lo studio sui libri è aprioristico par exellance, per cui non può mai essere una conseguenza dei problemi che si devono affrontare. Si studia non su eventi in movimento, ma su eventi statici, predefiniti, il cui significato è un già dato, un elemento acquisito che va solo memorizzato, a meno che un docente non preferisca la “lezione laboratoriale”, in cui si parte da una semplice domanda, destinata a complicarsi strada facendo, e finché non s’è trovata una risposta sufficientemente adeguata, utilizzando la strumentazione più varia, non si va avanti, proprio perché al centro dell’attività didattica vi è solo una parola: la ricerca.

A scuola bisogna imparare l’evoluzione dinamica dell’acquisito, che non può essere dato per scontato, meno che mai per la mente di un alunno in via di formazione, che ha bisogno di costruirsi le coordinate spazio-tempo del proprio presente. “Dinamica” perché la suddetta evoluzione non può essere una semplice catena di fatti legati in maniera necessaria, come se ad ogni causa potesse corrispondere soltanto un determinato effetto. Scrive, a questo proposito, Mario Pinotti: “dalle conoscenze già organizzate [si dovrebbe passare] al cammino che le informazioni devono percorrere prima di venir dotate di senso. Il racconto storico cede il passo ai criteri storiografici da cui scaturisce la narrazione” (in Il laboratorio e la sua polisemia, art. trovato nel sito www.israt.it).

Affrontare i fatti come se essi non fossero il frutto di scelte difficili, compiute di fronte a determinati problemi, non serve a nulla. Lo studente non riesce ad apprendere la necessità di operare delle scelte decisive, strategiche, per loro natura rischiose, spesso sofferte e sempre tipiche della libertà umana.

Quando noi docenti diciamo che lo studio del passato ha senso solo nella misura in cui può servire a far vivere meglio il presente, non abbiamo intenzione di formulare una sorta di “espressione statica”, dando cioè per scontato che l’attuale configurazione del mondo contemporaneo sia un “dato di fatto”. Ogni presente ha in sé delle contraddizioni che vanno risolte in maniera progressiva. Il passato va studiato nella misura in cui aiuta a comprendere e risolvere queste contraddizioni. Studiare il passato in maniera evolutiva, come una successione temporale di fatti che si cerca di tenere insieme secondo uno schema di causa ed effetto, semplificato al massimo, non aiuta a migliorare le cose, a far sentire “protagonisti” i nostri allievi. Anche perché in tal modo si dà per scontato che il senso ultimo del passato risieda nel presente, in forza del fatto che il presente è visibile, contemporaneo all’uomo, in grado di guardare dall’alto ciò che lo ha preceduto.

Il significato del passato non sta nel presente, altrimenti si sarebbe costretti a ipotecare il futuro. Il presente deve limitarsi a cercare nel passato quelle indicazioni che possono aiutare l’uomo a vivere meglio il suo tempo. Avere un passato significa avere un aiuto in più, sempre che questo passato non venga vissuto come un potere vincolante, come una sorta di forca caudina per il presente. L’uomo deve essere libero di fare le sue scelte: il passato ha senso se lo aiuta in questo compito.

Può avere un senso una “storia cronologica” non tanto quando, seguendo una sequenza lineare del tempo, si è convinti che il nostro presente, appunto perché a noi contemporaneo, sia capace di includere nel proprio scibile il meglio di tutte le epoche precedenti; ma semplicemente quando i problemi del presente interpellano il passato, al fine di individuare i momenti salienti in cui sono avvenute delle svolte storiche, delle transizioni decisive verso soluzioni inedite.

Studiare il passato ha senso quando serve per capire il presente; se questo non è vero, è meglio studiare solo il presente, come generalmente fa la politica, che spesso però è priva di cultura. Lo studio della storia è lo studio delle origini culturali del nostro tempo presente: le coordinate della politica, dell’economia, dell’organizzazione sociale, amministrativa, di un paese sono sempre di tipo culturale, e riguardano decisioni esistenziali, scelte valoriali, in cui indubbiamente anche gli aspetti religiosi hanno giocato e a volte giocano ancora un ruolo rilevante.