Sperare contro ogni speranza

Quando si finisce sulle Ande, perché l’aereo vi si è schiantato contro, e i soccorsi non arrivano e i viveri sono molto scarsi e non c’è alcun modo di comunicare con l’esterno, perché la radio non funziona, e i passeggeri, chi per le ferite riportate, chi per inedia, finiscono, uno dopo l’altro, per morire, e la disperazione comincia a farsi strada nei sopravvissuti, che, guardandosi attorno, avevano per un momento pensato d’essere stati “fortunati” – si vede subito la differenza tra l’ateo e il credente.

Uno prega, l’altro no; uno è passivo, rassegnato, l’altro no; uno dice di aspettare i soccorsi, l’altro invece li vuole andare a cercare tra quelle montagne impervie e innevate. Uno si affida a dio, l’altro al proprio io e cerca di convincere altri io a rischiare il tutto per tutto. Preso dalla terribile fame l’ateo propone di mangiare i cadaveri degli altri passeggeri; il credente, invece, si oppone per motivi di coscienza: ne fa una questione ideologica.

Dov’è dunque la vera differenza tra i due atteggiamenti? Dobbiamo forse pensare che l’ateo faccia di tutto per sopravvivere perché ritiene che non esista alcun aldilà? E che il credente faccia bene ad essere indifferente nei confronti della morte, perché sa che comunque tornerà a vivere? Dei due quindi dobbiamo ritenere più immaturo, più sprovveduto l’ateo, che non sa come stanno davvero le cose nell’universo?

No, la differenza non può stare in queste cose, poiché anche l’ateo può pensare che la vita continui dopo la morte. Se ritiene che l’universo sia infinito e che tutto quanto vi è contenuto si trasforma perennemente, niente gli impedisce di crederlo.

In fondo il credente non può avere alcuna certezza del suo “paradiso”: è solo una sua convinzione personale, in cui chiunque può credere, senza per questo dover scomodare l’esistenza di un fantomatico dio. La differenza, tra i due, non può essere così banale: deve per forza essere un’altra.

Il credente pensa di poter esibire ciò che lo distingue dall’ateo, per far vedere che è migliore, che il suo atteggiamento rassegnato e autoconsolatorio è quello giusto. Lui attende fiducioso un intervento miracoloso e si sente autorizzato a pensare che, se questo non arriva, la loro o la sua sia soltanto una prova da superare, magari per misurare la fede o per punire, lui o qualcun altro, di qualche peccato compiuto. Lui è lì, tutto pronto a fare delle supposizioni metafisiche.

No, l’ateo non farebbe mai ragionamenti del genere, così paralizzanti: tanto meno accetterebbe l’idea che quella tragica avventura deve servirgli per mutare opinione sulle questioni della fede. Anzi, troverebbe il modo di organizzarsi per cercare di salvare tutti, perché per lui la vita va vissuta sino in fondo, è tutto quello che è in suo potere di fare, deve farlo.

In questo sta la sua diversità: se deve morire, vuol farlo camminando, non stando a sedere, chiuso in quel rottame abbandonato da dio. Cercherà un modo per comunicare, anche a costo di attraversare a piedi quell’enorme catena montuosa. Si attrezzerà, pensando di dover sopravvivere a 40 gradi sotto zero e in un sacchetto metterà una scorta di carne umana. Non darà per scontato, senza prima provarci, che non ci sia più nulla da fare.

E una volta che avrà trovato i soccorsi, farà capire al credente cosa vuol dire l’espressione “sperare contro ogni speranza”. Sì, farà capire proprio a lui cosa vuol dire “aver fede”.