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Il progetto per un mercato africano libero dai dazi

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi **

Domenica 7 luglio, a Niamey in Niger, il vertice straordinario dei capi di Stato dei paesi dell’Unione Africana ha sancito l’inizio della fase attuativa dell’Accordo continentale africano di libero scambio (AfCFTA l’acronimo in inglese) che mira ad abbattere progressivamente tutti i dazi e le altre barriere doganali all’interno dell’intero continente. Esattamente il contrario della politica delle barriere e dei dazi di Trump. E’ un evento di portata epocale, che potrebbe presto incidere sugli assetti geopolitici e geoeconomici mondiali. La visione e lo spirito che muovono l’Accordo hanno radici profonde e prospettive di lungo periodo: il rinascimento dell’Africa e il panafricanismo .

Hanno firmato 54 dei 55 membri dell’Unione africana, fatta eccezione per l’Eritrea per le tensioni con l’Etiopia. Ha sottoscritto anche la Nigeria, che rappresenta il Paese più popoloso e potente dell’Africa. L’AfFCTA darà il contributo più forte per il superamento di 84.000 km di frontiere interne ereditate dal colonialismo. Lo scopo è l’integrazione, senza ridisegnare nuove frontiere.

Eliminando i dazi sul commercio infra-africano, si crea un mercato di 1,2 miliardi di cittadini e di consumatori che potrebbe raddoppiare entro il 2050. Il commercio interno all’Africa rappresenta meno del 15% del totale delle esportazioni. Quello interno all’Unione europea è il 70% del totale e quello infra-asiatico è già del 50%. Perciò si prevede di portare il commercio fra i paesi africani almeno al 25% entro il 2023.

La creazione della Zona di libero scambio e dell’unione doganale è il primo passo di un percorso ben programmato che prevede la realizzazione del mercato comune africano nel 2025 e l’unione monetaria nel 2030. I paesi africani si sono chiaramente ispirati all’esperienza dell’Unione europea, facendo tesoro delle difficoltà e degli errori commessi in Europa. Infatti, hanno messo l’unione monetaria alla fine del percorso.

Indubbiamente si è tenuto conto anche dell’esistenza dei paesi BRICS, che hanno saputo costruire nuove alleanze e istituzioni indipendenti, capaci di giocare un ruolo incisivo sullo scacchiere economico e politico globale.

E’ un disegno ambizioso. L’Italia e l’Unione europea non possono limitarsi a guardare per vedere se l’Africa riuscirà o no a realizzarlo. Sarebbe grave, a nostro avviso, se ci si soffermasse a valutare i comportamenti presenti e passati dei governi e delle leadership africane. C’è un Grand Design da realizzare. E’ una sfida anche per la cooperazione internazionale ed europea. Il tutto inizia, nel maggio 2013 ad Addis Abeba in occasione della celebrazione del cinquantesimo anniversario dell’Organizzazione dell’Unione Africana, quando si definì il programma Agenda 2063per “un’Africa integrata, prospera e pacifica guidata dai suoi stessi cittadini e che rappresenta una forza dinamica sulla scena internazionale”.

L’Agenda 2063 dettaglia, infatti, una serie d’iniziative da realizzare in tutti i campi per trasformare l’Africa in un moderno continente sovrano, che prenda in mano il proprio destino. In primo luogo vi è la realizzazione di una rete integrata continentale di treni ad alta velocità. Le infrastrutture occupano un posto prioritario nella lista dei progetti, come già evidenziato nel Piano di Sviluppo delle Infrastrutture in Africa (PIDA). Senza infrastrutture stradali, ferroviarie, fluviali, portuali, aeroportuali, energetiche e della comunicazione, la Zona di libero scambio resterebbe una scatola “paralizzata” che bloccherebbe qualsiasi piano di sviluppo industriale, economico e civile.

Si prevede la formulazione di una “strategia africana sulle commodity” per rendere il continente più forte nella definizione dei contratti di sfruttamento delle materie prime con i partner internazionali, per evitare che rimanga solo una grande miniera a cielo aperto e un semplice fornitore di minerali per il resto del mondo. L’Africa legittimamente vuole promuovere l’industrializzazione e la creazione di manifatture per garantire lavoro e reddito per i propri cittadini.

L’Africa, purtroppo, finora è stata oggetto di un crescente land grabbing: vasti territori accaparrati da grandi interessi privati, da società internazionali e anche da altri Stati. Il fine è lo sfruttamento agricolo e minerario intensivo per fornire prodotti per destinazioni fuori dal continente africano. Spesso la mano d’opera locale è sfruttata al massimo e pagata al minimo, minando anche il tessuto sociale tradizionale, stravolgendo l’ambiente e lasciando, poi,sacche di povertà e di abbandono.

Purtroppo, com’è noto, la regione sub-sahariana è il bersaglio principale di tali spregiudicate operazioni, che si giovano anche della corruzione di potentati locali e dell’ignoranza di molti. Si stima che, di tutti i territori acquisiti attraverso il land grabbing a livello mondiale, oltre il 40% sia in questa regione. Per esempio, una ricerca di alcuni anni fa quantificava l’acquisizione di terreni nella sola Repubblica Democratica del Congo in 7,2 milioni di ettari. Un terzo dell’Italia!

Su 10 paesi dell’Africa sub-sahariana 9 sono “ dipendenti dalle commodity”, perché oltre il 60% di tutto il loro export è dato dalle commodity. Ed è una tendenza in crescita anche a livello globale. La Banca Mondiale conferma, infatti, l’aumento del rapporto debito/export nella regione sub-sahariana che è passato dal 65% del 2011 al 136% del 2017.

L’Agenda 2063 è ricca di altri progetti relativi alle nuove tecnologie, alla finanza e anche alla ricerca spaziale. Fondamentale è la previsione di costruire un “grande museo africano” per promuovere la cultura africana in linea con gli ideali del pan-africanismo. Si vuole preservare il patrimonio culturale, stimolare gli africani a scrivere la vera storia dell’Africa e mostrare la sua influenza artistica, scientifica e letteraria sulle varie culture del mondo.

Il summit di Niamey ha dovuto comunque riconoscere che l’impegno assunto nel 2013 di far tacere tutte le armi entro il 2020 non è stato ancora realizzato.

La pacificazione e il superamento degli attuali conflitti in alcuni paesi sono, però, la condizione per l’effettiva operatività della Zona continentale africana di libero scambio senza dazi e barriere. E’ una grande sfida. Così come lo è il superamento delle frontiere e l’emissione di un unico passaporto africano per il libero movimento delle persone, che dovrebbe essere operante già dal prossimo anno.

*già sottosegretario all’Economia **economista

 

Il boomerang cinese di Trump: nasce un sistema monetario parallelo in yuan?

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

A ogni azione di solito corrisponde una reazione che, a volte, sorprende chi ha iniziato il contenzioso. E’ il caso della politica dei dazi e delle sanzioni di Trump: stanno determinando le condizioni per la nascita di un sistema monetario parallelo basato sullo yuan cinese utilizzabile sia per gli scambi commerciali sia come riserva monetaria. Soprattutto in Asia. Anche le sanzioni americane nei confronti di chi importa petrolio dall’Iran, di fatto, spigono in tale direzione. La Cina è il principale importatore di energia dall’Iran e continuerà a farlo. Il problema, di conseguenza, sorgerà al momento del pagamento in dollari.

Ogni anno la Cina importa dal resto del mondo petrolio per 250 miliardi di dollari e altri 150 miliardi di merci, quali l‘acciaio, il rame, il carbone e la soia. Tutte queste commodity finora sono valutate e commerciate in campo internazionale in dollari. Perciò anche la Cina li deve pagare con la valuta americana. Ciò dà alle autorità Usa un ampio margine di “manovra” su cosa la Cina compra e da chi. In verità, negli anni passati gli Usa non hanno mai nascosto l’intenzione e la capacità di usare questa leva per condizionare certi sviluppi in un’ottica geopolitica e geoeconomica.

Ad esempio, hanno imposto delle forti sanzioni pecuniarie contro alcune banche non americane, come la Standard Chartered inglese e la BNP Parisbas francese, per aver fatto in passato delle operazioni finanziarie in dollari con le controparti iraniane, anche se le suddette banche non avevano violato alcuna regola dei Paesi in cui gli accordi erano stati stipulati. Lo stesso potrebbe oggi succedere per quelle banche, cinesi oppure no, che dovessero giocare un ruolo nei pagamenti in dollari per saldare contratti d’importazione del petrolio iraniano. Pensare di costringere gli importatori di petrolio iraniano, tra cui la Cina, il Giappone, l’India e la Corea del Sud, a cambiare il Paese di rifornimento, ad esempio approvvigionandosi dall’Arabia Saudita, alleata di Washington, potrebbe rivelarsi un grave errore di calcolo.

 Di fronte a questa situazione sta emergendo una serie di nuovi strumenti valutari internazionali alternativi al dollaro. Da un po’ di tempo Pechino lavora in questa direzione e si prevede per lo yuan un ruolo centrale.

 Prima di tutto, per incoraggiare l’utilizzo della sua valuta nazionale nei commerci, il governo cinese sta agevolando l’accesso ai finanziamenti in yuan attraverso organismi offshore con base a Hong Kong. In secondo luogo, per convincere chi esporta petrolio in Cina ad accettare pagamenti in yuan, Pechino intende dimostrare che i Paesi produttori potrebbero utilizzare gli yuan non solo per l’acquisto di beni cinesi. Pechino, perciò, programma di offrire prodotti finanziari con un valore sicuro e stabile, facilmente monetizzabili, che potrebbero in futuro diventare, addirittura, un’alternativa ai bond del Tesoro americano.

La Cina sta offrendo contratti future sul petrolio e sull’oro che, tra l’altro, permetterebbero agli interessati di creare una garanzia sul prezzo del petrolio ma anche di poterli convertire in oro.

Il processo sembra lento ma è irreversibile. La Cina ha già convinto il Qatar ad accettare lo yuan per il pagamento di parte delle sue esportazioni di petrolio. Inoltre, come conseguenza dell’importante accordo pluriennale di acquisto di petrolio e gas russo per 400 miliardi di dollari da parte della Cina, lo scorso anno Mosca ha cambiato l’equivalente di 50 miliardi di dollari delle sue riserve monetarie  in yuan.

Pechino ha già siglato accordi di swap monetari con più di 30 Paesi, tra cui il Giappone e la Russia, che permettono di utilizzare per i commerci lo yuan, bypassando il dollaro. Si ricordi, ad esempio, che molti progetti di cooperazione tra Brasile e Cina sono già finanziati e regolati in yuan.

Proprio alla vigilia del G20 Russia e Cina hanno sottoscritto un accordo per l’utilizzo di strumenti finanziari in rubli e in yuan fino a coprire nei prossimi anni il 50% di tutti i loro commerci bilaterali. E’ da notare che allo stesso tempo i due paesi stanno espandendo enormemente le loro riserve in oro.

La stessa realizzazione della “Belt and Road Initiative, la Nuova Via della Seta, e il ruolo di finanziamento dell’ Asian Infrastucture Investment Bank (AIIB), serviranno per l’internazionalizzazione dello yuan. Molti progetti infrastrutturali con i paesi asiatici coinvolti sono già stipulati nella valuta cinese.

Al riguardo è molto interessante la lettura dell’ultimo bollettino della Banca Mondiale sull’economia dei paesi dell’Africa sub-sahariana, dove la presenza e la cooperazione della Cina è visibilmente molto elevata. La composizione per valuta dell’intero ammontare del debito pubblico e privato di quella regione sarebbe così suddivisa: soltanto il 5,7% in euro, il 62,4% in dollari e il 25% in altre monete. E in quest’ultima categoria lo yuan occupa la parte preponderante.

I suddetti processi di portata globale avranno inevitabilmente effetti anche sull’Europa, che è chiamata a giocare un ruolo attivo e non subalterno ad altri interessi.

*già sottosegretario all’Economia **economista

 

I giochi pericolosi della guerra dei dazi

 

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

L’ha detto recentemente anche Mario Draghi, il presidente della Banca centrale europea:“Nel protezionismo i mercati sembrano vedere molto di più che un danno all’economia. Potrebbero vederci un fenomeno molto più ampio che mette in dubbio l’intero ordine multilaterale raggiunto dopo la seconda guerra mondiale. Le incertezze sui dazi sono aumentate“. Il rischio, poi, è che la guerra dei dazi possa degenerare in guerra delle valute.

Le altalenanti minacce americane “dazi si-dazi no”, le ritorsioni, le sospensioni condizionate hanno creato l’instabilità che l’intero sistema economico mondiale sta pagando. Finora non ci ha guadagnato nessuno, non gli Usa, non la Cina e tanto meno l’Europa.

L’Europa e, di conseguenza, anche l’Italia ci rimettono più di tutti.

Direttamente, quando i dazi sono imposti sui settori agroalimentari e dell’auto. Giustamente la Coldiretti teme che la “black list” americana colpisca pesantemente i prodotti agroalimentari del made in Italy che sono esportati fuori dai confini comunitari per ben 4,2 miliardi di euro.

Dopo i settori dell’acciaio e dell’alluminio, il bersaglio numero uno dei dazi americani è quello dell’auto, in particolare le imprese automobilistiche tedesche. La Germania, com’è noto, esporta negli Usa auto per 42 miliardi di dollari. Il che significa un duro colpo anche per le imprese italiane della componentistica i cui prodotti sono esportati in Germania. La Germania, si ricordi, è il primo partner commerciale mondiale dell’Italia.

Poi indirettamente, poiché i dazi imposti alla Cina o al Messico colpiscono soprattutto prodotti altamente tecnologici, di cui molte parti provengono dall’Europa.

Inoltre, un’importante area di scontro è quella dell’aviazione civile, tra la Boeing americana e l’Airbus europea. Washington si lamenta dei sussidi erogati dall’Unione europea, dimenticandosi che tutti i suoi settori tecnologicamente importanti, militari e civili, godono da sempre di sostanziosi sostegni statali. Trump ha avuto l’ardire di portare la controversia persino davanti all’Organizzazione del Commercio Mondiale, la stessa istituzione che quotidianamente boicotta. 

I dazi nei confronti della Cina, inizialmente del 10%, poi aumentate al 20%, su 200 miliardi di dollari di prodotti cinesi, potrebbero vedere una pericolosa escalation con dazi del 25% su altri 325 miliardi. Pechino ha annunciato le sue ritorsioni su 60 miliardi di dollari di prodotti americani. Per esempio, sulle importazioni di soia, che finora coprivano il 60% della produzione americana.

Una delle aree di scontro più pericoloso verte intorno alle tecnologie informatiche, considerate di rischio per la sicurezza nazionale americana. Di conseguenza Trump si è mosso per il blocco verso l’azienda cinese Huawei e altre imprese simili. Come risposta, Pechino ha fatto subito sapere di voler sfruttare la sua posizione di principale esportatore mondiale di materiali delle cosiddette “terre rare” utilizzati per le tecnologie avanzate.

Si tenga inoltre presente che la Cina possiede obbligazioni del Tesoro americano per più di mille miliardi di dollari.

Anche la minaccia di Trump di applicare il 5% di dazi su tutti i beni importati dal Messico, per poi alzarli fino al 25%, andrebbe a colpire, tra l’altro, i settori delle automobili, dei mezzi di locomozione e dei televisori, dove la componentistica europea è molto rilevante.

Il Messico è il terzo partner commerciale degli Usa con circa 265 miliardi di dollari di esportazioni di merci. Negli anni passati molti produttori americani vi hanno trasferito le loro fabbriche per sfruttare il basso costo della mano d’opera. Gli effetti dei dazi non penalizzeranno solo gli esportatori messicani ma anche gli importatori americani, che, poi, aumenteranno ovviamente i prezzi per i consumatori finali.

Poiché la questione è il blocco dei flussi immigratori, la guerra dei dazi diventa immediatamente una guerra sociale con conseguente destabilizzazione politica. Trump, però, non può ignorare che la questione immigrazione ha ragioni economiche e sociali profonde e dimensioni epocali.  

Recentemente gli Usa hanno tolto anche l’India e la Turchia dalla lista dei partner commerciali privilegiati, costringendo persino Nuova Delhi, da sempre amica di Washington, a reagire con delle contromisure commerciali.

In America, comunque, cresce l’opposizione contro la politica dei dazi e c’è la campagna “Tariffs hurt the heartland”, sostenuta da 150 organizzazioni di vari settori produttivi, che lamenta come i dazi colpiscano il cuore del paese e rischino di generare la perdita di 2 milioni di posti di lavoro.

Non sfugge che l’intento di Trump sia di colpire l’Unione europea. A Londra ha esplicitamente invitato la Gran Bretagna a uscire dall’Ue e le ha offerto accordi commerciali superprivilegiati. E’ un atteggiamento che va ben oltre l’attitudine di Trump!

E’ chiaro, tuttavia, che sono in gioco le strategie della grande finanza e i corposi interessi geopolitici di quel sistema che si chiama, fin dai tempi del presidente Eisenhower, “il complesso militare industriale americano”.

Pur mantenendo strette relazioni con gli Usa, il nostro alleato storico, l’Ue dovrebbe sfidare certi disegni dell’unilateralismo di oltre Atlantico. Potrebbe, invece, diventare il perno principale per la creazione di un nuovo sistema monetario internazionale basato su un paniere delle monete più importanti e non soltanto sul dollaro. Così potrebbe svolgere un’importante funzione di equilibrio geoeconomico e geopolitico tra gli attuali grandi attori internazionali.

*già sottosegretario all’Economia **economista

 

LE BRUTTE CONSEGUENZE DELLA GUERRA DEI DAZI VOLUTA DA TRUMP

Mario Lettieri*  Paolo Raimondi **

E’ un grave errore cercare di semplificare le grandi questioni internazionali, quali quelle economiche, finanziarie, commerciali o quelle riguardanti i flussi migratori. Spesso si pensa che isolare una questione importante dal resto renda più facile affrontarla. Purtroppo non è così. Si vorrebbe che le cose fossero semplici e poco complicate e quindi risolvibili. Invece spesso sono complesse, intrecciate con altre, tanto da esigere approfondite e multiple analisi.  

Lo è senz’altro il caso delle guerre commerciali in corso. Trump e altri credono che, aumentando i dazi sui prodotti importati dalla Cina e dall’Unione europea, l’industria e l’occupazione americane ne gioverebbero, incidendo positivamente anche sulla bilancia dei pagamenti degli Usa.

In verità il commercio americano è da decenni fortemente squilibrato. Di certo non per comportamenti truffaldini dei partner ma per le decisioni interne che hanno favorito, ad esempio, l’outsoursing. Ciò ha determinato lo spostamento di molte imprese americane verso mercati poco regolamentati e a bassissimo costo del lavoro.

Le multinazionali e le banche Usa hanno sfruttato questo sistema facendo profitti straordinari ed evitando di pagare le tasse dovute. Non è quindi sorprendente sapere che il deficit della bilancia commerciale da decenni è ogni anno di centinaia di miliardi di dollari. Così dicasi per il bilancio statale. Nel 2017, ad esempio, il deficit commerciale è stato di 568 miliardi di dollari (811 miliardi, se si considerano solo le merci senza i servizi) e, a sua volta, il deficit del bilancio federale ha raggiunto i 665 miliardi.

La guerra commerciale non produrrà soltanto ritorsioni da parte dei paesi colpiti dai dazi. C’è già un’escalation di per sé foriera di gravissime instabilità. Essa rischia di mettere in moto effetti destabilizzanti anche sui mercati delle monete e su quelli finanziari.

Pertanto, di conseguenza, la Banca nazionale cinese ha deciso di emettere 700 miliardi di yuan sul mercato, pari a oltre 100 miliardi di dollari, con l’evidente intento di svalutare la propria moneta.

Si tratta di una contromisura per contenere i danni provocati dalle misure protezionistiche Usa. Con il deprezzamento dell’yuan, gli esportatori cinesi livellerebbero così l’aumento dei dazi americani d’importazione, mantenendo in un certo senso i loro guadagni ai livelli precedenti alle decisioni Usa.

Internamente alla Cina il deprezzamento della moneta non avrebbe grandi effetti negativi. Soltanto le sue importazioni diventerebbero più costose. Ma la Cina da quasi 10 anni ha cambiato la rotta della sua economia, sviluppando di più il mercato interno. I dazi, pertanto, possono diventare un ulteriore stimolo a sviluppare i settori industriali colpiti.

Si tenga conto, inoltre, che la Cina da qualche tempo promuove accordi commerciali in yuan, soprattutto con molti paesi emergenti, bypassando così la mediazione del dollaro.

Per il suo sistema politico, economico e monetario e per le storiche alleanze internazionali, l’Unione europea, purtroppo, non può adottare decisioni simili. Anche se Washington starebbe per imporre una tassa del 20% su 1,3 milioni di veicoli importati dall’Europa, di cui più della metà dalla Germania.

Quanto intrapreso in Cina, anche se in modi differenti per intensità e settori, com’era prevedibile, è avvenuto anche in Russia soprattutto per effetto dell’isolamento commerciale provocato dalle sanzioni.

Sul fronte finanziario, una delle conseguenze determinata dall’instabilità, a seguito dell’aumento del debito globale e delle minacce di guerre commerciali, è stata la crescita della bolla dei credit default swap (cds). I derivati usati per le cosiddette coperture del rischio d’insolvenza. Essi  misurano anche le fibrillazioni emerse a Wall Street dove Standard& Poors’ 500 (l’indice delle maggiori imprese americane), dal picco di gennaio a oggi, ha perso il 5%.  

Secondo varie analisi, anche dell’ultimo rapporto trimestrale della Banca dei Regolamenti Internazionali, il volume dei cds è di circa diecimila miliardi di dollari. Certo ancora lontano dai livelli del 2007, ma già preoccupante in previsione delle insolvenze del debito delle imprese e di altre categorie private.

E’ appena il caso di sottolineare che oggi quattro banche americane (Citigroup, Bank of America, JP Morgan Chase e Goldman Sachs) gestiscono il 90% del commercio mondiale dei cds!

Ancora una volta le autorità di controllo purtroppo stanno a guardare mentre la bolla cresce.

Il commercio e i mercati non hanno bisogno di dazi ma di regole che valgano per tutti.

*già sottosegretario all’Economia **economista

 

 

 

 

 

 

Con Trump non solo rischi di guerre militari, ma anche di guerre commerciali: a danno soprattutto dell’Europa, Italia compresa

Ritorna lo spettro del protezionismo e della guerra commerciale?

Mario Lettieri*  Paolo Raimondi**

Mentre si aspetta ancora di conoscere come intende realizzare il suo annunciato piano di investimenti di mille miliardi di dollari per le infrastrutture, Trump ha dato inizio alla sua politica protezionista dell’ “America First “che rischia di sconvolgere l’intero sistema commerciale mondiale.

Ha già firmato due decreti esecutivi per rivedere la politica commerciale finora attuata e osteggiare i partner responsabili degli enormi deficit. Come è noto, nel 2016 il deficit è stato di 500 miliardi di dollari.

Preoccupante, in verità, è la parte relativa ai settori manifatturieri che ammonta a oltre 750 miliardi, di cui 347 nei confronti della Cina! E’ stato un trend decennale. Ovviamente ciò ha inciso non poco sui livelli occupazionali. Secondo l’Ufficio di statistica dal 2001 si sarebbero persi ben sei milioni di posti di lavoro nelle sole attività manifatturiere. 

 Secondo Trump il deficit con Cina, Giappone, Messico ed Europa  è provocato dal fatto che questi Paesi hanno approfittato della disponibilità  degli Stati Uniti. Perciò propone nuovi dazi e tariffe.

Le misure protezionistiche, combinate con la promozione delle produzioni nazionali e del consumo del “made in Usa”, sono una questione estremamente complessa. Una cosa è operare attraverso il  sostegno agli investimenti, un’altra è l’imposizione di dazi verso il resto del mondo.

Probabilmente una certa forma di protezionismo potrebbe temporaneamente essere accettabile per l’economia di un Paese in via di sviluppo. Ma gli Stati Uniti d’America e il dollaro, invece, a livello mondiale rappresentano l’economia e la moneta dominanti in grado di determinare ogni rapporto commerciale e monetario. Perciò i dazi potrebbero scatenare una guerra commerciale.

Secondo Wilbur Ross, il nuovo segretario per il Commercio, saremmo “già in una guerra commerciale” e con un’immagine militaristica ha aggiunto: “Lo siamo stati per decenni. La sola differenza è che i nostri soldati stanno finalmente arrivando al bastione. Non abbiamo un deficit commerciale per caso”.

Intanto Trump ha stracciato i due trattati commerciali, quello con il Pacifico e quello con l’Unione europea, anziché cercare un condiviso modus operandi.

E’ il caso di ricordare che il deficit commerciale americano ha origini lontane. Comincia nel 1975, quando la Cina era ancora un Paese agricolo del terzo mondo, con poche manifatture e senza export. Negli Usa allora c’era la spinta verso la progressiva finanziarizzazione dell’economia nel contesto del processo di globalizzazione. Invece di sviluppare le attività manifatturiere e le nuove tecnologie, nei settori dell’energia, ad esempio, si preferì importare petrolio dai grandi produttori, quali l’Arabia Saudita. 

L’accordo di libero scambio del Nafta con il Messico e il Canada del 1994 fu promosso dalle grandi industrie e dalle banche americane che preferivano de localizzare le loro produzioni industriali nelle terribili maquilladoras messicane, città di confine dove si produceva a prezzi stracciati, sfruttando al massimo il lavoro quasi schiavistico e per niente sindacalizzato. Successivamente un processo simile è stato avviato anche con la Cina, che si è assunta l’impegno di acquistare i titoli di stato americani emessi per sostenere i deficit commerciali di Washington. Ancora oggi Pechino detiene oltre mille miliardi di dollari di Treasury bond.

La storia insegna che, in un mondo globalizzato, la politica protezionistica provoca effetti negativi anche per il Paese che la inizia.

Così avvenne dopo il crac borsistico del’29, quando gli Usa approvarono la legge Smoot-Hawley Tariff  che impose misure e dazi protezionistici alle importazioni di prodotti esteri, accelerando la Grande Depressione.

Di conseguenza dal 1929 al 1933 il commercio mondiale si ridusse di due terzi, da 5,3 a 1,8 miliardi di dollari.

Le prospettive, quindi, sono piuttosto preoccupanti, per l’Europa e per l’Italia. L’Amministrazione di Washington sembra voglia già imporre dazi su alcuni prodotti europei, dagli scooter Vespa all’acqua minerale San Pellegrino e Perrier, fino ai formaggi più noti, ecc. 

La Cina, essendo un colosso economico e politico, è in grado di trovare i necessari accomodamenti commerciali con gli Usa. Ma l’Europa, divisa e senza una vera politica economica unitaria, è purtroppo assai debole rispetto alle scelte e alle imposizioni americane. E rischia di pagare il conto più salato.

*già sottosegretario all’Economia  **economista

L’ECONOMIA E LA FINANZA SECONDO TRUMP, CHE VUOLE COLPIRE DURAMENTE LA CINA

Economia e finanza: i test chiave dell’amministrazione Trump

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Alla fine, anche se dopo il gran botto, tutti, dagli analisti più blasonati fino al più sprovveduto sondaggista, hanno dovuto riconoscere che Donald Trump ha vinto perché ha affrontato di petto i problemi economici e occupazionali che affliggono la stragrande maggioranza degli americani. Di coloro che lavorano per vivere, di quei cittadini che negli Stati Uniti chiamano la “middle class”. Anche in Italia nessun media aveva capito che questa America non era preoccupata primariamente per l’immigrazione, la politica estera, le guerre o il terrorismo bensì per il proprio livello di vita.

In tutti i suoi discorsi Trump ha ripetuto che “oggi, 92 milioni di americani sono ai margini, fuori dalla forza lavoro, non sono parte della nostra economia. E’ la nazione silenziosa degli americani disoccupati.”. Se molti votanti vi hanno creduto, allora vuol dire che le statistiche ufficiali, che osannavano la grande ripresa con milioni di nuovi posti di lavoro, non riflettevano la verità, la situazione reale.

E’ quindi proprio sul fronte dell’economia che la polemica di Trump contro l’establishment ha fatto presa e ha coagulato il voto di protesta. Adesso si dovrà vedere quanto delle tante promesse fatte in campagna elettorale egli sarà capace di mantenere.

Nel suo discorso della vittoria ha ribadito l’intenzione di voler “investire almeno 1.000 miliardi di dollari nelle infrastrutture”. Prevede investimenti addirittura per 50.000 miliardi di dollari nei settori dell’energia. I tassi di interesse non saranno in futuro così bassi come quelli odierni, ha detto, per cui oggi è il momento migliore anche per fare nuovi debiti per costruire nuovi aeroporti, ponti, autostrade, treni veloci, ecc. E ha aggiunto che intende usare la leva del credito, che lui ama molto, per moltiplicare le disponibilità finanziarie necessarie.

Al riguardo è però opportuno ricordare che ad agosto alcuni banchieri d’assalto avevano già avanzato la proposta di creare proprio una banca per le infrastrutture per mille miliardi di dollari. Come sempre occorrerà vedere chi sarà alla testa di una simile operazione e sulla base di quali principi economici verrebbe realizzata.

Questa politica di investimenti dovrebbe essere parte di una serie di iniziative miranti a creare 25 milioni di nuovi posti di lavoro in 10 anni, mantenendo un tasso di crescita annuo del 3,5%. Per sostenere un tale progetto, Trump ha aggiunto di volere ridurre al 15% la pressione fiscale delle imprese, che attualmente negli Usa è del 35%.

Per passare dai numeri ai fatti la strada si farà difficile e complicata, soprattutto se dovesse pensare che si possano ottenere simili risultati lasciando che i mercati operino da soli, senza alcuna guida o correzione. In questo, il nuovo presidente crede, forse per troppa convinzione ideologica liberista, che una diminuzione delle tasse porti automaticamente a più posti di lavoro. Nei passati anni molti desiderati automatismi economici e monetari si sono rivelati delle pure illusioni sia negli Usa che in Europa.

Trump riconosce che il deficit commerciale annuale americano di 800 miliardi di dollari nei confronti del resto del mondo non è più sostenibile. Vuole rinegoziare gli accordi commerciali con il Messico e il Canada e cancellare quello con i Paesi del Pacifico. Per il neo presidente la Cina è il principale ‘nemico’ economico che manipola, con le svalutazioni, la propria moneta, per cui essa dovrà essere fatta oggetto di sanzioni e dazi. Per Trump si tratta di politiche che penalizzano l’occupazione negli Usa. Al di là di certi slogan protezionistici, sarà certamente una prova molto complessa quella di bilanciare la ripresa occupazionale interna con la stabilità delle relazioni commerciali internazionali.

E’ importante che in campagna elettorale, copiando un intervento del democratico Bernie Sanders, Trump abbia posto al centro del dibattito l’idea di reintrodurre la Glass-Steagall Act per la separazione bancaria. Si tratta della legge voluta nel 1933 da Roosevelt per mettere un freno alla speculazione finanziaria fatta dalle banche con i soldi dei risparmiatori. Purtroppo fu proprio Bill Clinton nel 1998 a cancellarla, aprendo così la strada allo tsunami speculativo fatto di derivati finanziari e di altri titoli tossici che hanno portato alla grande crisi bancaria del 2008 e alla susseguente depressione economica mondiale.

Al riguardo Trump, sempre imitando Sanders, ha denunciato la cosiddetta riforma Dodd-Frank del sistema finanziario americano come “un disastro che penalizza i piccoli imprenditori e i loro tentativi di accedere al credito” . Secondo lui un principio di giustizia più equa vuole che anche Wall Street sia sottoposta a regole stringenti.

Nel campo economico e finanziario di carne al fuoco ne ha messo tantissima. Occorrerà aspettare per vedere. Ma nemmeno troppo a lungo. Si potranno già capire le reali politiche dell’amministrazione Trump quando nominerà i ministri chiave. Se, per esempio, al Tesoro dovesse andare un banchiere, sia esso della Goldman Sachs o della JP Morgan di cui tanto si parla, allora sarà chiaro che alle tante parole e alle tante promesse, difficilmente seguiranno fatti nuovi.

Comunque è troppo presto per avere certezze. Le incognite non sono poche. Abbiamo il dovere di verificare prima di dare giudizi definitivi. Per il momento vi sono le parole. A noi corre l’obbligo di ricordare che tra il dire e il fare molto spesso c’è di mezzo il mare.

*già sottosegretario all’Economia **economista