Sbugiarda gli eroici cialtroni del mainstream, del Pensiero Unico.

L’interruzione da pubblicità è fastidiosa, molto fastidiosa, ma il contenuto credo sia interessante. Sbugiarda gli eroici cialtroni del mainstream, del Pensiero Unico. E mette i puntini sulle i alle dichiarazioni tossiche contro papa Francesco colpevole di avere definito terrorismo il terrorismo israeliano.

https://www.blitzquotidiano.it/opinioni/nicotri-opinioni/morti-in-ucraina-morti-a-gaza-confronto-fra-numeri-e-obiettivi-di-russia-e-israele-che-papa-francesco-non-vede-3575761/

Usa: gli interessi sul debito superano le spese militari

di Mario Lettieri e Péaolo Raimondi**

Le guerre e gli scontri geopolitici in corso hanno oscurato certe preoccupanti tendenze economiche negli Usa e anche nel resto del mondo. Non hanno cancellato le realtà. Basti osservare attentamente gli andamenti finanziari di oltre oceano.

L’agenzia di stampa Bloomberg News stima che a fine ottobre 2023, il pagamento degli interessi sul debito pubblico federale, calcolato su 12 mesi, ha raggiunto circa 1.000 miliardi di dollari. Il livello annualizzato degli interessi pagati è raddoppiato rispetto alla fine di marzo 2022.

E’ l’effetto combinato del Quantitative Easing e dell’immissione di liquidità, con i quali la Federal Reserve ha sostenuto il sistema durante la crisi pandemica, e poi con i successivi aumenti del tasso di sconto per contenere l’inflazione, prodotta in parte proprio dal QE.

Il governo americano pagherà più interessi sul debito anche rispetto alle già stratosferiche spese militari!

Nell’anno fiscale 2023, che è terminato il 30 settembre, il deficit di bilancio è stato di 1.700 miliardi di dollari, un aumento di 320 miliardi, cioè il 23% in più rispetto a quello dell’anno fiscale precedente. La gran parte di quest’aumento si deve alla crescita di ben 184 miliardi per interessi sul debito. Sarebbe stato di 2.000 miliardi se la Corte Suprema non avesse bloccato il programma di cancellazione del cosiddetto “debito degli studenti”.

Il debito pubblico ha superato 26.200 miliardi, con un aumento di circa 2.000 miliardi rispetto al 2022. A ciò ha contribuito molto la diminuzione delle entrate di ben 457 miliardi, dei quali 456 sono meno tasse sui redditi dei cittadini. Altro che ripresa, è una realtà amara per la maggioranza della popolazione americana.

Gli alti tassi d’interesse hanno reso i prestiti più costosi, aumentando la pressione sul debito americano. Oggi i Treasury bond a 10 anni hanno un tasso di interesse di quasi 5 %, tre volte il livello di due anni fa! Nei mesi scorsi l’aumento dei tassi ha mandato a gambe all’aria parecchie banche regionali che erano piene di titoli pubblici a basso rendimento. La crescita dei tassi è andata di pari passo con l’inflazione. Adesso si afferma che quest’ultima sarebbe scesa al 3%. Molti si affidano alla smorfia napoletana per “indovinare” quali saranno i tassi futuri dei T-bond.

Questa situazione rischia di generare un permanente stato d’instabilità del bilancio federale. Il rischio di un shutdown al primo di ottobre era stato evitato all’ultimo minuto con un accordo bipartisan alla Camera dei deputati. Per legge, le agenzie federali devono far approvare dal Congresso i programmi di spesa per spendere i soldi. Il shutdown implica la sospensione di numerose operazioni del governo federale per mancanza di soldi, con effetti negativi sui lavoratori pubblici, sull’economia e sull’intera cittadinanza. Senza nuovi accordi, il 17 novembre ci potrebbe essere un nuovo shutdown. Certamente sarà ancora una volta evitato, ma queste montagne russe per il bilancio federale non sono un bel biglietto da visita per il resto del mondo.

A giugno scorso fu evitato il default con un accordo bipartisan, il “Fiscal Responsibility Act of 2023”, che sospende il fatidico tetto del debito federale fino al primo gennaio 2025. L’accordo prevede un limite di spesa discrezionale di 1.590 miliardi di dollari per due anni. In altre parole, il governo può prendere prestiti e spendere di più di quanto fissato nel bilancio federale. La ragione della crisi era dovuta al fatto che già in gennaio si era raggiunto il tetto del debito previsto per il 2023 di 31.400 miliardi. L’agonia fu protratta fino a giugno con “misure straordinarie” di carattere amministrativo-finanziario.

Persino due agenzie di rating americane, Standard &Poor’s e Fitch, da sempre molto generose nei confronti dei titoli americani, hanno dovuto ritoccare al ribasso il loro rating circa la capacità di ripagare il debito. Gli Usa hanno perso la tripla A, il massimo dei rating, e ciò potrebbe avere un effetto sia sul costo del debito sia sulla propensione degli investitori a fare prestiti al governo federale. Moody’s ha invece confermato la tripla A ma con un outlook da stabile a negativo.

Gli Usa guardano avanti e si aspettano che in dieci anni il debito federale sarà di 52.000 miliardi di dollari. Per il momento sembrano voler ignorare le cause profonde delle crisi, della finanza speculativa, delle banche too big to fail, dello shadow banking per concentrasi, invece, sul taglio delle spese sociali di bilancio e sull’aumento delle tasse. Non offrono nessuna idea nuova per affrontare i problemi succitati e i loro riverberi negativi in tutto il mondo, a partire dall’Europa.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Holodomor: tra mito e realtà

La guerra in Ucraina e il conseguente mainstream russofobo ci hanno improvvisamente fatto scoprire l’Holodomor, riconosciuto il 26 luglio di quest’anno dal nostro parlamento come il genocidio dei russi contro gli ucraini, fatti morire di fame da Stalin con la collettivizzazione forzata delle campagne e la lotta contro i kulaki, cioè contro i latifondisti[1]. Il 26 luglio sì è concluso così l’iter iniziato a maggio dai parlamentari del PD Fausto Raciti, Andrea Romano e Flavia Nardelli Piccoli, primi firmatari di una mozione per far riconoscere al parlamento l’Holodomor come genocidio stalinista. Mozione basata su studi e approfondimenti di notevole valore, come testimonia la partecipazione del professor Andrea Graziosi nella stesura del testo, che non tiene conto di alcune cose fondamentali[2].

Cerchiamo perciò di capire meglio come stanno in realtà le cose. Che c’entra la Russia con l’Holodomor ucraino? E l’Ucraina per il suo Holodomor è esente da responsabilità e colpe? Tra le narrazioni purtroppo disinvolte e a volte omissive dell’attuale tragedia ucraina si insiste spesso nell’affermare che gli ucraini abbiano ancora oggi del risentimento contro i russi perché nel 1932-33 la politica di industrializzazione e collettivizzazione forzata imposta da Giuseppe Stalin provocò in Ucraina qualche milione di morti per fame: l’Holodomor, appunto, che in ucraino significa “sterminio per fame”[3]. Stalin con la collettivizzazione forzata dell’agricoltura ha ordinato anche l’eliminazione fisica dei kulaki, cioè dei contadini benestanti che avevano alle loro dipendenze altri contadini[4].


La narrativa attuale parla dell’Holodomor come di un vero e proprio genocidio russo ai danni degli ucraini – così come la Shoà è stata il genocidio tedesco degli ebrei e il Samudaripen il genocidio (dimenticato) tedesco degli “zingari”, più correttamente detti romanès (donde il termine rom, oggi usato spesso al posto della parola zingaro ritenuta offensiva)[5]. Le cose però non stanno come le racconta tale narrativa. E anzi nell’Holodomor c’è proprio lo zampino o meglio lo zampone ucraino.

www.glistatigenerali.com/partiti-politici_storia-cultura/holodomor-ucraino-tra-mito-e-realta/

Bomba atomica su Gaza? Per gli estremisti di destra amici di Netanyahu è una opzione: la bomba N, Israele ne dispone?

Bomba atomica su Gaza? Per gli estremisti di destra amici di Netanyahu è una opzione: la bomba N, Israele ne dispone?

Bomba atomica su Gaza? “Sganciare una bomba atomica sulla Striscia di Gaza è una delle possibilità”.
Affermazione fatta non da amici al bar o da ubriachi, ma da un ministro dell’attuale governo israeliano. Sta quindi cadendo il tabù dell’uso della bomba atomica contro un popolo nemico?
A sganciare l’idea in un’intervista radiofonica è stato ministro israeliano del Patrimonio Amihai Eliyahu, membro del partito Potere Ebraico guidato dal fanatico Itamar Ben Gvir, seguace convinto del rabbino Meir David Kahane, famoso per essere favorevole all’ideale della Grande Israele ed alla deportazione di tutti i palestinesi fuori d’Israele.
A questa pulizia etnica definitiva è favorevole lo stesso Ben Gvir, stampella che ha permesso a Benjamin Netanyahu di andare al governo e che non a caso ha collezionato almeno 50 incriminazioni per incitamento all’odio. Per parte sua il ministro Eliyahu da bravo kahanista ha specificato che per quanto riguarda Gaza “non forniremmo aiuti umanitari ai nazisti” e che “a Gaza non esistono civili non coinvolti”.
E come risolvere l’ormai più che 70enne problema palestinese? “Possono andare in Irlanda o nei deserti”.
Poche ore dopo il premier Netanyahu ha sospeso Eliyahu “da tutte le sedute del governo, fino a nuovo ordine”. Si noti bene: NON definitivamente, ma solo fino a nuovo ordine. Ciò significa che Eliyahu resta comunque ministro.
Il pericolo di ricorrere alle atomiche è dunque scongiurato? Tutto bene? Non proprio. Anche perché è un vecchio pallino dello stesso Netanyahu. Ma andiamo per ordine.
1) – Verso la fine di settembre del 2006 alla annuale conferenza internazionale di tre giorni organizata dall’International Institute for Counter-Terrorism (ICT) alla Marc Rich University di Herzliya, città costiera di 95.000 abitanti parte dell’agglomerato metropolitano di Tel Aviv, è intervenuto Netanyahu all’epoca capo dell’opposizione.
Presentatosi come sostenitore dell’ICT davanti a un pubblico che ufficialmente raccoglieva i combattenti contro il terrorismo, ma in realtà i sostenitori più estremisti della destra israeliana, Netanyahu ha parlato per primo e in ebraico.
Alla fine del suo discorso però, perché lo capissero tutti senza possibilità di equivoci, parlò in inglese. E scandì bene le ultime parole:
“La questione non è se bombardare Teheran con i missili nucleari. La questione è: quando”.
Notiamo en passant che si tratta di una chiara ammissione pubblica di possesso di bombe atomiche da parte di Israele, che su tale argomento ha sempre nicchiato o alluso o negato.
Alla conferenza erano stati invitati anche tre giornalisti italiani: Paolo Fusi, Lorenzo Cremonesi e Guido Olimpio, questi ultimi due entrambi del Corriere della Sera.
Cremonesi però, probabilmente fiutata l’aria, decise di non partecipare, contrariamente a Fusi e Olimpio.
E c’è stato chi a quelle parole – mai condannate né dagli USA né dagli Stati europei – si è alzato e se n’è andato: Paolo Fusi, curriculum di livello molto elevato che possono vantare solo in pochissimi. Disgustato, Fusi se ne rimase chiuso in albergo per tutta la durata del convegno. cioè per tre giorni.
Il 13 aprile di due anni fa – 2021 – in un articolo che parlava anche di quanto detto a fine settembre 2006 dall’attuale premier israeliano alla Marc Rich University, Fusi ha accusato Netanyahu e il presidente della Turchia Recep Tayyip Erdoğan di sovranismo populista e di puntare a un conflitto globale.
Riguardo il premier israeliano Fusi ha scritto:
“Netanyahu ha torto: non esiste alcuna salvezza per Israele in un attacco militare all’Iran. Non esiste alcun modo per impedire che l’Iran, prima o poi, abbia in mano l’arma atomica – perché il suo Governo se ne frega del benessere dei cittadini ed andrà avanti per la sua strada a prescindere dalle sanzioni.
“L’unica strada percorribile è quella della diplomazia e della pace come opzione reale ed efficace”.
2) – Tutti ritengono impossibile lanciare atomiche su un territorio minuscolo come la Striscia di Gaza perché le radiazioni investirebbero in modo disastroso anche la stessa Israele. Giusto. Ma c’è un ma. Vediamo quale.
A rilasciare in grande quantità radiazioni mortali che durano a lungo e rendono così inutilizzabile per un bel pezzo da parte dei vincitori il territorio conquistato e tutti i suoi manufatti – industrie, ponti, palazzi, macchinari, ecc. – sono le bombe atomiche A e H. Queste infatti affidano la propria enorme potenza distruttiva alla gigantesca esplosione, all’elevatissima temperatura e quantità di calore sprigionate, oltre che almeno nelle vicinanze al brutale spostamento d’aria prodotto dal “botto”.
Ci sono però le bombe atomiche a neutroni, dette bombe atomiche N.
Sono congegnate in modo che l’esplosione sia di bassa potenza e non rilasci quantità rilevanti di radiazioni persistenti, motivo per cui non provoca il fallout, cioè la ricaduta radioattiva.
Le bombe a neutroni hanno il pregio, se così lo vogliamo chiamare, di uccidere gli esseri viventi, ma senza contaminare con radiazioni per più di 24-48 ore il territorio. Che quindi è prontamente utilizzabile dal vincitore, comprese le industrie, gli armamenti e i manufatti.
Di fatto è l’arma ideale per colpire edifici in cemento e gallerie sotterranee. L’arma ideale cioè da usare per la lunghissima rete di tunnel costruiti a Gaza da Hamas a più o meno 50 metri di profondità.
Ecco perché Israele potrebbe usarla, nel caso ne possedesse. Cosa non improbabile perché l’inventore della bomba atomica N oltre che della bomba H all’idrogeno, enormemente più potente della A anche perché questa le fa da detonatore, è l’ebreo statunitense di origini ungheresi Edward Teller, che è stato a lungo consigliere proprio di Israele per le questioni nucleari.
Teller è anche il padre delle cosiddette “guerre stellari”, consistenti nel lancio di missili capaci di intercettare quelli nemici in arrivo con bombe atomiche. L’idea di Teller aveva il pregio che non era necessario colpire il missile o i missili nemici in arrivo, cosa non facile, ma che bastava lanciare un missile armato con una bomba N da fare esplodere nelle loro vicinanze. La tempesta di neutroni avrebbe messo fuori uso le bombe atomiche in arrivo evitando che esplodessero..
Nel 1978 il presidente USA Jimmy Carter bloccò i progetti di produzione delle bombe N. Ma tre anni dopo, cioè nell’81, il presidente Donald Reagan stanziò i fondi necessari per avviarne la produzione. Adottata dalla NATO come arma nucleare tattica, da campo di battaglia, cioè con bassa potenza esplosiva ma alta capacità di uccidere grazie all’ondata di neutroni, è stata poi ritirata dall’Europa quando è stato firmato il trattato Intermediate Nuclear Forces (INF).

L’Asean per una politica multilaterale


di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi*
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Nonostante i conflitti in atto e il rischio di guerra, qualcosa di positivo si muove nel mondo. Non ci sono solo i Brics che operano per una riorganizzazione economica e politica del pianeta in senso multilaterale. Nei giorni precedenti il vertice di settembre del G20 di Nuova Delhi, l’Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico (Asean) ha tenuto il suo summit annuale a Jakarta, in Indonesia, proprio sul tema del multilateralismo. Ancora una volta, purtroppo, l’Europa ha pressoché ignorato l’evento, forse considerato “esotico”.

L’Asean è un’organizzazione intergovernativa regionale fondata nel 1967. Dopo l’Ue, l’Asean è considerata uno dei modelli di cooperazione regionale di maggior successo al mondo. Con i suoi dieci membri, Brunei, Cambogia, Filippine, Indonesia, Laos, Malaysia, Myanmar, Singapore, Thailandia e Vietnam, essa rappresenta 664 milioni di persone, l’8% della popolazione mondiale e il 3,5% del PIL globale (3.300 miliardi di dollari). Nel 2007 si è data una Carta valoriale e programmatica, con la creazione di organismi operativi come il Segretariato generale. Si propone di realizzare un’unione regionale politica e di sicurezza con l’eliminazione delle barriere doganali per una completa integrazione economica regionale.
Mantenendo relazioni importanti con i suoi partner chiave come Cina, India, Stati Uniti e Russia, essa si pone come organismo di incontro e di moderazione. L’Asean teme gli eventuali conflitti nei punti caldi della regione: il Mar Cinese Meridionale, il Mar Cinese Orientale, la Penisola Coreana e la questione di Taiwan.

Infatti, negli ultimi tempi la principale preoccupazione è stata l’acuirsi della contesa strategica tra Stati Uniti e Cina. L’Asean intende, perciò, far crescere il suo peso economico e la sua collaborazione interna proprio per accrescere anche il suo ruolo politico di bilanciamento. Proprio in quest’ottica il tema principale del vertice è stato “L’Asean: epicentro della crescita”.
Nella dichiarazione finale del citato incontro si afferma di voler diventare “il centro e il motore della crescita economica nella regione e oltre”. Con un tasso di crescita più rapido rispetto a quello attuale, intende rafforzare la resilienza del gruppo in tutte le aree identificate: salute, clima, sistemi alimentari ed energetici, catene di approvvigionamento e stabilità macroeconomica e finanziaria. La sicurezza alimentare è stata posta al centro del vertice. Davvero interessante tale scelta.

Il summit di Giacarta ha incluso anche il 18° vertice onnicomprensivo dei paesi dell’Asia orientale (Eas), che riunisce l’Asean e i suoi otto principali partner (India, Australia, Nuova Zelanda, Cina, Giappone, Corea del Sud, Russia e Stati Uniti), in cui le rivalità e le tensioni della regione sono state messe a fuoco.
Joko Widodo, presidente dell’Indonesia e dell’Eas, ha avvertito che “se non saremo in grado di gestire le differenze, saremo distrutti”. E ha aggiunto: “Se ci uniamo alle correnti della rivalità, saremo distrutti”. Secondo noi, sarebbe un messaggio da recepire anche in Europa.

Il documento finale dell’Eas afferma di voler promuovere il dialogo e la soluzione pacifica di eventuali conflitti, riconoscendo il ruolo centrale di mediazione dell’Asean. Ci s’impegna anche a “promuovere un multilateralismo basato sulla legge internazionale e sui principi delle Nazioni Unite, compreso il rafforzamento dell’architettura multilaterale regionale”. L’Eas s’impegna anche a sostenere la cosiddetta “Chiang Mai Initiative Multeralization, come rete finanziaria regionale”. L’iniziativa di Chiang Mai fu la risposta alla crisi finanziaria dei paesi asiatici del 1997 e consisteva in un coordinamento tra le banche centrali contro le speculazioni. Fu rafforzata dopo la crisi finanziaria globale del 2008. Oltre all’Asean, oggi vi fanno parte anche Cina, Giappone e Corea del Sud.

Nonostante fosse impegnato nell’organizzazione del G20 in programma a Nuova Delhi pochi giorni dopo, il primo ministro indiano Narendra Modi ha colto l’occasione del summit per andare a Giacarta e presenziare il 20° vertice Asean-India. L’India ha presentato delle proposte per rafforzare la cooperazione in tutti i settori, compresi quello marittimo e della sicurezza alimentare. Modi ha così sintetizzato il suo messaggio: “Il 21° secolo è il secolo dell’Asia”.
Sul fronte monetario anche l’Asean si muove da parecchio tempo per sottrarsi al dominio del dollaro.

Mentre si teneva il summit, il governo dell’Indonesia, l’economia più forte del gruppo, annunciava una task force nazionale, formata da diversi ministri e dalla banca centrale, per la de-dollarizzazione e l’utilizzo delle monete nazionali con i propri partner commerciali. La decisione seguiva il sostegno dichiarato nell’agosto precedente dai ministri dell’economia e dai governatori delle banche centrali dell’Asean per l’utilizzo delle monete locali nelle transazioni dell’intera regione.
°già sottosegretario all’Economia **economista