I problemi della sicurezza e i progressi della verità

La sicurezza da che cosa è data? Indubbiamente dalla possibilità di difendersi. Quando si è attaccati da qualcosa o da qualcuno, che sia un terremoto o un assassino, la sicurezza dipende dalla capacità di evitare conseguenze negative su di sé. Bisogna sapersi difendere: nessun elemento della natura è provvisto solo di armi d’attacco.

Tuttavia la miglior sicurezza – com’è noto – è data sempre dalla prevenzione. Edifici antisismici evitano effetti catastrofici. Ma come possiamo evitare gli omicidi? In teoria è semplice: risolvendone le cause, che sono squisitamente umane, cioè non attribuibili a entità esterne, come il fato, il destino, una qualche divinità o la natura.

Anche quando un omicidio è già stato compiuto, il modo migliore per impedire che si ripeta, non sta tanto nella pena in sé (che pur non può mancare), quanto piuttosto nella discussione che bisogna fare per cercare di capire il motivo per cui quel delitto è nato.

La discussione serve per mediare tra opposti interessi, per trovare un punto d’incontro che soddisfi tutte le parti in causa. Deve essere una discussione tra i protagonisti, non tanto su di loro.

Insomma, la discussione deve servire per prendere provvedimenti affinché il crimine non si ripeta e, in questo impegno collettivo, non si può escludere a priori il contributo che può dare lo stesso criminale. E’ a livello locale che si devono cercare le cause dei reati, altrimenti, inevitabilmente, si tenderà ad attribuirle a forze oscure, imponderabili.

Ora, è evidente che in una società fortemente individualistica, in cui l’antagonismo sociale non è l’eccezione ma la regola, l’autodifesa è assegnata non alle discussioni pubbliche, ma ad altri mezzi e modi. Tra questi mezzi preposti a far rispettare la leggi, quelli prevalenti sono le forze dell’ordine, che a volte si trovano a esercitare una difesa sproporzionata rispetto all’effettivo pericolo, e la categoria degli avvocati, abituati a considerare il diritto in maniera del tutto autonoma rispetto all’etica.

Quando l’individualismo è esasperato si ricorre anche all’uso delle armi per difesa personale. In una società come quella nord-americana si è convinti che la diffusione delle armi fra la popolazione aumenti il senso di sicurezza. I fatti però dimostrano il contrario. E anche qui il motivo è molto semplice: se si possiede un’arma, ad un certo punto può venire istintivo usarla per risolvere quei problemi per i quali occorrerebbe un dibattito pubblico a livello locale.

Stesso atteggiamento lo si ha nei confronti della pena di morte: la si usa più facilmente là dove la società non è abituata a discutere pubblicamente i propri problemi. La pena di morte è tipica dei paesi autoritari, privi di pedagogia sociale e di vere autonomie locali. L’uso delle armi per difesa personale è tanto più forte quanto più è grande la sfiducia nei confronti delle capacità che le istituzioni hanno nel risolvere i problemi della gente comune.

Le moderne società infatti sono caratterizzate da una polarizzazione di questo genere: da un lato la gran massa degli individui isolati (la cui socializzazione di base è la famiglia nucleare), dall’altro le istituzioni con tutti i poteri. Nel mezzo vi sono i tentativi dei singoli di organizzarsi socialmente per contrastare i superpoteri dello Stato: c’è chi lo fa legalmente, attraverso partiti, sindacati, movimenti ecc., e chi illegalmente, attraverso la criminalità organizzata, e anche chi lo fa immoralmente ma con la patina della legalità, come le associazioni corporative che rivendicano propri privilegi, le lobby di potere e, ultimamente, gli stessi partiti politici.

Ma perché le società antagonistiche non discutono apertamente i loro problemi di natura sociale? Anche qui il motivo è molto semplice: le istituzioni temono che da un dibattito franco e aperto i cittadini s’accorgano che le istituzioni non solo non sono in grado di risolvere alcun problema, ma anche che esse stesse sono fonte dei loro problemi. Le istituzioni centralizzate non amano essere considerate come un corpo estraneo a livello locale.

Di regola infatti ai cittadini viene fatto credere che le istituzioni sono equidistanti dalle forze in campo e che non è affatto vero che lo Stato protegge soprattutto quelli che sono economicamente più forti. I cittadini, insomma, devono convincersi di vivere in una gigantesca bolla di sapone, dove il Grande Fratello è in grado di risolvere ogni loro problema.

Ora, siccome i crimini diventano sempre più numerosi, efferati e, spesso, addirittura insensati, i cittadini vanno indotti a credere che il Grande Fratello non è abbastanza severo non per sua colpa, ma perché non ha abbastanza poteri. Se proprio si vuole che nessuno possa farsi giustizia per conto proprio, lo Stato deve essere messo in grado di dimostrare che è severissimo nei confronti di chi trasgredisce le regole. E’ questo che il sistema oggi sta chiedendo.

Si continuerà così a non discutere di alcun problema, nella certezza che un’entità esterna avrà la forza necessaria per risolvere tutto. Le dittature militari sono il futuro delle democrazie parlamentari. Sarà come passare da una dittatura formale a una sostanziale. La fine dell’ambiguità verrà salutata come un grande progresso della verità. Bisognerà soltanto trovare qualcuno che, pur non provenendo dagli ambienti in cui il privilegio è la norma, finga di esercitare il potere in nome del popolo.

Materialismo democratico o autoritario?

Che anche il materialismo storico-dialettico sia affetto – al pari di ogni forma di idealismo – da intellettualismo di tipo illuministico, lo dimostra il fatto ch’esso ha la percezione della materia come di un’entità che va conosciuta esclusivamente con l’attività scientifica (quella da laboratorio). In tale maniera una qualunque consapevolezza diversa da quella scientifica, viene svalutata, considerata ai limiti della superstizione. Come se il concetto di “scienza” non potesse riferirsi anche a quelle popolazioni che si trasmettevano conoscenze ancestrali unicamente per via orale!

I classici del marxismo sono in questo molto espliciti: la conoscenza scientifica della natura (che per gli scienziati naturali è istintiva, mentre per i materialisti dialettici è consapevole) autorizza l’uomo a “dominarla”. Lenin lo dice chiaramente nel suo Materialismo ed empiriocriticismo: “dal momento che conosciamo questa legge [si riferisce alla natura], la quale agisce (come ha ripetuto Marx migliaia di volte) indipendentemente dalla nostra volontà e dalla nostra coscienza, noi siamo i dominatori della natura. Il dominio della natura, che si manifesta nella pratica del genere umano, è il risultato del riflesso, obiettivamente esatto, dei fenomeni e dei processi della natura nella mente dell’uomo, e dimostra che questo riflesso (nei limiti di ciò che ci indica la pratica) è una verità obiettiva, assoluta, eterna” (ed. Lotta comunista, Milano 2004, p. 207).

Il passaggio, per Lenin, appare molto logico, invece andrebbe dimostrato. Una conoscenza scientifica comporta davvero la necessità di un “dominio” della natura? Anche quando di questa natura conosciamo, seppur scientificamente, solo una parte? in ogni caso, anche se di essa conoscessimo tutto quanto, qui e ora, ciò dovremmo forse considerarlo sufficiente per esercitare su di essa un controllo assoluto delle sue risorse? Come se la natura fosse un semplice oggetto da manipolare? Che diritto avremmo di farlo, visto e considerato che qui si ha a che fare con un oggetto del tutto indipendente dal genere umano, da cui proviene la nostra stessa esistenza e persino la nostra coscienza?

Se la natura fosse stata creata dall’uomo, allora la questione del “dominio” sarebbe scontata; al massimo avrebbe potuto porsi nel caso in cui il passar dei secoli avesse determinato una dimenticanza o un offuscamento della conoscenza scientifica. Ma con le idee del materialismo dialettico noi dovremmo pensare a una natura che, pur potendo farne a meno, avrebbe creato un essere umano al quale dare piena facoltà di dominarla.

Che senso ha questo spirito di arrendevolezza da parte della materia? indubbiamente oggi abbiamo capito che i termini epocali dello scontro ideologico non sono più tra idealismo e materialismo, in quanto gli scienziati, con i loro strumenti tecnologici non vedono dio da nessuna parte, ma una concezione della natura così perentoria ci porta a credere che in futuro lo scontro verterà tra un materialismo autoritario e uno democratico, e lo spartiacque sarà proprio nella concezione che si avrà del rapporto tra uomo e natura.

Anzitutto infatti dovremmo chiederci: se l’uomo usasse questa facoltà di dominio in maniera contraria alle esigenze riproduttive della stessa natura, come farebbe questa a sopravvivere? Non ha infatti alcun senso pensare che, siccome la natura è infinita nello spazio e nel tempo, il suo sfruttamento può essere considerato illimitato. Tra natura e uomo dovrebbe esistere soltanto un rapporto paritetico e non anche un rapporto di dominanza e di subordinazione.

Non avrebbe alcun senso accettare l’idea che la natura abbia dato all’uomo una facoltà così invasiva neanche nel caso in cui ammettessimo una coesistenza eterna di entrambi gli elementi. A ben guardare infatti noi siamo sì un composto di materia, ma, poiché siamo caratterizzati da ciò che in natura si trova solo in noi, cioè la coscienza, allora forse è possibile pensare a una materia eternamente pensante, che ha trasmesso solo a noi questa sua facoltà, proprio perché esiste una contemporaneità nello spazio e nel tempo, o comunque una certa, profonda, familiarità.

Noi siamo materia pensante esattamente come la materia in generale. E, proprio come l’universo, che è infinito nello spazio e nel tempo, anche la nostra essenza o coscienza in qualche maniera lo è. Possiamo addirittura pensare – senza rischiare di cadere in alcun misticismo – che l’essenza umana in realtà non sia mai nata, proprio perché dell’universo noi siamo la sua coscienza, o comunque un prodotto necessario nell’ambito dell’evoluzione della natura, un prodotto che da virtuale è diventato reale.

Ma se anche questa ipotesi fosse vera, le leggi della materia non le abbiamo inventate noi; anzi esse ci costituiscono in maniera organica, strutturale, e quando non le rispettiamo, le conseguenze non ricadono solo sulla natura, ma anche su di noi. Questo per dire che sul nostro pianeta noi dovremmo limitarci a sperimentare con la natura un rapporto equilibrato e non di sfruttamento. Il fatto di essere la “coscienza della natura” non ci autorizza a fare alcunché di “innaturale”.

La moderna credulità

La credulità (o creduloneria) non è una prerogativa dei credenti, almeno non più di quanto oggi non lo sia per i non-credenti. Per capirci sul significato del termine, bisognerebbe anzitutto definirlo, ma la cosa non è facile.

Di regola, infatti, si è soliti applicare questo atteggiamento a una determinata categoria di persone: quelle che hanno una fede religiosa. Diciamo che chi crede in cose che vanno oltre la ragione umana è un ingenuo, e questo si verifica soprattutto tra i credenti, abituati per tradizione a considerare veri i miracoli, siano essi in forma di divina provvidenza, di inspiegabili mutazioni fisiche o di poteri sovrannaturali.

Oggi tuttavia, dopo mezzo millennio di secolarizzazione, non ha senso associare la credulità alla sola categoria dei credenti. Sono diventate troppe le persone non-credenti per rendere ancora legittima un’attribuzione così stretta.

Molti tra i non-credenti (agnostici o atei che siano) non si rendono conto di vivere, seppure in forma laicizzata, gli stessi atteggiamenti di credulità dei credenti. E questo è naturale. La religione ha una storia molto più lunga e per liberarsi dei suoi condizionamenti ci vorrà sicuramente molto tempo. Sicché può apparire del tutto normale che p.es. in luogo della “divina provvidenza” si creda nella “fortuna inaspettata”. Eventualmente, per costoro, saranno le vicende della vita a far capire che gli uomini devono appropriarsi del loro destino, per sentirsi davvero liberi.

Il problema però è un altro. Oggi la credulità non riguarda solo i credenti o i laici che si portano ancora dentro i condizionamenti della fede. Riguarda anche gli atei o gli agnostici convinti, quelli che pensano d’essersi emancipati definitivamente dalle chimere del passato. Li riguarda da vicino quando credono che determinate cose umane, create dagli uomini, possano funzionare da sole, come per magia o per incanto. P.es. le istituzioni o gli Stati, i quali, proprio a motivo della loro astrattezza, favoriscono gli atteggiamenti deresponsabilizzanti, quelli tipici di chi delega ad altri funzioni o poteri.

Sono istituzioni umane, messe in piedi contro forme clericali di autoritarismo del passato feudale, che però, in ultima istanza, riproducono, seppur laicamente, gli stessi difetti di quelle forme.

Una delle credulità più tipiche delle società borghesi è quella di ritenere che i mercati abbiano in sé la facoltà di risolvere ogni problema. Il valore di scambio è come un feticcio da adorare, un tabù inviolabile. Il valore d’uso, che implica l’autoconsumo, non si deve neppur nominare.

Gli Stati sono lo strumento principale di cui la borghesia si serve per dimostrare, a chi non vi crede, che la logica del mercato è l’unica in grado di garantire la democrazia. La stessa democrazia delegata o rappresentativa, che si esercita nei parlamenti nazionali, è la quintessenza della credulità politica. Ai cittadini vien fatto credere che, votando i loro rappresentanti, questi faranno davvero la volontà degli elettori.

Altri miraggi creati artificialmente dai poteri costituiti riguardano il nostro rapporto con la natura. Nonostante i periodici disastri causati da un uso dissennato delle risorse ambientali, ci viene sempre detto che il primato spetta all’uomo, alle sue esigenze (di lavoro, qualunque esso sia) e che la natura è soltanto uno strumento per soddisfarle al meglio.

E noi siamo convinti che questo ragionamento sia giusto, proprio perché ce ne fanno sempre un altro collaterale, e cioè che ad ogni problema si può facilmente trovare una soluzione con la nostra scienza e tecnologia, e che quando non la si trova non è per un limite oggettivo, ma per una mancanza di volontà politica.

Insomma noi viviamo come in una gigantesca bolla di sapone, nel mondo dei sogni. Siamo creduloni anche in quanto atei o agnostici convinti, proprio perché abbiamo uno strano culto del progresso e non ci piacciono i disfattisti, i catastrofisti. Vogliamo essere ottimisti ad oltranza, anche perché non vediamo all’orizzonte alternative davvero praticabili.

Ci piace credere che, in un modo o nell’altro, presto o tardi, le cose si aggiusteranno. E ci dispiace vedere che chi ci ha messo dentro questa bolla, ora stia approfittando della nostra buona fede, della nostra predisposizione alla credulità.

Ecco ora abbiamo forse trovato la definizione che prima cercavamo: credulità vuol dire essere indotti a credere che un potere a noi esterno abbia, nei confronti dei problemi da risolvere, più risorse di quante ne abbiamo noi.

L’etica della guerra e la guerra dell’etica

Le guerre sono l’esigenza di un’etica che si sente forte e che si è indebolita: un’etica malsana, individualistica, abituata a usare non l’esempio ma la forza per imporsi, e che quando riesce a ottenere ciò che vuole, diventa molle, s’infiacchisce, e non sa più come affrontare le proprie insanabili contraddizioni, i propri limiti egoistici.

L’esigenza della guerra è connaturata a una sorta di vuoto esistenziale, così tipico di quelle società (e financo di quelle civiltà) disposte anche a morire pur di trionfare sui più deboli.

E’ un’esigenza ciclica, che si ripete a ritmi alterni: a periodi di pace, in cui l’etica si rilassa, subentrano periodi di guerra, in cui l’etica si irrobustisce.

L’etica della guerra è un’etica di conquista, quella mediante cui il più forte vuole dominare. E’ l’etica del sacrificio, del coraggio, del disprezzo per la morte o per il dolore. E’ l’etica dell’obbedienza, del cameratismo, dell’altruismo nei confronti dei propri compagni, e dell’odio spietato nei confronti del proprio nemico. Si impara ad amare e a odiare nello stesso momento, con la stessa intensità.

E’ un’etica schizofrenica, lacerata, che illude i combattenti di poter diventare migliori proprio mentre uccidono qualcuno. L’omicidio viene giustificato in nome della guerra, cioè in nome del fatto che, siccome non si riesce ad amare nella pace, si deve provare a farlo nella guerra. E chi non è un “compagno” da amare e rispettare, è visto solo come un nemico da abbattere.

La paura di non-essere fa nascere le guerre, che infatti servono per affermare un “proprio essere”, l’essere della cultura, della nazione, della civiltà a cui si appartiene.

E sono guerre non di difesa ma di attacco. Non si sta difendendo legittimamente il proprio territorio, ma si sta occupando quello altrui. E mentre lo si occupa, si sviluppa l’etica, i cui valori sono finalizzati alla conquista e alla distruzione di chi fa resistenza.

E il militare non può aver dubbi di sorta: sta combattendo una guerra giusta, a favore della civiltà, della libertà, della giustizia, della scienza, del progresso e soprattutto dei valori umani universali.

Il soldato mette a repentaglio la propria vita per il bene dell’umanità e spera d’essere considerato un prode, un valoroso, addirittura un eroe. Viene ingannato dai suoi superiori e finisce con l’ingannare se stesso.

Prima della guerra l’etica era così debole che non si riusciva più a distinguere il bene dal male. E men che meno si può pensare di farlo durante la guerra, dominata dal principio mors tua, vita mea. E’ impossibile far chiarezza mentre si combatte, proprio perché la guerra rende elementari tutti i principi etici: o uccidi o vieni ucciso. Al massimo si può obiettare all’ordine di uccidere, se questo viola la dignità umana. Ma è molto raro vederlo.

La vera etica, quella umana, non può essere decisa durante la guerra: va decisa o prima o dopo. E quando non si riesce a farlo in tempo, la guerra diventa inevitabile; e se non si riesce a farlo neppure dopo, la guerra è stata inutile.

Al di là dei giornalisti e degli avvocati

Le giustificazioni che diamo alle nostre azioni hanno sempre un valore molto limitato. La cronaca nera, in tal senso, andrebbe abolita, poiché stimola l’illusione di credere, sulla base di poche righe, che si possa capire la motivazione delle azioni criminose.

Anche quando si raccontano gli eventi apparentemente più banali, come per esempio quell’anziano che si è lasciato uccidere da un giovane che voleva derubarlo, si presume sempre di sapere la verità dei fatti. Cioè ci si vanta di sapere che il motivo di quell’omicidio era l’unico possibile, il più reale, quello che concretamente aveva posto fine a un’esistenza.

Così facendo, il giornalista appare persino peggiore di quell’ispettore di polizia che, brancolando nel buio dei plausibili moventi del delitto, si limita a dire: “stiamo seguendo tutte le piste”, “non scartiamo nessuna ipotesi”. In tal modo chi ascolta quell’ispettore può forse sperare che in un omicidio vi siano diverse motivazioni e non soltanto quella in apparenza più evidente.

Se il giornalista cercasse ciò che sta sotto ad ogni azione delittuosa, forse renderebbe il crimine più comprensibile e il criminale più umano, o comunque eviterebbe di trasformarlo in un mostro. Il lettore infatti va abituato a credere che nessuno è del tutto innocente: neanche lui stesso che legge l’articolo di un omicidio di cui non si sente colpevole, almeno non in maniera immediata o diretta.

Un giornalista non dovrebbe sensazionalizzare i fatti, ma trarne spunto per compiere un’operazione di pedagogia sociale. Dovrebbe anzitutto disilludere chi plaude a interpretazioni unilaterali, forzate o comunque affrettate. Dovrebbe disincentivare le banalizzazioni.

Se un anziano si lascia uccidere per non essere rapinato, il cronista dovrebbe chiedersi qualcosa di più psicologico. Aveva forse vissuto gran parte della sua vita in miseria e ora voleva godersi il frutto della sua fatica, senza doverlo regalare a nessuno? O forse aveva un pessimo carattere, che gli impediva di avere pietà nei confronti di chi si trova in stato di bisogno? Oppure odiava i giovani perché li considerava tutti i fannulloni? O forse odiava proprio quel giovane, perché magari era uno straniero o perché era un suo parente? O forse odiava così tanto se stesso che, proprio grazie a quel furto, era riuscito a trasformare un suicidio in un omicidio?

Se un figlio uccide i propri genitori, volendo avere in anticipo l’eredità, non si può considerare questa come unico movente del delitto, né ci si può limitare a sostenere l’infermità mentale dell’assassino, come invece fanno i suoi avvocati, quando tentano di salvarlo o di ridurgli la pena al minimo previsto.

Sotto questo aspetto i processi sono non meno inutili degli articoli di cronaca nera. Anzi sono peggio, poiché da una curiosità di bassa lega, fine a se stessa, si passa a una mistificazione della realtà, mediante cui una persona sana viene fatta passare per una che, almeno nel momento in cui compiva il delitto, era incapace di intendere e di volere, quando addirittura non passa per una vittima che s’era comportata, seppur in modo sbagliato, per superare le proprie frustrazioni.

Un giudice o una giuria valuta i fatti e non si preoccupa molto delle intenzioni degli accusati, anche perché quelle vere l’avvocato non permette all’imputato di manifestarle, se possono, in qualche modo, nuocere alla causa. Sicché anche quando, al contrario, vengono rivelate, in tutta onestà, si pensa sempre che o l’avvocato o l’imputato stiano mentendo, poiché per principio si è sospettosi nei confronti di tutti gli avvocati.

Giornalisti e avvocati sono persone di cui una società davvero democratica dovrebbe fare a meno. In presenza di un crimine sarebbe anzitutto meglio tacerlo, in modo da non spaventare ancora di più il colpevole, che, per pentirsi, ha bisogno d’essere capito e non giudicato e tanto meno giustiziato.

E’ quindi anche inutile processarlo e condannarlo a un isolamento forzato o comunque a una lunga pena detentiva. Queste cose non aiutano a pentirsi, ma a convincersi ancora di più che l’azione criminosa partiva da motivazioni giuste. Se una persona colpevole di qualcosa vede che chi la punisce usa dei metodi violenti, duri, quasi disumani, non troverà mai alcun motivo per pentirsi.

Ci vuole la rieducazione, finalizzata al reinserimento in società. Ora, l’unico modo per ottenerla è convincere il colpevole che una parte della sua colpevolezza appartiene alla società, a partire dai parenti più stretti, dagli amici e conoscenti, dai colleghi di lavoro ai compagni di partito o di sindacato, sino alle istituzioni in quanto tali.

Ci vogliono delle comunità di recupero in cui i colpevoli possano ascoltare con le loro orecchie le scuse di quanti non hanno fatto nulla per aiutarli nel momento del bisogno. Questi cosiddetti “criminali” potranno essere reintegrati in società soltanto quando si convinceranno che le richieste di perdono da parte dei cosiddetti “innocenti” sono mosse da intenzioni davvero oneste e sincere.

Se il perdono è reciproco, la reiterazione del crimine sarà molto meno probabile, e quand’anche non fosse così, si saranno comunque poste le basi per un affronto più responsabile dei problemi, che è quello in cui una persona non si sente mai sola.

La fine della matematica

La regina delle scienze europee e oggi, se vogliamo, del mondo intero è indubbiamente la matematica, che in origine includeva la geometria e l’aritmetica.

Pur non essendo nata in Europa, ma in Mesopotamia e in Egitto, non senza significativi apporti da Cina, India e civiltà mesoamericane, essa ha trovato in Europa e quindi nel Nordamerica il suo compimento, obbligando l’intero genere umano ad adeguarvisi.

Grazie alla capacità di fare calcoli complessi, gli europei hanno saputo sviluppare enormemente tre scienze fondamentali per la loro esistenza: fisica, economia e astronomia.

La matematica più la fisica hanno reso possibili l’ingegneria e l’astronomia, cioè il controllo della natura su questo pianeta e nei cieli.

La matematica più i mercati e la produzione manifatturiera e industriale hanno creato una serie di scienze economiche e finanziarie su cui si regge l’intera civiltà capitalistica.

Oggi la matematica sembra aver trovato la sua apoteosi unificando, in un’unica scienza – l’informatica - un complesso di scienze, come la logica formale, la fisica, la chimica e la stessa ingegneria. L’informatica siamo soliti distinguerla in due grandi campi: software e hardware. Grazie al fenomeno delle reti digitali, è infine sorta la telematica, che ci fa sembrare il mondo il giardino di casa nostra.

Tutte scienze che l’Occidente ha sempre usato in maniera pacifica e violenta, per costruire rapporti sociali e per distruggerli.

Il motivo di questa schizofrenia sta soprattutto nel tipo di civiltà in cui queste scienze vengono sviluppate. Una civiltà caratterizzata da due contraddizioni fondamentali: l’antagonismo sociale che oppone in maniera irriducibile il possidente al nullatenente; la netta subordinazione della natura agli interessi di uomini abituati alla violenza.

Sulla base della matematica abbiamo sviluppato una civiltà malata, e con la matematica ci illudiamo di poterla sanare. La coscienza è stata messa sotto i piedi della scienza, nella convinzione che, così facendo, sia l’una che l’altra siano davvero oggettive, imparziali, al servizio del benessere e del progresso.

Ci hanno voluto far credere che a ogni problema vi fosse una soluzione, senza dover per forza affrontare le cause ultime della generale sofferenza. Noi pensiamo che tutto rientri in una questione meramente quantitativa, senza dover chiamare in causa alcuna qualità.

Persino chi dice di voler difendere i lavoratori, non fa che pretendere un diritto astratto al lavoro, un diritto al lavoro in sé, a prescindere dal suo impatto sulla natura. Il socialismo riformista chiede di redistribuire il reddito, senza chiedersi se il tipo di rapporto di lavoro che lo produce abbia un senso.

Siamo schiacciati dai ricatti della quantità. Continuamente ci dicono che i conti devono tornare (loro che non li sanno fare), che i debiti vanno pagati (loro che li hanno accumulati), che le variazioni alle richieste di sacrifici possono essere fatte solo a saldi invariati (loro che sono privilegiati e che vivono di rendita).

Ci terrorizzano quando perdiamo punti percentuali del prodotto interno lordo, che è però un indice meramente quantitativo, non in grado di dire alcunché sull’effettiva qualità della vita.

Come i pitagorici abbiamo ridotto l’essere al numero e ci siamo lasciati trasformare da persone pensanti a produttori automatizzati, a consumatori di beni, per i quali trasformiamo la nostra esistenza in un mero contenitore di oggetti, in virtù dei quali dovremmo sentirci migliori o più moderni.

La pubblicità ci fa desiderare cose che, per essere, non ci servono a nulla: servono solo per apparire e per arricchire chi produce quelle cose e chi le rivende, come se il valore d’uso di un qualunque oggetto fosse solo il suo valore di scambio, il suo prezzo di mercato: tutti numeri che intaccano la nostra esigenza d’essere umani e naturali.

Contro questa vita insensata noi dovremmo fare resistenza, come l’hanno fatta i nostri padri nei confronti delle dittature politiche. Dobbiamo convincerci che la dittatura può essere più subdola di quella del passato, più economica che politica, più parlamentare che militare. E’ la dittatura della democrazia borghese che dobbiamo superare.

Dobbiamo spegnere i televisori, i cellulari e i computer mandando in tilt il sistema. Non dobbiamo aspettare di vederlo saltare quando non avremo più energia da usare: dovremmo farlo saltare subito usandone troppo poca, giusto per disabituarli a credere che il mondo giri intorno a loro.

E l’energia che avremo tolto al sistema, la useremo per tornare a vederci di persona, chiedendoci cosa possiamo fare, lì dove siamo, per uscire definitivamente da questo incubo, da questo sogno pazzesco che, come nei miraggi, ci fa vedere l’acqua là dove c’è solo sabbia.

Una legge hegeliana e la terza guerra

Quando si esaminano le due guerre mondiali, ci si accorge abbastanza facilmente di quanto sia giusta una delle leggi della famosa dialettica hegeliana, quella per cui una serie successiva di determinazioni quantitative (cioè di eventi apparentemente irrilevanti), ad un certo produce una nuova qualità, che va a incidere in maniera sostanziale su quelle stesse determinazioni.

Se gli statisti avessero condiviso questa legge, avrebbero fatto di tutto per evitare quei due catastrofici conflitti, cercando di risolvere pacificamente sia i problemi interni ai loro paesi, relativi al confronto tra imprenditori senza scrupoli e mondo del lavoro intenzionato a rivendicare i propri diritti, sia i problemi interstatali, relativi alla spartizione imperialistica del pianeta.

Ma come avrebbero potuto risolvere quei problemi quando nel sistema capitalistico è l’economia privata che detta ragione alla politica? La politica è solo una delle espressioni dell’economia: è al suo completo servizio, al pari dello sviluppo tecnico-scientifico, della cultura, della formazione e anche della guerra. E dagli imprenditori non poteva certo venir fuori la soluzione dei problemi che loro stessi avevano creato.

Gli statisti non solo fecero gli interessi delle rispettive borghesie nazionali, ma permisero anche alle borghesie degli Stati vittoriosi d’infierire sulle popolazioni dei paesi sconfitti, ponendo le basi dei successivi risentimenti e revanchismi. Riuscirono persino a ottenere il consenso, che poi risultò decisivo per i crediti di guerra votati nei parlamenti, di molti dirigenti socialisti della II Internazione, che invece avrebbero dovuto approfittare dell’occasione per dimostrare la forza della loro opposizione. L’unico che non si mise a difendere gli interessi imperialistici della propria nazione e che anzi voleva scatenare una guerra civile, al fine di ottenere una transizione al socialismo, fu quello bolscevico, che lanciò anche la proposta, rimasta inascoltata, di una pace senza annessioni né indennizzi.

In tal senso la storia insegna che se non si reagisce subito a una determinazione quantitativa negativa, si reagirà ancor meno alle successive, e alla fine ci si troverà persino a stare dalla parte sbagliata. Le occasioni perdute fanno “imborghesire” anche i migliori.

Va tuttavia detto che ognuna delle due guerre fu così devastante da rendere inevitabile, in talune aree del pianeta, una qualche evoluzione anticapitalistica. Dalla prima alla seconda guerra queste aree si ampliarono notevolmente, al punto che durante la cosiddetta “guerra fredda” tra i due sistemi economici mondiali, si riteneva imminente lo scoppio di una terza guerra.

Senonché l’eventualità venne scongiurata da un fatto inaspettato: il crollo di uno dei due contendenti, dovuto all’impossibilità di realizzare un socialismo democratico con gli strumenti dello Stato centralista.

L’idea di voler creare uno “Stato di tutto il popolo” era stata considerata una contraddizione in termini, una presa in giro. Tutto implose repentinamente e in maniera, bisogna dire, abbastanza pacifica: sicuramente sarebbe potuto andare molto peggio, viste le energie spese per creare quella gigantesca illusione.

Dall’altra parte della cosiddetta “cortina di ferro” si esultò: il capitale aveva dimostrato che il sistema migliore del mondo era il proprio, e ora bisognava farlo capire a chi, durante il Novecento, non l’aveva ancora sperimentato. Si era scongiurata una nuova guerra semplicemente perché un avversario s’era rifiutato di combattere e aveva accettato le condizioni dell’altro.

Sicché in questo momento i tanti paesi ex-socialisti stanno vivendo tutte le dinamiche borghesi al loro interno, come se nulla fosse: hanno buttato via non solo l’acqua sporca del socialismo autoritario, ma anche il socialismo imberbe, che, nonostante i gravi errori della sua crescita, non meritava una fine così ingloriosa. Anche perché non è affatto vero che il sistema vincitore goda di ottima salute.

E’ anzi dall’inizio degli anni Ottanta che i governi cercano, ostinatamente, di smantellare, un pezzo per volta, tutte le conquiste dei lavoratori, portandoli letteralmente alla fame, usando i debiti pubblici come un’arma di ricatto con cui spogliarli di tutti i loro diritti e facendo della corruzione un vero e proprio stile di vita.

Di nuovo abbiamo a che fare con la suddetta legge hegeliana, e siccome non riusciamo a impedire questa successione negativa di mutamenti quantitativi, ci chiediamo quando vedremo sorgere una nuova tragica qualità e quale sarà, questa volta, il prezzo che l’umanità dovrà pagare per realizzare un socialismo davvero democratico.

Essere o non-essere? Il problema del divenire

Che cos’è il non-essere? E’ tutto quello che non è, tutto quello che non riesce ad apparire. Molti pensano che sia così perché in realtà non esiste o comunque non è storicamente realizzabile o sociologicamente rilevante. Chi nega il non-essere pensa che l’essere sia una verità evidente, cioè che una determinata realtà spazio-temporale appaia come legittimamente dominante.

Tuttavia un essere evidente, scontato, è sempre di una povertà etica, politica e culturale disarmante, al punto che i più direbbero non che l’essere in questione è positivo o negativo, favorevole all’uomo o contrario, ma semplicemente che è un dato di fatto, che non può essere messo in discussione, qualsivoglia limite abbia.

Forse qualcuno sarebbe anche disposto ad ammettere che il vero essere è qualcosa di non statico, ma in mutamento, non coincidente con la realtà che oggi si vede. Forse costui lo farebbe sapendo che, in fondo, è più importante il divenire che l’essere, proprio perché se l’essere è negativo, invivibile, non possiamo negargli la speranza di migliorare.

Ma che cosa significa “migliorare”? Il divenire non è una concessione che l’essere fa al non-essere. Infatti il divenire è possibile proprio perché esiste il non-essere, che non è una variante dell’essere, ma una realtà propria, cioè la possibilità dell’opposto o comunque del diverso, il diritto a una alternativa.

La verità non sta nell’essere in sé, ma nel divenire, frutto di un incontro o anche, se necessario, di uno scontro tra essere e non-essere, nel rispetto delle reciproche autonomie. Questa la lezione hegeliana che tutti noi abbiamo appreso sui banchi di scuola.

La verità sta nel suo perenne movimento. Quando si presume che una verità sia evidente, lapalissiana, si sta violando la libertà di coscienza, che ha sempre diritto a pensarla diversamente. Là dove viene negata la diversità, lì esiste una dittatura, foss’anche in nome della democrazia.

Esiste infatti dittatura anche quando al non-essere si offre una formale libertà di parola, che alla resa dei conti, a causa dei vari impedimenti oggettivi, non produce alcun risultato tangibile. La democrazia illusoria dell’essere è appunto questa, che si vuol far credere che il non-essere ha diritto di esprimersi e che se nessuno lo ascolta, la responsabilità è sua: i cittadini, in definitiva, preferiscono l’essere, in quanto lo ritengono un’evidenza ineludibile.

E’ così che lo spessore delle contraddizioni viene ridotto al minimo: tutto viene relativizzato. Quando i politici americani affermano che il bello della loro democrazia è che i poveri non invidiano i ricchi, perché nel loro paese a tutti viene data la possibilità di arricchirsi, esprimono appunto questo relativismo superficiale con cui si affrontano i problemi.

Là dove esiste un irriducibile antagonismo sociale si preferisce vedere una sana competizione, da cui emergeranno i migliori. La competitività è uno dei totem da adorare del moderno capitalismo, il quale, proprio perché “moderno”, tende sempre più a escluderla, a favore di trust, cartelli e monopoli d’ogni genere.

Le corporazioni preferiscono gli accordi sotto banco alle liberalizzazioni, preferiscono tutelare i privilegi acquisiti alle logiche del libero mercato. Quando parlano di laisser faire è solo per contrastare l’autoconsumo, il protezionismo e le nazionalizzazioni o qualunque forma di socialismo. Ma, una volta ottenuta la facoltà di agire secondo i principi del free market, ecco che scattano i meccanismi monopolistici.

La concorrenza viene sbandierata come valore nel momento in cui ci si deve fare largo fra imprese monopolistiche, ma, una volta ottenuto il proprio spazio, immancabilmente lo si nega ai nuovi arrivati. Il capitalismo è un sistema individualistico che, a causa del proprio carattere antagonistico di fondo (tra chi ha e chi non ha), tende a trasformarsi in una casta sempre più piccola di privilegiati dal potere enorme.

E’ l’essere che nega risolutamente il non-essere, rifiuta la dialettica del movimento, il diritto al futuro. L’unica possibilità di emergere in queste condizioni è quella di dimostrare competenze straordinariamente complesse, capacità produttive, commerciali e comunicative altamente specializzate, fortissime aderenze col potere politico, affiliazioni sempre più criminose… Ma anche in questi casi si finisce soltanto per compiere operazioni di tipo quantitativo, cioè per modificare proporzioni, gradi e intensità di un essere che nella sostanza rimane inalterato. Nel migliore dei casi le contraddizioni non fanno che acuirsi.

Nei confronti di un essere del genere, il non-essere non potrà avere molti riguardi.

Il mestiere del giornalista

Il giornalista è una figura di mezzo tra il politico e l’ideologo. E’ un opinionista. Generalmente è al servizio di chi lo paga: volgarmente si dice “pennivendolo”. Quindi non può avere opinioni troppo personali, anche se i grandi giornalisti, quelli che hanno fatto una carriera significativa, possono averle ed eventualmente, se non vanno d’accordo con l’editore, possono cambiare giornale o addirittura mettersi in proprio, magari in cooperativa.

A volte il giornalista, a forza di dare notizie sulla politica, sposa la causa di un partito e si fa eleggere in qualche parlamento. Quando invece va in pensione si limita a fare il conferenziere, oppure scrive libri o gestisce un proprio blog, ecc.

Il giornalista parla di ciò che dice di vedere (generalmente le solite cose riguardanti i poteri istituzionali), di ciò che sente personalmente (p.es. un’intervista o una conferenza-stampa), di ciò che legge (le news delle varie agenzie o di altri giornali).

Il giornalista parla poco della vita non ufficiale (dovrebbe fare delle inchieste che richiedono troppo tempo e denaro) e parla ancor meno di se stesso, se non indirettamente, attraverso i propri commenti. Il giornalista non scrive pagine di diario, ma pagine di cronaca (nera, rosa, politica, sportiva…), anche quando vuol fare riflessioni teoriche. Se è un grande giornalista o un intellettuale di spicco può scrivere gli editoriali, gli articoli di fondo.

Non pochi giornalisti sono morti nel corso di una guerra o sotto i colpi del terrorismo o della criminalità organizzata. Generalmente però il giornalista viene considerato una persona privilegiata, che quando entra in pianta stabile percepisce uno stipendio di tutto rispetto, e che può permettersi il lusso di dire molte cose che a un comune cittadino sarebbero interdette, non tanto perché la legge glielo vieterebbe, quanto perché, se venisse denunciato, non avrebbe i mezzi per difendersi.

Il giornalista è un uomo di potere, un anello dell’ingranaggio del sistema: se non lo è lui personalmente, lo è certamente il giornale per cui lavora. In genere siamo soliti dire che la libertà di stampa è l’unico vero antidoto contro le tentazioni autoritarie del sistema. Cioè la possibilità di poter criticare un governo e le istituzioni di uno Stato, viene considerata la conditio sine qua non di una qualunque democrazia. I giornalisti, se vogliono, possono anche far cadere un governo o indurre taluni suoi esponenti a dimettersi.

Tuttavia, nella loro grande maggioranza, i giornalisti difendono il sistema e non si preoccupano affatto di cercare delle alternative praticabili. Se c’è una cosa che per loro (salvo eccezioni) non può essere messa in discussione è proprio l’impianto capitalistico del sistema economico e la struttura politica della democrazia rappresentativa parlamentare. Tant’è vero che le notizie offerte dai giornalisti sono, sotto questo aspetto, tutte terribilmente uguali, anche quando i giornali appartengono a schieramenti politici opposti. Il loro è semplicemente un gioco delle parti, il teatrino della democrazia formale, in cui anche l’informazione è convenzionale.

La quantità delle informazioni che offrono sembra essere inversamente proporzionale alla loro effettiva utilità. Anche quando s’impegnano a parlare di cultura, nelle pagine dei quotidiani, la superficialità resta sempre disarmante. Le lamentele relative al fatto che in Italia pochi leggono i quotidiani o i settimanali non hanno alcuna giustificazione, neppure dal punto di vista tecnico. I quotidiani infatti, col loro piombo, fanno diventare nere le mani e solo il fatto di sfogliare un settimanale, con tutta la sua pubblicità, è un insulto al principio che il tempo è denaro. A fronte della grande sfida del digitale, la carta è davvero destinata a scomparire e sarà un bene per tutte le foreste del pianeta. Senza poi considerare che in rete le informazioni sono più personalizzabili e le ricerche sul pregresso incredibilmente performanti.

Per quale motivo il giornalismo italiano di maggior rilievo nazionale è così privo di spessore? Che bisogno ha di riproporsi in maniera così ripetitiva e di fuggire qualunque ipotesi di specializzazione? Perché leggendo un giornale o ascoltando un tg o un radiogiornale si ha l’impressione di non aver appreso nulla o comunque di non aver acquisito notizie più significative di quelle che può dirci, p.es., un collega di lavoro, che quando poi è iscritto a un sindacato diventa un valido punto di riferimento? Se nella scuola un docente s’accorge che anche solo un proprio studente non sta apprendendo nulla, comincia a preoccuparsi, parla personalmente con l’interessato, informa i suoi genitori, ne discute nel consiglio di classe, decide dei corsi di recupero, adotta particolari strategie didattiche, interpella eventualmente uno psicologo…

Cosa vuol dire “tenersi informati”? E’ davvero così importante leggere o ascoltare chiacchiere, pettegolezzi, disquisizioni, amenità che non portano da nessuna parte e che non sono in grado di risolvere alcun vero problema? Se lo chiedono mai i giornalisti il significato della parola “attualità”? Sembra che per “attualità” si debba intendere la soddisfazione di una semplice curiosità intellettuale, per non rischiare di apparire fuori del proprio tempo. Ma questa soddisfazione è soltanto un di più di quella che si prova sfogliando riviste a caso quando si è in attesa del proprio turno dal dentista o dal barbiere o dal medico della mutua. In tal caso si acquisiscono notizie soltanto per ammazzare il tempo.

Nella loro maggioranza, i giornalisti si dividono in due grandi categorie: quelli che s’illudono che sia sufficiente criticare il sistema per migliorarlo, e quelli che pensano che per migliorarlo sia sufficiente dare più poteri all’esecutivo, anche se non così tanti da mettere in discussione la libertà di stampa.

Sia gli uni che gli altri sono giornali di regime, pagati, nella sostanza, con le tasse dei cittadini, caratterizzati da un livello di eticità molto basso, con cui non ci si fa scrupoli nel violare la privacy di chicchessia, o il segreto d’ufficio, nel formulare accuse o sentenze che solo un magistrato potrebbe emettere, nello sbattere il mostro in prima pagina, nel creare scandali ad arte, nel decidere capziosamente quali notizie possono colpire di più la fantasia degli sprovveduti e, in genere, nell’usare informazioni per puro scopo commerciale.

Sono tutti giornali politicamente schierati a difendere un sistema che, anche quando viene criticato, favorisce la loro stessa esistenza.

Abbiamo bisogno di eroi

Forse, per uscire dalla corruzione dilagante, abbiamo bisogno di eroismo. Forse in periodi di grande crisi motivazionale, di grande mancanza di valori si può recuperare un certo senso della vita impegnandosi in azioni coraggiose, quelle che suscitano ammirazione e che inducono a una sequela imitativa.

Tuttavia nelle società antagoniste – e la nostra certamente lo è – questa esigenza vuol dire soltanto una cosa, che è poi quella di tutte le civiltà degli ultimi seimila anni: far scoppiare una guerra (o una crociata), dimostrando in battaglia il proprio valore. Si ridiventa umani sterminando altri esseri umani, convinti di compiere la cosa giusta. E’ un eroismo al negativo e soprattutto al maschile.

Se poi un paese la guerra la subisce, è ancora più facile: si diventa eroi semplicemente limitandosi a difendere la patria. In tal caso le azioni di grande coraggio possono essere alla portata di chiunque: non c’è bisogno di essere dei valorosi combattenti al fronte.

Il Reich nazista chiedeva ai propri soldati di non arretrare mai, di resistere sino all’ultimo uomo, e loro si sentivano degli eroi e apprezzavano i riconoscimenti, le premiazioni. Eppure erano soltanto degli invasori, convinti di portare ai cosiddetti “popoli senza storia” una civiltà superiore, fatta di razzismo e di tecnologia.

Ma anche ai propri soldati la Russia stalinista, attaccata da Hitler, chiedeva la stessa cosa. Soldati imperialisti si sentivano eroi esattamente come i soldati comunisti che difendevano una delle peggiori dittature della storia; con la sola differenza che i primi avevano attaccato per dominare, mentre i secondi dovevano difendersi per sopravvivere. Entrambi sparavano per uccidere ed entrambi si sentivano responsabili di una missione ch’era stata loro affidata da autorità superiori.

Gli uomini non sanno esprimere il loro eroismo se non uccidendosi. Possibile che non possa esistere un altro modo per dimostrare il proprio valore sul campo?

La Russia una volta aveva gli “eroi del lavoro”, gli stakhanovisti, coloro cioè che riuscivano a compiere imprese mirabolanti nel loro ambito lavorativo, aumentando di molto l’efficienza di talune mansioni e la produttività in generale, a vantaggio dell’intera nazione. Venivano strumentalizzati dalla propaganda del regime per dimostrare che il sistema sovietico poteva reggere la concorrenza di qualunque altro sistema economico. Venivano esaltati per mistificare la realtà.

Ma degli eroi di questo genere non avrebbero alcun senso nell’occidente capitalista, dove, vigendo la proprietà privata dei mezzi produttivi, solo qualche ingenuo autolesionista ambirebbe al titolo di “eroe del lavoro”. Infatti gli unici “eroi” che il capitale riconosce sono gli stessi imprenditori e, al massimo, i loro lacché, cioè quelli che possono vantare profitti favolosi o premi di produttività, per aver saputo ingannare al meglio una determinata clientela.

Eroismo vuol dire generosità, altruismo, spirito di sacrificio, un qualcosa di significativo che possa valere per tutti, che sia dimostrabile sulla base di determinate azioni.

Eroi possono essere quelli che salvano la vita a qualcuno, specialmente se mettono a rischio la propria. A noi occidentali, così abituati al benessere e a dominare il mondo, fa un certo piacere quando un immigrato o una persona emarginata compie un gesto di eroismo o di particolare generosità nei nostri confronti, e siamo persino disposti a riconoscergli qualcosa di più di una semplice medaglia.

Invece questa o una semplice targhetta ci pare sufficiente quando a riceverla è un donatore di sangue: un vero altruista, che per tanto tempo s’è imposto uno stile di vita rigoroso, capace di resistere alle tentazioni della martellante pubblicità.

Ma questi non sono eroi che possono scuotere le fondamenta d’un sistema, che possono inaugurare una transizione costruttiva, che suscitano emulazioni di massa, anche perché le loro azioni o sono puramente casuali o restano circoscritte ad azioni specifiche.

Certo, sono eroi positivi, ma noi avremmo bisogno di qualcosa che possa essere praticato quotidianamente e soprattutto alla portata di tutti, senza distinzioni di alcun tipo.

In tal senso non basta neppure cadere sotto i colpi della criminalità organizzata, anche perché spesso queste vittime non si rendono conto di difendere uno Stato che è l’alleato n. 1 di quella criminalità.

Dunque cos’è che può farci diventare degli eroi nella nostra vita quotidiana? Solo una cosa dà veramente fastidio al sistema: associarsi in comunità che lottino con tutte le loro forze per rendersi indipendenti dal mercato, recuperando tutti quei mestieri, tutte quelle attività che nel passato favorivano l’autoconsumo. Dobbiamo diventare eroi dell’autogestione.

Una volta veniva considerato molto moderno quel borghese che riusciva a vivere come se dio non esistesse. Oggi dobbiamo considerarci molto moderni se riusciamo a vivere come se tutta la realtà borghese sia per noi una gigantesca finzione.

Perché l’idealismo vince sempre sul materialismo?

E’ impressionante vedere con quanta forza i filosofi presocratici riuscirono, col loro materialismo, naturalismo e, in fondo, ateismo, a superare le concezioni religiose della mitologia di Esiodo e Omero, e con quanta debolezza dovettero soccombere agli attacchi delle metafisiche platoniche e aristoteliche, così astratte, idealistiche e imbevute di misticismo.

Molte delle cose scoperte dai filosofi naturalisti verranno riprese solo duemila anni dopo, al tempo dell’Umanesimo e del Rinascimento; altre verranno recuperate ancora più tardi, come p.es. l’atomismo di Democrito. E di tutti i loro innumerevoli testi ci restano solo pochi frammenti: li conosciamo solo indirettamente, solo perché altri (spesso gli avversari) ne hanno parlato.

Come si spiega questo fenomeno? In una maniera molto semplice: chi professa il materialismo o l’ateismo finisce, in genere, coll’avere scarsa propensione per gli argomenti etici, preferendo di gran lunga quelli di carattere scientifico.

Ora, il potere politico dominante trova sempre una certa difficoltà a utilizzare questo atteggiamento da intellettuali per rabbonire le masse. Quest’ultime, infatti, per essere meglio ingannate, hanno bisogno di sognare ad occhi aperti, di provare sentimenti, emozioni… E il materialismo, in tal senso, appare troppo freddo, troppo sicuro di sé.

I materialisti non si rendono conto che ai comuni mortali, abituati alle vessazioni dei potenti, non piace tanto la verità quanto piuttosto la finzione: la verità presumono già di saperla, ed è la loro sofferenza (che ritengono secolare, irrisolvibile), per cui preferiscono fantasticare.

I materialisti che vorrebbero essere onesti dicendo la verità, escono sempre sconfitti dal confronto con gli idealisti, proprio perché questi sanno vivere meglio il loro “volgare materialismo” dietro la facciata delle belle parole, dei buoni sentimenti (quelli lacrimevoli), dei valori patriottici (che affratellano tanto) e così via.

Gli idealisti sono così abili che fanno passare i materialisti per gente senza scrupoli, sempre litigiosa, supponente, fanatica, fondamentalmente egoista, in quanto priva di valori sociali condivisibili.

E i materialisti, ad un certo punto, si rassegnano a questo ruolo trasmesso dai mass-media, e cominciano a discutere solo tra loro, si vantano di avere la verità in tasca, nutrono sentimenti rancorosi, ostentando un distacco fittizio, e soprattutto attendono passivamente che le contraddizioni esplodano da sole, proprio per avere la soddisfazione di dire: “Era da un pezzo che ve lo dicevamo”.

Insomma, prima i metafisici greci, poi i teologi medievali, poi ancora i filosofi borghesi e ora infine i politici di ispirazione cristiana: tutti mostrano di saper perfettamente comunicare alle classi marginali il modo migliore per uscire dall’oppressione: sperare contro ogni speranza.

E queste masse, sempre più vaste, sempre più sofferenti, continuano a illudersi che qualcuno, prima o poi, saprà alleviare i loro mali, magari farle anche uscire dalla miseria; e questo qualcuno dovrà per forza essere un idealista, perché solo un idealista ha il senso dell’umanità, è misteriosamente ispirato da dio.

I veri nemici da combattere sono i disfattisti, quelli che vogliono sostituire dio con la natura, lo spirito con la materia, la fede con la ragione, cioè quelli che vogliono dire la verità, senza sapere che la verità è relativa e che nessuno la conosce.

Contro ogni forma di suicidio

Forse quando si dice che solo con la morte si può trovar pace, c’illudiamo senza volerlo. Pensiamo che la pace sia un sottrarsi a dei problemi ritenuti irrisolvibili. Come quando qualcuno decide di andare a vivere in un paese lontano, dove crede che i rapporti siano più semplici.

Oggi però questi luoghi remoti non esistono da nessuna parte: noi occidentali abbiamo contaminato l’intero pianeta e tutti soffrono delle nostre contraddizioni.

E’ illusorio pensare di poter vivere diversamente altrove, quando non riusciamo a farlo lì dove ci troviamo. Il virus ce lo portiamo dentro e lo diffonderemo ovunque andremo.

Noi dobbiamo curarci da una malattia altamente contagiosa, chiamata “antagonismo” e dobbiamo farlo insieme, lì dove siamo. Qualunque soluzione uno cerchi da solo, non funzionerà. Qualunque gesto estremo che ci porti a desiderare, in un modo o nell’altro, la fuga dalla realtà, non spezzerà la catena che ci obbliga a una vita senza senso.

Chi si uccide pensando che questo sia l’unico modo per risolvere i propri problemi, è bene che sappia che la vita è eterna, che la morte è solo un momento di passaggio da una condizione a un’altra, simile a quello che abbiamo vissuto quando eravamo nel ventre di nostra madre, e che nel cosiddetto “aldilà” non c’è alcun dio in grado di risolvere i problemi al posto nostro.

Nell’universo esistiamo solo noi (i cosiddetti “extraterrestri” sono soltanto i nostri avi) e dobbiamo smetterla di chiedere ad altri di sostituirci nel compito che abbiamo di essere noi stessi, umani come dovremmo.

Non solo non c’è nessun dio, a dispetto di quanti vi credono, ma la vita inesorabilmente continua, a dispetto di quell’altra religione rovesciata chiamata “ateismo”. Il genere umano è destinato a vivere e, se non affronta con decisione e lungimiranza i propri problemi, è anche destinato a soffrire, qui e di là, ora e sempre.

Prima che la natura ci ricordi che andando avanti di questo passo, c’è solo autodistruzione, dovremmo riflettere seriamente su almeno tre aspetti fondamentali intorno ai quali costruire il nostro prossimo futuro:

  1. la democrazia parlamentare (basata sul principio della delega) è diventata una dittatura, e dobbiamo opporle la democrazia diretta, circoscritta in un territorio locale, controllabile dai cittadini;
  2. il mercato ci obbliga a una dipendenza assolutamente insostenibile, e dobbiamo opporgli forme di autogestione dei bisogni sociali, in cui sia previsto l’autoconsumo;
  3. il lavoro non può più essere considerato una priorità quando il suo esercizio minaccia la sopravvivenza della natura, la sua riproducibilità, diventando così un grave pericolo per la salute e la sicurezza di tutti. La scienza e la tecnica non sono degli idoli da adorare, anzi il loro sviluppo va tanto più evitato quanto più si pongono al servizio di interessi privati basati sul profitto.

Questi sono tre motivi fondamentali per i quali vale ancora la pena vivere e lottare.

Rapporti personali o istituzionali nella gestione del potere?

In politica un rapporto personale è migliore di uno istituzionale se chi comanda dimostra d’essere migliore di chi ubbidisce. Un rapporto personale implica una fedeltà reciproca, una sorta di impegno morale consensuale.

Perché questo tipo di rapporto funzioni, chi comanda dovrebbe però essere sottoposto a giudizio, o quanto meno la sua carica dovrebbe essere eleggibile, altrimenti diverrà inevitabile l’esigenza di renderla inamovibile e persino ereditaria.

Per qualunque ruolo di comando deve assolutamente valere il principio secondo cui nessuno è insostituibile. Infatti, nella misura in cui il comportamento di chi comanda perde i connotati etici, l’ubbidienza dei sottoposti diventa sempre più formale e, nella sostanza, essi faranno di tutto per aumentare la loro autonomia o per stabilire dei particolari privilegi, finché alla fine dominerà una generale corruzione (o anarchia).

Un rapporto istituzionale è invece, per definizione, impersonale, basato su un potere che è di diritto solo perché è di fatto, cioè incontestabile. Quando i cittadini vanno a votare non mettono in discussione il sistema in generale né quello della rappresentanza in particolare, ma si limitano a sostituire i suoi rappresentanti con altri. Al limite, se nessuno andasse a votare, il sistema politico-istituzionale resterebbe in piedi lo stesso.

L’eticità del potere istituzionale non ha bisogno d’essere dimostrata, e l’obbedienza ch’esso richiede non è condizionata. Di regola si pensa che in un rapporto istituzionale chi comanda non faccia preferenze di persona, in quanto non si sente vincolato da alcun rapporto diretto (di parentela o di amicizia o di riconoscenza per un favore ricevuto) coi propri subordinati e che, per questa ragione, egli sia indotto a scegliere gli elementi più capaci e meritevoli.

Tuttavia questo sarebbe possibile solo a una condizione, ch’egli avesse un potere immenso, che è cosa assai rara persino in qualunque dittatura. Sicché l’equidistanza, nei rapporti istituzionali, è in genere un’illusione, una forma di mistificante idealismo con cui si vuol far credere che il potere statale sia al di sopra delle parti. Come noto, la borghesia ha preferito i rapporti istituzionali a quelli personali del mondo cattolico-feudale.

E’ da quando sono nati i Comuni italiani che nelle città non si ubbidisce a “persone”, ma a “istituzioni”, ed è almeno da mezzo millennio che si ubbidisce allo “Stato”, sia esso repubblicano o monarchico, il quale è rappresentato da “funzionari”, che vengono utilizzati sulla base di “contratti”. L’apparenza è quella di una maggiore obiettività, in quanto un qualunque rapporto personale rischia d’apparire viziato da considerazioni soggettive (che si traducono in cooptazioni, raccomandazioni e quant’altro).

Tutti, anche coloro che comandano, devono mostrare di fare gli interessi di un’entità superiore, chiamata appunto “Stato” (nazionale o anche sovranazionale, come oggi accade con la fase del globalismo economico). Ecco perché nessuno può opporsi con la forza quando il contratto non viene rinnovato: l’interessato se ne dovrà cercare un altro.

Qui è l’apparenza della democrazia che trionfa. Nei fatti, siccome domina incontrastata la proprietà privata dei mezzi produttivi, è proprio nelle democrazie formali di tipo borghese che si sviluppano le caste, esattamente come avveniva nei rapporti personali di tipo feudale quando la corruzione s’imponeva su tutto.

Le caste non sono altro che quei gruppi sociali, forti economicamente, che sfruttano l’apparente equidistanza dello Stato per aumentare il loro potere personale. All’interno di questo sistema non c’è alternativa alle caste, a meno che non si voglia liquidare progressivamente lo Stato, favorendo il ripristino dei rapporti di dipendenza personale, dove però il ruolo del comando sia eleggibile e rivedibile in qualunque momento, soprattutto quando si è in grado di dimostrare una palese violazione del diritto.

Ora, chiunque si rende conto che “dimostrazioni” del genere sono possibili solo quando la democrazia è diretta, cioè quando essa viene esercitata in un territorio locale abbastanza circoscritto, facilmente controllabile da parte dei cittadini che lo abitano.

Se l’idea è quella di superare la proprietà privata dei mezzi produttivi, rendendola collettiva (sociale, non statale), bisogna superare il sistema del capitale, in cui domina la proprietà monetaria del borghese, senza ricadere nel sistema feudale, in cui dominava la proprietà terriera del nobile.

Dobbiamo creare una società in cui la proprietà collettiva di tutti i mezzi produttivi venga gestita da comunità di tipo locale che, nell’affronto dei loro bisogni primari, siano indipendenti.

Una mosca curiosa

Ero una mosca curiosa e sempre affamata. Ma in quel tempo erano tutti affamati, perché c’era una gran crisi. La gente mangiava di tutto, escluse le mosche ovviamente, altrimenti ora non sarei qui a parlare della mia esperienza.

Un giorno presa dalla fame e da una indicibile curiosità, riuscì a entrare in un cassetto aperto della cucina. C’erano poche cose dentro e una, in particolare, mi colpì. Era un bicchiere con un’etichetta colorata. Il vetro era trasparente e lasciava vedere qualcosa di scuro, simile a un’altra cosa che io frequento molto spesso, perché me ne nutro.

Il tappo del bicchiere era bianco e, per fortuna, non era stato chiuso molto bene. Sicché, senza neanche tanto sforzo, riuscì a entrarci dentro e, piano piano, arrivai verso il fondo. Dal profumo che emanava non sembrava proprio quella cosa che ben conosco. Aveva un che di dolce-amaro che mi attirava molto.

Provai a sentirne un po’ e devo dire che mi piacque subito. Strano, perché noi mosche siamo abbastanza schizzinose: ci piace soprattutto la merda, anche se non disdegniamo la spazzatura, i cibi avariati e in genere le cose putrefatte.

Fatto sta che dopo averne sentita un po’, ci provai gusto e, visto che non mi faceva alcun male, andai all’arrembaggio e cominciai a divorarmi tutto il vasetto. Ero diventata come ubriaca. Non solo le zampe, ma anche le ali, la testa, tutto il corpo era impiastricciato di quella sostanza color merda.

Avevo la pancia piena, non mi ero mai sentita così bene, così felice. Avevo completamente dimenticato la fame che attanagliava le persone fuori del bicchiere. Ero come stordita: sarei voluta rimanere lì per sempre.

Ad un tratto però vidi dal vetro del bicchiere una mano entrare nel cassetto: una mano maschile, tutta pelosa da far ribrezzo, che si dirigeva verso di me. La mano prese il bicchiere, aprì il tappo e un gigantesco occhio mi guardava dall’alto. Siamo rimasti così per qualche secondo: io guardavo lui, lui guardava me.

Improvvisamente fece una cosa che non mi sarei mai aspettata: infilò due dita nel bicchiere e cercò di prendermi. Per me era impossibile fuggire, anche perché avevo le ali appesantite da quella leccornia color merda.

E così lui mi prese, mi avvicinò alla sua bocca e, con mia grande sorpresa, l’aprì. Pazzesco: stava per mangiarmi! Gli uomini non l’avevano mai fatto. Tutta ricoperta di cioccolata, ero diventata per lui una leccornia.

Prima che arrivassi a toccare la sua lingua, riuscì a fare una cagatina, per fargli capire, in extremis, ch’ero un essere schifoso, un animale immondo. Ma fu tutto inutile: quello non riuscì a distinguere la cioccolata dalla mia cagatina e mi divorò senza neanche masticarmi.

Il caso poi volle che il suo stomaco non riuscì a digerirmi ma mi spinse, così com’ero, nel suo intestino, finché poi venni espulsa dal suo corpo, insieme a quella cosa che a me piace molto.

Ora indovinate da dove vi scrivo queste cose. E’ un paradiso terrestre: il profumo della mia libertà.

Il virus della borghesia

La borghesia che si è sviluppata in Europa a partire dal Trecento (in Italia a partire dal Mille, con la nascita dei Comuni, che già nel Duecento erano così forti da impedire agli imperatori tedeschi di far valere i loro diritti feudali) in che cosa viene considerata “progressiva” dagli storici? Semplicemente nel fatto ch’essa riuscì a ottenere, attraverso il commercio e l’industria, ciò che prima poteva essere ottenuto solo attraverso la terra e le armi.

Ma davvero possiamo dire che la borghesia sostituì l’uso della rendita con quello del profitto? Davvero rimpiazzò l’uso delle armi per ottenere la terra con l’uso del denaro per ottenere ricchezze e prestigio? O non è piuttosto vero ch’essa si limitò ad abbinare uno stile di vita a un altro?

Davvero la borghesia può essere considerata una classe “rivoluzionaria”? Una cosa dovrebbe essere considerata “rivoluzionaria” quando elimina o sostituisce quella precedente, non quando le si affianca, limitandosi a ridurne il peso o il volume.

Per raggiungere il suo obiettivo, la borghesia, più che altro, s’è comportata con una buona dose di opportunismo e di cinismo; ha sapientemente dissimulato le proprie intenzioni; ha fatto dell’ambiguità un vero modello di comportamento. Ha saputo approfittare di tutte le contraddizioni della nobiltà e del clero cattolico, lacerati tra un idealismo astratto e un’immoralità concreta, soltanto per produrre nuove contraddizioni, strettamente legate all’uso dei capitali.

Davvero l’umanità aveva bisogno di vivere questa esperienza per emanciparsi dalla corruzione dei sovrani feudali? E’ stato davvero un “progresso” che una classe sociale potesse arrivare a un’analoga corruzione seguendo strade diverse da quelle percorse da chi l’aveva preceduta nella scala che porta al potere economico e politico?

Stando ai classici del socialismo scientifico, Marx ed Engels, sì, il percorso della borghesia era necessario per emanciparsi dal feudalesimo; stando invece al rivoluzionario Lenin, no: si poteva benissimo passare dal feudalesimo al socialismo democratico, saltando la transizione borghese.

Sono due posizioni completamente diverse, e oggi, alla luce del crollo del socialismo autoritario, dovremmo pensare che, in definitiva, avevano ragione Marx ed Engels.

Teoricamente, in realtà, aveva ragione Lenin, ma l’evoluzione del leninismo verso lo stalinismo ha dato ragione a Marx (e indirettamente a Trotski).

Lo stalinismo infatti è stato la testimonianza, in forme diverse da quelle del capitalismo occidentale, che lo stile di vita borghese può influenzare le masse più di quanto non si creda. Lo stalinismo è stato il tentativo d’impedire alla borghesia di svilupparsi autonomamente, utilizzando, nel fare questo, alcuni strumenti che la stessa borghesia s’era data per imporsi, e cioè lo Stato, le forze armate e di polizia, i servizi segreti, la burocrazia, l’ideologia politica, la parvenza del diritto, l’istruzione di massa, la scienza e la tecnica al servizio del potere, l’informazione manipolata ecc.

Nello stalinismo è mancata soltanto la possibilità che si sviluppasse una classe sociale particolare, frutto di un uso privatistico del denaro (che è poi quello che sta permettendo oggi il socialismo cinese).

Si sviluppò invece la figura del burocrate statale deresponsabilizzato e dell’intellettuale di partito spersonalizzato, ch’erano, nella sostanza, delle figure borghesi, dipendenti da questa tipologia di classe. La tradizione collettivistica, che s’era conservata nella decadenza del feudalesimo est-europeo, aveva ostacolato lo sviluppo della borghesia “economica”, ma non era riuscita a impedire lo sviluppo di quella “politica e amministrativa”.

Tuttavia i fatti hanno dimostrato che se si sviluppa una borghesia del genere, più intellettuale che imprenditoriale, diventa poi impossibile impedire che si sviluppi anche l’altra borghesia, che nell’Europa occidentale esiste da almeno un millennio.

La storia dunque cos’ha dimostrato? Semplicemente che, una volta nato, lo stile di vita borghese è come un virus che si propaga molto velocemente; che bisognerebbe eliminarlo con decisione appena lo si intercetta; che è un virus molto pericoloso, in quanto muta continuamente le sue sembianze; che è un virus in grado di vivere in maniera latente e inerte anche dopo averlo tenacemente combattuto, e che alla prima occasione può venire allo scoperto, cogliendo del tutto impreparato chi l’aveva combattuto.

Per tenere sotto controllo questo virus, impedendogli di svilupparsi e di diffondersi, ci vogliono alcune condizioni fondamentali, che non possono essere imposte dall’alto, poiché una qualunque imposizione fa il gioco del virus.

La prima condizione è che si accetti di vivere un’esperienza collettivistica basata sull’autoconsumo e sulla democrazia diretta. Non solo cioè ci si deve limitare a consumare ciò che effettivamente si produce in maniera autonoma, evitando che si formino delle categorie di persone che, col pretesto di amministrare le eccedenze, evitano di lavorare; ma bisogna anche che ogni decisione da prendere su come ottenere dalla terra i prodotti del nostro sostentamento, sia frutto di una comune volontà, senza interferenze da parte di forze esterne al collettivo.

Posto questo, occorre che si abbia piena consapevolezza che nei confronti della natura non si può avere un atteggiamento di sfruttamento. La natura va rispettata nelle sue esigenze riproduttive, che sono le stesse che permettono agli uomini di esistere. Qualunque cognizione scientifica o uso della tecnologia non può andare oltre un certo limite, perché al di là di questo esiste solo autodistruzione.