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Il superamento della religione nell’Anti-Dühring di Engels

L’ateismo del comunismo primitivo

È impossibile dar torto a Engels quando considera ridicola l’idea di Dühring di “abolire” la religione nella società socialista. Infatti il socialismo scientifico ha sempre detto ch’essa è soltanto un epifenomeno, una sovrastruttura che si estinguerà da sé, insieme allo Stato politico, quando il socialismo sarà realizzato.

Ciò che non piace, nella sintesi engelsiana sulla posizione del socialismo in merito al fenomeno religioso, è un’altra cosa. Scrive nel suo Anti-Dühring: “Agli inizi della storia sono anzitutto le potenze della natura quelle che subiscono questo riflesso…”, assumendo col tempo “svariate e variopinte personificazioni”. Quale riflesso? “Ogni religione non è altro che il fantastico riflesso nella testa degli uomini di quelle potenze esterne che dominano la sua esistenza quotidiana, riflesso nel quale le potenze terrene assumono la forma di potenze ultraterrene”.

Molto feuerbachiana questa definizione della religione. Cerchiamo di capir bene cosa Engels voleva dire. Anzitutto non si sta riferendo alle religioni politeistiche, tipiche dello schiavismo, poiché subito dopo parla di “mitologia comparata” dei popoli indoeuropei, di cui i Veda induistici costituiscono l’origine ancestrale. Egli si sta riferendo alle religioni più primitive, quelle clanico-tribali, cioè quelle passate alla storia col nome di “totemico-animistiche”.

Queste però non erano religioni che riflettevano rapporti sociali di tipo antagonistico. Erano dunque così alienanti? così predisposte a fuorviare gli uomini dall’idea di doversi liberare da rapporti sociali frustrati? Assolutamente no, anche perché appunto non esisteva ancora lo schiavismo.

Ma facciamo ora mente locale e cerchiamo di ricordare come sono fatte le tante pitture rupestri dell’uomo preistorico trovate in vari luoghi del pianeta. Presentano forse una simbologia magico-religiosa o animistico-totemica? Purtroppo per Engels dobbiamo dire che appaiono molto realistiche e naturalistiche, per quanto le figure siano stilizzate, appena abbozzate. Esse dovevano soltanto rimandare ad altro, non avevano la pretesa d’aver un significato in sé. Il pittore preistorico non voleva rappresentare tutto se stesso, né faceva della sua arte una forma di consolazione o di evasione o di protesta in rapporto alle contraddizioni della sua vita. Picasso rimase molto stupito di questo realismo ingenuo e cercò d’imitarlo nelle sue raffigurazioni dei tori.

Ora, perché questa assenza di riferimenti religiosi? Il motivo è molto semplice: nel comunismo primitivo non esisteva alcuna religione. Il fatto che seppellissero i loro morti con tutto ciò che d’importante avevano usato in vita, non voleva affatto dire che basassero la loro esistenza in funzione di una credenza religiosa. Non c’erano sacerdoti che si distinguevano dal resto della comunità, rivendicando un potere particolare. Se c’erano sciamani o stregoni, non svolgevano riti non compatibili con le funzioni attribuite alla natura. Alcuni eminenti studiosi han detto che non c’era la religione perché il cervello degli uomini primitivi non era sufficientemente sviluppato. Allora non lo è neppure quello dei socialisti! Ancora oggi ci si imbatte in qualche studioso di mentalità borghese che legge il passato con gli occhi del presente o che ritiene sia impossibile non credere in un’entità superiore.

Gli uomini primitivi erano forse religiosi perché mancava la scienza? Ma la fede cieca nella scienza non rende forse altrettanto superstiziosi? L’unica vera scienza è forse quella occidentale? La conoscenza diretta della natura, trasmessa per prove ed errori attraverso le generazioni, va considerata non scientifica? La scienza è davvero “scientifica” solo quando fa esperimenti in laboratori asettici, neutrali, non influenzati dall’ambiente esterno? La vera scienza è soltanto quella che sa “dominare” la natura perché ne conosce a fondo tutte le sue leggi?

Sono tutte domande le cui risposte, oggi, dovrebbero essere scontate, anche perché l’uomo primitivo, avendo una visione olistica delle cose, era inevitabilmente molto più scientifico degli odierni scienziati, sempre molto settoriali e privi di senso etico, in quanto, se sono idealisti, non si ritengono responsabili quando le loro ricerche vengono usate dalla politica o dall’economia in maniera negativa, oppure, se sono venali, si chiedono come ricavare dalle loro ricerche un utile economico. Quando parliamo di medicina non stiamo forse lì a chiederci perché in occidente si curi soltanto l’organo malato e non si abbia un vero rapporto col paziente?

Vivendo rapporti sociali naturali, l’uomo primitivo non poteva avere alcuna religione, e se aveva delle credenze che oggi qualifichiamo, sbagliando, col termine di “religiose”, esse non lo facevano sentire in balìa delle forze della natura, non provenivano da un senso d’impotenza nei confronti di tali forze, poiché la natura era considerata “madre”, non “matrigna”. Semmai è sotto lo schiavismo che si inizia ad attribuire a forze innaturali o sovrannaturali la causa e, insieme, il rimedio delle proprie frustrazioni. È così che si creano delle personificazioni simboliche, astratte, di ciò che si vive (il male) e che si vorrebbe vivere (il bene) nella realtà.

Gli uomini primitivi non si sentivano “dominati” dalla natura, né avvertivano il desiderio di “dominarla”. Per loro la natura era una partner dotata di personalità autonoma (che, p.es., non si poteva ferire con l’uso dell’aratro, per non devastarne il ventre, come dicevano tante popolazioni antiche). Era considerata una madre severa, esigente, ma anche protettiva, rassicurante, con cui misurarsi alla pari, man mano che si diventava adulti, senza mai scordarsi che gli esseri umani sono tutti “figli della natura”. Concepivano la natura come fonte esclusiva1 delle loro risorse, della loro stessa vita. Se per il fatto di ritenerla una sorta di “divinità” è necessario definirli “religiosi”, indubbiamente lo erano. Ma allora dovremmo considerare tali anche gli antichi filosofi ilozoisti o panpsichisti, quando invece erano fondamentalmente atei.

Credere che esista un aldilà o che la morte sia una forma di passaggio da un’esistenza a un’altra non significa essere “religiosi”, poiché anche la scienza parla di eternità e infinità della materia e dell’universo che la contiene, e della sua perenne trasformazione. Per non essere “religiosi” è sufficiente non credere in un dio onnipotente, onnisciente, onnipresente, preveggente…, in grado di leggere il pensiero umano, di anticiparne le decisioni, di condizionarne le scelte, di indurlo in tentazione e altre amenità del genere, che fanno sentire l’uomo una marionetta nelle mani di dio. Chi crede nell’eternità della natura, non ha bisogno di credere in dio, oppure crederà in un dio che sostanzialmente avrà caratteristiche umane. Il livello massimo di religione che potevano avere gli uomini preistorici era il culto degli antenati, che è quanto di più umano vi possa essere.

Schiavismo e paganesimo

Il secondo aspetto sbagliato nella sintesi di Engels, sullo sviluppo del fenomeno religioso, è che non mette in relazione il paganesimo con lo schiavismo. Eppure avrebbe dovuto essere scontato. Tutte le religione cosiddette “pagane” o politeistiche sono nate quando già esisteva la fine del comunismo primitivo. Tali religioni avvertivano la natura come un pericolo o una minaccia, in quanto gli uomini vivevano così i loro rapporti sociali. Cioè consideravano la natura uno strumento nelle mani degli dèi, che lo usavano a loro discrezione, il più delle volte per punire gli uomini di qualche mancanza; oppure veniva invocato l’aiuto degli dèi per nuocere al nemico.

Non è mai esistito – come invece dice Engels – un periodo in cui gli uomini temevano le forze della natura, antecedente a un secondo periodo in cui hanno iniziato a temere le forze sociali antagonistiche. Dopo la fine del comunismo primitivo l’uomo ha subito avvertito il proprio simile come un nemico, e là dove non riusciva a sconfiggerlo, a sottometterlo, s’inventava delle forze supplementari astratte che potessero aiutarlo. Oppure chi era in grado d’imporsi con la forza o l’astuzia, escogitava delle entità simboliche per giustificare la propria superiorità.

Che poi sotto il paganesimo ci fossero tante divinità, mentre sotto le cosiddette “religioni del libro” ve ne fosse una sola, non ha molta importanza. Forse le religioni monoteistiche sono emerse quando il peso dei condizionamenti sociali antagonistici era troppo forte per essere sopportato. Esse infatti appaiono come una forma d’illusione a un livello superiore, più astratto e sofisticato: hanno sostituito qualcosa che aveva fatto il suo tempo, nella convinzione che occorressero ideali più elevati, da realizzarsi a tutti i costi. Le religioni monoteistiche sono legate più alla storia che non alla natura, più all’azione che non alla contemplazione, più a una organizzazione collettivistica con addentellati politici che non a un approccio alla divinità di tipo clanico-parentale o individuale, più a una sensibilità universale che non a un riferimento urbano o locale, più a rigidi dogmi che non a riti conformi ai ritmi della natura. Il passaggio da tante divinità che si possono rappresentare visivamente a un unico dio non rappresentabile o, come nel cristianesimo, a un personaggio che insieme è umano e divino, potrebbe anche essere visto come una forma di cripto-ateismo, di disincantamento da una certa ingenuità di fondo.

Insomma la formazione e lo sviluppo delle religioni sono stati molto sfaccettati nei secoli e nei diversi luoghi geografici, per cui non è possibile stabilire un “prima” e un “dopo” tra una forma e l’altra. L’unica cosa che si può dire è che, se si escludono le religioni animistico-totemiche, tutte le altre riflettono rapporti sociali conflittuali, cui s’è cercato di trovare una spiegazione fantastica a seconda delle circostanze. Tutti gli dèi servono per giustificare la posizione delle classi dominanti, o possono essere inventati per contrastare tale posizione. Le divinità possono assumere col tempo nomi, funzioni, caratteristiche, modalità d’azione… incredibilmente diversi, a seconda della fantasia umana: quello che non cambia è che esse vengono sempre usate in rapporto agli antagonismi sociali.

Anche oggi esistono divinità laicizzate che chiamiamo Stato politico, Libero mercato, Scienza laboratoriale, Diritti umani universali, Democrazia parlamentare… Persino la Scrittura, rispetto alla semplice Oralità, è considerata una divinità. Siamo in grado di “deificare” qualunque cosa, vivendo in sua funzione, sottomettendoci come servi: il denaro da accumulare, lo shopping per spendere il denaro accumulato, il sesso da godere, la droga per evadere, lo sport della squadra del cuore, l’attività ginnica che tiene sempre in forma, la medicina che risolve ogni problema fisico, l’alimentazione che rende sani, giovani e belli, i film che fanno sognare, la musica che distrae, le chat che coinvolgono, il gioco d’azzardo che ipnotizza, l’analista cui confidare i nostri problemi… Quando dominano i rapporti antagonistici, tutto può essere trasformato in una “religione”, persino l’ideologia con cui vengono criticati questi rapporti.

La religione è una fissazione da cui è molto difficile liberarsi, se non ci si libera di ciò che la origina. Con uno sforzo di volontà personale al massimo si può passare da una fissazione a un’altra. Tutto può diventare una forma di dipendenza, esattamente come le classiche religioni. L’oppio dei popoli oggi è il capitalismo, ma, in alcuni Paesi del mondo, per 70 anni è stato il cosiddetto “socialismo reale”. Gli stessi Marx ed Engels avevano il culto per la scienza e la tecnica e avevano concepito una transizione socialista che non prescindesse minimamente da ciò che la borghesia aveva realizzato sul piano tecnologico.

Ecco perché oggi, se davvero vogliamo realizzare un socialismo democratico, dobbiamo rimettere tutto in discussione. Oggi ci vantiamo di conoscere la natura molto meglio di quanto potessero fare gli uomini prima della rivoluzione tecnico-scientifica del Settecento. Ma chiediamoci: forse per questo abbiamo eliminato il concetto di “religione”? O non l’abbiamo piuttosto trasformato in qualcosa di più laico, conseguente al fatto che la società borghese ha aumentato, col consumismo, gli oggetti di cui possiamo disporre per illuderci di superare le nostre alienazioni?

Tutte queste opinioni limitate di Engels non dipendono solo dal fatto che risalgono a 150 anni fa, ma anche e soprattutto da una visione piuttosto terribile della preistoria. Scrive a tale proposito: “Gli uomini, appena nelle origini emergono dal mondo animale (in senso stretto), fanno il loro ingresso nella storia: ancora mezzo animali, rozzi, ancora impotenti di fronte alle forze della natura, ancora ignari delle proprie; perciò poveri come gli animali e di poco più produttivi di essi”. In queste condizioni verrebbe da chiedersi come sia stata possibile un qualunque forma di progresso.

Se osserviamo che talune comunità primitive, ancora oggi esistenti, sono rimaste ferme al neolitico, pur essendo consapevoli, almeno a grandi linee, di un certo progresso tecnico-scientifico e urbanistico, avvenuto non molto lontano dai loro villaggi, verrebbe quasi da pensare che i membri di tali comunità non appartengano affatto alla specie “homo sapiens”. A Engels sarebbe parso del tutto incredibile che, pur consapevoli di un certo progresso tecnologico al di fuori del loro habitat, tali comunità abbiano preferito rinunciarvi altrettanto consapevolmente, nella convinzione che, così facendo, avrebbero potuto conservare meglio le caratteristiche della loro identità, le proprietà del loro ambiente vitale.

Purtroppo gli stessi etnologi che visitano tali comunità spesso non sono in grado di capire ch’esse, a causa dei condizionamenti esterni che subiscono, non sono più come vorrebbero essere. Esse sanno benissimo che il cosiddetto “mondo civilizzato” non vede l’ora di espropriarle delle loro risorse naturali. Il fatto stesso che vi siano degli studiosi che vanno a conoscerle come se fossero animali in via di estinzione, è indicativo del profondo abisso che ci separa da loro. Per Engels il criterio fondamentale che spiega la differenza tra “loro” e “noi” è il rapporto con la natura, che per loro sarebbe di “dipendenza”, mentre per noi è di “dominio”, come se il concetto di “dominio” ci caratterizzasse, nei confronti della natura, come “esseri umani”.

Dunque a che serve il sedicente “socialismo scientifico” se nei confronti della natura ha lo stesso atteggiamento “imperialistico” del liberismo borghese? Abbiamo davvero bisogno di “razionalizzare” un atteggiamento che è sbagliato nei suoi presupposti di fondo? Finché per noi il rapporto con la natura si configura solo come dominio, che possibilità abbiamo di diventare noi stessi, cioè “enti di natura”? È forse giusto ritenere che nel mondo primitivo l’uguaglianza fosse soltanto un prodotto inevitabile della loro impotenza nei confronti della natura? un effetto della loro povertà materiale? della loro incapacità produttiva? Per quale motivo è così difficile capire che una qualunque produzione umana deve essere compatibile con le esigenze riproduttive della natura?

Addendum riepilogativo

Là dove c’è paganesimo, c’è sempre schiavismo. E lo schiavismo è sempre basato sui rapporti di forza, in cui p.es., sul piano personale/sessuale, l’uomo domina la donna. Se esistono riferimenti ancestrali al primato della natura, all’eternità-infinità dell’universo ecc., ciò va considerato un retaggio del comunismo primitivo, che ha caratterizzato la vita del genere umano in tutto il pianeta per almeno un milione di anni (in genere si fa partire lo schiavismo a circa 6000 anni fa).

Là dove c’è schiavismo, non è possibile considerare il paganesimo migliore del cristianesimo: semmai si possono fare differenze tra ortodossia religiosa (di derivazione greco-bizantina) e cattolicesimo-romano, in cui il papato si considerava politicamente superiore agli imperatori.

Il cristianesimo è quella religione che favorisce il passaggio dallo schiavismo al servaggio, in quanto ha un maggior senso dell’etica, proveniente dall’ebraismo. Questo almeno fino a quando, assumendo atteggiamenti neopagani, desunti dalla passata civiltà greco-romana, il cristianesimo non arriverà a trasformare la dipendenza personale del servaggio in dipendenza contrattuale del lavoro salariato. Un processo, quest’ultimo, iniziato in Italia, con la formazione dei Comuni borghesi e sviluppatosi enormemente con la Riforma protestante, specie nella variante calvinistica. Criticando il cattolicesimo borghese del papato, la Riforma sembrava voler riprendere la severità del cristianesimo primitivo; invece estese soltanto la corruzione a tutta la società civile, facendo di ogni credente il pontefice di se stesso.

Tutte queste cose: schiavismo/paganesimo, servaggio/ortodossia-cattolicesimo, capitalismo/protestantesimo vanno superate con una forma di socialismo democratico e ateistico (umano-naturalistico), che riprenda lo stile di vita del comunismo primitivo, l’unico in cui vigeva l’uguaglianza sociale e quindi quella di genere. Questo per dire che non potremo ereditare nulla di significativo né dallo schiavismo pagano, né dal servaggio cristiano, né dal capitalismo borghese, e neppure dal socialismo statale (di matrice russa) o mercantilistico (di matrice cinese).

Nota

1 Oggi non usiamo più il termine “esclusiva” ma “prioritaria”, in quanto ci vantiamo di poter costruire artificialmente ciò di cui abbiamo bisogno.

www.socialismo.info

Una lettura olistica della storia

Una lettura olistica della storia permette di assegnare a ogni avvenimento delle coordinate specifiche, che gli sono proprie e che non si ripetono mai in maniera identica, proprio perché la storia è soggetta a un movimento perenne, pur avendo a che fare con una medesima tipologia umana: essa ha la forma geometrica della spirale.

In tal senso lo schiavismo allestito dagli europei nelle loro colonie era sostanzialmente diverso da quello antico, e per almeno tre ragioni:

  1. gli schiavi greco-romani non lavoravano per un’esportazione di tipo capitalistico, in cui quello che conta è accumulare capitali. L’obiettivo era quello di far vivere nel lusso lo schiavista e i suoi parenti, che in genere sperperavano i loro capitali o ambivano ad avere cariche prestigiose e assai raramente si preoccupavano di migliorare le tecniche produttive. Viceversa sotto il capitalismo l’obiettivo finale della produzione non dipende neppure dalla volontà del singolo imprenditore;
  2. là dove è presente un rapporto di lavoro di tipo contrattuale, lo schiavismo viene considerato economicamente superato e politicamente viene combattuto (si veda p.es. la guerra civile tra nordisti e sudisti: gli americani poi si presenteranno in tutta l’America latina come “liberatori dallo schiavismo ispano-lusitano”);
  3. là dove è radicato il cristianesimo, il rapporto schiavistico è malvisto se lo stesso schiavo è un cristiano: di qui la sua trasformazione in servaggio, dove il lavoratore ha una parte di diritti. In America latina, dopo l’arrivo degli europei, si passò abbastanza facilmente, grazie agli statunitensi, dallo schiavismo rurale (impiantato da un cristianesimo para-feudale, col pretesto che gli indigeni non erano cristiani e che dall’Europa si faceva fatica a controllare l’operato di questi neo-schiavisti) al capitalismo vero e proprio, saltando la fase del feudalesimo. Infatti lo schiavismo delle colonie era già finalizzato a una produzione capitalistica (l’esportazione di materie prime: cotone, cacao, caffè, spezie, tabacco ecc.) verso i paesi capitalistici europei e verso gli stessi Usa. Quest’ultimi cioè non ebbero bisogno di dimostrare che l’operaio salariato era più libero del servo della gleba, ma che lo era molto di più nei confronti dello schiavo rurale creato dagli europei nelle colonie. E vi riuscirono molto facilmente proprio perché nella cultura urbanizzata si percepiva come intollerante (anche perché poco produttivo), quel tipo di rapporto di lavoro.

D’altro canto senza cristianesimo il capitalismo sarebbe impensabile. Il capitalismo non è altro che cristianesimo laicizzato, prima nella forma cattolica (1000-1500), poi in quella protestantica (1500-2000), e quest’ultima nelle colonie non ha ovviamente dovuto ripercorrere le stesse tappe emancipative dell’Europa occidentale, così come non fece la Russia, quando passò dal feudalesimo al socialismo di stato.

Il capitalismo calvinista è tuttora dominante nel mondo, benché in Cina si stia sviluppando una forma di capitalismo che non proviene direttamente dal calvinismo, ma da tradizioni culturali autoctone, che hanno assemblato lo stalinismo agrario chiamato maoismo, l’antico modo di produzione asiatico e le varie religioni che impongono il rispetto delle autorità. In un qualunque paese asiatico il capitalismo non deve comunque essere tenuto sotto il controllo di un’istanza politica superiore. Qui il concetto di “persona” è molto debole, ma in compenso è molto forte quello di Stato, che in genere è proprietario di tutta la terra. Questo tipo di capitalismo non è esportabile finché i governi dittatoriali non comprenderanno l’importanza della finzione giuridica che garantisce la libertà formale e quindi l’importanza della democrazia borghese come sistema politico. La Cina in futuro potrà davvero superare gli Usa solo quando l’uso della forza dello Stato sarà accompagnato da un uso spregiudicato del diritto e dei valori umani, che non potrà certo essere inferiore a quello delle attuali forze occidentali.

Ecco perché, se vogliamo davvero parlare di schiavismo in epoca moderna e contemporanea, dobbiamo intenderlo in maniera traslata, come “schiavitù salariata”, in cui la libertà formale giuridica è parte strutturale, organica a un rapporto di lavoro iniquo (cosa che nello schiavismo classico era impensabile, proprio perché non si aveva in alcun modo il concetto di “persona”, avente diritti inalienabili di natura).

La filosofia borghese tra paganesimo e cristianesimo

In Grecia, o meglio, nelle colonie ioniche, nella Magna Grecia e in Sicilia, la filosofia è nata, in un certo senso, come la teologia scolastica, cioè cercando di esprimere gli interessi di una classe sociale emergente: la borghesia. Una classe che 500 anni prima di Cristo e poi, di nuovo, 1000 anni dopo Cristo, ambiva a porsi in antagonismo a quella aristocratica. Era una contrapposizione tra monopolio della terra e traffici marittimi. Era un’accanita lotta fra tradizione, sapientemente manipolata a favore dei ceti agrari, militari e schiavili, e innovazione culturale, etica e politica che nasceva in ceti mercantili, artigianali e professionistici favorevoli, virtualmente, alla democrazia e all’uguaglianza dei cittadini.

Era un’illusione contro un’altra illusione. Si distrusse una tradizione mistificata con una innovazione non meno mistificata. Fu soltanto il tentativo di far emergere una classe sociale senza scrupoli, ridimensionando le pretese di un altro ceto che, a causa delle proprie interne contraddizioni, non aveva da dire più nulla di positivo alla società nel suo insieme. L’eroismo degli antichi guerrieri nobili (così evidente nell’Iliade) era diventato una caricatura, il pretesto per affermare privilegi ingiustificati.

La filosofia, la logica, la scienza… sono sostanzialmente nate contro il mito, che era l’ideologia dominante dell’aristocrazia: un mito che si poteva soltanto accettare così com’era, senza discutere. E in questa contrapposizione non s’è recuperato ciò che quel mito aveva mistificato, ma s’è buttata via l’acqua sporca col bambino dentro. Si è giustamente voluti passare dalla religione all’agnosticismo e persino all’ateismo, ma per fare gli interessi esclusivi di una classe dedita ai traffici mercantili. Cioè non si è recuperato lo stile di vita pre-schiavistico, la dimensione dell’uguaglianza sociale e sessuale. Si è soltanto affermato culturalmente l’ateismo, senza sapere ch’esso già esisteva nelle società pre-schiavili. E, proprio per questa ragione, lo si è affermato, inevitabilmente, in maniera ambigua, mescolandolo ad affermazioni dal sapore mistico o metafisico.

L’ateismo borghese è sempre incoerente, non importa se di 500 anni prima di Cristo o di 1000 anni dopo. Si è pensato di fare una rivoluzione del pensiero, ma nella realtà non s’è fatto altro che estendere la corruzione del ceto aristocratico a tutta la società borghese. Due cose infatti non sono mai state poste in discussione: l’esistenza della schiavitù e la discriminazione della donna. Queste due contraddizioni ne hanno inevitabilmente alimentate altre due: il razzismo culturale nei confronti delle popolazioni “diverse” e il primato delle esigenze produttive dell’uomo su quelle riproduttive della natura.

Tutte queste anomalie, a loro volta, dipendevano da un’altra ancora, la più importante di tutte: l’individualismo esistenziale, cioè la concezione che l’individuo, per potersi realizzare, deve perseguire degli obiettivi di tipo personale, basati sulla logica dell’interesse. L’appartenenza a ceti o classi (alla polis o al Comune) è sempre stata vista in maniera strumentale all’obiettivo che ci si prefiggeva.

La differenza tra i ceti mercantili di 500 anni prima di Cristo e quelli di 1000 anni dopo Cristo non sta soltanto nella diversa estensione geografica del dominio economico e politico, ma anche e soprattutto nel fatto che la cultura degli uni era pagana, mentre quella degli altri era cristiana. Questa differenza ha comportato una diversità di una certa importanza, poiché, sulla base di essa, nascerà l’odierno capitalismo: la borghesia comunale non sfruttava più uno schiavo vero e proprio, ma un operaio giuridicamente libero.

Ecco perché dobbiamo dire che la borghesia cristiana ha creato una cultura molto più sofisticata di quella della borghesia pagana, una cultura che, a tutt’oggi, nonostante lo smascheramento compiuto dal socialismo, domina incontrastata a livello mondiale.

Tornare alla preistoria

Il concetto di “lavoro”, inteso come mansione ripetitiva, rispetto degli orari, di determinati obblighi, ovvero l’impegno quotidiano imposto da circostanze esterne, è un concetto innaturale, che può essere nato soltanto in un sistema di vita già segnato dai conflitti di ceto o di classe. Un lavoro del genere è determinato in realtà dal concetto di “forza”, in quanto è appunto un “lavoro forzato”.

Per l’uomo preistorico lavorare significava andare alla ricerca di cibo per sfamarsi o di oggetti utili per costruirsi armi per la caccia o per la raccolta di frutti, bacche, radici… Anche quando non c’era di mezzo l’esigenza di alimentarsi, vi erano comunque altre esigenze naturali da soddisfare, come p. es. quella di ripararsi dalle intemperie o da altri animali affamati o pericolosi o fastidiosi.

Sia come sia, egli non aveva mai l’impressione che qualcuno volesse “obbligarlo” a fare qualcosa: si trattava soltanto di trovare una soluzione a esigenze del tutto naturali, che sorgevano spontaneamente dalla sua persona o dalla vita di gruppo. Era impossibile parlare di “alienazione”. La natura non era mai vista come una “nemica”, ma anzi come la fondamentale risorsa per soddisfare le proprie esigenze.

Là dove s’è imposto il concetto di “forza”, lì s’è affermata la “proprietà privata”, e quindi l’obbligo, da parte dei più deboli, di lavorare per i più forti. Oggi questo obbligo s’è esteso in tutto il pianeta, tanto che s’è ridotta a un nulla la possibilità di esistere ricavando liberamente dalla natura ciò che occorre alla propria sopravvivenza. Tutta la natura è dominata dalla forza dell’uomo, la quale domina anche quelle popolazioni che considerano la natura più importante dell’uomo.

L’alienazione si è dunque sviluppata in due direzioni parallele: quella del rapporto tra debole e forte e quella del rapporto tra uomo e natura. quanto più il forte vuole imporsi sul debole, tanto più l’uomo (debole e forte insieme) vuole imporsi sulla natura.

Il forte costringe il debole ad avere un rapporto alienato non solo nei confronti dell’oggetto del proprio lavoro, in quanto deve produrre cose che non gli appartengono e la cui quantità è di molto superiore al suo fabbisogno quotidiano, ma anche nei confronti della stessa natura, poiché è proprio dallo sfruttamento indiscriminato delle sue risorse che egli viene messo in condizione di condurre un “lavoro forzato”.

La storia non è stata altro che un tentativo di trasferire a livelli sempre più elevati, in estensione e profondità, lo sfruttamento della natura, con cui poter rispondere all’istanza, avanzata dai più deboli, di porre fine al loro sfruttamento da parte dei più forti. Cioè la mancata soluzione al problema dello sfruttamento umano ha comportato un’accentuazione sempre più esasperata del saccheggio delle risorse naturali. E poiché questo saccheggio oggi avviene a livello planetario, è evidente che anche lo sfruttamento degli uomini deve sottostare a una regolamentazione di tipo planetario.

Oggi esistono organismi preposti allo sfruttamento planetario degli esseri umani e della natura, gestiti dalle nazioni economicamente, militarmente e politicamente più potenti. Questi organismi sono la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, l’Organizzazione Mondiale del Commercio e, per molti aspetti, le stesse Nazioni Unite. Oltre a queste organizzazioni, che sono le principali, ne esistono molte altre di carattere regionale o con scopi più specifici, come p. es. l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, la Nato ecc.

Una lotta mondiale contro questi organismi, che vanno assolutamente ripensati nelle loro fondamenta, in quanto tendono a schiavizzare il mondo intero, non potrà prescindere dall’idea secondo cui l’unico modo di salvaguardare la natura e superare ogni forma di alienazione è quello di far tornare l’uomo alla preistoria, cioè a quel periodo in cui non esisteva la proprietà privata dei mezzi produttivi e il rapporto con la natura era vincolato all’esigenza di rispettarne tutti i cicli riproduttivi.

La tragedia di Haiti è anche il nostro ignorare l’enorme debito morale, politico e civile che l’intero Occidente ha nei suoi confronti

La tragedia di Haiti è tale da lasciare senza parole. E da rendere ancor più piccine e petulanti se non tragicamente ridicole quelle che affollano la scena politica italiana. Sto leggendo un bel libro, che consiglio a tutti, “I giacobini neri”: narra la storia della rivoluzione degli schiavi di Haiti, allora ricchissima e invidiatissima colonia della Francia, in contemporanea con la Rivoluzione Francese. Quella di Haiti è l’unico esempio nella Storia del genere umano di rivoluzione vittoriosa di schiavi contro i padroni schiavisti. Tralascio le efferatezze compiute di routine e per un paio di secoli – con la benedizione del clero – dalla “superiore” civiltà europea contro qualche milione di poveri disgraziati sradicati dall’Africa e trasformati in schiavi dall’altra parte del mondo e spesso anche nella stessa Europa. Basti pensare a un particolare abominio creato dai cattolicissimi coloni: la suddivisione dei mulatti in ben 168 tipi, sottotipi e sottosottotipi a seconda delle frazioni – da una a 167 – di sangue da avi bianchi che potevano vantare: la quantità e il tipo dei diritti loro concessi variavano in base a quelle frazioni di sangue, fermo restando che comunque erano pur sempre angariati e discriminati anche quando avevano 167 parti di sangue “bianco” e una sola di sangue “nero”, per quanto assurdi siano questi termini.
E tralascio il fatto, molto poco noto, che lo stesso Robespierre aborriva sì la definizione di schiavo, ma non la sostanza della situazione, del resto lo stesso Voltaire lucrava con quote di possesso di navi addette alla tratta degli schiavi, le famigerate navi negriere, e che il grande Napoleone e la borghesia francese post rivoluzione francese hanno voluto con testardaggine riesumare lo schiavismo. Se non ci sono riusciti se non per breve periodo, lo dobbiamo agli haitiani, agli schiavi haitiani che si sono ribellati e hanno vinto guadagnandosi anche l’indipendenza di Haiti. E con l’indipendenza ci fu la prima abolizione definitiva dello schiavismo in uno Stato, dopo quella proclamata nel 539 a. C., cioè quasi 2.000 anni prima, da Ciro il Grande, creatore del concetto, e della pratica, dei Diritti mani, abolizione, concetto e pratica caduti però purtroppo in disuso con i suoi successori. Gli Stati Uniti infatti, considerati con la Rivoluzione francese i primi abolizionisti, in realtà lo schiavismo lo hanno abolito sull’intero territorio nazionale solo il 6 dicembre 1895, quando venne finalmente completato l’iter dell’approvazione del XIII emendamento della Costituzione. Ovvero, un secolo dopo Haiti! Continua a leggere

Schiavismo e religione

Mi è stato chiesto di delineare i rapporti organici tra schiavismo e religione. Ma su questo argomento esiste già molta pubblicistica in giro, anche in rete: p.es. quest’ottimo intervento di Odifreddi

www.materialismo.it

In sintesi si potrebbe dire che la religione nasce con lo schiavismo come forma di compensazione astratta a una concreta libertà perduta. Ci si inventa un padre generoso e comprensivo nei cieli quando sulla terra si è dominati da un padrone avido e crudele. E il dio-padre diventa tanto più duro nel far rispettare la propria volontà, quanto più l’interpretazione della stessa viene sottratta al popolo e delegata a un personale specializzato (i sacerdoti), che pretende di stabilire in proprio il confine tra bene e male.

Nel Genesi appare chiarissimo che in assenza di schiavismo il dio non è altro che un compagno dell’uomo e della donna, uno che passeggia tranquillamente nel giardino insieme a loro.

Ma la cosa più interessante su cui riflettere è in realtà un’altra: l’ateismo del Cristo.

Su questo tema rimando a un commento scritto non molto tempo fa e dove dimostro non solo che Cristo era ateo ma anche che ebraismo e cristianesimo sono, seppure in parte e nei limiti epistemologici della religione, due forme di ateismo.

CRISTO ATEO O FOLLE?

Commento al capitolo V del vangelo di Giovanni

www.homolaicus.com/nt/vangeli/cristo_ateo.htm