LA GUERRA INFINITA AMERICANA IN AFGHANISTAN

LA GUERRA INFINITA AMERICANA IN AFGHANISTAN

E’ il momento di chiedersi che senso ha una missione di pace in un contesto di guerra alimentato dagli alleati americani a suon di bombe e quali sono i veri interessi degli Stati Uniti in questo martoriato paese.

Benito Li Vigni *

Nell’ottobre 2001 gli Stati Uniti guidarono una coalizione che intervenne militarmente in Afghanistan per stanare gli autori degli attentati dell’11 settembre, rovesciare il regime oppressivo e teocratico dei talebani e, soprattutto, prendere Osama bin Laden vivo o morto. La NATO intervenne in Afghanistan, sebbene non si sia trattato né di un attacco dall’esterno né dell’aggressione di uno stato sovrano nei confronti di un altro stato sovrano. Alcuni paesi si unirono alla coalizione semplicemente per motivi interni, estranei comunque alle finalità dell’attacco promosso dagli USA. La Russia si dichiarò subito pronta allo scopo di ottenere il consenso a proseguire con maggior violenza nella repressione in Cecenia. La Cina si mostrò favorevole all’intervento nella speranza di ricevere il sostegno americano alla repressione messa in atto nella regione occidentale del Paese. L’Algeria, in quel tempo notoriamente uno dei principali paesi terroristi, si mostrò felice di unirsi agli altri per ringraziare gli americani di non averla inclusa fra gli “Stati canaglia”. La Turchia, infine, si offrì di combattere in Afghanistan per gratitudine nei confronti degli USA, in quanto unica nazione che aveva fornito il suo appoggio agli atroci atti terroristici compiuti dal governo turco nella regione sudorientale del paese, contro i curdi che rappresentano circa un quarto della popolazione dell’intera Turchia. Si chiede Ulrich Beck, nel suo libro “Un mondo a rischio”: «Ha ancora senso dire che gli Stati Uniti “difendono” la loro sicurezza interna sul territorio di altri paesi, ad esempio in Afghanistan?».

Chi ha creduto che per vendicare i morti delle Twin Towers gli americani sono sbarcati in Afghanistan riducendo questo paese a un mucchio di macerie, è caduto in errore. L’odioso Osama “icona criminale” di fanatico islamico, è stato scelto come immagine demoniaca e quindi terrificante del male, diventando così il “Logo” spaventevole di una invasione a lungo progettata, i cui piani dettagliati di guerra globale contro Al Qaeda non potevano diventare operativi prima degli attentati terroristici. Certamente i piani d’invasione dell’Afghanistan erano già pronti alcuni anni prima dell’11 settembre. Che Osama bin Laden non fosse l’obiettivo principale dei piani di guerra americani, lo ha sostenuto in una intervista del 18 settembre 2001, l’ex ministro degli Esteri pakistano Niaz Naik che, a luglio di quell’anno, aveva saputo da alti funzionari americani che per il mese di ottobre gli USA avrebbero attaccato l’Afghanistan. Niaz Naik ha anche tenuto a sottolineare: «Sono convinto che Washington non abbandonerà i suoi piani di guerra in Afghanistan neanche se i talebani consegnano immediatamente Bin Laden».

Che Osama bin Laden non fosse negli scopi dell’operazione Enduring Storm lo ha anche ripetuto ai giornalisti il generale Franks nel suo primo incontro con la stampa, nel novembre del 2001; aveva aggiunto in quell’occasione che le truppe statunitensi puntavano alla distruzione della rete di Al Qaeda e del regime dei talebani che, di Al Qaeda e di Bin Laden, era il naturale rifugio. Una provvidenziale conferma quella del generale Franks, sul vero obiettivo americano, quello di eliminare un regime che non serviva più agli interessi economico – politici degli Stati Uniti. E Bin Laden?. «Anche se venisse ucciso, la guerra continuerà». Una risposta che alla luce dei fatti appare – scontata. Ed è logico il sospetto che l’amministrazione americana non avrebbe mai catturato Osama vico, per il rischio evidente che potesse rivelare troppe cose. Così, una volta entrati in guerra, bombardando e uccidendo popolazioni innocenti, l’odioso fanatico islamico viene messo da parte, dopo che la sua “icona criminale” è servita a scatenarla. E su tale mistificazione Gore Vidal scrive: «Per quanto ogni nazione sappia – se ne ha i mezzi e la volontà – come proteggersi da delinquenti della sorta che ci ha inflitto l’11 settembre, la guerra non è un’opzione praticabile. Le guerre si fanno contro le nazioni, non contro bande di delinquenti privi di radici. Gli si mette una taglia sulla testa e gli si dà la caccia. In anni recenti, l’Italia ha fatto la stessa cosa con la mafia siciliana, e a nessuno è ancora venuto in mente di bombardare Palermo».

La scelta strategica Usa prima dell’11 settembre

L’invasione americana dell’Afghanistan ha segnato l’inizio di una più vasta produzione di conflitti militari mirati all’esercizio di una funzione imperiale. E in tale esercizio rientrava la necessità prioritaria di mettere ordine su due importanti aree strategiche: l’area del Golfo Persico e quella del Caspio. Due aree politicamente instabili, ma ricche di petrolio. Tutto era nato dalla crisi della cosiddetta «dottrina Clinton» che mirava a garantire l’afflusso in Occidente delle risorse energetiche, emarginando la Russia e l’Iran, considerati i più seri concorrenti degli interessi statunitensi. I democratici di Clinton puntavano anche loro verso il centro dell’Eurasia, ma volevano arrivarci con le bandiere della “democrazia”, la NATO e gli Europei. Soprattutto non volevano problemi con la Cina e volevano normalizzare tutto il Pacifico; contrariamene a Bush, che ha bloccato qualsiasi accordo sulla riunificazione delle due Coree ed ha ripreso il progetto delle guerre stellari. A sostenere l’importanza dell’arido e sabbioso Afghanistan, era stato Zbigniew Brzezinski in uno studio del 1997 del Council on Foreign Relations.

Brzezinski, che fu anche consigliere per la Sicurezza Nazionale del presidente Carter, sosteneva che gli Stati Uniti dovessero estendere il loro controllo alle ex repubbliche dell’Unione Sovietica in Asia Centrale: Turkmenistan, Uzbekistan, Tadžikistan, Kirgizistan; aree storicamente di grande importanza strategica dal punto di vista della sicurezza e da quelle delle possibili ambizioni espansionistiche di Russia, Turchia, Iran e Cina. Per Brzezinski, a fronte di un consumo energetico mondiale continuamente in crescita, chi sarebbe riuscito a controllare il petrolio e il metano del Caspio avrebbe controllato il mondo. C’era in questa visione americana una sorta di irrefrenabile impulso imperialistico, in cui l’interesse primario dell’America fosse di escludere ogni singola potenza dal controllo di quello spazio geopolitico, assurgendo a difesa della comunità mondiale e del suo libero accesso finanziario ed economico. Fra gli strumenti legati agli obiettivi della «dottrina Clinton», che di fatto recepiva i presupposti formulati da Brzezinski, c’era una rete di oleodotti e gasdotti da organizzare su tre grandi direttrici. La prima, dalla costa occidentale del mar Caspio a quella orientale del mar Nero attraverso l’Azerbaigian e la Georgia. La seconda dalla costa occidentale del mar Nero all’Adriatico attraverso la Bulgaria, la Macedonia e l’Albania. La terza, dalla costa orientale del Caspio all’Oceano Indiano, dal Turkimenistan al Pakistan attraverso l’Afghanistan. Per la realizzazione di questa terza direttrice, gli americani avevano chiesto ai pakistani di appoggiare, su finanziamenti USA, i talebani cui venne affidato il compito di unificare il territorio afghano spezzettato dal conflitto con l’Unione Sovietica.

La crisi della «dottrina Clinton» e del progetto della rete “eurasiatica” di oleodotti e gasdotti, scaturì da un complesso di fattori essenzialmente di natura politica e cioè l’instabilità della regione balcanica, coinvolta nella bufera bellica del 1999, che interessò l’area su cui avrebbe dovuto passare una delle tre direttrici fondamentali e ancora l’inaffidabilità del caotico regime dei talebani, quindi dei mullah, che avevano fallito nel compito loro assegnato dagli USA. Infine la nuova politica energetica europea, nata all’indomani della fine della guerra in Kosovo, autonomamente rivolta a Oriente, spesso in modo aggressivo e in aperto contrasto con gli interessi statunitensi. Questa imprevedibile svolta della politica internazionale europea, sarà un fattore dell’irritazione americana e delle scelte USA che si paleseranno soprattutto nella recente politica mediorientale. In quel lontano 1997, Brzezinski aveva visto bene. Secondo la sua previsione l’insediamento, il consolidamento e l’espansione dell’egemonia miliare degli Stati Uniti sull’Europa avrebbero richiesto una militarizzazione della politica estera. L’occupazione dell’Afghanistan, oltre ad aver rappresentato agli occhi del mondo un esempio di operazione militare a scopo “dissuasivo o intimidatorio”, ha permesso di metter piede su una delle aree strategiche dal punto di vista geopolitico e geoeconomico.

L’Afghanistan e la politica energetica americana

Alla luce di quanto sappiamo la conquista americana dell’Afghanistan è stata motivata dall’obiettivo di rimpiazzare il regime dei talebani con un governo “fantoccio” relativamente stabile, in grado di permettere la realizzazione della terza e più grande direttrice della rete “eurasiatica” di oleodotti, prevista dalla «dottrina Clinton». Il nuovo corso afghano dovrà dunque permettere alla Union Oil of California (UNOCAL) di impiantare lungo questa direttrice il suo oleodotto, per il quale, nel 1996 aveva ottenuto via libera dai signori di Kabul. La UNOCAL, con sede in Texas era, a quel tempo, sul punto di costruire l’oleodotto attraverso l’Afghanistan. UNOCAL avrebbe ottenuto l’appalto per la costruzione dell’oleodotto in Afghanistan, stimato due miliardi di dollari, grazie all’appoggio del potente gruppo Carlyle, che gestice circa quattordici miliardi di dollari di patrimonio ed aveva in quegli anni nel proprio consiglio di amministrazione Gorge Bush padre. Il presupposto del progetto era lo sviluppo delle ricche risorse energetiche del Mar Caspio, da cui ne avrebbe tratto profitto l’intero fronte dei gruppi petroliferi americani; alcuni già candidati alla creazione di altri oleodotti, nelle regioni interessate dalla “dottrina Clinton”. Tra il 1996 e il 1998, tra la Casa Bianca e il regime di Kabul era nato un grande feeling. L’amministrazione Clinton auspicò una vittoria dei talebani sulla altre forze afghane, vittoria che avrebbe bilanciato il regime in Iran. Previde inoltre che nuove piste commerciali in Afghanistan (ovviamente i nuovi oleodotti), avrebbero indebolito l’influenza russa e iraniana nella regione. “The Wall Street” osannò le forze talebane considerandole tra le parti in conflitto, le sole in grado di far trionfare la pace in Afghanistan.

In altre parole gli Stati Uniti sostenevano il rafforzamento del dominio talebano sul paese, dominio che privava la popolazione della libertà di utilizzare a proprio beneficio la posizione strategica della regione. A sottolinearlo, un articolo del 1998 di P. Stobdan, ricercatore presso l’Institute for Defence studies and Analysys di Nuova Delhi e che Nafeez Mosaddeq Ahmed trascrive nel suo libro già citato: «L’Afghanistan ha un ruolo importante nell’ambito della politica americana per la sicurezza in campo energetico. Il progetto UNOCAL di costruire un oleodotto e un gasdotto dal Turkmenistan attraverso l’Afghanistan per esportare il petrolio e i gas nel subcontinente indiano, accolto come la mossa più audace nella corsa degli anni Novanta al petrolio dell’Asia Centrale, aveva generato una grande euforia. Il governo americano ha appoggiato pienamente la scelta del percorso, ritenendola funzionale a strappare gli Stati dell’Asia Centrale agli artigli dei russi e a impedire che si avvicinassero all’Iran. Il progetto veniva inoltre visto come il sistema più veloce ed economico per portare il gas del Turkimenistan ai mercati dell’energia, in rapida crescita, dell’Asia meridionale. Per contribuire a caldeggiare l’approvazione del progetto, UNOCAL ha assunto un diplomatico di primo piano, l’ex segretario di Stato Henry Kissinger, e un ambasciatore americano in Pakistan, Robert Oakley, oltre che un esperto del Caucaso, John Maresca […]. Il presidente della UNOCAL ha anche ipotizzato che il successo del movimento dei talebani e la formazione di un governo unico avrebbero ridotto della metà il costo della costruzione ».

Il feeling cessò nel 1999 quando gli americani s’accorsero che i talebani, da loro abbondantemente sovvenzionati, non avrebbero mai potuto garantire la sicurezza dei loro oleodotti. A determinare un nuovo imprevisto scenario c’era stato l’incontro di Osma bin Laden con i talebani e il mullah Omar, che sancì l’instaurarsi di una proficua collaborazione che permise al nuovo governo di Kabul di fruire delle ingenti sovvenzioni offerte dallo stesso Osama, e a quest’ultimo di potersi avvalere di una solida copertura per installare basi di addestramento per i volontari del jihad che vi affluivano da ogni parte del mondo musulmano. Era stato il servizio segreto saudita, durante l’occupazione sovietica dell’Afghanistan, ad inviare uomini a sostegno della causa dei mujaheddin. Tra questi c’era un giovane di nobile famiglia saudita dimostratosi capaci e affidabile tanto da guadagnarsi un importante incarico a Peshawar: quello di gestire le sovvenzioni che il servizio segreto pakistano riceveva dalla CIA per girarle ai guerriglieri; il suo nome era Osama bin Laden.

Quell’enorme flusso di denaro di provenienza americana servì al giovane guerriero di Allah anche a istituire i primi campi di addestramento per i volontari del jihad, divenendone in seguito il più strenuo sostenitore. Dopo il ritiro sovietico, nel 1988, Osam bin Laden, lasciato un Afghanistan diviso tra diverse fazioni in lotta, tornò in patria ma la sua presenza ingombrante non fu tollerata dal monarca saudita, sempre più legato agli stati Uniti. Costretto a ripartire si rifugiò in Sudan, nel 1992, per poi raggiungere nuovamente l’Afghanistan per incontrasi con i talebani, e con il mullah Omar in particolare. I due, nei primi del 1998 diedero luogo a Kandahar alla fondazione dell’organizzazione Al Qaeda che, nell’agosto di quell’anno, scatenò la sua prima offensiva con gli attentati alle ambasciate statunitensi di Kenia e Tanzania che provocarono oltre 200 morti. Nel 1999, gli USA iniziarono a chiedere con insistenza a Kabul di estradare Osama bin Laden, ricevendo dai talebani un costante diniego. Nel dicembre del 2000, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU deliberò di adottare sanzioni nei confronti del regime talebano, se non rinunciava a sostenere il terrorismo internazionale. Il 21 gennaio 2001, in base alla risoluzione 1333, tutte le rappresentanze internazionali a Kabul vennero chiuse, e alla compagnia di bandiera afghana venne proibito di volar fuori dallo spazio aereo del paese.

E Bush preparò la guerra

In quelle condizioni, gli Stati Uniti non potevano ancora pensare alla costruzione del grande oleodotto che dal mar Caspio arrivasse alla costa dell’Oceano Indiano, attraverso l’Afghanistan. Nella mente di Gorge W. Bush, risuonava certamente quanto aveva detto Brzezinski: «Chi riuscirà a controllare il petrolio e il metano del Caspio controllerà il mondo». C’era poi da metter mano alle altre direttrici della «dottrina Clinton» per arrivare nel cuore dell’Eurosia, per tentare di estendere il controllo alle ex repubbliche dell’Unione Sovietica in Asia Centrale. Ed ecco che alla fine del 2000, l’amministrazione Bush comincia ad allinearsi con quanti (anche i russi) invocano un intervento militare in Afghanistan. Ci sono anche quelli dell’UNOCAL che spingono e il più vasto fronte dei grandi petrolieri che non intende più aspettare per dar corso agli altri progetti. Così, a luglio 2001, l’incontro, a Berlino, di tre funzionari americani con una rappresentanza di talebani, e il messaggio dell’amministrazione Bush che si dichiara sdegnata con il regime di Kabul che ha tradito le aspettative americane sul grande oleodotto. Da qui le minacce di un attacco USA all’Afghanistan per il mese di ottobre di quel tragico 2001. E’ opportuno precisare che l’’interesse americano per l’Afghanistan era iniziato negli anni cinquanta, con l’avvento della Guerra Fredda, quando gli Stati Uniti avevano largheggiato in sovvenzioni per sottrarre il paese alla sfera d’influenza sovietica.

* Esperto di geopolitica autore di numerosi libri tra i quali “Le guerre del petrolio” (2004) e “In nome del petrolio” (2006) entrambi pubblicati da Editori Riuniti.