Gli assurdi paragoni boomerang di Netanyahu. E la sua prosecuzione della strategia del rubare quanta più terra ai palestinesi continuando a demolire le loro case e a insediare coloni

Giornalista: “Come mai in questo conflitto sono morti tanti palestinesi e pochi israeliani?”.

Netanyahu: “Lei è certo di voler iniziare con questo tipo di domanda?”.

Giornalista : “Perché no?”.

Netanyahu: ” Perché nella seconda guerra mondiale sono morti più tedeschi di tutti gli americani e gli Inglesi messi insieme, eppure nessuno dubita che la guerra sia stata causata dall’aggressione tedesca. E in risposta al bombardamento tedesco di Londra gli Inglesi rasero al suolo l’intera città di Dresda, uccidendo più civili di quanti ne morirono a Hiroshima. Inoltre potrei ricordarle che nel 1944, quando gli Inglesi provarono a distruggere il comando della Gestapo a Copenhagen, alcune bombe caddero per errore su di un ospedale pediatrico nelle vicinanze, uccidendo 83 bambini danesi. Vuol passare a un’altra domanda?”.

Se ce ne fosse ancora bisogno, ecco un’altra prova dell’ottusità e della non buona fede di molti governanti israeliani, in questo caso del primo ministro attuale Netanyahu. Il suo ragionamento fa acqua da molti buchi, e in ogni caso diventa un boomerang. Se infatti si dice che chi è aggredito può reagire in modo devastante contro l’aggressore, si autorizzano per esempio i palestinesi a reagire in modo devastante contro le aggressioni e invasioni che ahnno iniziato a subire per primi. E l’Egitto? Assalito proditoriamente nel ’57 dall’esercito guidato da Dayan in quanto reo di avere finalmente nazionalizzato il canale di Suez, è forse autorizzato a devastare Israele? Io ne dubito, ma Netanyahu e i suoi supporter evidentemente no. Per non parlare del Libano, dell’Iraq bombardato ad Osirak, della Siria pure bombardata nella centrale nucleare in costruzione, e via elencando.

Purtroppo il giornalista non è stato pronto a ribattere. Ma a volte con certa gente è meglio il lancio delle scarpe, come ha fatto in Iraq un altro giornalista. La volgarità, la disonestà e il razzismo del paragonare il popolo palestinese alla Germania di Hitler che scatenò la seconda guerra mondiale e il molto abusato, ormai tedioso dare del nazista, antisemita, ecc., a chiunque non applauda qualunque azione di Israele, compresi quindi una marea di israeliani e di ebrei nel mondo, può entusiasmare il noto canagliume nostrano, ma sicuramente non blocca la capacità degli esseri umani di ragionare con la propria testa. Non blocca neppure la capacità dell’Onu di comminare altre condanne e altri biasimi verso Israele, che non si capisce bene cosa ci stia a fare nll’Onu e perché non ne venga espulsa visto e considerato che dei deliberati dell’Onu se ne infischia altamente. Se a infischiarsene fosse un qualunque stato islamico sarebbe già stato cacciato a pedate.

Però  “non ragioniam di lor, ma guarda e passa”. Allego un articolo di Jeff Halper, direttore del Comitato israeliano contro la demolizione di case (in sigla ICAHD), che mostra il solito gioco delle tre carte di Netanyahu&C. A allego anche un comunicato di una associazione di volontari cattolici che aiutano un paesino palestinese a sud di Hebron  a difendersi dalle violenze dei coloni, che continuano imperterriti a rubare la loro terra spalleggiati e protetti dall’esercito pur trattandosi di furti illegali anche dal punto di vista della stessa legge israeliana.  Oltre al furto della loro terra, hanno ricevuto anche l’ordine di demolizione di sei case. Poiché in quel minuscolo paesino ci sono stato, inserisco nel pezzo alcune mie foto. Le case demolite sono la quasi totalità del paese, formato da pochissime case, abitazioni povere e dignitose delle persone anziane che ci hanno accolto festanti, di quei bambini, di quelle ragazze e di quei giovani che hanno danzato per noi visitatori, ragazze e giovani bisognosi anche loro di speranze e di certezze, cioè di un futuro, ma rispetto i quali voltiamo ipocritamente la testa dall’altra parte. Le responsabilità non sono tanto di Israele quanto nostre, cioè dell’Europa e degli Usa che di Israele si servono rischiando inevitabilmente alla lunga di essere usati.
Obama se vuole davvero imporre la pace in Medio Oriente dovrà adoperare il bastone. Ammesso che glielo lascino usare e non gli tolgano quanto meno la mano.Sabato 01 Agosto 2009 – Jeff Halper

Dopo il suo incontro con il Presidente Obama il Primo Ministro di Israele Netanyahu avrebbe pronunciato le magiche parole “due stati”?
Tutta Israele stava con il fiato sospeso, ma lui non l’ha fatto. La distanza fra i due comunque è tanta che neppure quelle parole l’avrebbero potuta colmare. Obama è alla ricerca -io ritengo sinceramente, forse urgentemente- di una risoluzione del conflitto israelo-palestinese, che egli comprende essere una pre-condizione per andare avanti su questioni mediorientali più grandi e pressanti. Netanyahu, che rifiuta persino l’idea di quel mini-stato palestinese a malincuore accettato da Barak, Sharon e Olmert, persegue uno stato permanente di “immagazzinamento” in cui i Palestinesi vivano eternamente in un limbo di “autonomia” definito da un Israele che li racchiuda e li controlli. Il pericolo, di cui dovremmo essere tutti consapevoli, è che le due parti si possano accordare sull’apartheid – l’istituzione di un bantustan palestinese che non possieda né una vera sovranità né l’autosufficienza economica.
 
Da parte sua, sembra che Obama sia consapevole del forte legame fra il conflitto israelo-palestinese e l’ostilità verso l’Occidente così diffusa nel mondo islamico. La sua amministrazione è stata esplicita sulla necessità di fare progressi in Palestina per trattare il tema del nucleare iraniano, e la sua abilità di ritirarsi dall’Iraq, stabilizzare l’Afghanistan e il Pakistan e di affrontare la sfida che l’Islam politico rivolge agli stati arabi “moderati” dipende anche, in misura significativa, dalla creazione di una nuova relazione con il mondo musulmano, che non si può ottenere senza porre fine alla Occupazione israeliana.
 
Netanyahu ed il suo Ministro degli Esteri Avigdor Lieberman hanno già presentato le linee della loro nuova “ricontestualizzazione” del conflitto:

1.    la minaccia iraniana è prioritaria, unisce gli USA e Israele in una alleanza strategica e rende marginale la questione palestinese;
2.    slogan (come li definisce Lieberman) quali occupazione, colonie, coloni, terra in cambio di pace e persino la “semplicistica” soluzione dei due stati devono essere abbandonati per favorire il “processo” secondo un nuovo slogan: “economia, sicurezza, stabilità” – che significa migliorare l’economia palestinese e nel contempo garantire la sicurezza di Israele. Ne risulterebbe una stabilità (Lieberman cita a modello la situazione “stabile” fra le popolazioni greca e turca di Cipro sotto l’occupazione turca) che in qualche modo faciliterà qualche vago futuro processo di pace;
3.    Israele continuerà ad espandere i suoi “fatti compiuti”. Proprio il giorno prima dell’incontro Netanyahu-Obama era stata annunciata la costruzione di una nuova colonia: Maskiot, nella Valle del Giordano, il primo insediamento in 26 anni. Due giorni dopo il ritorno da Washington, Netanyahu inoltre ha dichiarato: “la capitale di Israele è Gerusalemme. Gerusalemme è sempre stata nostra e sempre lo sarà. Non verrà mai più frazionata e divisa.” L’annuncio aggiungeva che si continuerà a costruire all’interno dei “blocchi degli insediamenti”. Giusto un mese prima, il giorno che Hillary Clinton e George Mitchell dovevano arrivare nel Paese, il governo israeliano aveva annunciato che avrebbe eseguito imponenti demolizioni di case palestinesi a Gerusalemme. Questo approccio di aperta sfida segnala all’Amministrazione USA che Israele non intende accettare dictat, come si esprime il Ministro per gli Affari Strategici Moshe Ya’alon, e vuole testare quanto sarà disposto a fare sul serio Obama.

4.    Sia gli USA sia Israele sollecitano un maggior coinvolgimento degli stati arabi nel processo di pace, ma anche di questa questione Israele ha una sua visione particolare. Mentre gli USA stanno elaborando un approccio globale alla pace e stabilità dell’intera regione mediorientale (quella che il re Abdullah di Giordania chiama la “soluzione dei 57 stati” per cui l’intero mondo arabo e musulmano riconoscerebbe Israele in cambio della fine dell’occupazione), la formula israeliana di anteporre la “pace economica” a qualsiasi accordo di pace politicamente definito cerca di creare uno stato di normalizzazione fra Israele ed il mondo arabo-musulmano che relegherebbe per un tempo indefinito la questione palestinese in secondo piano. Considerati i trascorsi dei cosiddetti stati arabi “moderati” e l’ostilità che essi, come Israele, nutrono contro una maggiore influenza dell’Iran, un loro coinvolgimento non promette necessariamente bene per i Palestinesi.

E poi ci sono tutti i meccanismi per ritardare o minacciare i negoziati:
•    creare insormontabili ostacoli politici, come la richiesta che i Palestinesi riconoscano Israele come “stato ebraico”. Netanyahu sa bene che i Palestinesi non l’accoglieranno. Tale riconoscimento pregiudicherebbe lo status di uguaglianza dei cittadini palestinesi di Israele, un buon 20% della popolazione israeliana. Esso aprirebbe anche la strada per un’ulteriore pulizia etnica (“trasferimento” secondo il gergo israeliano). Quando era Ministro degli Esteri, Tzipi Livni aveva affermato con chiarezza che il futuro dei cittadini arabi-israeliani sta in un futuro stato palestinese, non certo in Israele. E non dimentichiamoci che l’anno scorso il Parlamento israeliano ha approvato una legge che richiede la maggioranza dei due terzi, il che equivale ad una soglia impossibile da raggiungere, per approvare qualsiasi cambiamento nello status di Gerusalemme. Su altre questioni, quali lo smantellamento degli insediamenti o la ratifica di qualsiasi accordo di pace, si approveranno, con il sostegno del governo, leggi dello stesso tipo.

•    Ritardare l’applicazione. OK, dice il governo israeliano, negoziamo, ma l’applicazione di ogni accordo sarà subordinata alla completa cessazione di qualsiasi resistenza da parte dei Palestinesi. “Sicurezza prima della pace” è il modo di esprimersi del governo israeliano. Dal momento, però, che non vi è mai stato alcun indizio che Israele darebbe il suo consenso ad uno stato palestinese autosufficiente, e poichè Israele considera qualsiasi forma di resistenza, sia armata sia nonviolenta, come una forma di terrorismo, “sicurezza prima della pace” in realtà significa “fermate ogni resistenza e può darsi che avrete uno stato.” L’inghippo qui è che se i Palestinesi cessano la loro resistenza, essi sono perduti. Senza la pressione palestinese, Israele e la comunità internazionale rimarrebbero senza alcuna motivazione per fare le concessioni necessarie ad una vera soluzione. Ed anche se si raggiungerà un accordo, “sicurezza prima della pace” significa che esso non verrà attuato finchè Israele non deciderà unilateralmente che le condizioni sono mature. Questo cosiddetto “accordo a palchi” continua ad erigere altri ostacoli insormontabili davanti a qualsiasi processo di pace.

•    Proclamare uno stato palestinese “di transizione”. Se tutto il resto fallirà – dato che un vero negoziato con i Palestinesi o la fine dell’Occupazione sono fuori questione- gli USA, su lascito israeliano, possono riuscire a saltare la fase 1 della Road Map e passare direttamente alla fase 2, che richiede la proclamazione di uno stato “transitorio” palestinese prima della definizione dei suoi effettivi confini, territorio e sovranità. Questo è l’incubo dei Palestinesi: venire rinchiusi per un tempo indefinito nel limbo di uno stato “transitorio”. Per Israele invece questa è la soluzione ideale, in quanto offre la possibilità di imporre i confini e di espandersi nelle aree palestinesi mostrando però nel contempo di rispettare il cammino della Road Map.

Inutile dire che tutto ciò serve ad evitare una vera soluzione a due stati, idea che suona semplicemente come un’anatema per il governo a guida Likud. Più di un decennio fa Netanyahu aveva enunciato la sua visione di auto-determinazione per i Palestinesi: una via di mezzo fra “meno-di-stato e più-di-autonomia”. Il termine migliore, per quanto squallido, per definire ciò che Israele ha in serbo per i Palestinesi è immagazzinamento, uno stato permanente di controllo e soppressione in cui le vittime scompaiono dalla vista e la loro situazione, spogliata di qualsiasi contenuto politico, diviene una non-questione.
Per quanto l’Amministrazione Obama possa autenticamente desiderare una soluzione basata su due stati autosufficienti e possa capire persino tutti i trucchi di Israele, è pure chiaro che senza una pressione significativa essa non potrà realizzarsi. Ed ecco dove sorge il vero problema. L’asso nella manica di Israele è sempre stato il Congresso USA, dove gode praticamente di un unanime sostegno bipartisan. E lo stesso Partito Democratico di Obama, che ha ricevuto quasi l’80% dei voti degli Ebrei statunitensi, è sempre stato molto più “proisraeliano” di quello Repubblicano. Potrebbe anche darsi che, per quanto Obama e Mitchell cerchino di indirizzare la politica americana in modo nuovo, più assertivo, i leader del suo partito si tirino indietro, per timore di non essere rieletti.
In questo caso, il compromesso fra il desiderio di risolvere il conflitto e l’incapacità di indurre israele a ritirarsi dai Territori Occupati in modo da fare emergere uno Stato palestinese autosufficiente potrebbe anche tradursi in una forma di apartheid.

La differenza fra uno Stato palestinese autosufficiente ed un Bantustan è questione di dettagli. Ci sono già segni che l’Amministrazione Obama autorizzerà Israele a conservare i principali blocchi di colonie, compresa una “Grande Gerusalemme”, ed impedirà ai Palestinesi di ottenere la sovranità sui confini con gli Stati arabi vicini. Poichè solo una minoranza è in grado di comprendere appieno il significato cruciale di tali dettagli, Israele è convinta di potere disegnare con diplomazia una situazione di apartheid spacciandola per una soluzione a due stati. Nel corso degli ultimi decenni il lavoro della società civile è stato quello di costringere i governi ad adempiere alle proprie responsabilità ed iniziare un processo politico che porti effettivamente ad una pace giusta fra Israeliani e Palestinesi. Ora che questo processo si avvicina, il nostro compito è di fare in modo che sia un processo onesto.
 
 
traduzione di Stefania Fusero
 
 
Jeff Halper è il Direttore del Comitato Israeliano Contro la Demolizione di Case -ICAHD. ( jeff@icahd.org Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo. )

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COMUNICATO DELLA COMUNITA’ PAPA GIOVANNI XXIII

Continua senza sosta l’espansione delle colonie israeliane a sud di Hebron
Nuovi caravan nell’insediamento israeliano di Ma’on e ordini di demolizione per sei abitazioni palestinesi nel villaggio palestinese di At-Tuwani

14 settembre 2009

At-Tuwani – Mentre nell’arena internazionale si continua a parlare del congelamento degli insediamenti e dell’evacuazione degli avamposti israeliani illegali, continua senza sosta l’espansione delle colonie sulle colline a sud di Hebron (Southern Hebron Hills).

Nei giorni scorsi, i coloni dell’insediamento di Ma’on hanno iniziato la costruzione di sei nuovi caravan nell’area sud-est dell’insediamento, ad oggi completati e pronti per essere abitati. Nel frattempo sono iniziati i lavori preparatori per nuove costruzioni sulla collina vicina all’insediamento. (http://bit.ly/MH9gk)

Negli ultimi mesi, gli internazionali presenti nell’area hanno continuato a documentare l’espansione degli insediamenti presenti nell’area, osservando la costruzione di nuove unità abitative negli avamposti di Havat Ma’on e Avigail e nell’insediamento di Carmel.

Lo scorso 9 settembre, l’esercito israeliano ha rimosso due container ad uso abitativo che alcuni coloni dell’insediamento di Suseya, a sette chilometri dal villaggio di At-Tuwani, avevano illegalmente costruito al di fuori del perimetro della colonia su terreni agricoli dei contadini palestinesi del vicino ed omonimo villaggio. In seguito alla rimozione delle costruzioni abusive da parte dell’esercito israeliano, i coloni hanno aggredito gli abitanti del villaggio palestinese, ferendo dodici persone, di cui una è dovuta ricorrere a cure ospedaliere. Durante la notte, i coloni hanno eretto di una nuova costruzione sulla sommità della collina in questione.

Infine nel pomeriggio del 13 settembre, ufficiali del DCO (unità dell’esercito israeliano responsabile dell’amministrazione civile dei Territori Palestinesi Occupati) hanno consegnato ordini di demolizione per sei abitazioni palestinesi vicino al villaggio di At-Tuwani.

Le abitazioni in causa erano state costruite di recente su terre private palestinesi nell’area d Humra. Nella notte del 16 luglio scorso alcune di queste abitazioni e diversi ulivi erano stati danneggiati, presumibilmente da coloni del vicino avamposto di Havat Ma’on. Alcuni giorni dopo, il 20 luglio, il DCO aveva consegnato ordini di blocco dei lavori per queste abitazioni e altre strutture appena costruite.

Adesso che l’ordine di demolizione è stato emesso, le famiglie temono che l’esercito israeliano arrivi da un momento all’altro per demolire le loro abitazioni.

L’esercito israeliano, che in quest’area ha un controllo non solo militare ma anche civile (secondo gli Accordi di Oslo), vieta ogni permesso di costruzione per i palestinesi, impedendo lo sviluppo delle comunità locali. Di contro, i vicini insediamenti di Ma’on e Carmel e gli avamposti di Avigail e Havat Ma’on continuano ad espandersi senza sosta.

Operazione Colomba e Christian Peacemaker Teams continuano a monitorare la colonizzazione israeliana nell’area dal 2004.

Foto delle nuove costruzioni nell’insediamento di Ma’on disponibili all’indirizzo: http://bit.ly/4ZLMe
Foto della consegna degli ordini di demolizione disponibili all’indirizzo: http://bit.ly/VhoYn

www.operazionecolomba.com


Operation Dove – Nonviolent Peace Corps
Palestine – Israel
Community Pope John XXIII

e mail: tuwani@operationdove.org
website: www.operationdove.org

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