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AGENZIE DI RATING, MERCATI E STABILITÀ FINANZIARIA.

Il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco nel meeting di primavera del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, tenutosi per via telematica, ha affermato che senza liquidità e sostegno alle imprese, alle famiglie e ai lavoratori, il mondo rischia un default di massa. Non solo l’Italia, quindi. E ha aggiunto che “poiché la crisi è globale, la risposta deve essere globale”. E’ necessario, perciò, preservare la “funzionalità dei mercati finanziari e la stabilità del sistema finanziario”.

Non è la prima volta che le istituzioni italiane e i loro massimi rappresentanti si distinguono per chiarezza e lungimiranza in contesti e incontri internazionali. La puntualizzazione sull’aspetto finanziario merita, però, qualche riflessione aggiuntiva. Non per sminuire la gravità della situazione economica italiana, ma per meglio contestualizzarla nella ben più complessa e difficile situazione globale.

Per prima cosa intendiamo evidenziare l’importanza e le rilevanti ripercussioni della decisione della Banca centrale europea di “mettere fuori gioco” le agenzie di rating. Fino a qualche giorno prima, la Bce, sulla base di un singolare regolamento, accettava in garanzia da parte degli Stati membri soltanto titoli e obbligazioni con la pagella della tripla A  fornita dalle agenzie di rating. Oggi la Bce si è “liberata” da questo obbligo e intende acquistare qualsiasi titolo pubblico, anche quelli sotto il rating BBB-, cioè “junk”, i cosiddetti titoli spazzatura. La mossa ha, tra l’altro, neutralizzato le solite superficiali valutazioni di rating nei confronti dell’Italia e di altri Paesi. Rating che solitamente abbassano la fiducia nei titoli dei debiti pubblici e che fanno aumentare i tassi di interesse da pagare. Ci auguriamo che questa decisione della Bce non valga solo fino a settembre 2021 ma che sia definitiva e che metta dette agenzie fuori dalla porta.

Si tenga presente che le tre sorelle del rating, Standard& Poor’s, Moody’s e Fitch, da anni non hanno più voce in capitolo negli Usa. Non si permettono più di esternare valutazioni critiche sui titoli di stato americani. Già ci fu un sonoro ceffone da Obama, adesso Trump sicuramente le “deporterebbe su un’isola deserta”, se osassero commentare negativamente l’andamento dell’economia americana. In Italia e in Europa, purtroppo, sono ancora le benvenute.

Forse è sfuggito agli autorevoli commentatori italiani il film-documentario “Inside Job” recentemente trasmesso nel programma “Atlantide” de La7. Esso evidenzia in modo efficace le storture finanziarie sistemiche, le perversioni della speculazione, il ruolo dei derivati e l’interessata complicità delle agenzie di rating nel provocare la Grande Crisi del 2008. Il documentario è basato sui dati raccolti dalla Commissione del Senato americano: “Wall Street and the financial crisis: Anatomy of a financial collapse”. Fonte, tra le più autorevoli, spesso citata nei nostri articoli.

Un’altra riflessione merita di essere fatta sul ruolo presente e futuro del mercato. Si pensi al petrolio e ai suoi andamenti di borsa. Nei giorni passati si è assistito, attoniti e in silenzio, a un fatto storico gravissimo e senza precedenti: i contratti future sul petrolio venduti a un prezzo negativo! Il che significa che chi vendeva petrolio ha dovuto pagare per farlo comprare. Il petrolio pompato sarebbe stato così tanto che, sia per gli altissimi costi di stoccaggio sia per la mancanza di spazio per conservarlo, le compagnie petrolifere hanno o avrebbero dovuto pagare i loro clienti per prenderlo. Pura pazzia. Frutto di speculazioni finanziarie e di irresponsabili “giochi geopolitici globali” in un momento economicamente già molto pericoloso.

Occorre sapere che la stragrande maggioranza dei contratti future sono solo virtuali e speculativi, non prevedono cioè alcuna vera compravendita di greggio o di altre materie prime o di generi alimentari e, quindi, nessun loro passaggio fisico dal venditore al compratore. E’ evidente che non c’è alcun vantaggio per l’economia e neanche per la formazione del cosiddetto giusto prezzo di mercato.

La crisi odierna, per fortuna, sta facendo apprezzare il ruolo dell’economia reale e dello Stato. Non servono perciò straordinarie e complicate regole. Basterebbe imporne una: chi va sul mercato per qualsiasi business deve impegnarsi a portarlo a termine fisicamente. I veri operatori si comportano così. Per scoraggiare gli altri, cioè coloro che, invece, intendono soltanto lucrare sulla differenza di prezzo, dovrebbe essere loro imposto un significativo deposito di garanzia.

Lo stesso, ovviamente, dovrebbe essere fatto per tutte le operazioni finanziarie allo scoperto. Per esempio, vendere virtualmente un titolo qualsiasi per poi ricomprarlo a una certa scadenza, o viceversa. La finanza speculativa ha sempre giustificato simili operazioni come il toccasana dell’equilibrio di mercato. Non è così. La pandemia e il conseguentelockdown produttivo ci hanno insegnato empiricamente che contano le produzioni, i beni, e non le speculazioni. Queste ultime, così come i derivati otc, si basano anche su un’elevata leva finanziaria, cioè quel sistema che può generare enormi masse finanziarie sulla base di un piccolo capitale realmente a disposizione. In alcuni paesi europei, compresa l’Italia, tali operazioni allo scoperto sono state bandite per 3 mesi. A nostro avviso dovrebbe essere una misura definitiva da parte della Consob.  

Da alcune settimane continuiamo ad assistere a evoluzioni delle borse così forti da far apparire come delle semplici altalene per bambini anche le più spericolate montagne russe. Non sorprende affatto che il mondo della finanza appaia indifferente. Ma è più che mai inaccettabile che le autorità politiche e quelle di controllo restino, impotenti o incompetenti, alla finestra. Sembra che in diversi paesi sia stato richiesto l’intervento delle autorità competenti. La Consob avrebbe voluto farlo ma ha scoperto di non averne il potere.

Riteniamo che l’emergenza pandemia ci insegni che l’interesse collettivo viene prima dell’interesse di parte.

Come ha affermato recentemente anche il direttore del Fondo monetario internazionale, la signora Kristalina Georgieva, i governi a livello mondiale si sono finora responsabilmente impegnati a sostenere le economie minate dal corona virus con circa 8.000 miliardi di dollari e le banche centrali sono disposte a fornire “liquidità illimitata”.

Di fronte a questo straordinario impegno pubblico e a questa assunzione di responsabilità collettiva e condivisa non possiamo non chiederci perché ancora non si riformino i mercati e non si blocchino le speculazioni.

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**  *già sottosegretario all’Economia  **economista

 

Finalmente in Parlamento il conflitto di interessi, sulla pelle dei risparmiatori, tra banche d’affari e banche ordinarie

La separazione bancaria approda alla Camera

 

Mario Lettieri*  Paolo Raimondi**

 

La Commissione Finanze della Camera ha iniziato la discussione sulle proposte di legge relative alla separazione tra banche ordinarie e banche d’affari. Le varie proposte sono accomunate dalla medesima finalità fondamentale, la salvaguardia e la tutela del risparmio dei cittadini.   

In generale le banche che svolgono attività di “commercio in proprio” di strumenti finanziari non dovrebbero svolgere anche le attività di raccolta del risparmio tra il pubblico né effettuare l’esercizio del credito.

In alcune proposte opportunamente si fa riferimento alla legge Glass-Steagall che venne introdotta negli Usa dal presidente Roosevelt nel 1933 per combattere la speculazione e impedire l’utilizzo del risparmio delle famiglie in operazioni ad alto rischio da parte delle banche.

Il tema della separazione è diventato da tempo oggetto di discussione a livello mondiale, ma in Italia si è imposto soprattutto dopo il gennaio 2016 quando i governi europei, anche il nostro, hanno sottoscritto l’obbligo di applicare il “bail in” in caso di dissesti bancari. Per coprire i buchi  dei fallimenti bancari la nuova norma impone di rivalersi sugli azionisti, sugli obbligazionisti e sui depositi oltre i 100.000 euro .

E’ il passo obbligato dopo l’approvazione del decreto legge relativo alle “Disposizioni urgenti per la tutela del risparmio nel settore creditizio”. C’è da sperare che la Camera concluda in tempi brevi l’iter legislativo del provvedimento in questione.

Intanto i dati riguardanti la salute del sistema bancario, evidenziati dalla Banca d’Italia, devono far riflettere.  Si evince che il 70% delle sofferenze bancarie, pari a 140 miliardi di euro su un totale di 210, è in mano al 3% dei debitori! Il che significa che il restante 97% dei debitori detiene solo il 30% delle sofferenze bancarie.

Non possono essere, quindi, le famiglie e le pmi a pagare per le sofferenze succitate. I responsabili sono i grandi gruppi e le grandi imprese. E’ chiaro che le sofferenze sono state determinate dai prestiti facilmente concessi a chi evidentemente ex ante non era degno di credito. Continuiamo a ritenere indispensabile il puntuale accertamento delle responsabilità specifiche degli amministratori e del management delle singole banche.

Le perdite accumulate dalle cinque banche a rischio fallimento, in primis il Monte dei Paschi di Siena, sfiorano i 20 miliardi di euro, quasi pari a una manovra finanziaria. Purtroppo si calcola che dal 2013 i risparmiatori abbiano perso almeno 30 miliardi dei loro risparmi, più di 10 miliardi sarebbero stati persi solo dai 200 mila azionisti delle due banche popolari venete. 

Rispetto al problema delle sofferenze il governo e le autorità sembrano navigare ancora a vista. Secondo noi, bisognerebbe considerare le esperienze altrui. In Germania, per esempio, nel caso della Erste Abwicklungsanstalt, l’agenzia centrale creata per far fronte alle sofferenze bancarie tedesche, lo Stato ha recuperato quasi tutti i 246 miliardi di non performing loans. Berlino non solo ha fatto una rigorosa analisi delle cause ma ha anche accertato le responsabilità. Naturalmente sono state realizzate le opportune politiche per la crescita dell’economia reale.  

Si ricordi che, dopo l’esplosione della crisi finanziaria globale, per stabilizzare i relativi sistemi bancari nazionali, la Germania spese 238 miliardi, la Spagna 52 e gli Stati Uniti 426. Purtroppo l’Italia non si attivò in merito prima dell’entrata del bail in.

In conclusione si può affermare che, eliminate le varie degenerazioni, il sistema bancario italiano non sarebbe in pessime condizioni. Infatti il livello degli impieghi sul totale degli attivi, cioè i prestiti che le banche fanno sul totale delle loro attività, è quasi del 70%, mentre in Germania sarebbe del 56%. Inoltre i livelli dei derivati in Italia, sul totale degli attivi, sono meno del 10% a fronte di una media Ue del 20%, mentre in Germania essi arrivano al 34%.  

L’argomento della separazione bancaria e della difesa del risparmio è troppo importante perché diventi materia per un ulteriore scontro elettorale ed ideologico. Potrebbe invece diventare un campo di fruttuosa cooperazione, mostrando che il bene comune è superiore agli interessi partitici o di bottega. Sarebbe anche un modo concreto per mostrare che in Italia vi sono anche degli statisti e non solo dei politicanti.
*già sottosegretario all’Economia   **economista

  

  

  

  

 

1) Le banche sono sempre senza regole 2) Coinvolgere i capitali privati nella ricostruzione post terremoto 3) Russia e Giappone lavorano assieme: e l’Europa? 4) Le chiacchiere della FED 5) Il sistema bancario è sempre in bilico

Banche: multe miliardarie ma mancano le regole
Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

La recente richiesta del Dipartimento di Giustizia americano alla Deutsche Bank di pagare una multa di 14 miliardi di dollari per chiudere il contenzioso negli Usa sulla ‘frode’ dei mutui subprime, e dei relativi derivati finanziari, ha una rilevanza che va ben oltre la cifra stessa.
Nel frattempo, sempre sulla stessa questione, quasi tutte le banche internazionali too big to fail sono state chiamate a pagare altrettante multe miliardarie: nel 2013 la JP Morgan per 13 miliardi di dollari, nel 2014 la Citi Bank per 7 miliardi e la Bank of America per circa 17 miliardi, e poi la Goldman Sachs per 5,1 miliardi, la Morgan Stanley per 3,2 miliardi…
Sono cifre importanti che pongono una serie di domande pressanti e inquietanti. Quanto hanno incassato le banche negli anni della ‘bonanza’, se sono disposte a pagare decine di miliardi? Si può presumere che abbiano incassato centinaia di miliardi, ingigantendo a dismisura i loro bilanci tanto da superare persino quelli di molti Stati. Non solo dei più piccoli o meno industrializzati.
Inoltre, il danno prodotto all’intero sistema economico e finanziario globale è stato devastante. Si stanno ancora pagando gli effetti della recessione che ne è derivata. E’ ormai convinzione diffusa che sia stata proprio la grande speculazione sui mutui sub prime e sui derivati connessi a scatenare la più grande crisi finanziaria della storia.
Con spregiudicatezza e arroganza le grandi banche hanno giocato forte ai ‘casinò della speculazione’ usando ‘fiches’ non di loro proprietà, ma quelle dei risparmiatori, delle imprese e persino dei governi. E dopo il disastro hanno chiesto di essere salvate dalla bancarotta con i soldi pubblici!
Quanto ci sono costate la speculazione e la crisi? E’ molto complicato cercare di quantificarne i danni e le perdite che hanno prodotto alle economie e alle popolazioni di tutti i Paesi colpiti. Sono sicuramente immensi, tanto quanto le responsabilità dei principali attori.
Se si tratta di frodi conclamate, come è possibile che, con il semplice pagamento di una multa, i responsabili vengano sollevati da qualsiasi condanna civile e penale? Perché non vi è mai una responsabilità anche personale dei manager implicati? D’altra parte le multe sono di fatto pagate dai correntisti e dai clienti delle banche in questione.
Tutto ciò fa sì che i cittadini perdano ulteriormente fiducia nella giustizia percependo, come nelle società prima delle repubbliche sovrane, l’esistenza di due o più mondi: uno per i semplici mortali sottoposti e spesso tartassati da una miriade di leggi e l’atro, quello degli ‘dei dell’Olimpo’, dove si fanno regole e leggi su misura.
La questione più importante ovviamente riguarda la riforma del sistema bancario. La propensione ad un rischio incontrollato e illimitato è stata la molla della degenerazione dell’intero sistema. Le domande fondamentali, quindi, non riguardano solo il passato, ma soprattutto il presente e il futuro. Sono stati solo comportamenti sbagliati? Sono state introdotte nuove regole più virtuose? Sono stati messi a punto controlli opportuni? Purtroppo non ci sembra che si possano dare risposte incoraggianti a tali semplici domande.
Anche l’Unione bancaria europea non sembra andare a fondo nella questione. Garantire maggiori capitali e riserve per far fronte ad eventuali nuove crisi è giusto, ma non affronta la questione alla radice.
Fintanto che non si decide di introdurre una netta separazione bancaria, come quella della Glass-Steagall Act negli Usa dopo la crisi del ’29, che distingua le banche commerciali da quelle di investimento, proibendo alle prime di operare sui mercati speculativi, e fino a quando non si stabiliscono limiti ferrei ai derivati finanziari, le grandi banche too big to fail, purtroppo, si sentiranno autorizzate ad operare come sempre, business as usual.
Tutto ciò non depone bene anche per le grandi manovre bancarie che riguardano il nostro Paese, non solo il Monte Paschi di Siena ma anche la Banca Popolare di Vicenza, la Veneto Banca, la Banca Etruria, ecc.
In Italia purtroppo non si fa mai tesoro delle esperienze del passato. Si ha memoria corta. Eppure solo qualche decennio fa si verificarono i dissesti del Banco di Sicilia e del Banco di Napoli. E agli inizi del 2000 vi furono le vicende della Parmalat, dei bond argentini, della Banca 121. Nonostante il puntuale documento finale della Commissione di Indagine parlamentare, nessuno ne ha tenuto conto: né la Banca d’Italia, né la Consob, né i governi.
*già sottosegretario all’Economia **economista

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Come coinvolgere anche capitali privati nella ricostruzione e messa in sicurezza del territorio
Bond per la messa in sicurezza del territorio
Mario Lettieri* Paolo Raimondi**

Le devastazioni e la perdita di tante vite umane, a causa dei disastri che ripetutamente colpiscono il territorio del nostro Paese, naturalmente provocano emozioni forti, suscitano diffusa solidarietà e spingono gli stessi governanti ad assumere impegni. Ciò è quanto è accaduto anche a seguito del recente terremoto.
In verità la messa in sicurezza anti sismica è un problema antico che riguarda la gran parte del territorio italiano. La semplice ricostruzione delle aree colpite e la ristrutturazione anti sismica in tutto il territorio nazionale interesserebbero non meno di 12 milioni di unità abitative con investimenti prevedibili di circa 100 miliardi di euro.
Se si aggiungesse anche l’improcrastinabile intervento di stabilità idrogeologica dell’intero Paese, allo scopo di evitare le continue e devastanti alluvioni, frane e altri deterioramenti del territorio, bisognerebbe aggiungere almeno altri 40-50 miliardi di investimenti.
Indubbiamente si tratta di cifre molto importanti. Soprattutto se si considerano anche i costi delle perdite di vite umane e delle distruzioni di proprietà e di ricchezze provocate dai vari cataclismi.
Secondo l’ufficio studi della Camera dei Deputati in 48 anni sarebbero stati spesi circa 121 miliardi di euro per ricostruire ciò che i terremoti hanno distrutto!
Ovviamente il ruolo dello Stato, anche in questi casi, è insostituibile. Non c’è libero mercato che tenga. E’ compito dello Stato garantire la sicurezza ai propri cittadini. Perciò è sacrosanto, come fa il nostro presidente del Consiglio dei ministri, chiedere che gli investimenti per la ricostruzione e per la messa in sicurezza del territorio siano posti fuori dai ristretti parametri del Trattato di Maastricht.
La dimensione degli investimenti richiesti non potrebbe essere soddisfatta da una semplice flessibilità di bilancio!
Lo Stato, secondo noi, potrebbe emettere specifiche “obbligazioni per la ricostruzione” al fine di creare liquidità da destinare esclusivamente alla realizzazione del programma di investimenti. Potrebbe essere la Cassa Deposti e Prestiti a farsene carico, al fine di non farli rientrare nell’alveo del debito pubblico. Del resto la stessa Germania usa in tale senso la sua Kreditanstalt fuer Wiederaufbau, la gigantesca banca di sviluppo tedesca che, con attivi per oltre 500 miliardi di euro, è da sempre considerata fuori dal bilancio statale. La KFW è stata il motore della ricostruzione e dello sviluppo dell’economia tedesca.
Tale scelta non potrebbe che essere condivisa perché, come noto, il debito sarebbe strettamente legato a politiche di sviluppo che creano non solo unità abitative sicure ma anche produzione, occupazione, aumento della produttività e maggiori introiti fiscali. Così lo stesso debito iniziale verrebbe in parte ripagato e creerebbe allo stesso tempo nuova ricchezza.
Ai sottoscrittori delle obbligazioni si potrebbe estendere la garanzia dello Stato fino al valore di 100.00 euro, così come avviene per i conti correnti bancari. Sarebbe una forma di forte incentivazione.
Importante che detti titoli siano di lungo termine, almeno 10 anni, con capitale nominale garantito, ad un tasso di interesse basso ma comunque superiore al tasso zero di oggi.
Un secondo strumento per sostenere i menzionati investimenti potrebbe essere simile a certi contratti di assicurazione sulle vita. Il risparmiatore verserebbe un capitale, ad un tasso di interesse stabilito, mantenendolo bloccato per un certo numero di anni. Alla scadenza avrebbe diritto alla restituzione del capitale investito più gli interessi maturati, oppure ad una rendita commisurata. In questo caso non si avrebbe alcuna emissione di obbligazioni ma si tratterebbe di “assicurazioni sulla stabilità del territorio”. Anche questo strumento potrebbe essere gestito dalla stessa CDP.
Per incentivare tali “polizze assicurative”, lo Stato potrebbe anche qui offrire una garanzia fino a 100.000 euro e altri eventuali incentivi.
Purtroppo i governi preferiscono creare un debito anonimo, e non mirato a settori specifici di intervento, perché in questo modo possono gestirlo come meglio credono, anche per coprire altri buchi di bilancio. Ma il disegno che dovrebbe stare alla base delle messa in sicurezza dell’intero territorio rappresenta una grande sfida ma anche l’opportunità di indirizzare e programmare l’economia in un modo differente dal passato, compatibile con la difesa della natura e dell’ambiente.
Naturalmente i controlli di qualità, di trasparenza e di rispetto delle regole sono fondamentali per la riuscita del progetto. Così come è indispensabile il coinvolgimento delle popolazioni interessate.
*già sottosegretario all’Economia **economista

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A Vladivostok Russia e Giappone lavorano insieme. E l’Europa?
Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Non deve sorprendere se la dichiarazione finale del recente summit del G20 tenutosi a Hangzhou in Cina è la solita retorica piena di belle parole e buone intenzioni. Come al solito sono gli Usa, anche con il sostegno non sempre entusiasta dell’Ue e dei Paesi europei, a dettarne il contenuto.
Ciò stride non poco con gli interventi propositivi e concreti di alcuni altri attori, non ultimi la Cina, la Russia e il Giappone.
Il presidente cinese Xi Jinping, alle mere enunciazioni, ha contrapposto i grandi progetti in corso di realizzazione, i corridoi di sviluppo infrastrutturale della Silk Road Economic Belt, che collegheranno l’Oceano Pacifico a quello Atlantico e all’Europa, e quelli della 21st Century Maritime Silk Road,la strada marittima che collegherà la Cina all’India e oltre. E’ importante rilevare che in merito l’Asian Infrastructure Investment Bank è già molto attiva con le sue grandi linee di credito.
Nelle sue parole Xi ha legato la realizzazione di questi grandi progetti e la costruzione di numerose zone di libero scambio sul territorio cinese con l’intenzione di rendere il renminbi una forte moneta internazionale nel quadro di un necessario miglioramento della governance economica globale .
Presentando il programma “Blueprint on Innovative Growth” ha delineato con chiarezza i settori prioritari del nuovo sviluppo globale, tra cui “l’innovazione, una nuova rivoluzione scientifica e tecnologica, la trasformazione industriale, l’economia digitale e l’interconnessione delle reti infrastrutturali”.
Per chiarire lo stato reale dell’economia produttiva cinese egli ha ricordato che, nel primo semestre dell’anno, essa è cresciuta del 6,7%.
La pochezza e la scarsa portata del summit balzano con nettezza se si considerano i risultati del Forum Economico di Vladivostok tenutosi il giorno prima tra il presidente Putin, il primo ministro giapponese Shinzo Abe, il presidente della Corea del Sud, la signora Park Geun-hye e l’ex pm australiano Kevin Rudd.
Putin ha presentato il suo programma più ambizioso, quello di trasformare il Far East nel centro dello sviluppo sociale ed economico della Russia. Tra i progetti illustrati ci sono la realizzazione congiunta di un “super ring” di infrastrutture energetiche che metterà in relazione Russia, Cina, Corea e Giappone, la costruzione di infrastrutture di trasporto trans-euroasiatiche e regionali, quali i corridoi Primorye 1 e 2 che collegheranno le regioni cinesi del nord e i porti russi, nonché la costruzione della sezione russa della nuova Via della Seta che dovrebbe collegare la Cina all’Europa. Putin ha lanciato ai suoi interlocutori l’idea di realizzare un polo internazionale per le scienze, l’istruzione e le tecnologie sull’isola di Russky di fronte al porto di Vladivostok dove si prevede anche una grande zona di libero scambio.
Sono progetti concreti di indubbia rilevanza che sollecitano ulteriori coinvolgimenti, anche europei, per accelerare la ripresa della crescita globale.
Per simili grandi lavori la Russia ha già creato un Far East Development Fund che concederà prestiti al tasso di interesse del 5%, meno della metà del tasso di sconto della Banca centrale russa. Certamente è importante l’accordo siglato con la grande Japan Bank for International Cooperation per finanziare i progetti relativi al porto di Vladivostok che vedono la partecipazione di imprese giapponesi.
Tra le altre iniziative concrete c’è il fondo di sviluppo russo-cinese per investimenti nel settore agroalimentare.
L’importanza delle joint venture russo-coreane, in particolare quelle negli investimenti di Vladivostok, è stata sottolineata dalla presidente coreana, signora Park, anche in vista dell’apertura del passaggio artico della Northen Sea Route. Ha ricordato inoltre che la politica di isolamento è fondamentalmente sbagliata. Lo dimostrano le esperienze del passato come quella della Grande Depressione quando l’aumento dei dazi da parte di molti Paesi provocò una riduzione del 40% del commercio in 4 anni.
Dal resoconto del Forum emerge tuttavia che l’intervento politico più pregante sembra quello pronunciato da Shinzo Abe che ha detto: “Trasformiamo Vladivostok nella porta che unisce l’Eurasia con il Pacifico”. In verità i rapporti e le joint venture tra i due Paesi si sono fortemente consolidati tanto che il governo giapponese ha creato uno specifico Ministero per la cooperazione economica russo- giapponese.
Al Forum di Vladivostok l’Unione europea e i Paesi europei erano totalmente assenti, evidenziando ancora una volta, come sottolineato anche da Romano Prodi, “il momento più basso del cammino dell’Europa verso il processo di armonizzazione tra gli Stati”.
Il Giappone invece sta dando una grande lezione di politica, non solo economica. Certo, sotto la pressione americana aderì alle sanzioni contro la Russia, ma ora Tokyo si muove in modo del tutto indipendente.
Il continente euroasiatico è per metà europeo, come evidenzia il nome. E’ lecito chiedere quando l’Europa si emanciperà e assumerà il ruolo che dovrebbe naturalmente avere rispetto ai nuovi scenari economici e geopolitici che si stanno profilando?
*già sottosegretario all’Economia ** economista

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La Fed continua con le politiche monetariste del Qe
Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

L’oracolo di Jackson Hole ha parlato per bocca del governatore della Federal Reserve, la signora Janet Yellen. Ma come sempre, dai tempi di Delfi in poi, non è stato molto chiaro. Sì, forse, ma anche no, sulla possibilità di un piccolo ritocco, un rialzo del tasso di sconto da parte della banca centrale americana.
Organizzato come ogni anno alla fine di agosto dalla Fed di Kansas City, il convegno di banchieri ed esperti internazionali era spasmodicamente atteso da tutti gli operatori finanziari del mondo. Conoscere le future intenzioni monetarie americane, come noto, è da sempre un fatto cruciale per i mercati per poi prendere le decisioni sulle grandi operazioni finanziare. Naturalmente anche quelle speculative.
Nella sua analisi, Janet Yellen ha riconosciuto che la persistente debolezza nella ripresa degli investimenti, la bassa produttività e la troppo alta propensione al risparmio frenano l’economia, nonostante l’aumento dell’occupazione registrato anche negli ultimi tre mesi negli Usa.
I differenti e molteplici indicatori economici non permettono, quindi, di affermare con chiarezza se ci sia l’intenzione di aumentare il tasso di interesse, come in precedenza ventilato anche nei documenti ufficiali del Federal Open Market Committee della Fed.
La lettura delle proiezioni e degli scenari elaborati dalla stessa banca centrale indicherebbe un 70% di probabilità che esso possa variare tra lo 0 ed il 4,5% entro la fine del 2018! E’ una vaghissima stima che non giustifica affatto l’aver scomodato centinaia di importanti esperti. La ragione di tale vaghezza sarebbe ovviamente da ricercare nell’andamento dell’economia che spesso è colpita da rivolgimenti imprevedibili. Perciò “quando avvengono forti choc e l’andamento economico cambia, la politica monetaria deve adeguarsi”, ha affermato la Yellen.
Si spera che non sia questo il suo vero oracolo.
Leggendo con più attenzione il suo discorso vi è comunque un messaggio molto chiaro: continuare senza limiti di tempo la politica monetaria accomodante del Quantitative easing.
In merito si consideri che, secondo una ricerca della Bank of America, il totale delle politiche di Qe condotte dalle banche centrali a livello mondiale ammonterebbe a 25 trilioni di dollari.
Sul piano concreto la Fed ha anzitutto deciso di mantenere i titoli, compresi quelli più complessi e quindi potenzialmente pericolosi come gli abs, che ha acquistato negli anni passati, liberando così le banche dai loro titoli rischiosi e fornendo maggiore liquidità all’intero sistema bancario.
In questo contesto la Yellen riconosce che il bilancio della Fed è passato da meno di un trilione a circa 5 trilioni di dollari e ritiene pertanto che una sua riduzione potrebbe avere delle conseguenze imprevedibili sull’economia.
E’ evidente che per il governatore americano la politica di acquisto di titoli e di “guidance” resterà una componente essenziale della strategia complessiva della Fed. Per “guidance” si intende anche l’annuncio che il tasso di interesse potrebbe restare vicino allo zero per un lungo periodo di tempo. Più che di economia monetaria trattasi di una politica della comunicazione!
Ma l’annuncio più importante è quello di voler prendere in considerazione l’utilizzo anche di nuovi strumenti d intervento monetario, tra cui quello di allargare il raggio di acquisto di titoli e di altri asset finanziari. Ciò inevitabilmente potrebbe voler dire l’acquisto di titoli e derivati ancora a più alto rischio. Si considererà anche la possibilità di alzare il target del tasso di inflazione dal 2 al 3%, allungando così i tempi di applicazione del Qe. Allo stato non ci sembra una prospettiva rosea.
Tuttavia la Yellen deve ammettere che una prolungata politica del tasso di interesse zero potrebbe incoraggiare le banche e gli altri operatori finanziari a intraprendere operazioni eccessivamente rischiose.
Si calcola che il Qe ha determinato che titoli per circa 11 trilioni di dollari oggi siano a tasso zero o negativo. Trattasi di circa il 20% del debito sovrano mondiale! Un terzo di tutti i titoli di debito pubblico globale emessi nel 2016 sono stati ad un tasso negativo.
E’ chiaro che la continuazione delle politiche monetarie accomodanti riflettono “la paura che siamo di fronte ad un prolungato periodo di stagnazione economica secolare”, come ha ammesso persino Stanley Fisher, il vice presidente della Fed.
E’ evidente, quindi, che il tasso di interesse zero non sempre si rivela efficace nel sostegno alla ripresa e alla crescita.
Per questa ragione, senza iattanza, da sempre noi ribadiamo la necessità che i governi non lascino alla politica monetaria e alle banche centrali il compito di rimettere in moto l’economia, ma se ne assumano essi la piena responsabilità decisionale. Servono politiche di investimento di partenariato pubblico privato nei campi delle infrastrutture, delle nuove tecnologie. In Italia anche nel campo della messa in sicurezza del territorio sempre più minacciato da inondazioni, frane, dissesti idrogeologici e terremoti, come dimostrano i drammatici recenti disastri di Amatrice e della vasta area laziale-marchigiana-umbra.
*già sottosegretario all’Economia **economista

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Continue difficoltà del sistema bancario internazionale, nonostante la pausa estiva.
Il sistema bancario sempre in bilico
Mario Lettieri* e Paolo Raimondi **

Dopo le grandi agitazioni nel mondo bancario internazionale provocate dagli stress test, le vacanze estive sembra abbiano creato un’ovattata atmosfera di apparente tranquillità. Ma, osservando con più attenzione i processi finanziari in corso, l’emergenza resta sempre dietro l’angolo.
Non solo per quanto riguarda il futuro della MPS, della Veneto Banca e di altre banche in Italia.
Negli Usa, per esempio, la componente repubblicana del Comitato per i Servizi Finanziari della Camera dei Deputati ha recentemente presentato un dossier sul coinvolgimento della grande banca inglese, la Hong Kong Shanghai Bank Corporation (HSBC), nel riciclaggio dei soldi provenienti dal traffico di droga operato dal cartello messicano di Sinaloa e da quello colombiano del Norte del Valle.
Sono stati documentati ben 881 milioni di dollari “lavati” dai narcotrafficanti nel sistema bancario americano. Quella emersa e documentata dalle indagini in realtà è solo una piccola parte dell’enorme business che si è sviluppato, in modo incontrastato, per anni.
Durante le indagini, iniziate nel 2013, la HSBC aveva ammesso il crimine e accettato di pagare una multa di circa 2 miliardi di dollari.
Il rapporto accusa in particolare il Dipartimento di Giustizia americano di avere bloccato il processo contro la banca, anche su pressione della Financial Services Authority, l’equivalente inglese della Consob, in quanto “ esso avrebbe potuto avere serie conseguenze per il sistema finanziario”.
E’ un’accusa molto forte che la dice lunga sull’opacità di certe operazioni fatte da importanti attori del sistema bancario americano e inglese. Soprattutto sulla capacità delle ‘too big to fail’ di influenzare le decisioni delle istituzioni finanziarie di controllo e addirittura di quelle dei governi. L’opacità naturalmente si estende anche a molte altre operazioni finanziarie e ai bilanci delle banche che spesso non riflettono il loro vero stato di salute. Nonostante gli stress test.
Anche in Europa sono in corso alcune complesse operazioni bancarie, in particolare in Germania. All’inizio di agosto l’indice borsistico europeo Stoxx Europe 50 ha rimosso dal suo listino la Deutsche Bank e il Credit Suisse per evitare che il livello dell’indice fosse influenzato negativamente dalle continue perdite di valore delle azioni delle suddette banche.
Attraverso le pagine del quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung, Martin Hellwig, un importante economista dell’istituto tedesco di ricerca Max Planck, ha addirittura ventilato l’ipotesi della necessità di una nazionalizzazione della Deutsche Bank che si troverebbe in “una crisi peggiore di quella del 2008”. Il bail in, con la partecipazione di azionisti e obbligazionisti nella copertura delle perdite della banca, non sarebbe sufficiente a salvarla.
Da parte sua il Fmi ha recentemente dichiarato che la DB “presenta grandi rischi ” per l’intero sistema bancario. Infatti essa sarebbe grandemente indebitata e pericolosamente sotto capitalizzata.
La DB è anche in continuo conflitto con l’agenzia americana Commodity Futures Trading Commission (CFTC), che controlla il mercato dei derivati, in quanto non esporrebbe in modo chiaro la vera situazione delle sue operazioni in derivati finanziari otc, “compromettendo la capacità di valutare i potenziali rischi sistemici del mercato dei derivati”.
Da ultimo anche la Banca del Regolamenti Internazionali e l’International Organization of Securities Commissions (IOSCO), che coordina gli enti di vigilanza dei mercati finanziari a livello mondiale, affermano che persino le Central Counterparty Clearing (CCP), cioè le “casse di compensazione” che dovrebbero garantire le parti coinvolte nei contratti in derivati, non sarebbero in grado di far fronte ai loro compiti per mancanza di fondi.
Al riguardo non è un caso che la stabilità delle casse di compensazioni e i rischi derivanti dalla speculazione finanziaria siano stati posti, su iniziativa della Cina e dell’India, nell’agenda del G20 che si terrà nella città cinese di Hangzhou all’inizio di settembre.
Ciò dovrebbe essere di monito anche in Europa per far sì che il sistema bancario e i derivati non siano lasciati in balia del “fai da te“ del mercato. Senza ulteriori indugi essi dovrebbero essere sottoposti ad una stringente e profonda revisione da parte dei governi che dovrebbero ovviamente mirarli più al credito produttivo che agli interessi della speculazione

Una bad bank per parcheggiare la montagna di titoli tossici delle nostre banche: 190 miliardi di euro! Pagherà sempre lo Stato (con i nostri soldi)?

Quale bad bank? Chi paga?

 Mario Lettieri* e Paolo Raimondi **

Si è scatenata un vorticosa discussione sulla bad bank italiana, l’istituendo istituto ad hoc dove parcheggiare i titoli tossici posseduti dalle banche.

Il nostro sistema bancario scopre di essere in grave difficoltà e chiede, ancora una volta, un salvataggio pubblico. Non lo aveva ammesso nei mesi del vortice della crisi finanziaria globale, come era avvenuto invece negli Usa, in Inghilterra, in Germania e in altri Paesi. I bailout delle banche da parte dei governi di Londra e di Berlino furono rispettivamente di 167 e 144 miliardi di euro. L’Italia allora intervenne soltanto per 7,9 miliardi, tanto che appariva la più virtuosa. Oggi l’Unione europea considera il bail out italiano un “aiuto di Stato” in contrasto con la normativa vigente.

Adesso sappiamo che le sofferenze bancarie, i crediti inesigibili, sono circa 190 miliardi lordi. Probabilmente se ne possono recuperare circa 80 miliardi. Si rammenti che nel 2008 essi erano 42,8 miliardi. Oggi, purtroppo, tutti i titoli deteriorati (le sofferenze più i crediti di imprese in oggettiva difficoltà), ammontano a oltre 350 miliardi di euro, pari al 17,7% di tutti i prestiti concessi dal sistema bancario italiano. Il Fmi ritiene che tale tasso sia peggiorato velocemente, tanto che peggio del bel Paese vi sono soltanto l’Irlanda, Cipro e la Grecia.

Le sofferenze sono maggiormente concentrate al Sud. Da giugno 2010 sono triplicate quelle delle imprese societarie, cresciute fino a 122 miliardi, pari al 72% del totale. In particolare sono sofferenze per prestiti superiori a 5 miliardi, che dal 2009 sono cresciute del 450%. Ben due terzi sono concentrati nei primi 5 gruppi bancari.

La Banca d’Italia è chiamata in causa per cercare delle soluzioni. Riteniamo che, prima di qualsiasi proposta, essa dovrebbe spiegare perché in questi anni non abbia esercitato puntuali controlli ne adottato i necessari interventi correttivi.

Per addolcire la pillola si sostiene da più parti che la bad bank potrebbe essere un toccasana per l’economia: le banche, liberate dal fardello, tornerebbero a far rifluire il credito verso le imprese. E’ una fiaba che non convince. Si pensi che a dicembre scorso si è registrato ancora una diminuzione annuale di tali flussi dell’1,6%.

Non si può nascondere tutto “sotto il tappeto” della crisi globale, che di danni ovviamente ne ha fatti tanti.

Al di là dei molti giochi di parole e delle tante discussioni “tecniche”, la questione della bad bank e delle sofferenze riguarda soprattutto due punti fondamentali. Chi, come e quanto si valutano i crediti in sofferenza e chi pagherà la differenza: le banche o lo Stato? Per costruire la bad bank la Banca d’Italia ha già investito l’americana Boston Consulting Group, una ditta privata di consulenza che vanta alleanze e cooperazioni anche con la Goldman Sachs.

Ma perché non se ne è presa carico lei, come è avvenuto in Spagna?

Vi sono varie possibilità. La prima è che le banche o altri istituti finanziari privati versino il capitale necessario per comprare i titoli tossici e costruire la bad bank, acquistando con uno sconto tali titoli per garantirsi di fronte a eventuali perdite nelle future operazioni di recupero. Il rischio e il costo sarebbero a carico delle banche. E’ la soluzione osteggiata dalle banche. A tale scopo le lobby ventilano la possibilità di dover arrivare al bail in, che implica il coinvolgimento degli azionisti e anche dei correntisti-risparmiatori nel caso si concretizzasse lo stato di insolvenza.

L’altra possibilità è che lo Stato si faccia garante delle eventuali perdite derivanti da un recupero inferiore del valore già scontato dei titoli acquistati. Questa sarebbe la soluzione più sostenuta dal nostro sistema bancario.

Nel 2018, per la stabilizzazione dei mercati finanziari, la Germania costituì l’agenzia Soffin-FMSA, Il governo tedesco stanziò 480 miliardi di euro con bond pubblici per l’acquisto “scontato” dei titoli deteriorati in pancia alle banche. Queste successivamente hanno cambiato i bond in denaro fresco presso la Bce. La durata della suddetta agenzia non potrà superare i 20 anni. Se non riuscirà a recuperare tutta la somma pagata, allora la differenza dovrà essere coperta dalla banca detentrice delle sofferenze, ma non dallo Stato. Nell’operazione con la Kommerzbank, salvata con 90 miliardi di euro, lo Stato, per garantirsi, si prese anche il controllo azionario del 25%.

Governo, Parlamento, Banca d’Italia, Commissione europea e molte altre istituzioni coinvolte, come il Meccanismo europeo di stabilità (Mes), cui l’Italia partecipa finanziariamente, continueranno a dibattere sulla costituzione della bad bank.

Secondo noi deve essere tracciata una linea rossa: in un momento in cui non ci sono soldi per la scuola, per le pensioni, per il welfare, per la ricerca, ecc, sarebbe inconcepibile ed intollerabile coprire i buchi delle banche con altri soldi pubblici. Se malauguratamente ciò fosse deciso dal governo e dalla Banca d’Italia si confermerebbe il sospetto secondo cui le banche privatizzano gli utili e socializzano le perdite, quelle perdite causate dai loro azzardi e giochi finanziari.

 

*già sottosegretario all’Economia

** economista

Lo scandaloso rapporto tra Banca d’Italia e banche private

Mario Lettieri* Paolo Raimondi**

Sono troppi i dubbi e gli interrogativi sul recente decreto legge relativo alla rivalutazione del capitale della Banca d’Italia per lasciarli “scivolare” nel dimenticatoio delle decisioni politiche ed economiche più controverse. L’aver poi abbinato scelte strategiche, l’assetto della banca centrale e le dismissioni di immobili del patrimonio pubblico, alla necessità di alcune coperture di bilancio, anche in relazione alla questione IMU, costituisce una brutta macchia nell’attività del Governo e dello stesso Parlamento, che non ha tenuto conto delle vistose disomogeneità delle materie incluse nel decreto.

In tempo non sospetto abbiamo sostenuto l’opportunità di acquisire l’intera proprietà della banca centrale da parte dello Stato. Invece si è ricorso ad un trucco per far passare la rivalutazione del suo capitale regalando 7,5 miliardi di euro alle banche private e ad altri pochi azionisti. E’ inaccettabile. Per giustificare tale operazione si è detto che il valore del capitale azionario della banca centrale era immutato dal 1936 ed era pari a soli 176.000 euro. Una incongruenza da rettificare. Ma perché sorvolare sul fatto che le quote di proprietà erano originariamente affidate a banche di interesse pubblico? Non si è tenuto conto che esse nel frattempo sono diventate banche private. Continua a leggere

Lo scandalo della banca Monte dei Paschi è più grave di quanto si vuol far credere

MPS: un caso di crisi finanziaria sistemica

Mario Lettieri*  e Paolo Raimondi**

Lo scandalo dei derivati del Monte dei Paschi di Siena è più grave di quanto lo si stia dipingendo. Però vediamo di non trasformarlo nella solita bega provinciale a metà strada tra la politica e i giochi elettorali.  Si tratta, invece, della nota questione, profonda e sistemica, della finanza globale e delle sue crisi mai affrontate. I responsabili dello scandalo e della truffa, se la magistratura li individuerà e ne accerterà le violazioni del codice penale, meritano la galera ed il sequestro dei beni. I controllori, che non hanno saputo controllare, a cominciare dalla Banca d’Italia, devono comunque spiegare il loro operato e trarne eventualmente le necessarie conclusioni.

A noi preme anche sottolineare e mostrare gli aspetti sistemici ed internazionali che stanno all’origine della crisi e, anche in questo caso, a monte e a valle della frode. E’ sorprendente l’indignazione di fronte a questo scandalo. Come se ogni frode sia scollegata dalle tante altre e abbia una semplice valenza locale. Non tutti sanno che tra gli azionisti di Mps c’è anche la banca americana JP Morgan Chase. Essa è la prima al mondo per operazioni in derivati finanziari. L’ultimo rapporto dell’Office of the Comptroller of the Currency (Occ) negli Usa indica che alla fine del terzo trimestre del 2012 essa deteneva derivati over the counter (otc) per un valore nozionale di ben 71 trilioni di dollari! Come è noto gli otc sono contrattati nell’assoluta opacità, al di fuori dei mercati ufficiali e tenuti fuori bilancio. Anche la frode Mps ne è la prova provata. Vi era, infatti, un contratto tenuto segreto in cassaforte e mai riportato sui libri contabili. Continua a leggere