Articoli

La necessità di una banca nazionale di sviluppo

La necessità di una banca nazionale di sviluppo

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**  *già sottosegretario all’Economia **economista

Il coronavirus, con la sua diffusione planetaria e i suoi effetti devastanti, condiziona tutti i Paesi, a partire dall’Italia. La sfida del rilancio economico sarà epocale, per tutti. E’ evidente che anche il futuro dell’Unione europea passa inevitabilmente attraverso il finanziamento di un programma unitario di investimenti e di sostegni all’occupazione imperniato sull’efficienza e sulla solidarietà.

Ovviamente è opportuno che vi siano anche risorse finanziarie nazionali e degli interventi più mirati alle necessità di stabilità sociale e di ripresa economica.

La decisione del governo tedesco di mettere in campo 550 miliardi di euro di investimenti nei settori dell’economia reale, attraverso la mediazione della Kreditanstalt fuer Wiederaufbau (KfW) potrebbe essere un esempio virtuoso da seguire. Al di là dei sentimenti pro o anti teutonici, concentriamoci, invece, sul contenuto politico e operativo della scelta fatta dai tedeschi. Si tratta di investimenti veri destinati all’economia, senza inutili mediazioni del sistema bancario privato.

La KfW è una banca di sviluppo pubblica, controllata dal governo federale per l’80% e dai Laender (l’equivalente delle nostre regioni ma con un potere rafforzato) per il 20%. Fu creata nell’immediato dopo guerra per emettere credito e sostenere progetti per la ricostruzione. Era un “tassello” del Piano Marshall dedicato alla Germania. Ottenne presto la possibilità di trasformare gli interessi dovuti agli Stati Uniti in aumenti di capitale proprio, e di ampliare così la sua capacità d’investimento.

Nei decenni passati è stata uno dei principali motori dello sviluppo industriale, infrastrutturale, tecnologico e sociale della Germania fino a diventare un colosso economico. Oggi ha un capitale (equity) di 30 miliardi di euro e investimenti pari a  610 miliardi. La KfW affianca sempre anche le grandi corporation tedesche, come la Siemens, la Daimler o la Mercedes, nella stipulazione di importanti contratti di cooperazione internazionale, siano essi in Cina, in Russia, negli Usa o in altre parti del mondo.

Raccoglie capitali sui mercati finanziari con l’emissione di obbligazioni, che dal 1998 per legge sono garantite dallo Stato tedesco. Li trasforma poi in crediti per investimenti in vari settori produttivi, infrastrutture, edilizia sociale, innovazione, nuove tecnologie e in sostegno forte alle imprese. Lo fa attraverso una rete di enti che ha creato e che controlla, come il fondo per le PMI, quelli per l’export, per lo sviluppo regionale e locale, per le nuove fonti di energia, per l’ambiente, per la cooperazione internazionale, ecc.

Nel 2008 ha creato anche la IPEX Bank che sostiene le imprese tedesche ed europee in progetti internazionali e nelle loro operazioni di export. Oggi ha un volume di business superiore agli 80 miliardi di euro.

La KfW, inoltre, è esentata dai requisiti di capitale e dalle regole dell’Unione bancaria, così come lo sono le banche tedesche di sviluppo regionale, le Landesbank.

In verità, anche il nostro Medio Credito Centrale (MCC) nel 1953 fu creato su questo modello ma con molti meno poteri e meno autonomia. Oggi, com’è noto, realizza e integra le politiche pubbliche a sostegno del sistema produttivo, in particolare delle Pmi. Una mission molto importante che, purtroppo, è rimasta confinata entro dimensioni troppo limitate.

Anche la nostra Cassa Depositi e Prestiti (CDP) è molto simile alla struttura della KfW. A confronto, però, è anch’essa molto più limitata nelle sue attività. Entrambe sono attive in parecchie operazioni congiunte, per esempio, nel Long Term Investors Club (LTIC). Quest’ultimo, si ricordi, dopo la Grande Crisi del 2008 è stato creato proprio con il compito di promuovere investimenti produttivi e infrastrutturali di lungo periodo in alternativa alla disastrosa finanza “mordi e fuggi”.

Per statuto la nostra CDP, che gestisce ingenti capitali generati dalla raccolta di risparmio popolare (oltre 342 miliardi di euro) attraverso le obbligazioni emesse dalle Poste Italiane, è “ingessata” su operazioni specifiche relative agli investimenti locali. Da qualche anno ha creato anche un fondo di sostegno agli investimenti nelle Pmi e ha dovuto cambiare lo statuto per avere la possibilità di operare anche nell’internazionalizzazione dei mercati a sostegno delle imprese italiane che esportano e operano all’estero. Prima non era consentito.

L’emergenza economica provocata dal coronavirus, con la sospensione del Patto di stabilità europeo, potrebbe diventare l’opportunità, la classica “window of opportunity”, per ripensare e rimodellare certi enti italiani. Senza inventare cose nuove si potrebbe “copiare” ciò che la Germania ha fatto e dare alla nostra CDP gli stessi poteri e le stesse prerogative della KfW.

Certo non si risolverebbero i gravi problemi storici dell’Italia, quali un debito pubblico troppo elevato, un’evasione fiscale sproporzionata, una corruzione intollerabile, una burocrazia inefficiente e tasse elevate su produzione e lavoro. Questi sono problemi e sfide ineludibili per lo Stato italiano. Ma, almeno, avremmo un ente, una sorta di banca nazionale per lo sviluppo, certamente più controllata e più efficiente.

Si tenga presente, inoltre, che i 550 miliardi di euro di investimenti annunciati dal governo tedesco non vanno a incrementare il debito pubblico nazionale. Saranno gestiti dalla KfW che, in quanto ente indipendente, non entra nel computo del bilancio nazionale. Lo stesso avverrebbe con l’utilizzo della CDP “rafforzata”.

Qualsiasi aumento della spesa pubblica da parte del nostro governo, sia per l’emergenza sia per altre esigenze, andrà, invece, ad aumentare direttamente il nostro debito pubblico.

Non si tratterebbe di una furbizia ma di un semplice ritorno all’idea della “banca nazionale per lo sviluppo”.

Guardando oltre l’attuale emergenza, il presidente Mattarella giustamente ha detto che “per rinascere ci è richiesta la stessa unità del dopoguerra”.  E noi, più modestamente, riteniamo siano necessari anche istituzioni, tempi e programmi economici simili.

 

 

LE BANCHE CENTRALI EUROPEE SBAGLIANO. SOPRATTUTTO NEL VOLERE L’INFLAZIONE AL 2%

Economisti francesi: le banche centrali sbagliano

Mario Lettieri* Paolo Raimondi**

Dalla Francia, ma non solo, arrivano moniti preoccupanti relativi al rischio di nuove crisi finanziarie globali. Tra gli economisti, Jacques De La Rosière, già governatore della Banca centrale di Francia e direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, afferma che le politiche monetarie accomodanti delle banche centrali stanno indebolendo l’intero sistema finanziario, rendendo così impraticabili anche gli eventuali futuri interventi di correzione.

Anzitutto, l’idea fissa di tutte le banche centrali di dover raggiungere il tasso d’inflazione del 2%, inteso come manifestazione del corretto andamento della gestione monetaria e dell’economia, è sbagliata. Chi la sostiene argomenta che sotto quel livello ci sarebbe sempre il rischio di deflazione, cioè un crollo dei prezzi.

L’ex direttore del Fmi afferma, invece, che questo target d’inflazione annuale dovrebbe essere abbassato all’1%. Vi sono, infatti, ragioni strutturali che modificano profondamente i dati che determinano i prezzi al consumo: l’invecchiamento della popolazione, il progresso tecnologico che diminuisce i costi di produzione, la globalizzazione che ha fatto entrare nei nostri mercati merci a prezzi stracciati perché prodotte con salari bassi e un mercato del lavoro bloccato. Perciò il target dell’1% non sarebbe in alcun modo un fenomeno deflattivo.

Lo stesso dicasi per il tasso di sconto applicato dalle banche centrali. Dovrebbe aumentare in situazioni di stabilità e di crescita economica. La storia lo insegna. E ci dice anche che gli ultimi 15 anni di politiche monetarie accomodanti (più liquidità con il quantitative easing e simili misure) di fatto non hanno prodotto una crescita significativa e un effettivo miglioramento delle varie economie..

Al contrario, sottolinea De La Rosiere, la prolungata e esagerata politica del tasso zero ha prodotto gravi conseguenze: una forte propensione al debito, un indebolimento del settore bancario, un peggioramento dei bilanci dei fondi pensione con investimenti in obbligazioni pubbliche senza rendimenti, la proliferazione di “imprese zombie” dove i tassi di interesse non giocano più il ruolo discriminante di “indice di qualità”, la spinta verso investimenti e prodotti finanziari ad alto rischio e la disincentivazione per i governi a intraprendere la strada delle riforme strutturali. 

Inoltre, con un tasso zero, le imprese, invece di nuovi investimenti, sono spinte a fare più debiti con cui comprare sul mercato le loro stesse azioni. Ciò crea l’illusione di stabilità.

In verità, l’aumento della produttività non ha alcun rapporto diretto con il tasso d’interesse ma riflette, invece, i processi d’istruzione, di formazione, di diffusione delle nuove tecnologie, del clima nel commercio internazionale…

A tutto ciò si aggiungono le gravi e irresponsabili politiche nazionaliste e quelle del “beggar thy neighbour”, impoverisci il tuo vicino. Perciò l’ex governatore della Bank de France vede l’attuale situazione mondiale molto critica e simile a quella degli Anni Trenta dello scorso secolo.

Anche la politica monetaria è in una pericolosa impasse con il rischio di non essere più in grado di intervenire in caso di necessità e di crisi. Servirebbe invece un accordo stabile nel sistema monetario internazionale.

Sulla stessa linea di De la Rosière si sono espressi anche Eric Lombard, direttore generale della Caisse des Depots (la CDP francese) e Olivier Klein, direttore generale della BRED, la più grande banca popolare e cooperativa di Francia.

Essi affermano che un’attenta analisi della passata crisi fornisce elementi per dire che anche oggi vi sono sintomi molto simili. In particolare, i tassi interesse inferiori a quelli della crescita per un periodo troppo lungo hanno creato un circolo vizioso in cui gli attori economici, invece di diminuire i loro debiti, sono stati indotti a aumentarli.

Questo processo ha portato a preferire operazioni finanziarie sempre meno liquide con alti rischi di credito. Secondo loro, la bolla potrebbe, quindi, scoppiare in caso di aumento dei tassi d’interesse. Essi stimano che la crisi potrebbe iniziare a seguito di qualche evento negativo, sia economico sia geopolitico, che mettesse in difficoltà il pagamento dei debiti.

Si aspettano che la crisi finanziaria possa avvenire in particolare nel settore dello “shadow banking”, cresciuto a dismisura. Le banche sarebbero, per fortuna, meglio capitalizzate. Immettere maggiore liquidità per aiutare gli attori economici indebitati in difficoltà, potrebbe accentuare il rischio di una crisi ancora più grande.

Da ultimo si è fatto nuovamente sentire un gruppo di ex governatori delle banche centrali di Germania, Austria e Olanda che in un memorandum hanno ripreso gli argomenti sopracitati. Però, con un giudizio negativo soprattutto nei confronti dei paesi europei più indebitati. Secondo loro la politica della Bce favorirebbe proprio questi ultimi. E’ chiaro che essi vorrebbero continuare con una politica di austerità più severa e più dura. Sarebbe una sciagura!

 E’ giunto il momento di sottrarci ai rischi di una nuova crisi, attraverso una sana politica di crescita economica, occupazionale e sociale e senza l’ossessiva e fallimentare politica di austerità a tutti i costi.

 *già sottosegretario all’Economia **economista

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’Inghilterra molla l’Europa e per punire la Cina propone una moneta internazionale virtuale

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Alla recente riunione di banchieri a Jackson Hole il governatore della Bank of England, Mark Carney, ha proposto di sostituire il dollaro, come moneta di riferimento negli scambi commerciali e nelle riserve internazionali, con la Synthetic  Hegemonic Currency (SHC), una nuova valuta, non più fisica ma digitale.

Un’idea temeraria, come lui stesso ammette. Secondo noi, si tratta di una proposta che potrebbe rendere ancor più instabile il già precario sistema monetario internazionale.

Il governatore centrale inglese prende come esempio la moneta digitate Libra, recentemente proposta da facebook.com, che dovrebbe diventare il nuovo strumento di pagamento per le transazioni commerciali fatte sempre più online. Libra dovrebbe essere la nuova moneta privata che sostituirebbe le valute nazionali finora utilizzate, a cominciare dal dollaro. Sarebbe utilizzata da acquirenti e altri clienti privati che operano con strumenti telematici.

La SHC, invece, dovrebbe essere emessa dall’autorità pubblica, cioè dalle banche centrali attraverso una loro rete di monete digitali. L’intento britannico sembra essere soprattutto volto a opporsi alla tendenza egemonica dello yuan cinese che, come Carney afferma, dal 2018 avrebbe già superato la sterlina nei contratti petroliferi. Naturalmente la nuova moneta digitale ridurrebbe anche l’influenza dominante del dollaro stesso.

Un mondo con due monete competitive di riserva, afferma il governatore, renderebbe instabile l’intero sistema monetario mondiale. La Grande Depressione del ’29, aggravata dalle tensioni tra la sterlina e il dollaro, dovrebbe essere d’insegnamento.

La nota di Carney rivela che la Bank of England è consapevole di ciò che avviene a livello globale. Del resto egli sottolinea che “la City è il principale centro finanziario internazionale”.

La conclusione della Bank of England è sicuramente azzardata. Le sue analisi di fondo, però, meritano una certa considerazione. Il governatore afferma che la globalizzazione ha accresciuto l’impatto e i riverberi degli eventi internazionali sulle varie economie. Di conseguenza, il sistema del tasso d’inflazione flessibile e dei tassi d’interesse fluttuanti, adottato dalle banche centrali, non regge più.

Ciò ha determinato destabilizzanti asimmetrie nel sistema monetario internazionale. Infatti, mentre l’economia mondiale è passata attraverso processi di aggiustamenti, il ruolo del dollaro, invece, è rimasto uguale a quello che aveva quando il sistema di Bretton Woods nel 1971 collassò. E’ innegabile il fatto che le decisioni monetarie della Federal Reserve stiano producendo effetti negativi in molti paesi, anche in quelli che hanno pochi rapporti economici con gli Usa.

Egli afferma giustamente che “un sistema unipolare non è adatto per un mondo multipolare”. Ricerche ufficiali dimostrano come una rivalutazione del dollaro dell’1% comporterebbe una contrazione dello 0,6% nei volumi di commercio nel resto del mondo.

Si ricordi che metà delle transazioni commerciali mondiali è effettuata ancora in dollari! Ma la quota delle importazioni Usa è solo un quinto del totale dell’import mondiale. Perciò, a nostro avviso, anche la riforma delle regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), è sempre più necessaria.

Il dollaro, in quanto moneta dominante del commercio mondiale, è anche la valuta principale di riserva e di rifermento per la maggior parte dei titoli emessi nei paesi emergenti. Per circa due terzi del totale. Ciò ha inevitabilmente indotto queste economie a creare delle misure di sicurezza, aumentando le loro riserve in dollari e contribuendo così a creare quello che da tempo è chiamato “carenza mondiale di risparmi”. Si stima che le riserve monetarie dei paesi emergenti potrebbero raddoppiare nei prossimi dieci anni, con un aumento di ben 9.000 miliardi di dollari.

Noi riteniamo che la nuova moneta digitale SHC non sia la soluzione giusta. Essa, di fatto, annullerebbe progressivamente il ruolo, anche di controllo, delle banche centrali e degli stessi governi.

Una questione, affatto secondaria, riguarda la sicurezza e le garanzie monetarie: chi sarebbe il “prestatore di ultima istanza”? Finora, e lo abbiamo visto nella Grande Crisi anche se con ritardi e lacune, il garante finale è stato la banca centrale dei vari paesi coinvolti.

Come abbiamo più volte scritto in passato, il dollaro da solo non è oggettivamente più in grado di sostenere l’intero sistema monetario, finanziario, economico e commerciale mondiale. Riteniamo perciò che sia giunto il tempo per la creazione di un sistema monetario multipolare basato su un paniere di monete importanti e per l’attivazione di una nuova “moneta di conto” simile ai Diritti Speciali di Prelievo.

*già sottosegretario all’Economia

**economista

 

FINALMENTE UN’INIZIATIVA SERIA PER L’AFRICA.

Grandi investimenti per salvare il lago Ciad. Il ruolo del “Progetto Transaqua”

Mario Lettieri*  Paolo Raimondi**

Il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha recentemente dichiarato l’intenzione di affiancare il presidente della Nigeria, Muhammadu Buhari, nella raccolta di fondi per la realizzazione del progetto di “trasferimento idrico” dalla regione dell’Africa centrale verso il Lago Ciad, nel Sahel. Intendono presenziare insieme a un Forum Speciale dove coinvolgere sponsor pubblici e privati per finanziare il progetto.

L’intero grande progetto richiederebbe 50 miliardi di dollari che i paesi direttamente interessati dal bacino acquifero del lago Ciad, cioè la Nigeria, il Camerun, il Niger e il Ciad, ovviamente non sarebbero da soli in grado di disporre.

L’accordo è stato mediato dall’African Development Bank, che negli anni passati si è mossa con grande impegno per la realizzazione d’infrastrutture in Africa e portare il continente e la sua popolazione fuori dal sottosviluppo e dal continuo spettro della povertà.

A causa di una gestione del lago quasi inesistente e, soprattutto, dell’avanzamento del deserto, nei decenni passati il lago ha perso il 90% della sua superficie, con catastrofici effetti climatici e sociali.

Come è risaputo, intorno al bacino del lago vivono circa 30 milioni di persone che di giorno in giorno vedono le loro vite e il loro futuro sempre più minacciati. Di conseguenza, sono sorti conflitti tra i paesi rivieraschi per l’approvvigionamento dell’acqua e forti tensioni tra agricoltori e pescatori. Una vera lotta tra poveri.

Non c’è quindi da essere sorpresi se i giovani di queste terre vogliano o debbano emigrare e se altri possano finire nelle reti del terrorismo e del crimine organizzato. Com’è noto sono proprio la mancanza di lavoro e le guerre locali, le cause principali delle migrazioni anche verso l’Europa.

E’ il caso di ricordare che la parte centrale del programma d’investimenti ipotizzato sarebbe la realizzazione del “Progetto Transaqua”, elaborato ben 40 anni fa dall’impresa italiana “Bonifica” del gruppo IRI per la creazione di un canale lungo 2.400 km per portare acqua dolce dal fiume Congo verso il lago Chad.

Già nel febbraio 2018 nella conferenza internazionale sul lago Ciad, tenutasi ad Abuja in Nigeria con la partecipazione anche dell’Italia e dell’Unesco, si era sostenuto con forza la realizzazione di Transaqua. Allo stato, il trasferimento idrico tra i bacini acquiferi non ci sembra un’opzione né un “miraggio faraonico” ma una vera e propria necessità.

Si prevede il trasferimento di 100 miliardi di metri cubi di acqua all’anno dal bacino del fiume Congo al lago Ciad, equivalente a circa l’8% della portata del fiume, che, comunque, la scarica tutta nell’Oceano Atlantico. Il piano prevede anche la costruzione di un sistema di dighe, bacini artificiali e canali che forniranno energia pulita, trasporto fluviale e acqua dolce per le popolazioni interessate e per lo sviluppo di un moderno settore agroindustriale nell’Africa Centrale.

Transaqua affronta molti aspetti della crisi africana, offrendo la possibilità di lavoro e benefici per i paesi a sud del Sahel, inclusa la Repubblica Democratica del Congo, che metterebbe a disposizione l’acqua in cambio di un importante arricchimento infrastrutturale e produttivo.

Come prevedibile, la Cina è il primo paese a essere interessato, non solo per ragioni geopolitiche ma anche per soddisfare la sua necessità di importare beni alimentari.

Già nel 2016 PowerChina, il gigantesco conglomerato industriale cinese che ha costruito anche la diga delle Tre Gole, aveva discusso del progetto con il governo della Nigeria esprimendo la sua disponibilità a partecipare al finanziamento e alla realizzazione dello stesso.

Oltre ai grandi investimenti miliardari in molti paesi dell’Africa, Pechino organizza ogni due anni uno specifico forum con la partecipazione di tutti i capi di stato africani. L’ultimo si è tenuto lo scorso settembre dove la Cina ha presentato il piano d’integrazione dell’Africa nelle Vie della Seta, la Belt and Road Initiative.

Nel frattempo si è mossa anche la Russia che il prossimo ottobre organizzerà il primo Russian African Summit con i leader di tutti i paesi africani.

L’Italia, fin dai tempi di Enrico Mattei, è sempre stata attenta all’idea di una vera cooperazione e dello sviluppo dell’Africa. Da sola, però, non è riuscita a smuovere gli altri grandi attori occidentali e internazionali.

Lo scorso ottobre è stato meritoriamente firmato un memorandum d’intesa tra il nostro Ministero dell’Ambiente  e la Commissione del Bacino del Lago Ciad per il finanziamento dello studio di fattibilità del Progetto Transaqua. L’Italia vi contribuisce con 1,5 milioni di euro.  Anche PowerChina cofinanzia lo studio.

Negli ultimi anni l’Europa ha ripetuto la necessità di lanciare un “Piano Marshall per l’Africa” per sviluppare il continente e per contenere il flusso dei cosiddetti “migranti economici” verso l’Europa. Questo a parole.

L’Italia ha sempre mantenuto un rapporto storico positivo con molti paesi africani. Siamo conosciuti come i costruttori di dighe e d’importanti infrastrutture. E’ interesse nostro e dell’Europa di lavorare per una genuina collaborazione, superando anche qualche vecchio retaggio del colonialismo di certi paesi europei.

In definitiva, la realizzazione del grandioso progetto in questione sarebbe un aiuto concreto allo sviluppo del continente africano e un modo serio di “aiutarli a casa loro”. Sarebbe, inoltre, anche una scelta coerente per difendere la Terra dal processo di desertificazione evidenziato dallo stesso ONU. Sarebbe probabilmente una risposta importante al problema dei mutamenti climatici denunciati dagli scienziati e dai giovani di tutto il mondo.

*già sottosegretario all’Economia **economista

LE BRUTTE CONSEGUENZE DELLA GUERRA DEI DAZI VOLUTA DA TRUMP

Mario Lettieri*  Paolo Raimondi **

E’ un grave errore cercare di semplificare le grandi questioni internazionali, quali quelle economiche, finanziarie, commerciali o quelle riguardanti i flussi migratori. Spesso si pensa che isolare una questione importante dal resto renda più facile affrontarla. Purtroppo non è così. Si vorrebbe che le cose fossero semplici e poco complicate e quindi risolvibili. Invece spesso sono complesse, intrecciate con altre, tanto da esigere approfondite e multiple analisi.  

Lo è senz’altro il caso delle guerre commerciali in corso. Trump e altri credono che, aumentando i dazi sui prodotti importati dalla Cina e dall’Unione europea, l’industria e l’occupazione americane ne gioverebbero, incidendo positivamente anche sulla bilancia dei pagamenti degli Usa.

In verità il commercio americano è da decenni fortemente squilibrato. Di certo non per comportamenti truffaldini dei partner ma per le decisioni interne che hanno favorito, ad esempio, l’outsoursing. Ciò ha determinato lo spostamento di molte imprese americane verso mercati poco regolamentati e a bassissimo costo del lavoro.

Le multinazionali e le banche Usa hanno sfruttato questo sistema facendo profitti straordinari ed evitando di pagare le tasse dovute. Non è quindi sorprendente sapere che il deficit della bilancia commerciale da decenni è ogni anno di centinaia di miliardi di dollari. Così dicasi per il bilancio statale. Nel 2017, ad esempio, il deficit commerciale è stato di 568 miliardi di dollari (811 miliardi, se si considerano solo le merci senza i servizi) e, a sua volta, il deficit del bilancio federale ha raggiunto i 665 miliardi.

La guerra commerciale non produrrà soltanto ritorsioni da parte dei paesi colpiti dai dazi. C’è già un’escalation di per sé foriera di gravissime instabilità. Essa rischia di mettere in moto effetti destabilizzanti anche sui mercati delle monete e su quelli finanziari.

Pertanto, di conseguenza, la Banca nazionale cinese ha deciso di emettere 700 miliardi di yuan sul mercato, pari a oltre 100 miliardi di dollari, con l’evidente intento di svalutare la propria moneta.

Si tratta di una contromisura per contenere i danni provocati dalle misure protezionistiche Usa. Con il deprezzamento dell’yuan, gli esportatori cinesi livellerebbero così l’aumento dei dazi americani d’importazione, mantenendo in un certo senso i loro guadagni ai livelli precedenti alle decisioni Usa.

Internamente alla Cina il deprezzamento della moneta non avrebbe grandi effetti negativi. Soltanto le sue importazioni diventerebbero più costose. Ma la Cina da quasi 10 anni ha cambiato la rotta della sua economia, sviluppando di più il mercato interno. I dazi, pertanto, possono diventare un ulteriore stimolo a sviluppare i settori industriali colpiti.

Si tenga conto, inoltre, che la Cina da qualche tempo promuove accordi commerciali in yuan, soprattutto con molti paesi emergenti, bypassando così la mediazione del dollaro.

Per il suo sistema politico, economico e monetario e per le storiche alleanze internazionali, l’Unione europea, purtroppo, non può adottare decisioni simili. Anche se Washington starebbe per imporre una tassa del 20% su 1,3 milioni di veicoli importati dall’Europa, di cui più della metà dalla Germania.

Quanto intrapreso in Cina, anche se in modi differenti per intensità e settori, com’era prevedibile, è avvenuto anche in Russia soprattutto per effetto dell’isolamento commerciale provocato dalle sanzioni.

Sul fronte finanziario, una delle conseguenze determinata dall’instabilità, a seguito dell’aumento del debito globale e delle minacce di guerre commerciali, è stata la crescita della bolla dei credit default swap (cds). I derivati usati per le cosiddette coperture del rischio d’insolvenza. Essi  misurano anche le fibrillazioni emerse a Wall Street dove Standard& Poors’ 500 (l’indice delle maggiori imprese americane), dal picco di gennaio a oggi, ha perso il 5%.  

Secondo varie analisi, anche dell’ultimo rapporto trimestrale della Banca dei Regolamenti Internazionali, il volume dei cds è di circa diecimila miliardi di dollari. Certo ancora lontano dai livelli del 2007, ma già preoccupante in previsione delle insolvenze del debito delle imprese e di altre categorie private.

E’ appena il caso di sottolineare che oggi quattro banche americane (Citigroup, Bank of America, JP Morgan Chase e Goldman Sachs) gestiscono il 90% del commercio mondiale dei cds!

Ancora una volta le autorità di controllo purtroppo stanno a guardare mentre la bolla cresce.

Il commercio e i mercati non hanno bisogno di dazi ma di regole che valgano per tutti.

*già sottosegretario all’Economia **economista

 

 

 

 

 

 

OBAMA IN GERMANIA HA PARLATO DI TUTTO, MA NON DEI RISCHI SISTEMICI E DEI GUAI GIUDIZIARI DELLA DEUTSCHE BANK.

Deutsche Bank: banca a rischio sistema

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Negli incontri del presidente Obama con la cancelleria Merkel e con gli altri capi di governo europei i temi in discussione sono stati indubbiamente diversi, come il terrorismo, le sanzioni contro la Russia ed il futuro dell’Unione europea. Forse del più preoccupante, almeno nel breve periodo, pare che non si sia parlato: la crisi finanziaria e il ruolo della Deutsche Bank, il marchio tedesco che dovrebbe essere sinonimo di affidabilità.

La banca, infatti, sarebbe coinvolta in circa 6000 casi legali, tra i quali alcuni davvero dirompenti.

Sembra che, nelle stesse ore in cui Obama elogiava la Merkel, si sia scatenato un duro scontro all’interno della DB su che dire alle agenzie internazionali di controllo relativamente alle sue responsabilità nella manipolazione del tasso Libor (London Interbank Offered Rate) e dei prezzi dei metalli preziosi. Si ricordi che il Libor è il tasso di riferimento per centinaia di trilioni di transazioni finanziarie a livello mondiale, dai derivati alle più semplici operazioni bancarie.

In passato la banca è stata al centro di grandi scandali e anche ora si vorrebbe chiudere questi casi pagando semplicemente una multa in cambio del blocco delle indagini.

Il Serious Fraud Office (SFO) di Londra ha recentemente emesso mandati di cattura nei confronti di 5 cittadini europei, di cui ben 4 della DB, accusati di cospirazione e frode nella manipolazione dell’Euribor (la versione dell’euro interbank offered rate). Anche la Corte Suprema inglese ha preso posizione contro la DB e altre banche europee per aver cercato di evadere il pagamento delle tasse sui bonus erogati agli alti manager sottoforma di azioni di imprese offshore create ad hoc.

 

L’anno scorso la maggiore banca tedesca ha pagato ben 2,5 miliardi di dollari di multa per chiudere il caso dei tassi manipolati. Ha inoltre versato 258 milioni di multa alle autorità americane per aver violato le sanzioni Usa nei confronti di Paesi come la Siria e l’Iran.

E’ da notare che dall’inizio dell’anno a oggi le azioni DB hanno perso il 25%, toccando ribassi anche del 40%. Per dimostrare solidità, la banca, nel mezzo della tormenta di qualche settimana fa, annunciò l’intenzione di comprare circa 5 miliardi di euro delle sue stesse obbligazioni.

Ma il problema più esplosivo per la DB in quanto banca sistemica e quindi pericolosa per l’intera finanza globale è ancora una volta la dimensione della sua bolla di derivati finanziari otc che, in valore cosiddetto nozionale, è pari a circa 55 trilioni di euro. Si tratta di circa 20 volte il pil tedesco e di quasi 6 volte quello dell’intera eurozona. In questo settore è di fatto la banca più esposta al mondo.

I timori di potenziali perdite fanno tremare i polsi a tutti, al management, agli investitori, ai clienti e finanche ai governi e alle banche centrali. Tanto che qualcuno incomincia a paragonare la DB alla Lehman Brothers, il cui collasso nel 2008 diede il via alla più devastante crisi finanziaria globale tuttora irrisolta.

Indubbiamente la DB ha criticità molto importanti. Il suo debito in circolazione si avvicinerebbe ormai ai 150 miliardi. Si parla di almeno 32 miliardi di euro in titoli altamente tossici e ad altissima leva finanziaria. Sarebbero titoli difficilmente solvibili. Avrebbe una montagna di obbligazioni convertibili largamente già svalutate, quelle che in caso di crisi potrebbero essere trasformate in azioni e utilizzate per i necessari pagamenti richiesti dal nuovo sistema del bail-in.

Infatti il problema della leva finanziaria, come per altre banche too big to fail, per la DB è molto rilevante. Esso indica quanto capitale ha la banca per ogni euro di asset posseduto. Oggi per un euro di capitale ha circa 20 euro di asset, cioè titoli di vario tipo, escludendo di derivati otc tenuti fuori bilancio. Come è noto, maggiore è la leva e maggiore è il rischio in caso di riduzione del valore degli asset e di conseguenza il rischio di perdita del valore della banca stessa.

Se si considera la gravità della situazione della BD è davvero strano che Berlino possa continuare ad ergersi come unico garante della stabilità europea e della giustezza delle sue politiche economiche.

L’Unione europea e l’Italia, se davvero hanno a cuore il loro futuro e la crescita, non possono continuare ad ignorare una situazione così grave che potrebbe riverberare effetti devastanti sull’economia europea e sul sistema bancario e finanziario.

*già sottosegretario all’Economia **economista