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Uscire dallo Stato e dal mercato

Per uscire dal sistema in cui domina il primato del valore di scambio è sufficiente convincersi di due cose: non è l’individuo che ha bisogno del mercato, ma il contrario; non è l’individuo che ha bisogno dello Stato, ma il contrario.

Stato e mercato sono però due realtà sociali: per poterle eliminare o ridurre al minimo o trasformarle radicalmente occorrono esperienze sociali. L’individuo, al di fuori di un collettivo di riferimento, cui organicamente appartiene, è solo un’astrazione.

Si tratta quindi di costruire una realtà sociale democratica, egualitaria, da opporre a due realtà sociali la cui democraticità è solo apparente. Nell’ambito dello Stato la democrazia è indicata dalle elezioni, con cui si scelgono i parlamentari (poi vi sono i referendum, quando si tratta di scegliere tra due opzioni).

Nell’ambito del mercato la democrazia sta nello scambio di equivalenti, nell’uso del denaro come mezzo astratto di scambio universale. Nessuno è obbligato ad andare a comprare merci, ma se non lo fa, non riesce a vivere. Come nello Stato comandano i poteri forti (politici, burocratici e militari), così nel mercato comandano i monopoli, gli speculatori, gli affaristi, i mercanti.

Non c’è mercato senza Stato, poiché questo garantisce la difesa dei produttori, che vivono sulle spalle dei soggetti deboli (i consumatori). Non c’è Stato senza mercato, poiché il mercato garantisce ricchezza, di cui una parte significativa, attraverso le tasse e il plusvalore estorto ai lavoratori, serve a mantenere le classi parassitarie (politici, burocrati e militari), le quali devono assicurare l’ordine a favore dei ceti possidenti.

Uscire dal sistema significa saper dimostrare a se stessi, organizzati in maniera collettiva, che si può fare a meno sia dello Stato che del mercato. I modi per dimostrarlo sono due: democrazia diretta e autoconsumo. Questi due aspetti vanno considerati preliminari a tutto, cioè a qualunque dibattito, a qualunque lettura e scrittura. Ed essi non possono in alcun modo svilupparsi nell’ambito del capitalismo. Mentre la trasformazione dello schiavo in colono è potuta avvenire nell’ambito dello schiavismo, e quella da colono o servo della gleba a operaio salariato è potuta avvenire nell’ambito del feudalesimo, quella da operaio produttore libero non può avvenire nell’ambito del capitalismo, se non come eccezione che conferma la regola: lo sfruttamento del lavoro altrui.

Questa regola è così tassativa, nel capitalismo, che anche lo stesso lavoratore diventa a sua volta, di necessità, uno sfruttatore del lavoro altrui: è sufficiente infatti che depositi i suoi risparmi in una banca o che riceva uno stipendio statale o che produca una merce per il mercato. Perché tutti i lavoratori siano liberi occorre uscire dal sistema. Nell’ambito del capitalismo non c’è nulla che possa anticipare qualcosa del socialismo democratico. Se lo si pensa è perché ingenuamente si crede di poter fare a meno della responsabilità di una rivoluzione: non sono pochi i soggetti pseudo-rivoluzionari che non vogliono combattere politicamente il sistema, ma limitarsi semplicemente ad attendere ch’esso imploda da solo, a causa delle proprie interne contraddizioni, com’è successo in Russia.

L’abbattimento del sistema è preliminare a qualunque altra cosa. Si può farlo attraverso la cultura – come voleva l’impostazione gramsciana -, o entrando direttamente in politica, ma l’obiettivo deve restare la conquista del potere per il rovesciamento del sistema. E non si può far questo come se fosse un semplice colpo di stato: occorre un’autentica rivoluzione di popolo. Sono due cose completamente diverse, l’una opposta all’altra. Se si tenta di creare delle “isole di socialismo”, dove vige la democrazia diretta e l’autoconsumo, si ripeteranno gli stessi errori del “socialismo utopistico”, i cui esperimenti alternativi sono stati tutti riassorbiti dal sistema.

Il sistema infatti ha il potere di condizionare in tutti i modi, materiali e culturali, l’intera vita sociale, e dispone inoltre della forza militare per porre fine, come e quando vuole, a ciò che può ostacolarlo democraticamente. Ecco perché bisogna convincersi che, in ultima istanza, il sistema può essere abbattuto solo con la forza, cioè con una rivoluzione politica, capace di usare gli stessi strumenti coercitivi del sistema per fronteggiare l’eventuale reazione violenta delle classi che non vogliono lasciarsi espropriare di nulla.

Solo quando la controrivoluzione ha avuto termine, si possono porre le basi della progressiva estinzione dello Stato, a favore della democrazia diretta, e, in virtù del primato del valore d’uso, si può pensare a una progressiva eliminazione del mercato basato sul primato del valore di scambio. Bisogna porre le comunità locali in condizioni di difendersi da sole da chiunque possa minacciarle di distruzione.

Che ci voglia una dura e lunga transizione dal capitalismo al socialismo democratico e autogestito, è pacifico. Il capitalismo non ha solo sconvolto tutti i rapporti umani, ma anche i rapporti con l’ambiente, e l’ha fatto in un periodo lunghissimo, praticamente millenario. L’importante però è aver chiaro che l’alternativa al capitale deve essere radicale: qualunque concessione venga fatta anche a uno solo degli aspetti del sistema da abbattere, andrà a influire su tutto il resto. Il fallimento del cosiddetto “socialismo reale”, che pretendeva di poggiare su basi “scientifiche”, è un esempio da tenere sempre presente.

1) – La follia dell’uscita dall’euro e della “svalutazione competitiva”; 2) – Le “sviste” di “Chi l’ha visto?” per mandare avanti l’Emanuela Orlandi Show

1) – La follia dell’uscita dall’euro e della “svalutazione competitiva”

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Dopo i recenti exploit populisti in varie regioni europee, anche le elezioni tedesche di settembre potrebbero riservare qualche brutta sorpresa. Infatti in Germania è sorta una nuova formazione politica che mette al centro l’abbandono dell’euro.

Noi riteniamo che si debba dire con chiarezza e documentare con dovizia che l’uscita dall’euro non rappresenta una soluzione ai problemi ma l’inizio di un incubo i cui effetti potrebbero esser ben peggiori di qualsiasi altro scenario.

Non siamo i cantori delle bellezze del Trattato di Maastricht né della “perfezione geometrica” dell’euro. Sappiamo che è stato fatto male, che c’è molto da migliorare. Ma sarebbe pura follia politica ed economica far saltare il processo di unità europea.

Solitamente l’uscita dall’euro viene giustificata con la riacquisizione della sovranità monetaria nazionale e quindi con la possibilità di battere moneta, di emissione di nuovo debito e di svalutazioni competitive.

Queste ultime sono il cavallo di battaglia degli euroscettici, il che rivela una sostanziale ignoranza dei principi basilari dell’economia.

Essi sostengono che il ritorno alla moneta nazionale potrebbe permettere appunto la sua svalutazione, rendendo i prodotti nazionali più competitivi sui mercati internazionali. L’aumento delle esportazioni diventerebbe così il volano della ripresa delle produzioni, dell’occupazione  e dell’intera economia.

La verità è un’altra. Il ritorno alla moneta nazionale, per qualsiasi paese Eu, Italia inclusa, lascerebbe l’intero ammontare del debito pubblico e privato, in larga parte in mani estere, denominato in euro oppure in dollari. Soltanto i cittadini risparmiatori potrebbero convertire i loro risparmi, a cominciare dai bot, in titoli denominati nella nuova moneta nazionale, ma gli altri titoli di debito resterebbero come prima. Comunque la riconversione completa equivarrebbe ad una dichiarazione di default nazionale.

Sarebbe possibile finanziare il debito esistente e aumentarlo, come si propone, soltanto a tassi di interesse molto più alti di quelli attuali. Si ricordi che, dopo la crisi del 1992 e la svalutazione della lira, gli interessi dei bot a breve arrivarono fino al 17%!.

Tutte le importazioni, a cominciare dal petrolio e dal gas, sono calcolate in dollari o in euro. Per l’Italia sarebbe perciò lo sconquasso finale delle sue finanze. Gli aumenti dei costi di importazione e del finanziamento del debito si tradurrebbero inevitabilmente in una inflazione galoppante con una drammatica perdita di potere d’acquisto.

E’ difficile immaginare come si possano così ampliare le fette di mercato per le proprie esportazioni. In questa logica per diventare competitivi occorrerebbe abbattere i costi che ancora una volta colpirebbe il lavoro. Ciò vorrà dire innescare nuovamente quel vortice recessivo fatto di meno reddito, meno consumo, meno produzione, meno entrate fiscali, meno disponibilità di bilancio.

L’economia italiana, sulla scia di quella tedesca, non può competere nei settori legati alle vecchie tecnologie mentre le economie emergenti operano con salari bassissimi. Invece bisognerebbe puntare sulle nuove tecnologie e determinare il prezzo e il mercato sulla base della loro qualità e della loro innovazione.

L’uscita dall’euro anche del più piccolo Paese innesterebbe una reazione a catena che porterebbe progressivamente al collasso dell’Ue. Si metterebbe in moto un’inevitabile guerra commerciale protezionista. Ci rimetterebbero tutti. Anche la Germania.

Sarebbe una destabilizzazione globale! Purtroppo non è impossibile. La storia europea del secolo scorso ha fatto conoscere “cose” che i popoli non avrebbero mai ritenuto possibili.

Certo la situazione attuale non è tollerabile. Non si può permettere che i cittadini siano portati ad una tale disperazione e povertà da voler preferire l’inferno.

A nostro modesto avviso serve più Europa. L’impegno prioritario del costituendo governo dovrebbe mostrare maggiore decisione nel consesso europeo per rendere più efficaci e solidali le scelte politiche ed economiche dell’Unione.

*Sottosegretario all’Economia del governo Prodi **Economista

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2) – Per chi vuole tenersi aggiornato sul modo col quale si continua a mentire sul caso di Emanuela Orlandi in modo da suggestionare il pubblico come fossero tutti beoti e favorire l’audience, ecco un altro bell’esempio:

http://www.blitzquotidiano.it/opinioni/nicotri-opinioni/emanuela-orlandi-chi-lha-visto-flauto-mistero-1538698/

Autoconsumo e baratto

Supponi che noi due si voglia fare un baratto tra cose usate: tu mi dai il tuo cellulare di ultima generazione, io ti do il mio orologio automatico, che si carica a polso.

Qual è la prima cosa che pensi di fronte a questa proposta? La prima cosa è ovviamente la valutazione di mercato, cioè il valore di scambio di entrambi i prodotti. Metti in rapporto i due oggetti al valore monetario deciso dal mercato degli oggetti usati.

Viene istintivo fare una cosa del genere proprio perché siamo abituati a far coincidere il valore di un qualunque bene col suo prezzo. Noi non conosciamo il valore effettivo, intrinseco, oggettivo, di una merce finché il mercato non ci indica il suo prezzo, cioè il suo valore nominale, venale, monetario.

Peraltro noi sappiamo bene, per esperienza diretta, che i prezzi di mercato sono la cosa più irrazionale del mercato, in quanto alla loro formazione contribuiscono fattori che per noi consumatori sono imponderabili, indipendenti dal comportamento che possiamo avere facendo degli acquisti.

P.es. non è sempre vero che quanto più è alta la domanda di un bene, tanto più è alto il suo prezzo se l’offerta non è in grado di soddisfarla. Come non è sempre vero che, a fronte di una considerevole offerta, i prezzi possono calare se la domanda è scarsa. Questo perché vi sono sempre altri fattori che incidono sulla volontà dei produttori di merci e quindi sulla formazione dei prezzi, che restano spesso ignoti ai comuni consumatori. A volte quando una merce, materiale o immateriale, è quotata in borsa, basta fare delle semplici dichiarazioni che la riguardano, per avere immediatamente delle impennate o dei crolli rovinosi della sua quotazione.

Consideriamo inoltre che al giorno d’oggi i consumatori agiscono su mercati ove dominano prevalentemente i prezzi di monopolio. Per avere prezzi scontati bisogna frequentare i mercati delle piazze urbane o aspettare i saldi o cercare particolari promozioni, offerte speciali per i nuovi clienti, oppure affidarsi completamente alla vendita abusiva, truffaldina.

Questo per dire che, a parità di condizioni estrinseche, esteriori, la concorrenza incide assai poco sulla formazione dei prezzi. Anzi, è più facile che tra i monopoli si formino dei cartelli, cioè dei patti sotto banco, quando addirittura, di fronte alla concorrenza straniera, non si provvede con forme varie di protezionismo.

Per noi consumatori si tratta semplicemente di porre una differenza tra mercato legale e mercato illegale, ovvero tra mercato in cui esiste una tassazione regolare e mercato in cui questa è minore (come p.es. a San Marino o in certi paesi esteri), o addirittura nessuna tassazione, come nel cosiddetto “mercato nero” o clandestino, quello degli oggetti non originali o contraffatti o addirittura trafugati (il mercato dei ricettatori).

Ora però immagina che, per un qualsivoglia motivo, la moneta non esista affatto: sono crollate tutte le borse, è scoppiata una guerra mondiale, gli Stati hanno fatto bancarotta, oppure, più semplicemente, perché vige solo il baratto, non essendo stato ancora inventato un equivalente astratto e universale per tutte le merci, quale può essere appunto il denaro (soprattutto nella forma della banconota o della carta di credito).

Supponi dunque di non poter stimare economicamente il mio orologio sulla base del denaro: quale altro parametro valutativo sceglieresti? Nel corso della storia del genere umano i parametri sono stati tantissimi: dalle conchiglie ai semi di cacao, ecc. Per le civiltà basate sullo schiavismo l’elemento di paragone più importante era l’oro o l’argento (ma anche il rame o il bronzo, per gli oggetti di minor pregio). Oggi tra i metalli pregiati di uso domestico abbiamo anche il platino (p.es. nei gioielli).

Ma supponi che non esista neanche questa possibilità, in quanto l’oro e l’argento vengono più che altro usati per motivi estetico-ornamentali e non economici, come accadeva tra le popolazioni primitive, che apprezzavano l’oro perché duttile, malleabile, lucente e perché non invecchia mai. Se non c’è neanche questo metro di paragone, come fai a valutare il mio orologio?

Non esistendo un vero e proprio valore di scambio per le merci, non ti resta che puntare al suo valore d’uso. Sei disposto a barattare il tuo cellulare col mio orologio semplicemente perché pensi che ti serva di più. Tuttavia, se fino adesso hai fatto senza, perché pensi che ti possa servire? Devi stare attento a questa mia proposta di scambio, perché al bene che ti offro potresti farci l’abitudine e, in tal caso, perderesti la tua autonomia. E’ stato proprio in questa maniera che s’è realizzata la transizione dal baratto alla moneta.

Devi inoltre pensare a una cosa non meno importante: supposto che il mio orologio ti serva davvero, come fai a essere sicuro di fare uno scambio vantaggioso per te? Tu non puoi affatto saperlo se non conosci esattamente il tempo che è stato impiegato per produrre il mio orologio (e nel tempo ci puoi mettere dentro la fatica e l’intelligenza di reperire i materiali adatti, di assemblarli nel modo migliore, di presentarli al pubblico ecc.).

Se tu conosci esattamente tutte queste cose, allora vuol dire che, almeno in teoria, tu stesso potresti produrre il mio orologio; cosa che non fai probabilmente perché ami applicarti ad altri oggetti, le cui eccedenze vuoi scambiare con oggetti che non possiedi, tra cui appunto gli orologi automatici. Quel che è certo è che se non conosci il tempo socialmente necessario per produrre un determinato oggetto, tu rischi di rimetterci sempre negli scambi con quel medesimo oggetto.

Ora supponiamo che tu conosca l’entità effettiva del valore del mio orologio, a quali condizioni saresti disposto a compiere una transazione per te svantaggiosa sul piano economico? Ce n’è più di una. Io potrei essere tuo amico o diventarlo dopo esserci combattuti in battaglia; potrei essere un tuo parente o diventarlo in seguito a un matrimonio tra le rispettive famiglie. Potresti farmi un favore perché sai di essere, per qualche motivo, in debito con me, oppure perché speri che io possa essere più indulgente nei tuoi confronti. Insomma saresti disposto ad accettare una transazione materialmente non equa a condizione di poter ottenere dei vantaggi di tipo etico.

Sia come sia, ti rendi facilmente conto che se esistesse l’autoconsumo la transazione sarebbe più semplice e sicura, proprio perché ad entrambi sarebbe garantita l’indipendenza. Lo scambio lo faremmo solo con le rispettive eccedenze e solo per acquistare cose effettivamente utili, cioè dei beni che potremmo produrre anche noi e che non facciamo solo perché sappiamo che vicino a noi qualcun altro lo fa, non perché vi sia costretto da qualcosa, ma perché ne ha voglia, ne ha l’interesse, ne ha le competenze e perché è convinto che, facendolo, otterrà in cambio qualcosa di non meno utile e vantaggioso, per sé o per la sua famiglia o per la comunità in cui vive.

Tuttavia, perché l’autoconsumo e il baratto funzionino in modo adeguato, occorre che tra produttore e acquirente non vi sia molta differenza di stile, di comportamento, di modus vivendi e, prima di tutto, occorre che esista, in maniera generalizzata, la proprietà collettiva dei principali mezzi produttivi.

Per una transizione al socialismo: due problemi da risolvere

 I due problemi che una qualunque transizione al socialismo si deve porre sono i seguenti:

  1. fino a che punto la tecnologia è compatibile con l’ambiente?
  2. in che maniera staccarsi dalla dipendenza nei confronti del mercato?

Questi due aspetti sono strettamente correlati, nel senso che – a differenza di quello che pensava il marxismo – non è possibile affrontarli separatamente. La rivoluzione russa affrontò solo il secondo problema, dando per scontato che sotto il socialismo si potesse usare la stessa tecnologia del capitalismo o comunque gli stessi metodi scientifici per ottenerla, pensando che la differenza stesse soltanto nelle forme di applicazione. Fu – come noto – un errore macroscopico, che comportò, come concausa, il crollo dell’intero sistema.

Il primo problema da affrontare è di tipo culturale, mentre il secondo è di tipo sociale e, per poterli affrontare insieme, per una transizione al socialismo umano e democratico, ci vuole un’organizzazione di tipo politico, che preveda anche aspetti di tipo militare (difensivo).

Il capitalismo si serve della tecnologia per dominare il pianeta. La tecnologia viene usata non solo per produrre beni materiali, ma anche per sfruttare le risorse naturali, amministrare i capitali, assicurare la formazione, divulgare le informazioni, gestire i conflitti. Quindi si tratta di capire quale tecnologia è idonea a una concezione di vita in cui il “dominio” sia escluso.

La natura non va “dominata” ma “gestita” come fonte di vita. La natura non può essere “sfruttata”; al massimo può essere “utilizzata”, e dentro la parola “uso” ci deve essere quella di “rispetto”, “tutela”. Nei suoi confronti bisogna stare attenti alle parole che si usano. Gli antichi lo facevano per un’entità che oggi abbiamo capito essere inesistente (dio); a maggior ragione dobbiamo farlo per ciò che ci caratterizza ogni giorno in maniera evidente, sia nel senso che sappiamo vivere secondo natura, sia nel senso che, non sapendo vivere in questa maniera, ci comportiamo come esseri alienati.

L’essere umano deve pensarsi come ente di natura e non come qualcosa al di sopra di essa. E’ vero che in noi vi è una sorta di autoconsapevolezza della natura, come se in noi essa avesse trovato il suo compimento, come se le sue leggi oggettive avessero potuto trovare in noi la sintesi suprema della più grande legge dell’universo: quella della libertà di coscienza. Ma è anche vero che noi, come prodotto finito, non possiamo sussistere senza fare continuamente riferimento agli elementi primordiali che ci costituiscono.

La riproduzione della specie umana deve essere strettamente compatibile con la riproduzione della natura. Se non vi è questo adeguamento libero e consapevole, non è la natura che va cambiata ma l’uomo.

Dunque nei confronti del capitalismo va fatta un’operazione culturale che ne rovesci i suoi presupposti di fondo. La natura è al servizio dell’uomo fintantoché l’uomo si comporta in maniera naturale. La natura infatti ha proprie leggi, le quali, se non vengono rispettate, non permetteranno la sopravvivenza del genere umano. Quanto più l’uomo, con la propria attività, incide sulla natura, tanto più finirà col mettere a repentaglio la propria stessa esistenza.

L’aspetto sociale è interconnesso a questo: infatti se si permette alla natura di autoriprodursi agevolmente, significa che si è capita l’importanza dell’autoconsumo. Se si rispetta l’autonomia della natura, non si può tollerare che la propria sopravvivenza dipenda da fattori indipendenti dalla propria volontà. E’ stato un grossolano errore quello di credere che l’uso della scienza avrebbe potuto liberarci dalla dipendenza nei confronti della natura. Una liberazione di questo genere è stata la nostra condanna.

Una comunità non può essere definita “di vita” se dipende dal mercato, cioè dalle forniture di cibo che altri soggetti economici mettono a disposizione. Il consumatore non può essere nelle mani del produttore, soggetto continuamente a ricatto sulla qualità del prodotto, sul suo prezzo, sulla sua reperibilità.

Una comunità del genere è, nell’ambito del mercato capitalistico, una sorta di colonia da sfruttare, un luogo di lavoro servile, che vive secondo esigenze che non le appartengono. Chiunque sostenga che una comunità, per diventare autonoma e progredire, deve puntare sull’export, inevitabilmente vuole che quella comunità resti per sempre dipendente nei confronti di altri soggetti economicamente più forti.

Qui tuttavia il problema diventa più serio di quello culturale, poiché, mentre il capitale può anche tollerare che una comunità resti all’età della pietra, non può tollerare che in questo primitivismo essa non sia funzionale alle esigenze del mercato.

Cioè anche se una comunità può rinunciare, per motivi di principio, a una certa tecnologia, non può rinunciare di mettere al servizio la tecnologia di cui dispone alle esigenze del capitale, se questo è penetrato nella sua struttura economica. Anzi, quanto più una comunità è dipendente dal mercato, tanto più sarà indotta, se vuole un minimo sopravvivere, a rinunciare ai propri principi e a utilizzare tecnologie più avanzate. Tutta la storia del colonialismo e dell’imperialismo può essere letta in questa maniera.

Come liberarsi di questo fardello? Come tornare all’autoconsumo? Qui vale un vecchio detto: “l’unione fa la forza”. La strategia politica è tutta da inventare ed è difficile, in tal senso, che dei contributi significativi possano venire dall’Europa o dagli Usa o dall’occidente in generale o dai paesi capitalistici sparsi nel mondo.

Infatti, non solo va messa in discussione l’utilità della scienza e della tecnica in uso sotto il capitalismo, ma, in via del tutto generale e quindi astratta, va considerata anche ogni merce come rispondente a un falso bisogno. Occorre cioè guardare con sospetto ogni merce e negare l’identità che il mercato pone tra valore di scambio e valore d’uso.

I valori d’uso non possono mai essere decisi dal mercato ma solo dalla comunità di appartenenza. Di ogni merce bisogna imparare a chiedersi se sia davvero indispensabile e non sostituibile con qualcos’altro. Il problema non è soltanto quello che si pone il “consumo critico” (riduzione, riutilizzo, riciclo, rispetto), ma è anche quello di fare di queste regole un motivo per uscire dal mercato.

Le comunità basate sull’autoconsumo da quali Stati potrebbero essere difese se non da se stesse? Gli Stati, per definizione, difendono solo i poteri più forti, cioè proprio quei poteri che meno ne avrebbero bisogno.

Generalmente oggi le comunità autosussistenti non avvertono neppure d’essere l’unica alternativa praticabile al capitalismo. Cercano soltanto di resistere il più possibile, attendendo rassegnate la loro assimilazione progressiva. Si lotta per conservare un passato ancestrale, non per costruire un nuovo futuro per l’intera umanità.

Per noi occidentali le comunità autarchiche sono solo – nel migliore dei casi – oggetto di studio etno-antropologico. Non ci sfiora neanche lontanamente l’idea ch’esse possano costituire un’alternativa praticabile al nostro sistema di vita alienato, dipendente del tutto da fattori esogeni. Le vediamo troppo lontane da noi. Preferiamo pensare d’essere tutto sommato un sistema senza alternative realistiche, che durerà per un tempo indefinito e che quando scomparirà si porterà con sé l’intera umanità.

Quando pensiamo di aiutare le realtà più povere del mondo, p.es. col commercio equo-solidale o col microcredito, lo facciamo sempre col proposito d’inserirle in un sistema illusorio, che da un momento all’altro potrebbe distruggerle definitivamente. Ci interessa che entrino in questo sistema solo perché il lavoro che impiegano nel costruire determinati manufatti costa pochissimo. Ma non le mettiamo mai in condizione di potersi autogestire senza aver bisogno di un mercato. Noi diamo sussidi, aiuti estemporanei allo scopo di mettere tutti in condizione di dover dipendere da qualcosa che li sovrasta: tutti devono diventare come noi, adoratori del valore di scambio.

Per settant’anni abbiamo creduto che il socialismo reale avrebbe potuto costituire un’alternativa al sistema borghese, pur con tutti gli evidenti limiti di quel modello. Ma oggi solo l’idea di riproporre un “socialismo statale” ci appare pura follia. Lo stesso socialismo cinese, che pur sul piano politico resta autoritario e sul piano culturale alquanto limitato e ideologico (specie nel campo dei diritti umani), sul piano sociale ha preferito accettare la logica del mercato.

Ci vorranno probabilmente ancora alcuni secoli prima di capire che l’unico socialismo possibile, alternativo al capitalismo, è quello precedente alla formazione delle civiltà antagonistiche. Tale forma antichissima di socialismo sussiste nelle regioni più remote del pianeta, in attesa di essere colonizzate da qualche monopolio.

Queste regioni dovremmo tutelarle come si fa con la biodiversità, come si proteggono le specie animali in via di estinzione. Ma lo faremo? Riusciranno queste comunità a far valere il loro diritto a vivere in un mondo che tende a negarglielo? Possono esse sperare che l’esplosione degli antagonismi risulti più doloroso a chi le opprime che non a loro stesse? Ha senso avere questa speranza quando di fatto un qualunque disastro (ambientale, finanziario, bellico…) che avvenga in una qualunque regione del mondo ha ripercussioni sull’intero pianeta, a causa delle strette dipendenze che si sono volute creare?

I momenti migliori per fare le rivoluzioni sono quelli in cui gli antagonismi creano situazioni invivibili, ma sono anche quelli in cui si scatenano gli elementi peggiori dell’umanità, proprio perché l’interesse, quando si è abituati ad agire in maniera individualistica, è sempre superiore alla ragione. Chi detiene il potere non vuole cederlo ed è anzi disposto a tutto. Chi vuole acquisirlo, rischia di comportarsi anche peggio, proprio perché da tempo ci si è disabituati a vivere rapporti umani. Quando scoppiano le crisi e le popolazioni non sono abituate a provvedere a se stesse, essendo schiave dei mercati, l’ira diventa davvero “funesta”.

Fare le rivoluzioni politiche senza prima aver chiaro che del sistema che si vuole abbattere non si può riutilizzare quasi nulla, o almeno non lo si può fare nei modi ch’erano divenuti tradizionali, è un’impresa praticamente impossibile, anche perché, proprio nel momento in cui si preparano le rivoluzioni, si organizzano e materialmente si fanno, non si può in alcuna maniera lavorare per l’autoconsumo, cioè per la vera alternativa. La politica, di per sé, senza l’aiuto della cultura e del sociale, è come un guscio vuoto, che quando cade dall’albero non si sa dove va a finire.

Forse più che compiere delle rivoluzioni, bisognerebbe attrezzarsi per affrontare il peggio, cioè bisognerebbe iniziare da subito a organizzarsi in senso autoconsumistico, ristrutturando quegli ambienti che il capitale considera poco appetibili. Di sicuro però bisognerà prevedere delle opere di tipo difensivo, a tutela del proprio vissuto, poiché là dove non c’è un minimo di sicurezza, non si riesce a costruire nulla.

Prospettive di ricerca

Una divisione del lavoro ha senso quando non esiste divisione tra lavoro e capitale, cioè quando i legami sociali dei produttori sono molto forti, altrimenti essa si trasformerà, inevitabilmente, in una fonte interminabile di soprusi: sfruttamento del lavoro altrui, abuso delle risorse naturali, sovrapproduzione di merci, impiego della scienza e della tecnica per perpetuare l’alienazione dominante (anche quando si pensa di attenuarne gli effetti) ecc.

Nel capitalismo la divisione del lavoro arricchisce pochi a svantaggio dei molti (all’interno di una stessa nazione e fra nazioni diverse). Guardando cosa essa ha prodotto in questa formazione sociale, vien da rimpiangere il Medioevo, in cui dominava l’autonomia del produttore diretto, che era polivalente, cioè indipendente dal mercato per le cose essenziali.

Solo che tale modo di produzione di per sé non può essere sufficiente per costituire un’alternativa efficace al capitalismo. Poteva costituire un’alternativa quando il capitalismo era in fieri, e naturalmente solo a condizione che il sistema dell’autoconsumo fosse in grado di eliminare la piaga del servaggio.

Oggi, perché l’autoconsumo possa costituire un’alternativa, occorrerebbe che il capitalismo subisse un crollo totale per motivi endogeni, ma è dubbio che ciò avvenga in tempi brevi. Il capitalismo si regge sullo sfruttamento del Terzo Mondo: finché le colonie e le neocolonie non si emancipano anche economicamente, il capitalismo non si accorgerà mai di non poter autosussistere.

Quando una formazione sociale si regge sullo sfruttamento del lavoro altrui, si autoriproduce solo fino a quando i lavoratori si lasciano sfruttare: il fatto che ad un certo punto sia nata l’esigenza del colonialismo sta appunto a dimostrare che i lavoratori europei non avevano intenzione di lasciarsi sfruttare in eterno. Ora tale decisione devono prenderla anche i lavoratori del Terzo Mondo, e auguriamoci che, quando la prenderanno, i lavoratori dei Paesi occidentali capiscano che quello sarà il momento buono per realizzare l’internazionalismo proletario contro il capitalismo mondiale.

Va comunque assolutamente escluso che il lavoro polivalente del produttore autonomo possa costituire un’alternativa quando esso viene sottoposto a un qualsivoglia regime di servaggio. “Autonomia” non può solo voler dire “indipendenza dal mercato”, ma deve anche voler dire “libertà” da qualunque forma di schiavitù. Si badi: non da qualunque forma di “dipendenza”, ma da qualunque forma di “dipendenza” in cui esista un “padrone” e un “servo”, una posizione precostituita di dominio e una di subordinazione.

E’ stata un’illusione della borghesia quella di credere che la libertà di un individuo potesse realizzarsi emancipandosi da qualunque dipendenza dal collettivo. Gli uomini devono dipendere dalle leggi che loro stessi, democraticamente, si danno, e devono altresì dipendere da molte leggi della natura, affinché sia salvaguardato l’equilibrio dell’ecosistema.

Se nel Medioevo non ci fosse stato il duro servaggio e l’oppressione culturale del clericalismo, forse il capitalismo non avrebbe trionfato così facilmente. Gli storici, in tal senso, dovrebbero verificare la tesi secondo cui l’edificazione del capitalismo è avvenuta in maniera relativamente facile nell’Europa occidentale, proprio perché qui il servaggio era molto più opprimente che nell’Europa orientale.

Nei confronti del Medioevo il marxismo ha emesso giudizi unilaterali, dettati da una sorta di pregiudizio anticlericale e antirurale. Si è condannato, col servaggio e il clericalismo, anche l’autonomia economica del produttore diretto, cioè il primato del valore d’uso sul valore di scambio, il significato sociale della comunità di villaggio, i concetti di autogestione e autoconsumo, ecc.

Il marxismo si è lasciato abbacinare dal fatto che, con l’impiego della rivoluzione tecnologica e con una forte divisione del lavoro, il capitalismo è riuscito ad aumentare a dismisura le potenzialità delle forze produttive. In effetti in quest’ultimo mezzo millennio l’umanità ha fatto passi da gigante sul piano produttivo e tecnologico.

Tuttavia, molti di questi passi, che si ritengono “in avanti”, sono stati pagati con terribili passi indietro (guerre mondiali, distruzione dell’ecosistema, morte per fame ecc.), al punto che oggi ci si chiede se davvero sia valsa la pena realizzare tanti progressi quando il risultato finale viene considerato soddisfacente solo per un’infima parte dell’umanità. Il marxismo ha avuto due torti fondamentali:

  1. quello di appoggiare un qualunque sviluppo capitalistico contro la rendita feudale, senza preoccuparsi di trovare nel sistema dell’autoconsumo le possibili alternative al servaggio;
  2. quello di tollerare i guasti provocati dal progresso tecno-scientifico, illudendosi di poterli ovviare sostituendo il profitto privato col profitto statale.

Detto altrimenti, lo storico dovrebbe chiedersi se il superamento del servaggio e del clericalismo doveva necessariamente comportare il pagamento di un prezzo così alto, ovvero se la nascita del capitalismo sia stata davvero un evento inevitabile della storia o se invece essa è dipesa dal fatto che nel corso del Medioevo gli uomini non fecero abbastanza per cercare un’alternativa alle contraddizioni antagonistiche del feudalesimo. Il capitalismo è forse diventato inevitabile a causa di questa mancata alternativa?

Se c’era la possibilità di una diversa soluzione, allora dobbiamo rimettere in discussione i giudizi negativi espressi dai teorici liberali e marxisti nei confronti del sistema economico basato sull’autoconsumo. Se vogliamo infatti creare un socialismo veramente democratico, di fronte a noi ci sono due strade (che possono anche essere seguite contemporaneamente, anche se di necessità una dovrà prevalere sull’altra):

  1. l’autoconsumo del produttore diretto, polivalente, che ha bisogno del mercato solo per cose che non può assolutamente produrre o reperire come risorsa naturale (cose di cui, in ultima istanza, può anche far meno per poter vivere). Ciò implica ch’egli sia giuridicamente e politicamente libero, non soggetto ad alcuna coercizione extra-economica. Naturalmente le sue forze produttive saranno sempre limitate (come d’altra parte i suoi bisogni), ma la stabilità di tale metodo produttivo è assicurata, a meno che essa non venga minacciata da catastrofi naturali, nel qual caso dovrebbe farsi valere la solidarietà del collettivo, cui il produttore appartiene. Ovviamente la solidarietà va coltivata per tempo, in quanto essa non può nascere automaticamente; ed è questo in un certo senso il limite di tale sistema produttivo: il produttore diretto tende a rivolgersi alla forza del collettivo solo nel momento del bisogno;
  2. una collettività o una società basata sulla divisione del lavoro, ma in cui l’uguaglianza dei lavoratori sia assicurata dalla democrazia a tutti i livelli. Quanto più è forte la divisione del lavoro, tanto più forti devono essere i legami sociali, poiché chi non rispetta le proprie funzioni incrina tutto l’apparato produttivo. Un sistema di tal genere deve puntare molto sui legami che possono realizzare i valori etico-sociali e culturali.

Ora, considerando il forte individualismo esistente in Europa occidentale (per non parlare degli USA), la seconda soluzione pare la più difficile da realizzare, poiché essa implica una certa maturità socio-culturale o comunque una certa disponibilità interiore a partecipare ai problemi comuni.

Europa occidentale e USA potrebbero adottare il socialismo democratico basato sulla divisione del lavoro, grazie all’aiuto di forze sociali straniere, provenienti da Paesi che conoscono il valore del collettivismo. Tali forze però dovrebbero essere considerate “paritetiche” e non dovrebbero essere numericamente “minoritarie”.

In ogni caso sarà impossibile per l’Occidente conservare gli attuali livelli di produttività, accettando il collettivismo proprio dei Paesi non-capitalistici.