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I classici del marxismo e la Russia

Alla luce del fallimento del cosiddetto “socialismo reale” oggi ci si chiede se non avessero ragione quanti sostenevano che in Russia doveva svilupparsi il sistema capitalistico prima che si potesse pensare a una rivoluzione socialista. Aver voluto fare una rivoluzione socialista in un paese fondamentalmente agrario sembra essere stato un grave errore.

Marx ed Engels avevano sempre detto che se in Russia si fosse passati dal feudalesimo al socialismo agrario, evitando una transizione capitalistica, il tentativo avrebbe potuto avere successo solo a condizione che in Europa occidentale si fosse, nel contempo, compiuta la rivoluzione socialista, in modo che le due rivoluzioni avrebbero potuto sostenersi a vicenda. Non era importante che partisse prima l’una o l’altra; era importante, per i russi, l’appoggio decisivo del proletariato occidentale, altrimenti i governi borghesi avrebbero affossato il loro tentativo.

Come noto, le cose, almeno sotto il leninismo, andarono diversamente; nel senso che Lenin, quando vide il tradimento della II Internazionale durante la guerra mondiale e l’interventismo straniero in Russia dopo la rivoluzione, non particolarmente ostacolato dal proletariato occidentale, si convinse che la Russia avrebbe dovuto farcela da sola e che semmai sarebbe stata l’Europa occidentale a trovare, in virtù di questo esempio, la forza per muoversi per conto proprio.

Morto Lenin, Trotzky pensò che se non si fosse esportata la rivoluzione in Europa, essa col tempo avrebbe avuto il fiato corto, proprio perché la Russia era troppo “contadina” per competere coi paesi europei. Stalin invece era del parere che utilizzando la tecnologia occidentale, imponendo la collettivizzazione forzata di qualunque strumento produttivo e un terrorismo di stato, si poteva costruire il socialismo anche in un solo paese. Vinse la sua linea e il prezzo che la Russia pagò fu enorme, sotto qualunque punto di vista: questo non per dire che se avesse vinto il trotzkismo il prezzo sarebbe stato minore.

Quanto alle idee di Marx ed Engels, esse furono totalmente smentite dallo sviluppo del capitalismo occidentale, proprio in quanto non si comprese che un eccessivo sviluppo di questo sistema economico non avvicina ma allontana il momento della rivoluzione politica, tanto che oggi una transizione al socialismo non è all’ordine del giorno di alcun partito parlamentare occidentale. Il massimo che i partiti di sinistra arrivano a prospettare è un “miglioramento” del sistema attuale, un’attenuazione delle sue contraddizioni attraverso lo strumento dello Stato sociale.

Ciò è tanto più vero quanto più si pensa che all’Europa occidentale non è affatto servito, ai fini di una rivoluzione socialista, che nell’Europa dell’est si fosse sviluppata un’esperienza di “socialismo reale”, per quanto dittatoriale sia stata sotto lo stalinismo e la stagnazione. Semplicemente l’Europa si è lasciata condizionare dal fatto che lo sfruttamento del Terzo mondo le permetteva un tenore di vita relativamente elevato, tale per cui si era in grado di attutire parecchio l’acutezza degli antagonismi sociali e quindi la percezione che se ne poteva avere.

Ora, qual è stato l’errore di fondo dei classici del marxismo che ha indotto a fare previsioni del tutto sbagliate? L’errore di fondo sta nel fatto che Marx, Engels e Lenin (ma anche Trotzky e Stalin) non ritenevano i contadini sufficientemente maturi per fare una rivoluzione socialista. I comunisti non avevano alcun rapporto coi contadini, non solo perché questi erano credenti, ma anche perché non erano urbanizzati. Anzi, il fatto stesso che i contadini fossero convinti di vivere una sorta di “socialismo agrario”, attraverso l’obščina, il mir e l’artel, non li avvicinava affatto – secondo i marxisti – al socialismo scientifico, ma anzi li allontanava.

La polemica di Marx contro Bakunin, di Engels contro Tkačëv e di Lenin contro i populisti lo dimostra eloquentemente. Marx cominciò a nutrire qualche ripensamento solo alla fine della sua vita, quando intrattenne una corrispondenza con Vera Zasulič, e Lenin adottò, per realizzare la rivoluzione, il programma agrario dei socialisti-rivoluzionari, che loro stessi non riuscivano a realizzare essendosi compromessi con le forze borghesi.

Tutti i classici del marxismo han sempre ritenuto indispensabile uno sviluppo della borghesia, non foss’altro che per una ragione: con esso le differenze di classe sarebbero state ridotte al minimo (borghesia e proletariato), sicché l’esigenza di una trasformazione radicale del sistema sarebbe stata inevitabilmente più forte. Volevano l’acuirsi delle contraddizioni perché consideravano questo una premessa indispensabile alla transizione.

Anche Lenin ne era convinto, con la differenza, rispetto agli altri marxisti (p.es. Plechanov), che quello sviluppo in Russia andava considerato già sufficiente per compiere la rivoluzione, nel senso che bastava avere a che fare con un proletariato industriale presente nelle grandi città, in grado di guidare la rivoluzione in tutto il paese. Naturalmente all’interno della categoria di “proletariato” si mettevano gli stessi intellettuali, che avrebbero dato alla classe operaia la vera coscienza rivoluzionaria, altrimenti questa sarebbe rimasta ferma a una coscienza sindacale.

I fatti, in un certo senso, diedero ragione a Lenin, ma solo perché egli riuscì a capire che se non avesse cercato il consenso dei contadini, promettendo la proprietà della terra senza alcuna forma di riscatto o di indennizzo, la rivoluzione sarebbe fallita subito. Lenin era una persona intelligente, flessibile. Non apprezzava i coltivatori diretti perché li equiparava alla piccola-borghesia, ma con la Nep venne incontro alle loro esigenze, anche perché erano stati i contadini che, durante il periodo del comunismo di guerra, avevano permesso al governo sovietico di resistere alla controrivoluzione bianca e straniera.

Ma come si sarebbe comportato Lenin se non fosse morto nel 1924? Certamente non avrebbe avuto nei confronti dei contadini l’odio che ebbe Stalin, e che avrebbe avuto anche Trotzky, se avesse vinto la partita col suo principale rivale. Il terrore staliniano fu così duro che se in Russia non ci fosse stata l’invasione nazista, la rivoluzione sarebbe caduta prima.

Praticamente è stato proprio lo stalinismo a preparare non solo la fine del socialismo, ma anche la ripresa di quel capitalismo che era stato interrotto dai bolscevichi. E questo proprio perché all’interno dello stalinismo non vi è mai stata alcuna possibilità di realizzare una transizione progressiva verso il socialismo democratico. Dalla morte di Stalin all’ascesa di Gorbaciov la Russia ha vissuto complessivamente 30 anni di stagnazione, che è parsa ai comunisti di tutto il mondo non così grave, in quanto si riteneva che, in ogni caso, l’Urss rappresentasse il baluardo più forte contro i tre poli dell’imperialismo mondiale (Usa, Europa occidentale e Giappone), contro la guerra fredda e la minaccia nucleare e contro il neocolonialismo occidentale nel Terzo mondo.

Dall’esterno non si riusciva a percepire l’effettiva gravità di quella stagnazione. L’implosione del 1991 apparve del tutto inaspettata. Eppure, strumentalizzando le riforme di Gorbaciov per eliminare qualunque forma di socialismo, essa, ad un certo punto, fu del tutto inevitabile. L’Occidente non solo non comprese la natura democratica di quelle riforme, ma iniziò a illudersi che la propria democrazia avrebbe definitivamente smesso di credere che, per realizzarsi in maniera adeguata, avesse bisogno delle idee del socialismo.

Bucharin e il destino della Russia

Se non si leggono le opere di Nikolaj Bucharin, è difficile capire perché è fallito il socialismo di stato. Egli infatti esprime la posizione di chi voleva aiutare i contadini, conservando però l’idea di statalizzazione dell’economia (banche, industrie, trasporti, miniere, commercio con l’estero ecc.). Voleva sviluppare l’industria permettendo ai contadini di diventare borghesi. Voleva il capitalismo nelle campagne per ottenere il socialismo di stato nelle città. Iniziò a sostenere queste idee nel 1925 e, nonostante le sue successive rettifiche (in senso peggiorativo per le sorti dei contadini), tredici anni dopo venne fucilato dagli stalinisti.

I comunisti avevano fatto la rivoluzione coi contadini, ricchi e poveri, ma consideravano gli operai la loro punta di diamante: sia perché, non essendo proprietari di nulla, essi non avrebbero potuto imborghesirsi come gli agrari (kulaki); sia perché, militando nel partito bolscevico, non avevano rapporti con la chiesa, per cui erano ideologicamente più affidabili.

Una volta fatta la rivoluzione e superata la guerra civile e l’interventismo straniero, i comunisti non permisero ai contadini di svilupparsi autonomamente, ma solo in funzione degli operai e degli intellettuali, cioè dell’industria di stato e dell’apparato politico-amministrativo.

Ad un certo punto la differenza tra il gruppo di Bucharin e quello di Stalin stava soltanto nel modo di “usare” i contadini. Nessuno dei due gruppi metteva in discussione il “primato dell’industria”: semplicemente un gruppo pensava più a metodi di tipo economico (p.es. permettere ai contadini di arricchirsi, tassarli e concedere credito con banche statali), l’altro invece preferiva metodi di tipo amministrativo (il lavoro rurale va organizzato come quello operaio, essendo la terra un bene statale come le fabbriche).

A nessun bolscevico venne mai in mente di assegnare il primato dell’economia alla campagna (in un paese peraltro dove oltre l’80% dei lavoratori erano rurali), né di far ritornare gli operai alla terra, né, tanto meno, di favorire l’autoconsumo e il valore d’uso, o di potenziare le antiche comunità di villaggio (obscine) o di produrre soltanto quei beni industriali durevoli che venissero considerati assolutamente indispensabili alla riproduzione dei lavoratori e che non fossero lesivi per la tutela ambientale. A nessuno venne in mente di decentrare progressivamente, sul piano locale e regionale, i poteri politici ed economici.

Tutti avevano il terrore che in assenza di una statalizzazione e industrializzazione accelerata dell’economia, di una centralizzazione dei poteri decisionali, non solo sarebbero rinati il capitalismo e l’oscurantismo religioso, ma l’intera Russia sarebbe stata anche sconfitta dalle potenze straniere.

Così facendo però davano l’impressione che la rivoluzione socialista fosse stata un puro e semplice colpo di mano di pochi avventurieri, i quali naturalmente sapevano di non avere forze sufficienti per potersi difendere, alla lunga, dai nemici interni ed esterni.

I comunisti non hanno mai creduto in un consenso spontaneo da parte dei contadini, neppur dopo aver assegnato loro gran parte delle terre requisite ai latifondisti laici ed ecclesiastici.

Stalin subentrò a Bucharin (pur avendolo inizialmente appoggiato) quando ci si accorse che il capitalismo nelle campagne aveva reso i contadini troppo forti, in grado di ricattare non solo gli operai di città, ma tutti gli abitanti urbanizzati e persino il potere politico, la cui sopravvivenza dipendeva appunto dagli approvvigionamenti rurali.

I bolscevichi seppero solo fare la rivoluzione, ma, una volta al potere, fecero un errore dietro l’altro, tanto che, paradossalmente, se non fossero stati attaccati dai nazisti, è da presumere che sarebbero implosi prima. La vittoria, in quella terribile guerra patriottica, permise infatti a tutto il paese di non guardarsi allo specchio, di chiudere gli occhi sulle proprie contraddizioni e di andare avanti sino alla morte naturale di Stalin.

Poi improvvisamente si aprì un occhio in occasione della destalinizzazione politica voluta da Krusciov, e finalmente si aprì anche l’altro con la perestrojka di Gorbaciov, che fece capire il fallimento dell’economia sovietica, basato sull’illusione di far coincidere “pubblico” con “statale”.

In un’economia statalizzata, se non esistono motivazioni particolari – come appunto in caso di conflitti bellici -, si produce al minimo, senza interesse per la qualità e soprattutto si mente sui risultati raggiunti per non ricevere dall’alto ordini sempre più onerosi.

Purtroppo il destino ha voluto che dopo la perestrojka l’autocritica non sia approdata alla costruzione di un socialismo realmente democratico, bensì alla reintroduzione del capitalismo.

In tal senso il destino dei russi appare davvero incredibile: non solo hanno sofferto più degli altri paesi europei quando nel loro paese vigeva il feudalesimo; non solo hanno sofferto, prima di ogni altro paese europeo, i guasti del socialismo da caserma, ma ora, dopo aver capito, guardando noi, quanto si può soffrire sotto il capitalismo, hanno deciso consapevolmente di farci compagnia.