COME HA DETTO ANCHE PAPA FRANCESCO, ECCO IL PERCHE’ DELLE GUERRE: GLI 80 MILIARDI DI DOLLARI DI ARMI VENDUTE OGNI ANNO NEL MONDO, CON GLI USA CHE DA SOLI NE VENDONO LA META’!

http://www.repubblica.it/esteri/2016/12/27/news/gli_usa_primi_fornitori_mondiali_di_armi_40_miliardi_di_dollari-154913187/?ref=HREC1-18

NEW YORK  – Gli Stati Uniti fornitori mondiali di armi. Nel 2015 ne hanno vendute per un valore di 40 miliardi di dollari, confermandosi leader delle vendite nel mondo. Al secondo posto la Francia con 15 miliardi di dollari.

E’ quanto emerge da uno studio condotto per il Congresso americano e riportato dal New York Times, secondo il quale lo scorso anno sono state vendute complessivamente armi per 80 miliardi di dollari, in calo rispetto agli 89 miliardi di dollari del 2015.

I Paesi avanzati restano anche nel 2015 i maggiori acquirenti di armi, con acquisti per 65 miliardi.

Il calo delle vendite globali è legato all’economia debole, spiega il rapporto. ”Problemi di bilancio hanno spinto molti Paesi a posticipare o limitare gli acquisti. Alcuni Paesi hanno scelto di non acquistare nuove armi e di ammodernare i loro sistemi esistenti”.

Ed ecco cosa ha detto papa Franecsxo nell’omelia a Santa Marta il 16 febbraio dell’anno scorso:

“Basta “imprenditori di morte” che vendono armi perché continui la guerra “Ma, siamo imprenditori!”, ribattono i venditori. Sì, di che? Di morte? E ci sono i Paesi che vendono le armi a questo, che è in guerra con questo, e le vendono anche a questo, perché così continui la guerra. Capacità di distruzione». «Ma prendete un giornale, qualsiasi, di sinistra, di centro, di destra…qualsiasi. E vedrete che – ha sottolineato il Pontefice – più del 90% delle notizie sono notizie di distruzione. Più del 90%. E questo lo vediamo tutti i giorni».

La Deutsche Bank somiglia troppo al Monte dei Paschi di Siena

Deutsche Bank e MPS: le sorellastre del sistema bancario europeo

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

 

Cosa hanno in comune Monte Paschi di Siena e Deutsche Bank? Sicuramente la spregiudicatezza, gli alti rischi di tenuta e la eventualità di un salvataggio pubblico.

Anche se di dimensioni grandemente differenti, entrambe le banche sono un po’ il simbolo dei rispettivi sistemi bancari nazionali. MPS è la più longeva, la più antica banca al mondo, creata nel 1472, e oggi allo sbando. DB, fondata 146 anni fa, è diventata sinonimo e pilastro della capacità economica tedesca fino alla sua caduta nei gorghi della peggiore speculazione.

Nonostante queste pericolose somiglianze, i consiglieri economici della Merkel, come il suo ‘aiutante di campo’ Christopher Schmidt, stranamente sono molto preoccupati del futuro di MPS. Puntano il dito su una barca in difficoltà, ma non vedono, o non vogliono vedere, la nave che rischia di andare a fondo.

Eppure recentemente Der Spiegel, il principale settimanale tedesco, ha pubblicato un lunghissimo articolo sulle attività della Deutsche Bank. E’ un vero e proprio dossier, veritiero, devastante, inevitabilmente spietato. Incomincia così: ”Cupidigia, provincialismo, codardia, comportamenti maniacali, egoismo, immaturità, falsità, incompetenza, debolezza, superbia, decadenza e arroganza”. Queste sono le pesanti parole usate per spiegare l’involuzione della DB, che emergono anche nelle migliaia di pagine dei documenti e delle interviste analizzati.

Il settimanale tedesco sottolinea che il collasso della prima banca tedesca è il risultato di decenni di fallimenti della sua leadership. Nel periodo tra il 1994 e il 2012 si è perso completamento il controllo della banca fino a “saccheggiarne e derubarne la sua stessa anima”. Se una volta la DB era l’icona di rispettabilità e di solidità, oggi si è trasformata in una caricatura del “Lupo di Wall Street”.

“Deutsche Bank è broken” scrive Der Spiegel, sommersa da ben 7.800 denunce legali!

Nel 1994 DB aveva un bilancio di 573 miliardi di euro e circa 73.000 impiegati, di cui tre quarti in Germania. Già nel 2001 gli impiegati erano diventati 95.000, solo la metà in Germania. Nel 2007 il bilancio era salito a 2.200 miliardi di euro e gli impiegati in Germania invece erano scesi ad un terzo del totale. Mentre nel 2015 il bilancio si ridusse a 1,600 miliardi di euro, gli impiegati salivano a 100.000, anche se distribuiti in 70 Paesi del mondo.

Come si evince, nel processo internazionalizzazione la banca ha incominciato, purtroppo, ad imitare i comportamenti dirigenziali di stile anglo-americano. Ha completato la trasformazione da “più grande banca commerciale tedesca a banca di investimento anglo-americana”. Tanto che lo stesso l’Economist inglese a suo tempo la definì “un gigantesco hedge fund”.

Con l’internazionalizzazione iniziò di fatto la fase degli eccessi, degli errori e delle malversazioni intenzionali, le cui ramificazioni legali ne stanno ancora divorando i bilanci. Si ricordi la spregiudicata scelta di operare nella speculazione in derivati finanziari di vario tipo, particolarmente in quelli legati ai mutui e alle ipoteche.

E’ importante notare che, se nel 1994 la maggior parte dei profitti della DB provenivano dai servizi bancari commerciali tradizionali, già nel 2007 era la cosiddetta ‘investment division’ , cioè il dipartimento finanziario impegnato soprattutto in strumenti e operazioni ad alto rischio, che produceva ben 70% di tutti i profitti della banca.

E’ questo il periodo in cui i rapporti tra DB e MPS si sono fatti più stretti per via di una serie di derivati finanziari che la banca tedesca aveva concesso alla banca italiana per coprire dei buchi di bilancio. Derivati finanziari che si sono rivelati poi delle perdite pesanti per MPS. Perdite che sono andate ad ampliare i buchi e a generare altri derivati, come il famoso ‘Santorini’.

Naturalmente la DB, invece, ha fatto guadagni significativi sui derivati MPS.

Il problema è stato poi la convinzione dei grandi capi della DB di avere scoperto “il potere degli dei’ che li ha portati a trasformarla nella banca numero uno al mondo nel settore dei derivati finanziari, superando persino le grandi banche americane.

Nello stesso periodo è partita anche la corsa ai bonus dei dirigenti. Ancora nel 2015, anni dopo lo scoppio della grande crisi finanziaria che per la prima volta evidenziava la anomalia degli stratosferici stipendi dei manager, ben 756 alti funzionari della DB guadagnavano oltre 1 milione di euro.

Ancora oggi la DB è rinchiusa in una sorta di “nicchia darwinista, un buffet self service per pochi, dove nessuno può essere incolpato”.

La crisi della DB è talmente profonda da convincere Der Spiegel che non si può in alcun caso escludere l’opzione più estrema, quella di un suo salvataggio pubblico da parte del governo tedesco. Con buona pace per le preoccupazioni di Berlino per una simile soluzione anche per MPS.

E’evidente che farsi le pulci tra sistemi bancari, in questo caso quello tedesco e quello italiano, aumenta il discredito verso l’intero mondo bancario, minando la stessa architettura europea.

Secondo noi è giunto il momento in cui i consigli di amministrazione e i manager delle varie banche dissestate vengano sottoposti al rigoroso vaglio della magistratura, unitamente ai maggiori beneficiari dei capitali elargiti.

*già sottosegretario all’Economia **economista

La Bestia e il Bello.

LA BESTIA. 

http://video.repubblica.it/dossier/movimento-5-stelle-beppe-grillo/io-voglio-che-i-cittadini-devono-votare–lo-sfogo-di-di-battista-diventa-un-trailer/262272/262620?ref=HRESS-3

E IL BELLO 

Matteo Renzi nel suo profilo su Facebook

Torno a Pontassieve, come tutti i fine settimana. Entro in casa, dormono tutti. Il gesto dolce e automatico di rimboccare le coperte ai figli, un’occhiata alla posta cartacea arrivata in settimana tanto ormai con internet sono solo bollette, il silenzio della famiglia che riposa.
Tutto come sempre, insomma.
Solo che stavolta è diverso.
Con me arrivano scatoloni, libri, vestiti, appunti.
Ho chiuso l’alloggio del terzo piano di Palazzo Chigi.
Torno a casa davvero.
Sono stati mille giorni di governo fantastici. Qualche commentatore maramaldo di queste ore finge di non vedere l’elenco impressionante delle riforme che abbiamo realizzato, dal lavoro ai diritti, dal sociale alle tasse, dall’innovazione alle infrastrutture, dalla cultura alla giustizia. Certo c’è l’amaro in bocca per ciò che non ha funzionato. E soprattutto tanta delusione per la riforma costituzionale. Un giorno sarà chiaro che quella riforma serviva all’Italia, non al Governo e che non c’era nessuna deriva autoritaria ma solo l’occasione per risparmiare tempo e denaro evitando conflitti istituzionali.
Ma quando il popolo parla, punto. Si ascolta e si prende atto. Gli italiani hanno deciso, viva l’Italia.
Io però mi sono dimesso. Sul serio. Non per finta. Lo avevo detto, l’ho fatto.
Di solito si lascia Palazzo Chigi perché il Parlamento ti toglie la fiducia. Noi no. Noi abbiamo ottenuto l’ultima fiducia mercoledì, con oltre 170 voti al Senato. Ma la dignità, la coerenza, la faccia valgono più di tutto. In un Paese in cui le dimissioni si annunciano, io le ho date. Ho mantenuto l’impegno, come per gli 80 euro o per l’Imu. Solo che stavolta mi è piaciuto meno:-)
Torno semplice cittadino. Non ho paracadute. Non ho un seggio parlamentare, non ho uno stipendio, non ho un vitalizio, non ho l’immunità.
Riparto da capo, come è giusto che sia. La politica per me è servire il Paese, non servirsene.
A chi verrà a Chigi dopo di me, lascio il mio più grande augurio di buon lavoro e tutto il mio tifo: noi siamo per l’Italia, non contro gli altri.
Nei prossimi giorni sarò impegnato in dure trattative coi miei figli per strappare l’utilizzo non esclusivo della taverna di casa: più complicato di gestire la maggioranza.
Ho sofferto a chiudere gli scatoloni ieri notte, non me ne vergogno: non sono un robot. Ma so anche che l’esperienza scout ti insegna che non si arriva se non per ripartire. E che è nei momenti in cui la strada è più dura che si vedono gli amici veri, l’affetto sincero. Grazie a chi si è fatto vivo, è stato importante per me.
Ai milioni di italiani che vogliono un futuro di idee e speranze per il nostro Paese dico che non ci stancheremo di riprovare e ripartire. Ci sono migliaia di luci che brillano nella notte italiana. Proveremo di nuovo a riunirle. Facendo tesoro degli errori che abbiamo fatto ma senza smettere di rischiare: solo chi cambia aiuta un Paese bello e difficile come l’Italia.
Noi siamo quelli che ci provano davvero. Che quando perdono non danno la colpa agli altri. Che pensano che odiare sia meno utile di costruire. E che quando la sera rimboccano le coperte ai figli pensano che sì, ne valeva la pena. Sì, ne varrà la pena. Insieme.
Ci sentiamo presto, amici.
Buona notte, da Pontassieve.

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[Ho scritto una puntata per spiegare il perché del mio cambio di parere e voto, dal No convinto al Sì come male minore. Renzi in tempi non sospetti l’ho anche preso per il sedere e ho ridicolizzato la scenografia, con annessi significati, del famoso convegno alla Leopolda. Devo però dire che il Renzi del dopo dimissioni mi ha sorpreso. Sobrio e apprezzabile. Il problema è che si addebitano a lui, come per esempio ha fatto Leno Lazzari nel commento immediatamente prima del tuo, ciò che si usa chiamare partitocrazia e annessi guasti].

 

IL PARTITO DI GRILLO RECLAMA IL REFERENDUM PER FARCI USCIRE DALL’EURO E TRUMP METTE UNA FAINA NEL POLLAIO DEI SOLDI PUBBLICI USA

 Il deputato grillino Alessandro Di Battista nel presentare il programma di governo del suo partito ha ribadito e specificato: “Vogliamo il referendum sull’euro”. Chiara quindi la volontà del Movimento 5 Stelle di farci uscire dall’euro, come del resto vuole anche la Lega Nord, con le inevitabili conseguenze più probabilmente catastrofiche che paradisiache.  A certi giovani cialtroni non basta neppure la lezione della Brexit e non sanno nulla dell’assalto di George Soros che mise in ginocchio la lira: pur di far carriera politica sono prontissimi a farsi servi dei Dracula e becchini dei risparmi degli italiani.

pino nicotri 

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Un uomo della Goldman Sach al Tesoro americano

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

La nomina di Steven Mnuchin a segretario del Tesoro della nuova amministrazione Trump non è certamente un segnale positivo. Noi l’abbiamo paventata in un articolo scritto  settimane fa. Mnuchin è un rampollo della Goldman Sachs, la banca numero uno della grande speculazione. Anzi, si potrebbe dire che vi è ‘nato dentro: il padre Robert ne è stato partner per ben 30 anni; Steven vi ha lavorato per 17 anni, fino al 2002, arrivando a gestire il delicato settore dei titoli di stato, delle obbligazioni e delle ipoteche immobiliari. In questo periodo Mnuchin ha collaborato anche con il Fund Management di George Soros, il megaspeculatore tristemente noto in Italia per i suoi “assalti” contro la lira nel 1992-3, che misero in ginocchio la nostra moneta.

Nel 2004, dopo l’esperienza alla GS, il futuro segretario del Tesoro si mise in proprio creando un suo hedge fund speculativo, il Dune Capital Management, uno di quelli che sono stati spesso chiamati “fondi avvoltoio”. Ha partecipato ai progetti di investimento immobiliare di Trump e investito anche in Hollywood e nella produzione di alcuni film di cassetta. Sono stati gli anni della deregulation e della grande abbuffata speculativa che hanno creato la bolla finanziaria e quella dei mutui subprime scoppiate nel 2008 con il fallimento della Lehman Brothers.

Per meglio capire le idee e il modus operandi di Mnuchin, è importante analizzare la sua decisione di comprare, nel 2009, la banca di credito immobiliare IndyMac dopo il suo fallimento. Perché si compra una banca fallita? Per fare soldi con simili investimenti occorre essere molto furbi e senza scrupoli. La sua furbizia fu nella clausola imposta all’agenzia statale venditrice, la Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC), di “condivisione delle perdite”, qualora eventuali mutui e titoli acquisiti fossero diventati inesigibili. Nel contempo con aggressiva determinazione parecchie migliaia di famiglie, incapaci di pagare i mutui accesi, furono messe alla porta e le loro case acquisite dalla banca, che nel frattempo aveva cambiato nome in OneWest Bank. Per Mnuchin è stato un grande affare: la FDIC nel frattempo versa 1 miliardo di dollari per la parte dei crediti inesigibili e la vendita successiva della OneWest nel 2015 frutta 3,4 miliardi di dollari, il doppio del prezzo d’acquisto.

Evidentemente gli insegnamenti acquisiti alla Goldman Sachs sono stati molto utili e fruttuosi per il futuro segretario al Tesoro. Perciò è opportuno ricordare che, in rapporto alla crisi finanziaria americana e globale, la GS è stata oggetto di approfondite indagini da parte di due commissioni bipartisan, una del Senato americano e l’altra indipendente, ma formata da esperti nominati dal Partito Democratico e da quello Repubblicano. La Commissione del Senato, denunciando l’operato delle grandi banche americane, in primis la GS, ha scritto: ”E’ stata una distruzione fino alle fondamenta del sistema finanziario”. Persino Trump durante la campagna elettorale ha denunciato i dirigenti della GS come la personificazione dell’elite globale che “ha derubato gli operai americani”.

Mnuchin sarebbe il terzo segretario al Tesoro che si è fatto le ossa alla Goldman Sachs. Prima di lui vi sono stati Henry Paulson con il presidente George W. Bush e Robert Rubin con il presidente Clinton. Il primo divenne famoso per avere permesso alle banche di speculare fino al crack per poi salvarle con i soldi pubblici, il secondo preparò l’abrogazione della legge Glass-Steagal di separazione bancaria.

Cosa ci si può quindi aspettare dal nuovo segretario al Tesoro, se verrà confermato all’inizio del 2017 da un Congresso a maggioranza Repubblicana?

In primo luogo che possa ridare mano libera alle grandi banche per operare “as usual”. Si ricordi che i tentativi del presidente Obama di realizzare la riforma della grande finanza sono stati contenuti e alla fine quasi sconfitti dalla potente lobby bancaria americana. Le banche ‘too big to fail’ ora sicuramente si sentono pronte per la spallata definitiva a ogni tipo controllo sul loro operato e ad ogni tentativo di frenare le loro azioni, anche quelle speculative ad alto rischio. Ci si potrebbe chiedere se l’approccio prettamente finanziario possa entrare in collisione con il Trump imprenditore che dice di voler rilanciare gli investimenti, anche nelle infrastrutture. Non sarebbe salutare per la comunità americana, e nemmeno per il resto del mondo, se si raggiungesse un compromesso per far gestire gli investimenti alle grandi banche.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Sì o No?

Votare Sì o votare No? Non è la prima volta, e temo non sia l’ultima, che in Italia una votazione si presenta come drammaticamente decisiva: da una parte il paradiso e dall’altra l’inferno; da una parte la salvezza e dall’altra la dannazione, la catastrofe; da una parte la libertà e dall’altra la dittatura, del comunismo o della Chiesa quando esistevano ancora il Partito Comunista Italiano e la Democrazia Cristiana. Non guardo mai la televisione, ma sere fa mia moglie ha voluto che assistessi alla puntata di Porta a Porta dedicata appunto all’ormai imminente referendum. Beh, devo dire che Renzi, che non gode (neppure lui) delle mie simpatie, una cosa ben chiara e vera l’ha detta: “Non è vero che se vince il No ci troviamo nel paradiso delle riforme auspicate dall’onorevole Giorgia Meloni tifosa del No”.
Se vince il No, c’è il rischio molto concreto che succeda una delle seguenti due cose:

– si va a un governo tecnico, magari affidato allo stesso Renzi, che difficilmente realizzerebbe a fare buone cose concrete in grado di ribaltare la situazione evitando che alle prossime elezioni vincano Grillo e Salvini (o chi per lui alla Lega Nord, visto che Umberto Bossi ne ha finalmente capito l’inadeguatezza), evitando che vincano cioè i due Masaniello che farebbero di corsa quello che vedremo tra poche righe.
– Renzi si dimette, come fece scioccamente a suo tempo D’Alema, e quasi di sicuro al posto di un governo tecnico capace e duraturo, che è nei sogni non solo dell’Economist, si corre a nuove elezioni. Che la Lega di Salvini e il Movimento 5 Stelle di Grillo vincerebbero a mani basse. Per fare poi un governo che realizzi i sogni targati Meloni o i miei? Nossignori! La prima cosa che Salvini e Grillo farebbero è l’Itexit, cioè l’uscita dell’Italia dall’Unione Europea. Cosa che i due Masaniello e molti sognano. Lo sognano perché non si rendono conto di due cose:

– il ritorno dall’euro alla lira azzererebbe di colpo i nostri sudati risparmi personali, farebbe esplodere se non il debito estero di sicuro l’inflazione, cioè l’aumento dei prezzi ovvero il costo della vita, che appunto svaluterebbe o vaporizzerebbe i nostri risparmi, i risparmi delle a chiacchiere tanto decantate famiglie, e ci renderebbe ancor più marginali in campo economico finanziario mondiale;
– dopo l’ Itexit, l’Unione Europea crollerebbe. E l’Europa tornerebbe al suo ordine sparso e alle sue divisioni che nel corso dei secoli e secoli hanno scatenato innumerevoli guerre, di ogni tipo, e provocato decine di milioni di morti, distruzioni e devastazioni immani. L’Europa, divisa di suo da troppo tempo, diventerebbe anche un vaso di coccio tra vasi di ferro di enormi dimensioni come la Cina, la Russia, gli Usa e potenze economico militari crescenti come la Turchia e l’Iran. Con l’Inghilterra che come sempre favorirebbe le suddivisioni europee per trarne un suo vantaggio. Tempo 10-15 anni il Vecchio Continente sarebbe molto probabilmente devastato da una nuova grande guerra, e anche senza guerra si ridurrebbe a diventare bocconi, province o protettorati delle grandi fauci dei giganti nominati poco fa.
 All’Italia – che fino ai primi anni ’60, cioè fino a poco più di 50 anni fa, aveva le pezze al culo ed era terra di emigranti con le valigie di cartone e che agli Usa, crollata l’Urss, non interessa già più da vari anni – non resterebbe che il classico “Franza o Spagna purché se magna”. Dove però non di Franza o Spagna si tratterebbe, bensì di Cina, India, Arabia Saudita, Qatar…

Sì, certo, il sole sorgerebbe ancora, per dirla con Obama, ma non sulla realizzazione dei sogni di Meloni, D’Alema, Grillo, ecc., bensì su un panorama destinato a diventare un panorama di decadenza e ininfluenza.
Esagero? Spero tanto di sì. Ma temo tanto di no. ATTENZIONE: il predominio, il benessere e i vari privilegi del territorio geografico chiamato Europa sul resto del mondo durano da secoli e secoli, e ora si stanno affievolendo sempre di più. La Storia dimostra che prima o poi qualunque potenza, impero e grande ricchezza tramonta o crolla. Con effetti di solito rovinosi. Cerchiamo di non favorire il tramonto dell’Europa sotto forma di crollo e di non accelerarlo a spallate facendo largo al dilagare degli antieuropeisti.

Sono certo che vincerà il No, lo capisco dai molti discorsi che sento e leggo di persone di vari ceti sociali, abitanti al nord, al centro, al sud e nelle isole, persone di idee politiche le più diverse. E’ evidente che vincerà il No. Ma io, oltre a essere abituato a non salire mai sul carro del vincitore, non voglio avere nulla a che fare con quelle che temo siano le conseguenze di una tale vittoria. Non voglio avere responsabilità e rimorsi di coscienza.  

Se vincesse il Sì non accadrà certo quella deriva verso l’autoritarismo e addirittura il fascismo  sbandierata come certezza e spauracchio dai tifosi del No. Non mi risulta che negli Usa, in Francia, in Germania, in Inghilterra e in altri Paesi dell’Unione Europea  l’autoritarismo e tanto meno il fascismo se la facciano da padroni, pur avendo  tutti Paesi con un sistena politico ben diverso dal “bicameralismo perfetto” del BelPaese. In alcuni di quei Paesi vige anzi il presidenzialismo e in altri addirittura la monarchia, eppure non sono meno democratici dell’Italia. O no? Trovo francamente ridicolo l’allarme lanciato da un mio collega che per dissuadermi a votare Sì mi ha pubblicamente ammonito a non dare il mio voto a chi “se vince non ci farà più votare!”.

Quello che però trovo preoccupante in Renzi e altri supporter del Sì è l’affermazione che bisogna governare l’Italia “con la stessa efficienza e rapidità di decisioni con la quale viene gestita un’azienda”. Preoccupante per due motivi. Primo: una società civile e un Paese di decine di milioni di persone NON sono un’azienda. Per lo stesso motivo per il quale non sono una caserma. E se qualcuno si azzardasse a dire che bisogna governare l’Italia “con la stessa efficienza e rapidità di decisioni di una caserma” verrebbe preso a pernacchie e accusato di autoritarismo. Secondo: tutte le grandi aziende italiane hanno fatto cilecca, dalla Fiat alla Zanussi, dalla Olivetti all’Alitalia. Di quale “efficienza aziendale” e di quali manager da prendere come esempio per i politici parlano o meglio straparlano dunque Renzi&C? Meglio farebbero a non usare quel paragone, altrimenti il sospetto che le loro siano solo chiacchiere è inevitabile.
Per concludere: tra il Sì e il No c’è solo da scegliere il male minore. Il meglio in assoluto – come sempre, del resto – non è all’ordine del giorno. E stiamo attenti a non fregarci con le nostre stesse mani sbattendo la porta in faccia alla realtà in nome di un meglio nominalistico, che non essendo possibile provocherebbe solo guai, o per antipatia verso Renzi, i renziani e il renzismo. Stiamo attenti a non imitare il tizio che per far dispetto alla moglie si tagliò i testicoli.

P. S. 1) – Nel mio piccolo, anch’io ho in mente una riforma che ritengo migliore e più semplice di quelle agitate o auspicate da ormai gran tempo, riforma che vede come asse centrale una drastica riduzione dei parlamentari e delle Regioni, queste da ridefinire sull’esempio dei Laender tedeschi: ogni regione deve essere ritagliata su quelli che sono stati regni o repubbliche o comunque Stati con una storia alle spalle e non invenzioni burocratico campanilistiche come sono invece le attuali Regioni italiane. Farei eccezione per le isole e il Sud ex regno delle Due Sicilie, dove le Regioni anziché solo una o due potrebbero essere tre (Sicilia e altre due per il resto del Meridione), più la Sardegna. Ma so bene che NON è che se vince il No viene adottata la riforma che vorrei io.

           2) – Sì, certo, la Costituzione italiana è la più bella del mondo e andrebbe difesa a spada tratta evitando qualunque cambiamento. Il problema però è che per troppe cose è rimasta lettera morta. Difendere in toto qualcosa che in 70 anni non è stata pienamente realizzata  nonostante il sistema politico fosse ben più forte, strutturato e radicato di quanto accada oggi significa fare pura retorica.