Usa: riflessioni pacate sull’economia globale

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Recentemente il governo di Washington ha manifestato pubblicamente alcune valutazioni economiche strategiche con toni più realistici rispetto al passato. Per il momento potrebbero essere solo enunciazioni, ma sono importanti dato il momento di grande stress geopolitico. Lo ha fatto il segretario del Tesoro, Janet Yellen, già presidente della Federal Reserve..

Pur non modificando minimamente la strategia di politica estera, in un’intervista alla CNN Yellen ha ammesso che “l’uso di sanzioni finanziarie legate al ruolo del dollaro comporta il rischio che, nel tempo, possa minare l’egemonia del dollaro”. Ciò “crea un desiderio da parte della Cina, della Russia, dell’Iran di trovare un’alternativa”. Anche se, aggiunge, il dollaro è sempre utilizzato come “valuta globale” e “non abbiamo visto nessun altro Paese che abbia l’infrastruttura istituzionale che consentirebbe alla sua valuta di operare nello stesso modo”.
D’altra parte è un dato di fatto che, fuori da quello che consideriamo Occidente, le sanzioni, i commerci e le monete, a cominciare dal dollaro, sono visti e giudicati in modi differenti.
L’amministrazione Biden non può ignorare quanto sta succedendo nel mondo delle valute. Anche se non se ne parla o si tende a minimizzarlo, l’impatto della crescente collaborazione tra i Paesi del Brics, estesa a molte altre economie emergenti, è un processo continuo.

L’ultimo sviluppo è stato la nomina dell’ex presidente brasiliana, Dilma Rousseff, a capo della Nuova Banca di Sviluppo del Brics. Al suo insediamento a Shanghai, Dilma ha affermato: “Abbiamo bisogno di un meccanismo anticiclico che sostenga la stabilizzazione. E’necessario trovare modi per evitare il rischio di cambio e la dipendenza da una moneta unica come il dollaro Usa. La buona notizia è che molti Paesi scelgono di fare trading utilizzando le proprie valute. La strategia della Banca per il periodo 2022-2026 è di fare il 30% dei prestiti in valute locali.“.

Poi, in un discorso alla John Hopkins School of Advanced International Studies di Washington, Yellen ha parlato in modo pratico dei rapporti tra Usa e Cina. “Gli Stati Uniti si faranno valere quando sono in gioco i propri interessi vitali, ha affermato, ma non cerchiamo di separare (decoupling) la nostra economia da quella cinese. Una completa separazione delle nostre economie sarebbe disastrosa per entrambi i Paesi e sarebbe destabilizzante per il resto del mondo.”. Ha aggiunto che “la salute delle economie cinese e statunitense è strettamente collegata. Una Cina in crescita e che rispetta le regole può essere vantaggiosa per gli Stati Uniti.”.

Si ricordi che il commercio degli Usa con la Cina ha superato i 700 miliardi di dollari nel 2021, terzo rispetto a quello con il Canada e il Messico.

Naturalmente Yellen ha ripetuto che “un rapporto economico costruttivo ed equo con la Cina” si colloca nella volontà americana di “difendere i valori e la sicurezza nazionale”. La Cina è invitata a mantenere una concorrenza economica leale. Interessante notare che nel suo discorso, volutamente e opportunamente, non ha mai menzionato Taiwan.

La stessa ha anche ricordato che, nell’incontro dello scorso anno tra i presidenti Biden e Xi, si era concordato di migliorare le comunicazioni sulla macroeconomia e la cooperazione su grandi questioni come il clima e il debito. “Affrontare insieme questi problemi promuoverebbe gli interessi nazionali di entrambi i nostri Paesi”, ha detto. La Cina è il creditore bilaterale più grande a livello mondiale e detiene la metà dei crediti concessi da tutti i governi ai Paesi in via di sviluppo.

Possiamo dire che la preoccupazione sul debito non riguarda soltanto quello dei Paesi poveri e in via di sviluppo, ma anche quello americano. All’inizio del 2021 la Cina, infatti, deteneva Treasury Bond per 1.095 miliardi di dollari, pari a circa il 4% del debito nazionale americano. Oggi ne detiene per un valore di 850 miliardi. Anche se la diminuzione è dovuta in parte al deprezzamento dei titoli, potrebbe segnare una più marcata tendenza futura.

Molti politici e analisti si riferiscono ai rapporti di forza nel mondo solo rispetto alla politica, alla forza militare, al commercio o al pil. Non si comprende, e di conseguenza non si evidenzia, i due aspetti fondamentali degli assetti di potere: la moneta e la finanza. Si rischia, quindi, di sottovalutare situazioni e andamenti che accrescono i rischi di conflitto e persino di guerra. Allo stesso tempo si tende a ignorare anche possibili iniziative positive, proprio nel campo monetario e finanziario internazionale e multipolare. La collaborazione, potrebbe, invece, aiutare a promuovere azioni e soluzioni di sviluppo congiunto e pacifico, come la creazione di un paniere di monete e nuove regole per i mercati finanziari.

*già sottosegretario all’Economia **economista

India: è in arrivo la petro rupia?

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

L’India sta preparando la sua moneta, la rupia, a giocare un ruolo sui mercati internazionali simile a quello dello yuan. Pur essendo parte importante nel gruppo dei Paesi Brics, l’India non vede di buon occhio l’espansione cinese in Asia e non intende essere trainata dall’attivismo di Pechino. Pensare, però, di giocare l’India contro la Cina, a nostro avviso, sarebbe la solita politica miope e perdente.

La riflessione indiana parte dall’energia, come riportato anche da un documento dell’Istituto Gateway House, un centro studi di Mumbai. Si afferma che negli ultimi due decenni lo scenario energetico globale è cambiato: domanda, offerta e prodotti energetici. L’unica costante è stata il dollaro Usa come valuta usata nel commercio di energia. Ultimamente lo yuan cinese è emerso per sfidare il dollaro. Nuova Delhi adesso si chiede se la rupia indiana possa essere un terzo giocatore. Una petro rupia?

Com’è noto, l’India è il terzo consumatore mondiale e il secondo importatore di energia. Gli indiani lamentano che il commercio mondiale di petrolio e di gas si svolga quasi interamente in dollari sulle borse occidentali e con prezzi che non rappresentano la domanda reale.

Una serie di fattori politici, economici e finanziari, stanno creando un nuovo equilibrio nell’ordine e nella finanza globali. Uno di questi è il cambiamento nella bilancia del commercio energetico. Mentre negli Usa, in Europa e in Giappone il consumo di petrolio sta diminuendo o si sta stabilizzando, in India, con la sua economia in crescita, il consumo energetico aumenta. Si prevede, infatti, che il fabbisogno passerà dagli attuali 4 milioni di barili al giorno ai 10 milioni entro il 2040.

Viene anche fatto notare che i due benchmark petroliferi globali, il WTI e il Brent, sono datati e che spesso sono anche manipolati. Oggi i due maggiori importatori, Cina e India, fanno riferimento a produttori e mercati totalmente diversi. E’ implicito che il nuovo orientamento vada a intaccare antiche posizioni di privilegio occidentale o, meglio, del vecchio colonialismo.

L’India sostiene che la crisi finanziaria del 2008 ha messo in discussione il ruolo del dollaro come moneta unica globale e che la sua instabilità avrebbe fatto raddoppiare il debito degli Usa, inducendo Washington a una ritirata dai processi di globalizzazione. Si rileva che le sanzioni unilaterali e motivate geopoliticamente avrebbero suscitato forti risentimenti nei confronti del potere americano.

Secondo lo studio succitato, il processo dell’Unione europea e dell’euro, che si sarebbe accontentato di controllare il 20% degli scambi monetari e commerciali e delle riserve mondiali, si è fermato.

Di conseguenza, l’India, come la Cina prima, vede l’opportunità per più di una valuta di svolgere un ruolo internazionale importante.

New Delhi è consapevole che sui due mercati principali, quello di New York e quello di Londra, la stragrande maggioranza delle operazioni finanziarie, future e altri derivati riguardanti l’energia, è di carattere puramente speculativo. I contratti future sono almeno 10 volte il volume del petrolio realmente trattato. Secondo gli esperti indiani anche sul mercato di Shanghai, creato nel 2018, dominerebbe incontrastata la speculazione finanziaria.

Inoltre, Nuova Delhi vede che la Cina, attraverso l’Asian infrastructure development bank e la Belt and road iniziative, la nuova Via della seta, starebbe penetrando in molti Paesi dell’Asia, nell’Oceano Indiano e in altri continenti. Con lo yuan vorrebbe anche influenzare l’architettura finanziaria globale. Un processo che pone dei problemi ma anche delle nuove opportunità per l’India.

Da qui nasce l’azione per l’internazionalizzazione della rupia attraverso la creazione di un hub per un nuovo mercato internazionale del petrolio e del gas, eventualmente collegato alle borse di Mumbai. Così il governo indiano potrebbe far sentire il suo peso sulla formazione dei prezzi dell’energia.

E’ un processo in grande movimento. Recentemente, la Reserve Bank of India ha autorizzato alcune banche indiane a operare in rupie in 60 contratti commerciali che coinvolgono 18 Stati, tra cui la Gran Bretagna e la Germania. Con la Malesia detto meccanismo è già a uno stadio più avanzato. Al prossimo summit del G20 di Nuova Delhi, sotto la presidenza indiana, saranno annunciati nuovi passi verso l’internazionalizzazione della rupia.

L’Europa non può essere indifferente ai mutamenti nello scenario globale e dovrebbe relazionarsi meglio anche con la nuova emergente superpotenza economica e politica indiana.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Cresce l’alternativa al dollaro


di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**
Il fronte economico e monetario internazionale è molto più attivo di quanto si pensi o si ammetta. Poca attenzione è stata data alla dichiarazione di Vladimir Putin quando, durante i colloqui di Mosca con il presidente cinese Xi Jinping, ha affermato che “la Russia è favorevole all’uso dello yuan negli accordi con i Paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina”. Putin ha fatto notare che due terzi delle transazioni tra Russia e Cina sono già regolati in rubli e yuan. Adesso Mosca si impegna ad impiegare la moneta cinese anche nei pagamenti con altre nazioni. Chiaramente è uno stimolo verso molti altri Paesi a sostituire il dollaro nelle loro transazioni e nei loro commerci.

L’effetto internazionale di tali scelte monetarie non può essere sottovalutato anche perché i timori suscitati dalle recenti turbolenze bancarie negli Usa stanno rendendo meno attraenti gli asset basati sul dollaro. Certo esso continua a mantenere la sua centralità rispetto alle valute dei Paesi cosiddetti avanzati e a quelle dei mercati emergenti. E’ ancora utilizzato per il 41% nel commercio globale. Il mondo, però, percepisce che è in corso un cambiamento tettonico.
Persino Jim O’Neill, l’ex economista di Goldman Sachs, sostiene che “il dollaro gioca un ruolo troppo dominante nella finanza globale” e invita i mercati emergenti a ridurre i propri rischi al riguardo.

Come già riportato, notevole disagio aveva creato la propensione dell’Arabia Saudita all’utilizzo della moneta cinese nei pagamenti delle sue esportazioni di petrolio verso la Cina. Vi sono anche nuovi accordi tra la Cina e il Brasile per commercializzare in yuan e in real soprattutto nel campo minerario e in quello alimentare e delle tecnologie. Durante un recente seminario organizzato dall’Agenzia brasiliana per la promozione del commercio e degli investimenti, ApexBrasil, si è concordato che il Banco BOCOM BBM, nato dall’incontro di una banca brasiliana con una cinese, aderisca al Cips (China Interbank Payment System), l’alternativa cinese allo Swift, che è il sistema internazionale più usato per trasferire denaro. Inoltre, la filiale brasiliana della Banca industriale e commerciale della Cina diventerebbe l‘hub di compensazione in yuan. Si noti che il commercio tra i due Paesi ha già superato i 170 miliardi di dollari.

I ministri delle finanze e i governatori delle banche centrali dell’Asean, l’associazione che coinvolge dieci nazioni del sud-est asiatico, riuniti a Bali, in Indonesia, hanno proposto l’utilizzo delle monete locali nei loro commerci e di ridurre la dipendenza dalle principali valute. Il presidente dell’Indonesia, Joko Widodo, ha sostenuto la necessità di proteggersi da “possibili ripercussioni geopolitiche”. Da ultimo, il primo ministro della Malesia, Anwar Ibrahim, dopo la sua recente visita in Cina, porta avanti la creazione di un Fondo monetario asiatico per ridurre la dipendenza dal dollaro e per aumentare l’uso delle monete nazionali nel commercio.

L’India è un caso a parte. Essa si reputa troppo grande per accodarsi alle iniziative di altri, in particolare della Cina. Nella dirigenza indiana è in corso da parecchio tempo una discussione su come trasformare la rupia in una moneta internazionale per i suoi commerci e per quelli di altri Paesi interessati.
Più sorprendente è l’accordo in yuan tra l’impresa petrolifera cinese, la China National Offshore Oil Company, con la francese TotalEnergies su 65.000 tonnellate di gas naturale liquefatto importato dagli Emirati Arabi. L’operazione è gestita attraverso la Shanghai Petroleum and Natural Gas Exchange, la borsa creata anche per favorire i pagamenti in yuan. Sarà interessante conoscere gli accordi economici stipulati dal presidente francese Macron durante la sua recente visita in Cina.

Si ricordi anche che, nonostante l’opposizione americana, il cancelliere tedesco Scholz pochi mesi fa ha guidato una folta delegazione di industriali a Pechino. Degli incontri e degli accordi si conosce veramente poco. Chissà come saranno saldate le fatture commerciali: in euro, in yuan, in dollari o un mix? La Germania è il primo partner commerciale europeo con la Cina, con un volume di scambi bilaterali pari a circa 300 miliardi di euro.

Sono iniziative prettamente nazionali ma interessanti. Quale sia l’atteggiamento dell’Unione europea, non è chiaro. D’altra parte l’Ue non ha una sua precisa politica d’interesse europeo su molte, troppe, questioni strategiche importanti.
*già sottosegretario all’Economia **economista

La Russia e l’Africa intensificano i rapporti

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**
Si intensificano le relazioni della Russia con l’Africa, perciò riteniamo che nei rapporti con i Paesi africani l’Italia e l’Unione europea dovrebbero mantenere un approccio sobrio e realistico, senza cedere alla tentazione di credere troppo alle narrazioni dell’Occidente sugli andamenti geopolitici planetari. Prima di tutto occorre comprendere le loro priorità che sono l’anticolonialismo, l’indipendenza e lo sviluppo del continente in un mondo multipolare.

Basti riflettere sui risultati del meeting “Russia Africa Parliamentary Conference” sul tema di un mondo multipolare, tenutosi a Mosca il 19-20 marzo, cui hanno partecipato parlamentari di 40 Stati africani. Si tratta di uno degli incontri preparatori per il secondo “Summit Russia-Africa” dei capi di Stato e di governo già fissato il 28-29 giugno a San Pietroburgo. Si noti che le delegazioni africane presenti a Mosca erano più numerose delle 36 che nel 2019 avevano partecipato al primo Summit di Sochi, tenutosi molto prima della guerra in Ucraina.

Prevedibile l’affondo politico fatto dal presidente della Duma, Vyacheslav Volodin, che ha denunciato “Washington e Bruxelles di voler controllare, a loro beneficio, le risorse naturali della Russia e dell’Africa, con tutti gli strumenti possibili, anche con la forza.”.
Sebbene in quei giorni fosse impegnato negli incontri con il presidente cinese Xi Jinping in vista a Mosca, Vladimir Putin ha voluto parlare alla conferenza.

Il presidente russo ha affermato che i rapporti con i Paesi africani sono una priorità della politica estera di Mosca. Ha ricordato l’appoggio dell’Unione Sovietica nella lotta per l’indipendenza contro il colonialismo e per la cooperazione economica nel continente. Sebbene oggi i Paesi africani rappresentino soltanto il 3% del pil mondiale, Putin ha detto che, con un miliardo e mezzo di abitanti e un terzo di tutte le riserve minerarie del globo, essi naturalmente saranno leader del nuovo ordine multipolare globale.
Ha evidenziato che lo scorso anno il commercio è cresciuto fino a 18 miliardi di dollari e che Mosca ha cancellato vecchi debiti dei Paesi africani per oltre 20 miliardi. Ha anche offerto la possibilità di una collaborazione tra l’Unione economica eurasiatica e l’Area continentale africana di libero scambio creata nel 2021.

Il presidente russo si è impegnato a mantenere le forniture di cibo, di fertilizzanti e di energia verso l’Africa e a prolungare di 60 giorni l’”accordo sul grano” fatto a Istanbul per far transitare i prodotti agricoli ucraini attraverso il Mar Nero. Dopo tale periodo la Russia sarebbe pronta a mandare, a titolo gratuito, la stessa quantità di grano inviato in Africa nei mesi passati. Ha poi lanciato una provocazione: ”Del volume totale di grano esportato dall’Ucraina, circa il 45% è andato ai Paesi europei ben nutriti e solo il 3% all’Africa.”.

Propaganda russa? Speriamo si possa dimostrare, poiché le reazioni, le convinzioni e le realtà africane non sono quelle dell’Occidente.
Dopo aver detto che oggi circa 27.000 studenti africani frequentano le università russe, ha aggiunto che il personale militare di oltre 20 Paesi africani si perfeziona nelle università del ministero della Difesa russo

I rapporti si sono fatti molto intensi, un po’ in tutti i campi, anche in quello delle nuove tecnologie. Infatti, il 13-14 aprile prossimo si terrà a Mosca il forum Russia – Africa sulle tecnologie digitali in cui i rappresentanti dei governi e delle imprese private discuteranno su come realizzare la digitalizzazione nei settori della pubblica amministrazione, dell’economia, dell’educazione e della sanità.

Naturalmente un ruolo importante, di battistrada della cooperazione continentale africana, lo svolge il Sudafrica, come membro del gruppo BRICS. In un recente incontro tra rappresentati governativi russi e sudafricani si è convenuto di promuovere la creazione di una “BRICS geological platform”. Poiché questi Paesi hanno le più grandi riserve minerarie del mondo, il progetto intende mappare i territori per individuare, valutare ed esplorare nuovi depositi di minerali, in particolare delle cosiddette “terre rare”, al fine di promuovere una più stretta cooperazione tecnologica per il loro sfruttamento.

Trattasi di passi significativi nei rapporti con l’Africa che, per onestà bisogna riconoscere, la Russia ha iniziato decenni fa, anche a seguito delle errate politiche neocoloniali dell’Occidente
*già sottosegretario all’Economia **economista

Deutsche Bank e derivati: una vecchia storia

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Essendo la Deutsche Bank (DB) la maggiore banca tedesca, capire il perché dei suoi recenti, gravi, problemi è anche nel nostro interesse.
Il suo bilancio del 2022 era entusiasta: un utile di 5,6 miliardi di euro, il miglior risultato in 15 anni. L’utile record era stato nel 2007 di 8,7 miliardi. Ma la crisi globale del 2008 aveva lasciato profonde ferite da risanare e perdite per cinque anni consecutivi fino al 2019.
Dal 2019 il management asseriva di aver cercato di portare avanti un profondo rinnovamento del gruppo, riducendo le attività del suo investment banking, cioè il settore che cerca alti profitti con le speculazioni più rischiose. Quindi, meno business “esotici” e meno clienti hedge fund. L’idea, almeno sulla carta, era di tornare a essere una banca più europea e “per gli imprenditori”. La DB ha anche portato avanti l’integrazione della Postbank, che come il nostro BancoPosta, ha un numero altissimo di clienti, famiglie e imprese di piccole-medie dimensioni.
L’inversione sui tassi d’interesse ha fatto crescere gli attivi della banca fino a 27,2 miliardi di euro, con un aumento di oltre il 7% rispetto al 2021. Nonostante l’inflazione e i rallentamenti dell’economia, non si temevano insolvenze sui prestiti concessi. Nel 2022, contro tale rischio, la banca aveva accantonato ben 1,2 miliardi, più del doppio rispetto al 2021.

Tutto roseo il 2022 e lo sarebbe dovuto essere ancora di più il 2023. Al successo avevano contribuito anche i voti migliori delle agenzie di rating dopo i loro downgrade degli anni precedenti.

Non tutte le voci, però, erano così concordi. Il consiglio di sorveglianza interno alla banca lamentava che i miglioramenti programmati e gli obiettivi di sostenibilità non erano stati pienamente raggiunti, per cui decideva la riduzione del 5% dei bonus milionari per i dirigenti. In particolare a febbraio aveva sollevato forti preoccupazioni sulla gestione dei derivati.

La storia della banca conta e non si deve mai dimenticare. Lo scorso aprile la polizia tedesca aveva visitato il suo quartier generale di Francoforte nel corso di un’indagine sul riciclaggio di denaro. Negli anni passati il suo nome era apparso in quasi tutte le indagini su varie truffe e malversazioni finanziarie internazionali. Nel 2016, si ricordi, aveva pagato una multa di 7,2 miliardi di dollari per operazioni truffaldine con derivati legati alle ipoteche, in cambio della chiusura delle indagini.

Qualcosa non andava in DB se il costo dei suoi credit default swap, i titoli derivati che coprono il rischio di fallimento, è aumentato in modo rilevante. Dall’inizio dell’anno le sue azioni hanno perso circa un quarto del valore.

E’ vero che tutto il sistema bancario europeo e internazionale è sotto pressione ma Deutsche Bank sembra essere colpita più delle altre banche. Non si può paragonare al Credit Suisse, salvato dalla bancarotta, se non per il fatto che sono due tra le più grandi banche europee ritenute sistemiche.

La presidente della Bce Christine Lagarde e tutti i governi europei fanno a gara nell’affermare la solidità del sistema bancario europeo, “aiutato dalle riforme della regolamentazione bancaria avviate sulla scia della crisi finanziaria globale.” Forse dette riforme sono carenti.

Una di queste gravi mancanze ce la rivela proprio il bilancio di DB del 2022: il valore nozionale totale dei derivati finanziari è di 42.500 miliardi di euro, quasi tutti del tipo molto rischioso, gli over the counter (otc). Un aumento del 6% in un anno. Sono un po’ di meno rispetto al picco di 48.000 miliardi del 2018, ma la situazione non è veramente cambiata. Per quasi l’80% sono derivati stipulati sull’andamento dei tassi d’interesse.

Non solo la DB ma tutte le banche too big to fail sono coinvolte in queste operazioni speculative sui tassi d’interesse. E’ proprio il comportamento volatile delle banche centrali che li rende altamente “infiammabili”.

Anche se si ammettesse che la DB abbia provato a ridurre la sua esposizione nei derivati otc più rischiosi, occorre riconoscere che è un processo difficile in solitaria. Così come lo è per un drogato che vorrebbe liberarsi dalla dipendenza, ma continua a frequentare gli ambienti dello spaccio.

Il problema della speculazione finanziaria è globale ma, se non si affronta a livello internazionale una vera riforma, le crisi bancarie si faranno più frequenti e intense. Ci aspettiamo che le autorità e i governi europei facciano la prima mossa: eliminare la speculazione per difendere gli interessi reali dei cittadini, a cominciare dalla stabilità economica e dal benessere sociale.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Delitto di via Poma, sparito dal progetto di commissione parlamentare

Delitto di via Poma, sparito dal progetto di commissione parlamentare sui gialli insoluti, il mistero della morte di Simonetta Cesaroni era in elenco accanto alla scomparsa di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori. Ora non c’è più. Ne parlo col criminologo Carmelo Lavorino.
https://www.blitzquotidiano.it/opinioni/nicotri-opinioni/delitto-di-via-poma-simonetta-cesaroni-sparita-dalla-commissione-3531162/