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Brexit: timori finanziari fondati o alibi per interventi eccezionali? Ovvero: una (altra) scusa per qualche (altra) fregatura?

Brexit: timori finanziari fondati o alibi per interventi eccezionali?

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Il risultato del referendum sulla Brexit avrà certamente un effetto profondo sull’economia britannica, sull’Unione europea e sul suo processo di integrazione.

Chi ci ha letto in passato sa che noi siamo sempre stati fautori di un’Europa forte, solidale e sovrana. Nondimeno ci sembra esagerata la reazione sia dei mercati che delle istituzioni finanziarie europee ed internazionali che paventano un nuovo sconquasso finanziario globale.

E’ come se l’emergenza Brexit serva a giustificare una probabile adozione di interventi eccezionali e a scaricare su di essa le conseguenze di una crisi già in atto, ma che oggettivamente non ha origine nell’eventuale uscita della Gran Bretagna dall’Ue.

Al riguardo è’ interessante notare che le grandi banche too big to fail americane ed internazionali, la Goldman Sachs, la JP Morgan, la Citibank, la Bank of America per nominarne alcune, sono state in prima fila, anche con notevoli donazioni in denaro, per sostenere la campagna “Remain”. Anche speculatori come George Soros sono scesi in campo contro la Brexit paventando cataclismi di ogni sorta.

La Federal Reserve ha deciso di lasciare i tassi fermi e ha annunciato che il costo del denaro salirà, ma più lentamente. L’incertezza sul referendum della Brexit “è uno dei fattori che ha pesato sulla decisione” di mantenere invariato il costo del denaro, ha affermato la governatrice Janet Yellen, sottolineando che un eventuale addio della Gran Bretagna all’Ue potrebbe avere ripercussioni sull’economia e sulla finanza globale. Dopo di che anche la Banca Centrale Europea ha affermato di essere pronta ad interventi di emergenza e in ogni caso di voler mantenere i suoi acquisti di asset finanziari pari a 80 miliardi di euro al mese fino a marzo 2017 e anche oltre, se fosse necessario.

Indubbiamente l’uscita dall’Ue avrà un grosso impatto in particolare per la City di Londra. Nella City operano circa 250 banche estere che in questo modo hanno un accesso diretto al mercato Ue. La City rappresenta circa il 10% del Pil britannico e contribuisce per il 12% a tutte le tasse raccolte dal governo. Essa è la prima esportatrice di servizi finanziari del mondo. Servizi che, per 20 miliardi di euro, vanno proprio verso l’Europa.

Una delle grandi preoccupazioni riguarda, per esempio, la sorte della Royal Bank of Scotland, che nel biennio 2014-15 ha accumulato perdite per oltre 7 miliardi di euro. Cosa succederebbe a questa banca in caso di un aggravamento della situazione inglese?

Secondo noi il nervosismo nella grande finanza riflette un profondo senso di incertezza e anche una vera e proprio paura di effetti a catena, simili a quelli non previsti e non voluti, della bancarotta della Lehman Brothers nel 2008.

L’ultimo bollettino della Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea delinea andamenti finanziari e bancari che meritano una attenta disamina. Nell’ultimo trimestre del 2015 i crediti bancari transfrontalieri globali sono diminuiti di 651 miliardi di dollari, di cui 276 verso la zona euro. E’ una tendenza in crescita da tempo. La stessa cosa era avvenuta a seguito della crisi del 2008. E’ indubbiamente uno dei risultati della prolungata stagnazione economica mondiale.

E’ anche rilevante notare che il valore nozionale dei derivati otc è finalmente sceso di quasi 200.000 miliardi di dollari, da 700 mila di giugno 2014 ai circa 500 mila di fine 2015. E’ un fatto di indubbia positività.

Si tratta di cambiamenti necessari e ulteriormente auspicabili. Noi abbiamo sempre ribadito l’importanza di ‘prosciugare’ la palude dei derivati finanziari speculativi otc e di contenere le operazioni bancarie non produttive.

I dati della Bri sono di grandezze eccezionali, però richiedono un attento controllo e anche interventi precisi da parte delle autorità competenti. Se fossero soltanto il risultato di performance autonome dei mercati, allora dietro ai numeri potrebbero nascondersi ‘macerie’.

Sarebbe proprio come spesso accade dopo fenomeni alluvionali. Dopo una violenta inondazione si è tutti contenti di vedere che le acque si sono ritirate. Ma prima di permettere il ritorno delle famiglie evacuate o addirittura concedere dei permessi di costruzione è necessario che la Protezione Civile faccia un attento controllo del territorio per determinare se la catastrofe ha minato le fondamenta dei palazzi e la compattezza del terreno.

Di certo sono in atto profondi rivolgimenti nei settori finanziari e bancari per cui ogni evento, anche di portata minore, rischia di produrre conseguenze destabilizzanti. Con effetti sistemici!

*già sottosegretario all’Economia **economista

Dove ci porta il liberismo economico, l’ultima ideologia ottocentesca rimasta in vita e purtroppo tuttora egemone

Stato e mercato: una contrapposizione non obbligata

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

La Banca Centrale Europea ha deciso di rilanciare alla grande il suo Quantitative easing nella speranza di far crescere l’inflazione al 2% e di far aumentare investimenti e crescita. Ha portato i tassi di interessi a meno 0,4% per i depositi effettuati dalle banche presso la Bce. L’intento è quello di dissuaderle dal ‘parcheggiare i soldi’ nei forzieri di Francoforte invece di indirizzarli verso l’economia reale.

Draghi ha annunciato anche nuovi crediti alle banche al tasso di meno 0,4%. per la durata di 4 anni In altre parole esse restituiranno meno di quanto hanno ottenuto. Si vuole portare inoltre da 60 a 80 miliardi di euro al mese l’ammontare per acquisti di obbligazioni pubbliche e private, suscitando in verità critiche per l’estensione ai bond societari.

Di fatto si intende continuare con la politica fallimentare finora attuata. Se ne aumenta le dimensioni e si continua a considerare il sistema bancario l’unico referente, ignorando che esso è più interessato a coprire i propri buchi di bilancio che a sostenere investimenti e imprese. I dati e i fatti degli anni passati sono rivelatori e inconfutabili. Non si tratta di un’opposizione preconcetta. Di ideologico c’è invece la fede cieca negli automatismi monetari e finanziari. Si sostiene che i tassi di interesse bassi e una liquidità crescente andrebbero automaticamente a finanziare gli investimenti.

E’ lo stesso atteggiamento ideologico imposto dalle economie dominanti del G20, quella americana, quella europea e quella giapponese. A Shanghai è stata presa la decisione di fare crescere gli interventi nelle infrastrutture sia in termini quantitativi che qualitativi. Le Banche di Sviluppo regionali sono state perciò invitate a preparare progetti ambiziosi e di alta qualità anche per attrarre settori della finanza privata verso la concessione di prestiti di lungo termine. Al prossimo summit del G20 allo scopo dovrebbe essere creata una ‘alleanza globale di collegamento infrastrutturale’.

Gli intenti ci sembrano positivi anche se preoccupa la mancanza di attori capaci di realizzarli. Le banche centrali creano liquidità e si aspettano che “il mercato” la porti verso gli investimenti. Il G20 propone lo sviluppo infrastrutturale ma si aspetta che sia sempre “il mercato” a finanziarlo. Cosa succede se il ‘dio mercato’ non funziona secondo le aspettative, come è successo negli anni passati?

Il liberismo economico, l’ultima ideologia ottocentesca rimasta in vita e purtroppo tuttora egemone, invita a non intervenire, a lasciare che sia solo il mercato con le sue leggi a rilanciare la ripresa e a ristabilire un equilibrio virtuoso. Noi riteniamo che questa non sia la strada obbligata. Occorre un ‘different thinking’.

Gli esempi storici più vicini e simili a quelli dell’attuale crisi globale ci indicano strade e prospettive differenti e alternative.

Si pensi al ‘New Deal’ del presidente americano F. D. Roosevelt quando, per uscire dalla Grande Depressione del 1929-33, egli lanciò il vasto programma di investimenti infrastrutturali e di modernizzazione tecnologica. Dopo avere messo sotto controllo e neutralizzato la finanza speculativa, egli favorì la creazione di nuove linee di credito e nuovi bond del Tesoro per finanziare importanti progetti, utilizzando anche il veicolo delle istituzioni bancarie statali . Di fatto si trattava di uno dei primi esperimenti riusciti di Partenariato Pubblico Privato. Lo Stato era la guida, il finanziatore e la garanzia della continuità e della riuscita dei progetti mentre le imprese private, non solo quelle statali, erano impegnate nella loro realizzazione.

Oggi invece, nonostante quasi 8 anni di vani tentativi per portare l’economia e la finanza globale fuori dalle sabbie mobili della recessione, la parola Stato resta uno dei grandi tabù. Non si tratta di proporre un ritorno allo statalismo pervasivo ma di trovare soluzioni razionali. Se il mercato da solo non basta occorre che la politica di sviluppo e di crescita sia guidata dagli Stati. Del resto la programmazione economica e la pianificazione territoriale spettano allo Stato.

Nel mondo non c’è stato soltanto la pianificazione quinquennale dei Paesi socialisti, ma anche la ‘planification indicative’ di Charles De Gaulle e in Italia l’esperimento positivo dell’IRI nella ricostruzione del dopoguerra. In Francia l’economia dirigista, il piano di orientamento in lotta contro le inevitabili tendenze alla burocratizzazione, cercava di mettere insieme le varie componenti sociali ed economiche del Paese evitando che esse si neutralizzassero tra loro. Il ‘Commissariat au Plan’ doveva definire le priorità nazionali e, attraverso i momenti della concertazione, della decisione e della realizzazione, lavorare per creare un’armonia di interessi superando certe derive corporative.

Si pensi che negli stessi Stati Uniti, patria del liberismo economico imperante, certi settori delicati, come quello militare, sono ancora guidati dallo Stato ma con il contributo essenziale delle imprese private ad alta tecnologia.

In una economia sociale di mercato la collaborazione pubblico-privato dovrebbe essere una costante, un impegno per i governi e per gli stessi operatori privati.

*già sottosegretario all’Economia **economista

1) – Rischi finanziari peggiori del 2007? 2) – Politiche sbagliate della FED e delle banche centrali: dal 2005 ad oggi negli Usa sarebbero stati usati ben 4,21 trilioni di dollari in operazioni di riacquisto dei propri titoli.

Rischi finanziari peggiori del 2007?

Mario Lettieri* Paolo Raimondi**

«Il sistema finanziario globale è diventato pericolosamente instabile ed è di fronte ad una valanga di bancarotte che metterà alla prova la stabilità sociale e politica». Queste sono le autorevoli parole di William White che è presidente dell’Economic Development and Review Committe dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OECD). Già economista capo della Banca dei Regolamenti Internazionali, egli da tempo sottolinea le sue preoccupazioni in interviste e dichiarazioni pubbliche. Recentemente lo ha fatto in relazione al Forum Economico Mondiale di Davos.
White ha per decenni anche lavorato nelle banche centrali del Canada e della Gran Bretagna, a contatto quindi con i ‘decision maker’ finanziari della City. Prima del collasso della Lehman è stato uno dei pochi a denunciare l’inevitabile deriva del sistema. Aveva tra l’altro dimostrato come la liberalizzazione dei mercati finanziari, la cosiddetta deregulation, stesse provocando una crescita eccezionale dei prestiti e dei valori finanziari.
Il problema centrale è rappresentato, quindi, dall’aumento esponenziale del debito in ogni parte del mondo nei passati 7 anni, tanto che, per White, «la situazione di oggi è peggiore di quella del 2007».
Per quanto riguarda l’Europa, le banche europee hanno crediti in sofferenza (non-performing loans) per circa 1.000 miliardi di euro! Si tratta di prestiti, concessi sia nel mercato interno sia in quello delle economie emergenti, che finora sono stati tenuti nascosti nei bilanci delle banche come dei ‘cadaveri imbalsamati’.
In mancanza di un accordo globale e di una nuova architettura del sistema finanziario da rendere operativa in modo congiunto e celere, la questione di fondo è come gestire le cancellazioni del debito impagabile e il riordino del sistema senza creare sconquassi economici e tempeste politiche.
Si tratta di riprendere la discussione sul ‘curatore fallimentare’, purtroppo da tempo abbandonata. E’ una cosa che non si può lasciare in gestione a livello di singoli Paesi perché necessita di regole globali e condivise, che coniughino giustizia economica e ripresa con assoluta priorità rispetto agli egoismi locali e ai dettami dei più forti.
L’assenza di una chiara visione delle responsabilità e dei metodi di intervento del ‘curatore fallimentare’ è ben visibile anche nel caos creatosi intorno alla bancarotta delle quattro piccole banche regionali italiane in cui, oltre alla mancanza di trasparenza e di giustizia, hanno dominato l’improvvisazione, l’incompetenza e gli interessi particolari di amici e lobby locali.
Oggi il totale dei debito pubblico e privato è salito ai limiti massimi: è il 265% del Pil nel club dei Paesi della citata OECD e il 185% del Pil nei mercati emergenti. Entrambi registrano un aumento del 35% rispetto al 2007.
Secondo l’agenzia di stampa economica americana Bloomberg, il debito delle grandi corporation a livello mondiale sarebbe di 29 trilioni di dollari. La metà delle multinazionali comprese nel listino borsistico S&P di Wall Street non guadagnerebbe abbastanza per pagare il servizio del proprio debito.
I Quantitative easing hanno creato e mantengono l’effetto di poter continuare a spendere non in relazione alle reali possibilità dell’attuale situazione economica e di bilancio ma in deficit prendendo a prestito dal futuro. Ciò nel tempo diventa una “dipendenza tossica” facendo smarrire il senso e il rapporto con la realtà. Ad un certo punto però anche il futuro presenterà il conto. Non si può continuamente spendere oggi i soldi che saranno eventualmente guadagnati domani!
Si noti anche che gran parte della nuova liquidità è stata usata dalle grandi corporation e dalle banche per crescenti operazioni di riacquisto delle proprie azioni. Il Wall Street Journal stima che dal 2005 ad oggi negli Usa sarebbero stati usati ben 4,21 trilioni di dollari in operazioni di riacquisto dei propri titoli. Si tratta di circa un quinto dell’attuale valore totale dei titoli della borsa americana. Sono in gran parte operazioni cosmetiche che hanno dirottato importanti risorse a discapito degli investimenti, della modernizzazione tecnologica e dell’occupazione.
Il debito eccessivo è una trappola nella quale, secondo White, sarebbe caduta anche la Fed. La situazione è quindi talmente deteriorata che non si riesce a trovare la giusta soluzione: se si aumentano i tassi di interesse essa diventa ancora più difficile e pesante, se invece non si aumentano essa sicuramente peggiora.
Ancora una volta viene chiamato in causa il potere politico e la sua responsabilità nella definizione di nuove regole per il sistema finanziario. 

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Forti dubbi sulle politiche della Fed e delle banche centrali

Mario Lettieri* Paolo Raimondi**

Emerge sempre più chiaramente che, per far fronte agli effetti della grande crisi finanziaria globale, il metodo e le politiche della Federal Reserve e delle altre banche centrali non funzionano. Adesso anche gli economisti della Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea, che coordina tutte le banche centrali, lo affermano.
La Fed e le altre , in primis la Bce, hanno affrontato il fenomeno delle tre B, la bassa crescita, la bassa inflazione ei bassi tassi di interesse, con una politica monetaria espansiva. Hanno enfatizzato gli aspetti ciclici della domanda ritenendo le prolungate politiche di Quantitative easing atte a far crescere la domanda e i consumi riattivando un certo dinamismo economico. In realtà tale approccio ci sembra semplicistico e di breve respiro.
Ciò, purtroppo, ha indotto anche a minimizzare l’importanza dei problemi di bilancio e della necessità di una corretta allocazione delle risorse. Questi sono i veri impedimenti alla crescita, i fattori che operano lentamente ma i cui effetti si accumulano nel tempo.
Infatti una “recessione patrimoniale” o dei saldi di bilancio (balance sheet recession) si verifica quando imprese altamente indebitate tagliano gli investimenti e le attività per abbattere i livelli del loro debito. Solitamente ciò coincide con la diminuzione permanente delle produzioni e con una ripresa molto debole. Simili processi, che si generano dopo lo scoppio della bolla finanziaria, nascondono anche il fatto che già prima della crisi la crescita economica non era di fatto sostenibile. La crisi del settore immobiliare, che ha vissuto una crescita spasmodica, ne è un esempio.
Inoltre nel periodo precedente lo scoppio della crisi si era avuto una grande espansione del credito e di altri strumenti finanziari che hanno indotto una erronea allocazione delle risorse a danno della crescita economica. Si consideri che, ad esempio, molta forza lavoro è stata assorbita dal settore delle costruzioni che ha una produttività più bassa della media.
Perciò in una “recessione patrimoniale” la domanda debole non è il solo problema e la cura monetaria non può essere l’unica risposta. La questione più importante era e rimane la necessità di risistemare i bilanci ed operare delle riforme strutturali per facilitare una migliore allocazione delle risorse e sostenere la ripresa degli investimenti reali.
Sul fronte dei bilanci, purtroppo, si è accentuato la crescita del debito. E non solo quello dei governi per sostenere le varie operazioni di salvataggio e i cosiddetti stimoli economici. Grazie anche ai bassi tassi di interesse la Fed ha permesso una crescita spettacolare dei crediti in dollari concessi negli Usa e nel resto del mondo, soprattutto nelle economie emergenti. Infatti i prestiti in dollari detenuti da imprese economiche non bancarie fuori degli Usa hanno raggiunto i 9,8 trilioni!
I bassi tassi di interesse sono diventati una droga di cui il sistema finanziario pensa di non poter fare a meno. Nel contempo però ciò ha abbassato largamente i margini di profitto delle stesse banche, incentivato la propensione a rischi più alti e inflazionato i prezzi di molti titoli, a cominciare da quelli trattati nelle borse. Tutto ciò ha creato pericolosi sbilanciamenti in particolare in quelle economie che subiscono gli effetti finali delle politiche della Fed.
Per quanto riguarda il settore bancario, tale politica, invece di operare con strumenti di lungo termine per sanare situazioni finanziarie gonfiate e risolvere certe insolvenze, ha spregiudicatamente continuato a effettuare operazioni ad alto rischio. Lo si vede in particolare nell’atteggiamento aggressivo delle “too big to fail” in Usa.
In Europa ciò appare nei comportamenti, mai veramente sanzionati, della Deutsche Bank, la banca N.1 dei derivati speculativi, coinvolta in innumerevoli indagini per frode e malversazioni a livello mondiale, e anche nell’incapacità di governare nel nostro Paese i 200 miliardi di sofferenze e le crisi delle piccole banche regionali.
La BRI mette sull’avviso che nei prossimi mesi l’economia globale, già calata, sarà influenzata negativamente anche da tre nuove evoluzioni: 1) la Cina che si muove verso un modello differente di crescita più orientata verso il mercato interno), 2) la prospettiva che i prezzi delle commodity rimangano a livelli più bassi e per un lungo periodo, 3) la crescente divergenza nella politica monetaria delle economie dominanti, dove la Fed aumenta i tassi di interesse mentre la Bce continua la sua politica accomodante con tassi addirittura decrescenti.
E’ per questo che gli economisti della BRI – e noi con loro – sono arrivati a denunciare come miope e irresponsabile chi pensa che “quello che succede fuori dai miei confini non mi interessa”.

+ Già sottosegretario all’Economia

**Economista

ANNO NUOVO, RISCHI FINANZIARI NUOVI

2016: NUOVI RISCHI FINANZIARI GLOBALI

Mario Lettieri* Paolo Raimondi**

La Federal Reserve, come previsto, ha chiuso il 2015 con un aumento del tasso di interesse dello 0,25%. Evidentemente si intenderebbe dare il messaggio di fine della crisi negli Stati Uniti. C’è da augurarselo per la ripresa globale. Non vorremmo però che ci si debba ricredere.

La politica degli anni passati del Quantitative easing e del tasso di interesse zero non ha risolto i problemi . In questo periodo sono stati immessi 3,5 trilioni di dollari nel sistema bancario. Solo la borsa americana ne ha beneficiato. Rispetto al crollo del 2008 gli aumenti sono stati del 96% per l’indice Dow Jones, del 124% per quello S&P 500 e del 214% per il Nasdaq.

Nei sistemi finanziari e nelle economie di molti altri Paesi, invece, ha lasciato profonde ferite. Nei mercati emergenti molte imprese sono state invogliate ad accendere tanti e nuovi debiti in dollari, molto spesso per operazioni rischiose e poco produttive. Del resto i costi apparivano molto contenuti. Secondo i dati della Banca dei Regolamenti Internazionali il debito totale delle imprese private dei Paesi emergenti ha raggiunto i 3,4 trilioni di dollari, più del doppio rispetto al livello di prima della crisi.

Con la continua svalutazione delle proprie monete nazionali, le economie emergenti hanno sempre più difficoltà a pagare debito e interessi. Per coprire i buchi finanziari attingono al bilancio pubblico scatenando gravi tensioni sociali. Adesso ogni aumento del tasso di interesse americano suona come una minaccia alla propria stabilità nazionale ed economica. Inoltre, l’attuale discesa dei prezzi della materie prime, di cui sono largamente produttori , e l’atteso rallentamento delle economie emergenti nel loro insieme, non solo quello della Cina, rappresentano un ulteriore aggravamento. Se si tiene presente che esse rappresentano il 40% del Pil mondiale, la loro instabilità rischia di avere delle conseguenze negative globali.

Il tasso zero e la liquidità a “go-go” hanno generato una tendenza simile anche negli Usa. Invece di essere utilizzata per espandere il business, la liquidità è spesso servita per fusioni e acquisizioni. Quest’anno ben 327 miliardi di dollari sono finiti in tali operazioni. Inoltre tra il 2009 e il 2014 ben 1.200 miliardi di dollari sono stati riversati nei fondi che trattano obbligazioni corporate. Perciò anche l’Office of Financial Research del ministero del Tesoro americano nel suo recente rapporto annuale intravede dei “rischi elevati” per il rifinanziamento dei debiti obbligazionari del settore non finanziario.

Non è un caso quindi che nelle scorse settimane una serie di fondi di investimento che operavano con i cosiddetti “junk bond” , i titoli spazzatura ad alto rischio, siano andati in crisi. Il settore era cresciuto moltissimo negli anni passati, particolarmente nel campo energetico. Di fatto esso aveva rimpiazzato quello delle ipoteche sub prime dominante prima della crisi. Ciò ha generato delle ulteriori vendite sul vasto mercato dei junk bond con riverberi negativi sull’intero mercato delle obbligazioni. Si stima che vi siano circa 1,4 trilioni di junk bond che richiederanno un rifinanziamento a breve.

Una delle aspettative derivante dall’aumento del tasso di interesse sarebbe quella di ridurre la tendenza del sistema bancario e di quello corporate a ricorrere al prestito facile. Ma in realtà le banche americane hanno già delle gigantesche riserve in eccesso, pari a 2,42 trilioni di dollari, per cui il menzionato aumento difficilmente determinerà mutamenti nel loro comportamento.

Come sappiamo la Banca centrale europea, invece, intende perseguire una politica espansiva della liquidità. Occorrerà stare attenti che non si generi il cosiddetto “euro carry trade”, cioè la tendenza ad approfittare dell’euro a tasso zero per attingere a crediti che potrebbero andare in attività, anche speculative, fuori dall’Europa. Proprio come in passato è accaduto con lo yen e con lo stesso dollaro.

Considerati i rischi di nuove turbolenze, sarebbe il caso che in Europa e anche in Italia si affrontassero con chiarezza e decisione le crescenti difficoltà del sistema bancario. Servono più controlli stringenti sulle sue attività, divieto assoluto delle operazioni ad alto rischio sia in derivati che in junk bond, maggiore tutela dei risparmiatori e forti sanzioni penali nei confronti degli amministratori e dei manager bancari che non rispettano le norme.  

*già sottosegretario all’Economia

**economista

1) – Negli orrori della bibbia (anche) la piaga del femminicidio. 2) – L’economia a una svolta (pericolosa)

Un mio amico mi ha inviato il disegno che vedere qui di fianco e che cita un passo della bibbia. E’ una delle infinite dimostrazioni di come sia demenziale parlare di popoli “speciali”, “eletti”, “prediletti da Dio”, e via delirando. E di come sia invece più sensato e utile buttar via la bibbia emettersi a studiare o almeno leggere qualcosa di più umano.

Chissà quante donne con l’imene setto, che cioè non sangina neppure la “prima volta”, sono state uccise il quel modo orribile… E chissà quante altre donne pur avendo sanguinato sono state accoppate perché il marito voleva togliersela da piedi subito. Oltretutto vigeva la poligamia (ma ovviamente non la poliandria). Ovviamente, per eseguire la lapidazione bastava la parola del marito: evito i commenti. Mi limito a rilevare che l’origine del femminicidio, piaga tuttora esistente, ha origine nella “sacra” (!) bibbia. Non c’è bisogno di aggiungere altro: ognuno sa riflettere e pensare anche da solo. Purché non disonesto o della genia che si ritiene migliore degli “altri” e sempre in dovere di punire chi “non è vergine”…

Robert Eisenman, il più grande esperto al mondo dei Rotoli del Mar Morti, nel suo libro “Giacomo, il fratello di Gesù” ci tiene a far sapere che lo stesso trattamento era riservato immediatamente a chiunque peccasse di blasfemia nel Tempio di Gerusalemme, anche nel caso si trattasse di un sacerdote: ucciso subito “a bastonate in testa con il legno delle fascine destinate ai sacrifici di olocausto”. Davvero un  bel costume. Come del resto la lapidazione per i blasfemi e perfino per chi osava lavorare il sabato! Divieto che Gesù infranse più volte, visto che predicava anche di farla finita con la corruzione del Tempio e del clero collaborazionista dei romani.

I romani non erano migliori. Eppure ci vantiamo di discendere da loro. Come si vede, tra gli antenati di tutti i popoli, compresi noi della civilissima Europa, “il più pulito ci ha la rogna”, come si usa dire. Insomma, un po’ più di modestia e un po’ meno di pretese da parte di tutti non guasterebbe. Specie da parte di chi agita la bibbia per accampare diritti a spese e sulla pelle altri, come abbiamo fatto dalle Americhe all’Australia e come si continua a fare disinvoltamente ancora oggi da parte dei fanatici irriducibili.

Ciò detto, vale la pena di riflettere anche su questo nuovo articolo dei nostri due collaboratori economisti, che parlano di economia a una svolta. Con il rischio di uscire fuori strada….

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L’ECONOMIA A UNA SVOLTA

Mario Lettieri* Paolo Raimondi**

La nostra situazione è seria. Con poche eccezioni, si conferma una situazione stagnante in Italia  e nell’intera Europa. Non poco ha inciso la stretta creditizia. Le priorità dell’Italia sono quindi gli investimenti, il lavoro, l’innovazione, la ripresa delle produzioni industriali e del credito produttivo. Dal 2007 a oggi la disoccupazione è raddoppiata e rischia di superare la soglia del 13% della forza lavoro. Per i giovani tra i 15 e i 24 anni è, purtroppo, del 42 %. Dal 2010 la produzione industriale è scesa del 9%. Confrontando la differenza tra le previsioni di crescita e l’andamento reale, dal 2007 ad oggi l’economia italiana ha perso 230 miliardi di euro di ricchezza. Continua a leggere

1) – Contro la crisi la politica monetaria da sola non funziona 2) Appello contro la caccia ai pensionati con la scusa delle “pensioni d’oro”

L’illusione di una governance delle liquidità

Mario Lettieri* Paolo Raimondi** *Sottosegretario all’Economia del governo Prodi **Economista

Nel giro di pochi giorni le banche centrali ed i governi dei maggiori Paesi occidentali hanno preso una serie di decisioni finanziarie e monetarie di enorme portata. Se le si analizza una alla volta separatamente fanno notizia per un breve tempo e poi diventano passato. Se, invece, si prendono insieme diventano una strategia globale con preoccupanti conseguenze future. La Banca Centrale Europea ha portato il tasso di interesse di riferimento allo 0,25%, cioè allo stesso livello di quello della Federal Reserve. E’ dalla crisi del 2007 che i tassi di interesse hanno continuato a scendere senza effetti significativi sulla ripresa economica dimostrando che i vecchi strumenti di politica monetaria non funzionano. Sotto lo zero non si può andare; adesso i tassi potranno solo risalire. Continua a leggere